Abbasso la miseria!, Abbasso la ricchezza! e Il canto della vita

Abbasso la miseria!, Abbasso la ricchezza!, Il canto della vita e Biraghin: differenti visioni (1945-46)

                 “Ho fatto Abbasso la ricchezza, L’onorevole Angelina....Erano personaggi deliziosi,  autentici, scritti per me. Comici, e con ciò? Non ho mica detto che voglio fare solo la grande tragica. Per carità. Ma voglio personaggi nei quali   credere.... ben costruiti, senza squilibri di artifici e fasullaggini. Veri. Veri vuol dire personaggi presi dalla vita...”
                   Anna Magnani

Tra le numerose commedie venate da uno spirito ottimista e da una posizione politica centrista si colloca il dittico di Gennaro Righelli Abbasso la miseria! (novembre 1945; 90 min.) e Abbasso la ricchezza! (dicembre 1946; 93 min.). Nel primo film (soggetto e sceneggiatura del regista) si raccontano le tribolazioni quotidiane di due amici, Giovanni (Nino Besozzi) e Gaetano (Virgilio Riento) impiegati in una ditta di trasporti e di tanto in tanto borsari neri. Spesso in viaggio tra Roma e Napoli essi riescono quasi sempre a sfuggire ai generici e compiacenti controlli della polizia; quando però accettano una commissione più azzardata (il trasporto di una misteriosa valigetta che si scoprirà contenente banconote false) la polizia giunge fino nelle loro abitazioni e stronca il loro commercio.
Accanto alla trama principale si snoda la vicenda secondaria del bambino Nello (Vito Chiari), un piccolo vagabondo senza madre (morta a Napoli sotto i bombardamenti), che viene amorevolmente raccolto e “adottato” da Nino fino a quando compare il legittimo padre.
La pellicola ritrae un’Italia povera, messa a dura prova dalla scarsità di cibo, dal disordine sociale nonché popolata di impressionanti rovine (si vedano le immagini di Napoli); ciononostante in nessun momento il lavoro cede il passo alla desolazione arrivando al curioso eccesso di utilizzare musiche giocose e saltellanti abbinate a inquadrature di case diroccate e sventrate dalla furia delle bombe. I personaggi, per quanto amareggiati, sembrano mossi da un’inesauribile vitalità e appaiono capaci di far fronte senza drammi alle situazioni più difficili. In questo microcosmo popolaresco tutti rubacchiano, tirano bidoni e cercano di valorizzare ogni minima occasione senza mai perdersi d’animo, sia quando sono oggetto di una truffa, sia quando devono fronteggiare le forze dell’ordine. In un’Italia dove la borsa nera è legge e i bambini vagano smarriti tra le macerie ciò che conta è lo spirito vitale che segna gli individui, evidentemente consci che comunque il peggio (la guerra) è ormai alle spalle.
Si affacciano con forza le nuove “malattie” sociali: l’ansia consumistica prende le fattezze di un ambìto radiogrammofono (che finalmente giunge in entrambi gli appartamenti dei due amici, facendo felici le relative consorti) mentre l’incipiente egemonia femminile, quanto meno entro le mura domestiche, trova il volto duro e poco simpatico di Nannina (Anna Magnani), moglie di Nino e implacabile donna di casa “divorata” dal desiderio di un benessere ora dietro l’angolo, pronta per esso a mettere in difficoltà e forse in pericolo il marito (il quale, appunto per accontentare l’ottusa moglie, accetta la rischiosa impresa della valigetta e finisce in prigione). La guerra è terminata da pochi mesi e viene rapidamente delineandosi un tipo nuovo di donna, indipendente e volitiva, spregiudicata e avida di beni materiali che caratterizzerà i decenni a venire con esiti discutibili.
La storia di Nello è raccontata con finezza e simpatia e costituisce la pagina più intensa della pellicola: il ragazzino, abituato alle peggiori ristrettezze, riesce subito a conquistare l’affetto della coppia e a divenire rapidamente il centro della loro esistenza. Con le sue “capacità” di ladruncolo contribuisce allo stentato benessere familiare e quando si presenta il vero padre il dolore per la perdita di una persona ormai “di famiglia” viene alleviato dal regalo del radiogrammofono e dalla importante offerta di lavoro che il nuovo venuto propone alla coppia per sdebitarsi. Il personaggio di Nello costituisce uno dei primi ritratti di quella generazione di bambini cresciuta alla svelta tra le privazioni e le difficoltà del periodo; rispetto ai futuri e più celebrati sciuscià (De Sica, 1946) e ragazzi berlinesi (Germania anno zero, Rossellini 1947), quello di Righelli è un bambino che non perde mai le speranze e che si pone in atteggiamento combattivo di fronte a ogni ostacolo, riuscendo a divenire il simbolo stesso di un desiderio globale di rinascita che di lì a poco prenderà corpo.
La pellicola salutata da un notevole successo porta Righelli a tentare il bis un anno dopo con Abbasso la ricchezza! (tra i numerosi sceneggiatori c’è anche De Sica) nel quale, con un cast pressoché immutato (cui si aggiunge un superbo De Sica nel ruolo del conte), si narrano le disavventure di Gioconda Perfetti (Anna Magnani), una popolana arricchitasi con la borsa nera, la quale ora vuole entrare a far parte dell’alta borghesia. Gli esiti sono disastrosi: la donna finisce con l’essere preda di ogni tipo di truffatori, rapidamente cade in rovina e torna a fare la fruttivendola in Trastevere. La pellicola manca del calore di Abbasso la miseria (di cui replica il grande successo commerciale) e si snoda attraverso una serie di scelte narrative tutte scontate; tuttavia essa propone numerose acute riflessioni intorno all’Italia “rinata” sotto l’egida del consumismo statunitense. Infatti in un ruolo marginale, eppure di grande significato, troviamo Lucky  (John Garson), un militare americano che é adorato da Gioconda e fidanzato di sua sorella  Lucia (Zora Piazza): quel brioso e semplice soldato, un modesto lavoratore californiano in procinto di tornare alla propria ordinaria realtà, viene considerato come una sorta di divinità dalle due sorelle le quali testimoniano di un’Italia sconvolta e miserabile, pronta a venerare in modo acritico chiunque porti un minimo di conforto alimentare (in quei mesi la prostituzione italiana nei confronti dei militari USA è al proprio apice). Non solo ogni divisa statunitense viene letta come sinonimo di benessere; il soldato, con i suoi boogie e il suo disindantato edonismo, diviene una sorta di modello per questo popolino confuso e finalmente arricchito che appare soprattutto avido di acquisire ogni tipo di bene durevole, dalla villa del conte ai quadri di De Chirico, dai gioielli di esotiche aristocrazie alle autovetture lussuose. Il popolo più sprovveduto, per lungo tempo “a digiuno”, si scatena dunque nelle fattezze della volgare Magnani e rivela la propria ottusità (non a caso orde di pescecani la circondano e la spogliano di tutto); in tal senso il personaggio della Perfetti è la coerente e ideale prosecuzione della frustrata e pasticciona Nannina del film precedente.
La grande e vincente novità del lavoro è rappresentata dal personaggio del conte nel quale l’ottica popolaresca e antiborghese del cinema fascista viene rovesciata con graffiante sarcasmo: la popolana è una stupida che si caccia in un guaio dietro l’altro a causa della propria impreparazione umana e culturale laddove il conte, figura di austera e simpatica saggezza, tenta in ogni modo, dall’alto della propria esperienza e sofisticata cultura, tipica della sua classe sociale, di mettere in guardia la donna. In tal modo Righelli restaura la norma: stima la vituperata aristocrazia, la quale possiede comunque doti di misura e intelligenza sconosciute all’universo borgataro, disegna una figura di aristocratico estranea alla vecchia ideologia del regime e rispedisce la fruttivendola in bottega dopo che ha cercato in modo goffo di inserirsi in un ambiente che le è sconosciuto. Al contrario il manipolo di finti nobili che truffano Gioconda, viene ritratto secondo gli stereotipi della vacuità che affliggevano le figure altoborghesi del cinema fascista; ora però si tratta di semplici criminali e simulatori.
Il realismo di Righelli dunque torna a guardare i fatti con occhi disincantati e amari: i borsari neri si sono costruiti opinabili ricchezze in un periodo irripetibile della vita nazionale; ora però devono stare attenti a non farsi depredare da un universo industriale e finanziario assai più scaltro di loro.

Il ritorno all’attività di cineasta del prolifico Carmine Gallone avviene con il magnifico e sottovalutato Il canto della vita (dicembre 1945; 80 min.), film sceneggiato dal regista e dal letterato Gherardo Gherardi il quale vi traspone il testo di una propria commedia. Vi si raccontano le peripezie di Giovanna (Alida Valli), fedele capocontadina nella tenuta del padron Cesare (Carlo Ninchi). Siamo negli anni terribili della guerra civile e l’uomo, che ha già perso due figli in guerra, fa nascondere il terzo, Giacomo (Roberto Bruni) aspirante partigiano, nel timore di vedere estinta l’intera sua stirpe. Una notte, nel suo nascondiglio Giacomo, per noia, seduce Giovanna e la mette incinta. Sedotta e abbandonata la giovane nasconde a tutti la nascita del piccolo. In seguito Giacomo sposa la marchesa Maria (Maria Mercader) la quale muore di parto insieme al bambino. Disperato e sconvolto padron Cesare decide di vendere i suoi possedimenti quando un contadino gli rivela l’esistenza del nipotino. Entusiasta l’uomo va a prenderselo, gli mostra i suoi futuri possedimenti e accoglie in casa Giovanna come una nuora.
La pellicola, grosso successo commerciale, viene unanimente stroncata dalla critica (si vedano ad esempio le sferzanti parole del giovane Antonio Pietrangeli) poiché in essa parla un mondo “tradizionale” e conservatore che ci si accinge a cancellare. Tutto appare “provocatorio” in questo lavoro apparso alla fine del 1945 ma le cui radici letterarie si collocano assai più indietro. Vi troviamo una felice comunità rurale in cui contadini e padrone collaborano felicemente, applicando “fuori tempo massimo” la logica delle corporazioni fasciste anziché quella, assi più attuale, della lotta di classe marxista. Vi compare l’idea della stirpe e della discendenza quale momento essenziale della vita, quale massima soddisfazione data all’uomo in un universo che invece si appresta a fare del sentimentalismo imprevedibile e dell’amore passionale il motore (dissennato) dell’esistenza con evidenti conseguenze di disordine sociale, quasi tutte volte a danneggiare il benessere dei figli ossia delle esseri più deboli. In modo saggio padron Cesare ricorda al figlio Giacomo che “l’amore è una cosa che finisce mentre il matrimonio è una cosa che non finisce mai, purtroppo”, facendolo riflettere dunque sulla verità essenziale dell’unione coniugale quale istituto destinato a creare una madre e una discendenza all’interno, ovviamente, di una rete di affetti la quale, però, è destino si logori non poco nel corso del tempo. Il matrimonio dunque quale tempio della stirpe e non dell’Amore. Sono parole che esprimono le normali verità della Tradizione le quali sono tuttavia destinate a un totale oblio nei decenni a venire, egemonizzati dal feroce consumismo di marca anglosassone il quale necessita di soggetti singoli, individuati e separati e non di famiglie cementate, per poter sopravvivere e rigenerarsi.
Non ultima provocazione nei confronti della nuova nomenclatura risulta essere la figura di Giacomo, un partigiano figlio della vecchia classe dirigente che gioca a nascondino nelle case degli aristocratici (le riunioni si tengono nella dimora della marchesa Maria), che inganna e mette incinta per semplice divertimento una popolana di buon cuore e che poi, seccato dalle rimostranze di lei, la incita ad abortire. Ben altro deve essere lo stereotipo ufficiale del partigiano da celebrarsi mediante l’ “arte filmica”: anche per tale motivo il lavoro di Gallone e Gherardi viene tranquillamente cancellato da ogni storia del cinema italiano.
Pertanto questo efficace melodramma, recitato ottimamente, calato in una cornice rurale credibile e ricca di figure di contorno (tra cui quella del bravo Mario Pisu, ostinato corteggiatore della protagonista), filmato con sobria misura e narrato con buon senso del ritmo appare oggi un oggetto stravagante e “incomprensibile” che ci giunge da un lontano passato. Un grande successo commerciale del 1945 appare oggi una sorta di manifesto di una cultura cancellata: sarebbe divertente e produttivo inserirlo nei programmi di visioni scolastiche, al fine di spiazzare per una volta le nuove generazioni plagiate dal pensiero unico del politically correct, alienante emanazione ideologica delle nomenclature venali tenute in vita dall’edonismo consumista.
Il film successivo di Gallone é, invece, assai più modesto, segno evidente di un cineasta il cui talento si accende solo in presenza di ottime sceneggiature. Tale non è quella di Biraghin (giugno, 1946; 90 min.), derivata dalla commedia omonima (1924) di Arnaldo Fraccaroli, sceneggiata da quest’ultimo insieme a un piccolo esercito di scrittori (Zavattini, Betti n Brancacci, Majano). Vi si raccontano le stralunate peripezie della milanese Biraghi (Biraghin in dialetto; una stucchevole Lilia Salvi) la quale, umile figlia di portinai, ascende alle glorie scaligere in qualità di prima ballerina. Intorno a lei un trittico di danarosi e sciocchi spasimanti (Guglielmo Barnabò, Paolo Stoppa e Mario Pisu) la corteggiano senza tregua. La giovane, pur essendo attratta da uno spiantato scrittore (Andrea Cecchi), suo amico d’infanzia, decide di sposare uno dei ricchi pretendenti, pur non piacendogliene nessuno. Li tiene, quindi, sulla corda creando situazioni che se all’inizio suonano banali e ripetitive, nel prosieguo giungono a esiti iperbolici e surreali che finiscono col rendere l’operina curiosa e degna di segnalazione.
La Biraghin teorizza insomma che l’amore è un fastidio, un ostacolo alla carriera e, di conseguenza, il matrimonio va concepito come un mero contratto che deve assicurare innanzitutto agiatezza e tranquillità. Il gioco viene portato avanti con una tale determinazione da sfociare in una briosa satira del corteggiamento, con almeno due sequenze irresistibili: quella della gita in bicicletta che mette a dura prova l’anziano Barnabò e quella del pranzo a quattro (la protagonista e i tre pretendenti spaesati, come nei film del Bunuel degli anni settanta) durante il quale la Biraghin vorrebbe definire una volta per tutte, in una sorta di asta pubblica, la questione del marito.
La protagonista si comporta con schietto pragmatismo, accetta senza ritegno favolosi regali e giunge a teorizzare il divertimento amoroso come estraneo e successivo alla sfera matrimoniale, in quanto materia di avventure passeggere. La cosa non sfugge al Centro Cattolico che bolla con un “escluso” questa commediola dall’apparenza tanto innocua.
La conclusione vira verso il tradizionale lieto fine amoroso (la giovane sceglie lo scrittore), accantonando come erronee tutte le bizzarre (ma non troppo) tesi matrimonali che avevano sorretto l’intero racconto.
Il film è gracile e ripetitivo, imperniato su un’attrice troppo monocorde e come tale incapace di rendere realmente divertente il soggetto. Tuttavia, come ne Il canto della vita, Gallone sembra voler nuovamente dar voce a una concezione matrimoniale “tradizionale” e arcaica, basata su razionali progetti anziché sugli incontrollabili abbandoni sentimentali. La questione viene però messa in burla e sviluppata con poco estro, dopo di che, per non scontentare il vasto e ingenuo pubblico popolare, regista e sceneggiatore appiccicano alla storia uno scontato finalino rosa.
Un ulteriore elemento di disarmonia rispetto al panorama filmico coevo è costituito dal ritratto stesso della Biraghin, un’ex proletaria il cui unico desiderio è arricchirsi senza ritegno, avere finalmente case eleganti, gioielli, servitù e automobili. Insomma la Biraghin è quanto di più estraneo al tipo umano delle classi umili e piccolo borghesi che il cosiddetto neorealismo sta forgiando, un tipo umano orgoglioso della propria semplicità, scevro da frivolezze, infastidito dal lusso e parzialmente dotato di “coscienza di classe”. In realtà i “nuovi” intellettuali ereditano (si fa per dire) quel modello umano bello e pronto dal populismo che animava il cinema fascista (cinema che avevano prodotto sempre loro... ), cinema che, a quel punto, verrà bollato come “cinema dei telefoni bianchi” proprio per creare una comoda e inesistente discontinuità tra passato e presente.
Come si è detto anche la Biraghin, nel frettoloso finale, si converte al suddetto modello umano e aderisce all’ingenuo populismo prevalente nel cinema dell’intero decennio.
Nei restanti anni quaranta Gallone preferirà accantonare commedie e drammi per dedicarsi a trasposizioni lirico-teatrali (Rigoletto, La signora delle camelie e Addio Mimì nel 1947; La leggenda di Faust, 1948 con musiche di Gounod, Boito e Berlioz; La forza del destino e Il Trovatore nel 1949)