Bellissima

Bellissima: l’ “ossessione” di una madre (1951)

                Maddalena: “Lo vedi Montgomery Clift, simpatico eh...”
                Spartaco: “Ah Madale’, e lascia sta’ ‘l cinema”
                Maddalena: “ ‘A Spartaco, nun me capisci tu. Guarda che bei
                 posti... guarda noi ‘ndo’ vivemo. Io quando vedo ‘ste cose
                 qua, ma...”
                Spartaco: “Madale’, so’ tutte favole...”
                Maddalena: “ ‘n so’ favole, ‘n so’ favole... “
                I coniugi Cecconi commentano Il fiume rosso

Dopo aver varato la riforma fiscale Vanoni con la quale si obbliga i cittadini a presentare annualmente la propria dichiarazione dei redditi, De Gasperi riunisce un nuovo esecutivo (luglio 1951, settimo e ultimo governo guidato dallo statista trentino) che prevede solo DC e PRI sostenuti dall'appoggio esterno di PSDI e PLI. Resterà in carica fino all'estate 1953. Prosegue così la politica centrista che tiene ai margini socialisti e comunisti.
A livello internazionale invece con il trattato CECA (Comunita' europea carbone e acciaio), firmato in aprile a Parigi da Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, viene posto in essere un primo importante passo verso l'unificazione economica europea. Proposto dalla Francia (fortemene voluto dal ministro degli esteri Robert Schuman nell'intendimento di avviare una politica di collaborazione e riconciliazione franco-tedesca) e sostenuto dal consenso degli USA, il trattato prevede un organismo comunitario che controlla la produzione e i prezzi del carbone e dell'acciaio. Merito del governo democristiano è certamente quello di avere aderito a questa iniziativa che implicava dei rischi per il mercato italiano e che invece vedrà aziende grandi come Fiat, Piaggio e Innocenti, e anche piccole e piccolissime, ricavare notevoli vantaggi economici, riuscendo a espandersi nella nuova, integrata realtà europea. L'Italia è un paese che si sta affacciando a un rinnovato benessere collettivo e nel quale il prodotto nazionale aumenta in maniera sostanziosa anno dopo anno.
Intanto nel PCI la fedeltà staliniana trova nell'episodio dei "magnacucchi" una sinistra conferma. Il 19 gennaio il segretario federale di Reggio Emilia, on. Valdo Magnani, afferma polemicamente che il partito deve mettere nei suoi programmi la "difesa del territorio nazionale contro ogni attacco da qualsiasi parte provenga". Il riferimento all'URSS è palese e grave. Sottoscrive la sua posizione l'on. comunista Aldo Cucchi. La risposta della dirigenza del partito non si fa attendere: pochi giorni dopo i "due traditori" ("due pidocchi" li definisce Togliatti) vengono espulsi dal PCI in quanto colpevoli di "denigrazione dell'URSS, baluardo inflessibile nella lotta per la pace", né mancano le consuete accuse (tipiche dei processi staliniani del nero periodo 1936-39) di essere agenti infiltrati della reazione. Pur trattandosi di un episodio marginale, esso illumina il tipo di fideismo e di disciplina ferrea che vige dentro il più grande partito di opposizione. In fondo da posizioni intelligenti, audaci e critiche come quelle dei "magnacucchi" (come verranno soprannominati), una struttura politica più libera e intelligente avrebbe potuto cogliere l'occasione per un rinnovamento radicale, capace di trasformare l'inutile (perché impossibilitato a entrare nelle stanze del potere dalle divisioni di Yalta) PCI in un partito socialista, democratico e occidentale, sganciato dai finanziamenti russi (questo era lo spinoso, principale problema) e capace pertanto di porre in atto una realistica concorrenza politica nei confronti della DC. Ma dove trovare i medesimi, ingenti e generosi flussi di denaro che dalla miserabile economia sovietica giungevano ciononostante nelle casse del PCI (paradosso istruttivo intorno a un “partito dei lavoratori” che prospera contribuendo ad affamare i lavoratori d’oltrecortina e a mantenerli in uno stato di deprecabile schiavitù)?
Nel settembre 1951 De Gasperi viene ricevuto con tutti gli onori dal presidente Truman. Gli USA riconoscono ora nel leader democristiano un alleato prezioso, energico e infaticabile, gli concedono l’onore di parlare al Congresso e promettono di favorire in ogni modo l’ingresso dell’Italia all’ONU (vi si oppone l’URSS). Sei anni dopo la sconfitta, l’Italia è ufficialmente diventata un paese amico degli Stati Uniti. Nell’agenda dei colloqui si parla della guerra in Corea, del relativo riarmo al quale ora vuole contribuire anche l’Italia, della angosciosa situazione di Trieste, dell’accoglienza negli Stati Uniti ai nostri emigranti.
Le speculazioni delle sinistre intorno a tale viaggio, le consuete accuse di servilismo ai democristiani e in genere alla dirigenza italiana, si sprecano e sono tanto più deprecabili e ipocrite in quanto vengono da uomini che sono, a tutti gli effetti, integrati nel peggiore sistema totalitario esistente nella realtà postbellica. Ciò che poi appare risibile è il fatto che ancora in testi degli anni novanta e duemila, a comunismo abbattuto con ignominia, permangano numerosi storici di sinistra i quali insistono in questa visione filocomunista.
Indubbiamente la storia italiana post 1945 è la storia di una nazione a sovranità limitata (almeno ottanta le basi Nato e 15000 i soldati americani di stanza nella penisola, ancora negli anni ottanta), progressivamente colonizzata dalla cultura statunitense; ma tale evento è l’inevitabile destino di un paese sciaguratamente condotto nel baratro dal fascismo, poi sconfitto e assoggettato. Di contro le chiacchiere socialcomuniste non discutono (allora come oggi) la prevalenza americana all’interno di una logica di salvaguardia nazionale (logica estranea al cosmopolitismo comunista di derivazione massonica); esse semplicemente sponsorizzano un differente padrone, mirano allora a spostare la penisola nell’orbita staliniana, scelta catastrofica che, se fosse stata posta in atto, avrebbe annichilito lo spirito creativo italiano (ossia il nostro tesoro più prezioso) e gettato la nazione nella miseria tipica di ogni economia totalmente statalizzata. La ripetizione odierna di quelle assurdità è il segno di un fanatismo senza rimedio, di una virtuosistica capacità di simulazione e ha come unica, ottusa finalità, la salvaguardia di un patrimonio ideale che non è mai stato realmente sconfessato dalle numerose “sinistre”, nate dalla disgregazione del PCI negli anni novanta. Come di consueto (purtroppo) si ricostruisce la trama storica partendo dalle esigenze del presente.
Nel novembre 1951 il Po straripa prima nel Pavese, poi nel Polesine: è una tragedia di dimensioni imprevedibili. I morti sono circa 250; vi sono paesi interamente sommersi, campi distrutti e sepolti sotto quattro metri d’acqua, mandrie e macchine agricole perdute. I soccorsi arrivano in ritardo e in maniera disordinata: fin d'ora la macchina dello stato rivela la propria incapacità a far fronte con tempestività ai disastri nazionali. I decenni successivi lo confermeranno in numerose, infauste occasioni.

Dopo l’esordio strepitoso di Ossessione (1943), un grande melodramma cinematografico (sebbene “americano” nel contenuto) e dopo La terra trema(1948), ambizioso e fallimentare melodramma verghiano, Visconti cambia direzione e si misura con la versione più consueta e diffusa della cosiddetta estetica neorealista. Accetta un mediocre soggetto di Zavattini e lo sviluppa, insieme al giovanissimo Francesco Rosi e a Suso Cecchi d’Amico, cucendolo addosso alla diva neorealista per eccellenza ossia Anna Magnani. Per essere più sicuro imbarca nell’operazione il comico più popolare del momento, Walter Chiari, mentre tutto intorno fa recitare gente presa dalle borgate. Il marito della Magnani lo va a cercare addirittura al macello di Roma, dove trova il legnoso Gastone Renzelli.
L’esito complessivo risulta disastroso quanto quello del film siciliano di tre anni prima. Il pubblico infatti decreta nuovamente un pieno e meritato insuccesso a Bellissima (dicembre 1951; 113 min.), pellicola in cui i molteplici difetti sorpassano di gran lunga i pochi pregi. Invece gli intellettuali dell’epoca e successivi, decisi a difendere qualunque cosa provenga dal settore “neorealista”, parlano di capolavoro. Perfino la Magnani, chiamata a interpretare, per l’ennesima volta, il ruolo della popolana spiccia e burbera (in questo caso anche piuttosto tonta e vagamente paranoica), viene incensata come se questa prova d’attrice fosse in qualche misura differente e migliore delle altre cui il pubblico era, da anni, assuefatto.
Dunque, come è largamente noto, Maddalena Cecconi vuole fare della sua bimbetta Maria (Tina Apicella) - di soli cinque anni - una piccola diva per salvarla dalla miseria. Per due terzi del film assistiamo così all’indaffarato e ripetitivo correre della donna da un capo all’altro della città per procurare alla bambina tutto il necessario per la grande prova ovvero l’audizione a Cinecittà di fronte a Blasetti. Va sottolineato che, fin dall’inizio, la famiglia Cecconi sostanzialmente non esiste sullo schermo, anche perché Renzelli è un attore improvvisato e poco credibile nel ruolo (essendo molto più giovane della donna). L’istrionica Magnani dunque è perennemente in scena da sola (la bambina a stento pronuncia dieci parole in tutto il film e viene quasi sempre ripresa da lontano, essendo anche lei piuttosto goffa e poco espressiva) a ripetere le solite smorfie di popolana arrabbiata e ferita, sarcastica e combattiva. Così la bambina viene portata dal fotografo, poi dal sarto, dal parrucchiere, nonché a lezione di ballo e di recitazione, in una girandola monocorde e tediosa. Tra l’altro questa coppia madre - bambina che trotterella dentro le immagini per l’intero film è, a sua volta, una replica poiché ricorda inequivocabilmente la coppia padre - figlio di Ladri di biciclette (1948): in qualche modo Zavattini, colto il grande successo della sua vita col film scritto per De Sica, non fa che rimodulare al femminile la fortunata situazione cardine che segnava la pellicola più riuscita del neorealismo italiano.
A Cinecittà Maddalena incontra il furbastro di turno ossia Alberto Annovazzi (Walter Chiari) che le ruba tutti i risparmi facendole credere di poter acquistare con quel denaro il ruolo per la bambina. Ora che il film deve addentrarsi in un intreccio reale (dopo la ripetitiva sequela di sarti e fotografi), la vicenda diviene sfocata e approssimativa: tutto quello che circonda la diva Magnani è insomma mero supporto. Chi sia Annovazzi non ci viene detto (che mansioni svolga concretamente) così come non viene spiegato che tipo di film Blasetti viene preparando, né che tipo di ruolo deve ricoprire la bambina che il regista va cercando. Agli autori basta potere mettere in campo la Magnani con tutto il suo rodato armamentario di gesti, di sguardi e di frasi colorite; del resto si disinteressano. Visconti accantona perfino la propria maestria visiva per accontentarsi di uno stile opaco e cronachistico, a tratti pseudo documentario mentre anche l’universo di Cinecittà appare singolarmente generico. Le accuse di cinismo e volgarità all’ambiente delo spettacolo si sprecano, ma appaiono prigioniere di una logica macchiettistica.
Il sonoro, curato da Franco Mannino, si limita invece a utilizzare un paio di temi celebri dell’Elisir d’amore donizettiano, la cui funzione è quella di raddoppiare le intenzioni più ovvie degli autori: così il tema del ciarlatano Dulcamara serve ad alludere al mendace baraccone dei teatranti mentre l’intenso tema di Nemorino (“Quanto è bella, quanto è cara”), ad un tempo malinconico e amoroso, esprime il patetismo di Maddalena congiunto al suo irrefrenabile desiderio di conquistare un posto in un mondo migliore.
Dopo avere raccontato poco o nulla per due terzi del film, Visconti sente il bisogno di ravvivare la storia e concentra, nella parte finale, una serie di inverosimili e assurdi colpi di scena, nel tentativo di virare verso le atmosfere del melodramma che gli sono consone. Così si giunge alla visione del famoso provino da parte di Blasetti e dei suoi collaboratori i quali, di fronte alla piccola bambina che esplode (giustamente) in un lungo pianto - conseguenza dello stress cui è stata sottoposta per giorni da una madre fissata e piuttosto ottusa - non si capisce perché esplodano in una ostentata e interminabile sghignazzata. Tutto appare congegnato a tavolino per ottenere una serie di reazioni schematiche: i cinici tetranti ridono della bambina che piange (che peraltro diverte solo loro); la madre si accorge di colpo del cinismo che pervade il mondo del cinema, fa una gran scena madre a Blasetti e scappa nella metropoli notturna e desolata. Blasetti, impressionato, decide di riguardare il provino e (chissà perché) di scritturare la piccola Maria. Il contratto è subito pronto, Annovazzi e soci corrono (di notte ovviamente... ) a proporlo alla misera famiglia ma ora la madre non ne vuole più sapere, li caccia e si ritira in camera da letto.
Tutta questa parte finale - dal sapore “operistico” - è piuttosto goffa sullo schermo in quanto tradisce da un lato il moralismo stucchevole degli autori, dall’altro l’incapacità di disegnare personaggi credibili. In particolare come credere che quella madre - fino a poco prima pronta a qualunque compromesso per inserire la bimba nel mondo dello spettacolo (non si dimentichi che non esita a spendere tutti i propri risparmi per raccomandarla, adottando in pieno la logica cinica e disonesta del favoritismo) - abbia aperto gli occhi sulla realtà poco idilliaca dell’universo dei teatranti, solo allora, solo dopo che la bimba è stata derisa.
La favola morale è dunque artificiosa anche se, nei suoi contenuti generali, appare in ultima analisi pienamente condivisibile. In fondo questa madre che perseguita la piccolissima figlia con una serie di esigenze assurde (si noti che le altre bambine del provino sono tutte più grandi di due - tre anni) appare assai più mostruosa di chi la circonda. Il marito giustamente la diffida dal continuare con queste “cretinate” del cinema; Annovazzi in fondo vuole solo comprarsi una lambretta coi soldi della malcapitata mentre sarte, parrucchieri e maestre di ballo si limitano a fare il loro lavoro e la guardano col giusto distacco di chi guarda una “fanatica”. La conclusione, almeno, offre alla protagonista il grande momento di redenzione: finalmente Maddalena, vedendo la sofferenza che ha procurato alla bambina (le poche frasi della piccola Maria sono di netto rifiuto rispetto alle iniziative materne), in qualche oscuro modo intuisce di avere forzato in modo innaturale la figlia e la riconduce nell’alveo familiare. Il film giustamente termina sul volto rilassato di Maria che, stremata, può infine dormire nel suo letto, nel cuore di quella casa misera ma tranquilla, nella quale ora nessuno le chiederà più di essere nient‘altro che una bimba di cinque anni.
Come la coppia omicida del film di otto anni prima, come i pescastori siciliani, anche Maddalea Cecconi è un personaggio dominato da un’ossessione, quella del benessere ad ogni costo. Per raggiungere tale obiettivo, questi personaggi decidono di isolarsi, di infrangere le regole, di comportarsi in modo radicalmente differente rispetto a quello del loro ambiente sociale, andando incontro a esiti drammatici, a volte tragici. L’esigenza di ribellarsi al sistema  appare pertanto intrinseca alla poetica viscontiana e come tale viene applaudita, senza remore, dagli intellettuali progressisti. A nessuno viene il sospetto che tale spinta trasgressiva sia in fondo vacua, velleitaria e per molti aspetti fortemente autodistruttiva.
Vi è infine un’altra possibile lettura del film, proprio riflettendo intorno alla carica eversiva di Maddalena e al suo amore per il cinema.
In una sequenza, posta al centro del racconto, la donna e il marito assistono a una proiezione del western Il fiume rosso (H. Hawks, 1949): la prima appare completamente rapita dalle immagini (quelle della mandria che attraversa il fiume, guidata dai mandriani Clift e Wayne), il secondo invece si pone in modo crudamente scettico, ricordando alla compagna che si tratta di mere simulazioni senza importanza. (“so’ favole”) e invitando Maddalena a lasciar pardere questa insana passione (tra l’altro il film termina sullo stesso tema, con la donna che ascolta da lontano la voce, doppiata, di Burt Lancaster e con il marito che le ripete di smetterla). La fascinazione del mondo dello spettacolo ritornerà di lì a poco nel magnifico Sceicco bianco (1952) di Fellini, incarnata in un’altra moglie invaghita dell’universo delle star del fotoromanzo (si noti che, nella sequenza sopra ricordata, la Magnani si fa aria proprio con la copia di un fotoromanzo). La protagonista felliniana è però un’oca giuliva, mentre quella viscontiana è una donna decisa, emancipata e ribelle.
Visconti ritrae, dunque, una borgatara sognatrice la cui utopia coincide con quella del cinema. Il suo desiderio di uscire dalla propria condizione di miseria e di incamminarsi verso un mondo migliore è in sintonia con quell’universo filmico il quale da anni, occupato (in Italia) dalle egemoni tesi neorealiste, viene propagandando una svolta politica di tipo ugualitario quale via maestra verso luminosi orizzonti sociali. La donna e il cinema appaiono appaiati e in completa armonia in quanto agenti “rivoluzionari”, mentre l’uomo si mostra scettico e conservatore, privo di desideri che vadano oltre la sfera del football e apertamente ostile alle favole di celluloide. Tutto il disprezzo ovviamente ricade su quest’ultimo - emblema di una rozzo (agli occhi dell’aristocratico Visconti) e statico materialismo, nonché sull’istituto familiare del quale Spartaco prende più volte le difese nei confronti di una moglie assente e pasticciona, laddove la spinta sognatrice della donna viene dipinta come condivisibile e progressista. Insomma la rivoluzione è femmina.
Poi però giunge l’acre delusione: il cinema non è più “neorealista”; è semmai quello del Blasetti - Dulcamara, simpatico ciarlatano (autore un tempo di film graditi al regime fascista, ora invece di film conservatori e filocattolici, tra i quali quel Prima comunione al quale sembra rimandare la ricerca di una bambina protagonista) mentre la vena neorealista si è rapidamente esaurita, senza mai riuscire a convincere il pubblico italiano e a divenire vera protagonista della scena artistica (anche La terra trema non ottenne alcun riscontro commerciale, la qual cosa non può che avere incentivato il gelido distacco con cui Visconti dipinge l’universo cinematografico). Il film italiano, agli inizi del nuovo decennio, non sembra avere più alcuna familiarità con la spinta utopica e la rivoluzione sociale. Non resta allora che fare come Maddalena, tornare a casa e rinchiudersi tra le solide mura domestiche, concepite quale ultimo rifugio dove scontare la propria delusione e attendere.
Se questa è la possibile lettura simbolica, appare evidente che Visconti non elogia affatto la famiglia ritrovata (di marca prettamente patriarcale, tra l’altro, visto il carattere autoritario di Spartaco; il nome dello schiavo ribelle appare, in questo contesto, fortemente ironico) nel consolatorio finale - tanto più che quel finale è “minato”, come si è detto, da una Maddalena che ancora “presta ascolto” a Burt Lancaster (la coppia vive nei paraggi di un cinema all’aperto); la dimensione familiare, totalmente estranea all’esaltata Maddalena (anche per lei un nome ironico, di eversiva peccatrice), non esiste nel racconto e viene accettata dalla protagonista come il minore dei mali. La ribellione è dunque solo rimandata. Per ora ci sono Blasetti, De Gasperi e la cortina di ferro; in futuro si vedrà.
Il futuro sembrerà “giungere” coi nefasti anni settanta, quando, di nuovo, il cinema, guidato da irresistibili “ciarlatani”, scenderà in campo con tutta la propria intensa capacità fascinatoria per indurre gli Italiani al “cambiamento” che, per fortuna, non ci sarà. Anche allora gli Spartaco prevarranno, salvando la nazione da un probabile sfacelo di stampo collettivista.