Cronaca di un amore e Luci del varietà

Cronaca di un amore e Luci del varietà: prime opere di Antonioni e Fellini (1950)

                “Nell’angoscia la libertà si angoscia                     
                di fronte a se stessa in quanto non                         
                è mai sollecitata né impedita da niente
                J. P. Sartre, L’essere e il nulla (1943)

Sette anni dopo Ossessione, Massimo Girotti irrompe nuovamente nella vita di una donna sposata, la seduce e progetta di ucciderne il marito: avviene nell’opera d’esordio di Michelangelo Antonioni, Cronaca di un amore (ottobre 1950; 110 min.) nella quale, sebbene molteplici siano i riferimenti cinematografici, emergono soprattutto i rimandi all’opera prima del collega milanese. Anche il finale giocato su un incidente automobilistico che elimina uno dei tre personaggi chiave (questa volta il marito, allora si trattava di Clara Calamai) appare debitore nei confronti di Visconti.
Il traliccio narrativo è parzialmente simile (il soggetto di Antonioni, dapprima intitolato La casa sul mare, risale ai primi anni quaranta e tra i cinque sceneggiatori, con il regista compaiono Francesco Maselli, Daniele D’Anza e Piero Tellini) ma lo sguardo del narratore e l’impostazione stilistica sono radicalmente antitetici, ponendo fin d’ora Visconti e Antonioni agli antipodi del cinema italiano. Come si è detto Ossessione (vedi) è una sorta di incandescente melodramma in quattro atti laddove Cronaca di un amore si pone come gelido, contemplativo e malinconico racconto intorno alle passioni di una coppia di sbandati.
L’incipit è ambientato niente meno che sotto i portici del Teatro alla Scala, dopo una rappresentazione della Francesca da Rimini di Zandonai: questo episodio - al di là dell’esigenza di introdurre fin d’ora la società industriale e altoborghese della Milano produttiva, entro la quale si dipana l’intera vicenda - serve per inquadrare le scelte poetiche dell’ambizioso autore nel quadro della grande tradizione dello spettacolo italiano. E’ vero - sembra dirci Antonioni - sto anch’io per raccontarvi l’ennesima variante del dramma di Paolo e Francesca (i due amanti del canto quinto dantesco, uccisi da Gianciotto, tra l’altro messi in pellicola da Matarazzo proprio agli inizi di quel 1950; vedi), ma lo farò con ben altro distacco rispetto alla consueta temperie emotiva, tipica della tradizione lirica italiana. Fuori dal teatro l’atmosfera è fredda, distaccata, votata al consueto futile chiacchiericcio delle convenzioni sociali di una certa borghesia agiata ovvero l’atmosfera è la negazione netta dell’incandescente dramma verista di Zandonai e quando, poco dopo, Enrico (Ferdinando Sarmi) chiede alla moglie Paola (Lucia Bosé) un parere sull’opera si sente rispondere che è un genere di spettacolo che non la enusiasma. Si noti inoltre che nel titolo del film figura il termine “Cronaca”, parola intesa a indicare un ulteriore depotenziamento emotivo della narrazione. Insomma, attraverso riferimenti colti e sottili allusioni, Antonioni comunica le coordinate della propria disillusa poetica alla quale si atterrà con ammirevole coerenza fino alla fine del proprio magnifico percorso creativo.
Il regista gira dunque un antimelodramma, un racconto freddo e a tratti perfino tetro di una passione amorosa nella quale si scorge - a più riprese - l’intima tragica sostanza: due personaggi rosi dall’inquietudine, annoiati e inconsciamente consapevoli della inviolabile solitudine e della transitorietà dell’esistenza, si illudono di trovare in un amore clandestino il significato della propria vita. Uno dei loro primi incontri avviene al Planetario di Porta Venezia (Milano) durante una lezione sulle stelle che popolano la Via Lattea: è il primo di una serie di riferimenti cosmologici che animeranno il cinema di Antonioni (si pensi al monologo finale di Identificazione di una donna, 1982), riferimenti volti a ricollocare le umane gesta entro una cornice infinita e incomprensibile che - per contrasto - non può che svuotare di senso i presunti drammi della coppia protagonista.
Il regista - presa questa inedita strada - la persegue con ostinazione: i vagabondaggi di Paola e Guido - in una Milano invernale, desolata e piovosa, spesso deserta e spettrale (l’Idroscalo, le periferie), altrove affaccendata e indifferente (corso Monte Napoleone, corso Venezia, piazza San Babila e piazza Duomo) - vengono descritti secondo una maniera stilistica che privilegia la composta bellezza figurativa delle inquadrature e soprattutto la costante presenza delle cellule motiviche ripetitive e dolenti affidate al pianoforte e al sax da Giovanni Fusco (l’intensa, sconvolgente colonna sonora - utilizzata da Antonioni con grande creatività - è uno dei punti di forza del lavoro); di contro i gesti e le parole dei due attori (in evidente imbarazzo entro un contesto narrativo tanto insolito) non contano, sono espressioni stereotipate di un copione noto che assume valore proprio perché indagato “da lontano” e rappresentano i segni di un disagio emotivo e intellettuale, concepito come inerente alla natura stessa dell’esistenza.
Appare evidente che nella poetica di Antonioni non esiste il contesto sociale quale collante significativo (le riunioni della ricca borghesia milanese si risolvono in vuote recite, destinate a nascondere l’angoscia), non esiste l’unione matrimoniale quale luogo della realizzazione dell’individuo per il tramite dell’esperienza della genitorialità (non a caso - sposata da sette anni - la coppia non ha figli, né affronta mai l’argomento; neanche i loro amici sembrano averne... ), né infine esiste una dimensione del trascendente sacralizzato quale risposta agli impliciti interrogativi che il film si pone (i sacerdoti e le chiese - inesistenti in questo lavoro - sono quasi assenti nel cinema complessivo di Antonioni). Il regista ferrarese propone quindi una mesta elegia intorno alla incomprensibilità dell’esistenza che prende le forme di una coppia di amanti poco convinti di tutto, in realtà di una coppia di “spostati”. Intorno a loro altri personaggi non appaiono travagliati dalle stesse ansie: il solido marito di Paola, il venditore di auto (che parla solo di soldi) e la soubrette disinvolta (ritratta in una stupenda inquadratura, seduta sotto il cartellone pubblicitario del Totocalcio) sembrano trovare nel lavoro e soprattutto nella ricerca del guadagno una forma di “beata alienazione” che impedisce loro ulteriori riflessioni.
In particolare Enrico - abituato a controllare ciò che lo circonda secondo un approccio totalmente razionale al dato di fatto - ordina un’indagine sul passato della moglie, per semplice curiosità, per conoscere meglio colei che ha sposato in modo un po’ precipitoso, anni prima. Questa indagine costituisce la seconda anima del film: un detective abbastanza abile e sfrontato (Gino Rossi) insegue a Ferrara i fantasmi di un incidente mortale nel quale Paola e Guido erano pienamente coinvolti, allorché lasciarono precipitare nella tromba dell’ascensore un’amica (fidanzata di Guido) per la quale provavano solo fastidio o gelosia. Non un vero delitto bensì un gesto di crudele indifferenza, tipico di due individui imprevedibili e insoddisfatti. Nella città emiliana l’indagine si muove entro ambienti popolari e provinciali, antitetici a quelli in cui vive la Paola moglie del ricco imprenditore milanese, e contribuisce a creare quella ricca tavolozza di “colori” necessari a valorizzare, per contrasto, il dramma interiore dei due protagonisti. A Milano invece il detective si staglia contro le asettiche, astratte cancellate di un edificio moderno (in via Turati), segni palesi di quell’intenzione “scientifica” e priva di remore pietistiche che anima l’inchiesta (del detective come del regista).
Questa seconda anima del film attinge inoltre al noir americano e perfino al celebre Quarto potere (Welles, 1941) nel suo abbozzare una struttura a puzzle, volta a rievocare in un confuso disordine i frammenti di due esistenze problematiche. Quando poi, verso il finale, Paola si trasforma in una dark lady (in quelle sequenze veste sempre di nero) al fine di convincere il debole Guido a uccidere il marito (come nell’archetipo La famma del peccato, Wilder, 1944), il soundtrack del film abbandona le note abissalmente tristi di Fusco per utilizzare il blues (lo si sente sia nel misero albergo in cui alloggia l’uomo, sia nella principesca residenza della donna), quasi a volere ricordare allo spettatore che il racconto si sta spostando entro quei materialistici orizzonti “americani” nei quali prevale una selvaggia rapacità (la stessa del romanzo di Cain - Il postino suona sempre due volte - che ispira il citato film-modello di Visconti). Ma si tratta solo di un accenno: il confuso piano omicida di Guido non va in porto perché la vittima muore poco prima, schiantandosi in auto, forse volontariamente. Dopo avere letto il rapporto del detective - nel quale si rivela la relazione extraconiugale di Paola, l’uomo cade in preda a una profonda disperazione, generata - oltre che dall’ovvio dolore in ambito emotivo - dalla scoperta di non essere stato in grado di controllare la realtà circostante.
Non tutto appare convincente in questa parabola esistenziale svolta secondo un approccio cinematografico del tutto nuovo; soprattutto l’episodio conclusivo dell’attesa di Paola, della fuga in taxi di fronte all’arrivo dei carabinieri e del dialogo finale degli amanti, appaiono mal costruiti e troppo inverosimili: recarsi dal complice di un omicidio in taxi, parlare dei piani di assassinio nell’autovettura, presente il guidatore, appaiono scelte narrative sciocche e affrettate. L’eccessiva originalità e qualche incertezza, tipica di ogni esordiente, spiazzano il pubblico il quale decreta l’insuccesso commerciale della pellicola mentre il Centro Cattolico Cinematografico non può che reagisce negativamente (“escluso”) di fronte a una visione così radicalmente scettica, agnostica e, di conseguenza, amorale.
Michelangelo Antonioni nasce a Ferrara nel 1912, si laurea in economia e commercio e si dedica al cinema dalla fine degli anni trenta. Dapprima in veste di critico, poi di sceneggiatore (firma con Rossellini il copione di Un pilota ritorna; in seguito collabora a Caccia tragica; vedi). Come la maggior parte del mondo del cinema sostiene attivamente il fascismo fino alla sua caduta, poi simpatizza con gli intellettuali e gli autori della sinistra militante (De Santis, Visconti). Pur stimando il neorealismo se ne tiene fuori, realizza una serie di cortometraggi di tagli documentaristico nella seconda metà degli anni quaranta ed esordisce con Cronaca di un amore il cui stile filmico si cofnerma estraneo a quello di De Sica, Rosellini, De Santis e Visconti. L’interesse dell’autore travalica la critica sociale e anche il quadro perplesso che offre dell’universo dell’alta borghesia è animato da distacco esistenzialista più che da velleità riformiste, rivoluzionarie o peggio marxiste.
La pellicola si colloca invece sotto le insegne di quella corrente filosofica dell’esistenzialismo che aveva conosciuto il proprio momento di massima popolarità nella seconda metà degli anni quaranta, soprattutto quale conseguenza delle pubblicazioni di Sartre quali il romanzo La nausea (1938; nel racconto il protagonista ritrova un’antica amante, ne resta deluso e la lascia, come in Cronaca di un amore), il fondamentale L’essere e il nulla (1943) e il più ottimista L’esistenzialismo è un umanesimo (1946). Nel solco della tradizione esistenzialista - iniziata negli anni venti - Sartre invocava la priorità dell’esistenza sull’essenza ovvero dichiarava l’individuo come totalmente libero di fronte agli eventi del reale, responsabile e capace di costruire la propria essenza sulla base di scelte individuali e imprevedibili. L’orizzonte di questo pensiero annulla tutti i valori alti, cancella storicismo e marxismo, elimina l’illuminismo ottimista del pensiero socialcomunista e propone una visione - non scevra da profonde angosce - di un individuo-monade, chiuso nella propria finitezza temporale e lacerato dalla tragicità del proprio ineludibile destino di morte. All’interno di questa visione disincantata, ma in fondo astratta quanto quella del fiducioso idealismo hegeliano - marxista nel suo ridisegnare un individuo sciolto dalla Tradizione, dai propri impulsi naturali e dal proprio patrimonio biologico - genetico (coi quali bisogna sempre e comunque fare i conti), si muovono tutte le figure del malinconco cinema di Antonioni.

Un insuccesso altrettanto netto ottiene l’opera prima di Federico Fellini, Luci del varietà (dicembre 1950; 100 min.), diretta in coppia con Alberto Lattuada (anche la sceneggiatura è firmata da entrambi mentre il soggetto è del solo Fellini). Il regista riminese (n. 1920), trasferitosi a Roma nel 1938, inizia come scrittore umoristico per differenti giornali, per l’avanspettacolo e la radio, prosegue come sceneggiatore al fianco di Rossellini, Germi e appunto Lattuada (per Senza pietà) e giunge al sospirato esordio oltre un decennio dopo l’arrivo nella capitale.
Il tema del primo film è appunto il teatro di rivista che Fellini conosceva benissimo per averci lavorato a lungo. Tuttavia se oggi - guardandolo col senno di poi - il fim appare premonitore di quel costante interesse dell’autore per il variopinto, bizzarro e un po’ truffaldino universo dello spettacolo - al punto che si potrebbe definire Luci del varietà come il primo tassello di un “polittico” in cinque episodi, proseguito con Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954) e Il bidone (1955, ove la simulazione si trasforma effettivamente in crudele truffa) - d’altro canto, in quel dicembre 1950, al pubblico italiano il fim doveva sembrare solo l’ennesima riproposta di una cronaca umoristica interna al mondo della rivista. Non solo il decennio precedente aveva offerto numerosissimi esempi (spesso assai fortunato al botteghino come nel clamoroso caso de I pompieri di Viggiù, Mattoli, 1949; vedi), ma addirittura il lavoro di Fellini e Lattuada appariva la fotocopia sbiadita del recente Vita da cani (Steno, Monicelli, settembre 1950; vedi) al quale peraltro il pubblico aveva risposto con un tiepido interesse. I due lavori erano stati infatti girati in contemporanea, quasi in uno spirito di agonistica emulazione (un po’ come accadde a Puccini e Leoncavallo, allorché si cimentarono negli stessi anni con il soggetto de La Bohème), e raccontavano in sostanza la stessa storia.
Checco Dalmonte, un capocomico furbastro e millantatore, ma tutto sommato simpatico (un Peppino De Filippo assai lontano dall’estro incontenibile di Fabrizi) incontra Liliana, un’aspirante soubrette (Carla Del Poggio decisamente impacciata e fuori parte, lontanissima dal candore seducente della Lollobrigida), se ne invaghisce, rompe con la fedele fidanzata (una bravissima Giulietta Masina) e si lascia “usare” dalla spregiudicata fanciulla. Quando finalmente sembra sul punto di riuscire a montare uno spettacolo dignitoso, interamente imperniato sulla sua recente “scoperta”, quest’ultima lo abbandona dopo aver firmato un contratto con una rivista di livello internazionale (nonché essere diventata segretamente l’amante di uno dei padroni della medesima).
A parte un diffuso cinismo, il film ricalca senza fantasia un percorso tutto prevedibile e già visto: i teatri scalcinati di provincia, i borghesotti locali pronti a ogni follia per portarsi a letto la primadonna, l’ambiente fanfaronesco della vita notturna romana e degli impresari di avanspettacolo (un tema che tornerà prepotente nel capolavoro del maestro, La dolce vita, 1960), le piccole truffe nei confronti di albergatori e ferrovieri per tirare avanti. Tra l’altro la pellicola - già piuttosto breve e poco sviluppata sia nella costruzione psicologica dei personaggi, sia negli snodi narrativi - si dilunga in modo poco opportuno sui singoli numeri di comici e ballerine, finendo per lambire il genere del film - rivista (ovvero l’antologia di numeri nati per le scene, come il già citato I pompieri d Viggiù) e diluendo ulteriormente il già poco consistente tessuto narrativo (si pensi che di Liliana, personaggio otremodo astratto e onirico, non ci viene raccontato nulla, a parte la sua adorazione per il mondo dello spettacolo: la ragazza infatti sale su un treno, si unisce di forza alla compagnia girovaga e praticamente è come se la sua esistenza iniziasse in quel momento; non sappiamo quale fosse il suo passato, quali le sue origini familiari, la sua storia personale e i suoi affetti).
A ciò va aggiunto che Fellini, non ancora padrone del campo, utilizza le musiche melodrammatiche di Felice lattuada (operista, padre di Alberto, già autore delle colonne sonore dei precedenti film del figlio) le quali finiscono per rendere ambigua l’intenzione di fondo degli autori, divisi tra sarcastico distacco e adesione emotiva al dramma del protagonista. La successiva scelta felliniana di Nino Rota (già a partire da Lo sceicco bianco) muterà completamente l’atmosfera complessiva delle opere a venire, rendendo l’impasto di suono e immagine più coerente, vivace e originale.
Rimangono all’attivo del film la grande sequenza della festa notturna (nella prima parte) e il magistrale episodio (posto a ideale conclusione della vicenda) in cui finalmente Liliana esordisce sulle scene di uno spettacolo “di classe”.
La prima comporta una riflessione acuta e stringente intorno alla sostanza dell’universo dello spettacolo. In un crescendo di enfasi e di gioia istintiva, la compagnia banchetta nella villa di un ricco signorotto locale: lo spettacolo - abbandonato lo sgangherato teatrino di provincia - si è come trasferito in una cornice più sontuosa. Tutti mangiano, bevono, ballano e si uniscono in un progressivo scatenamento dei sensi che approda (solo per alcuni) al divertimento sessuale quale apice. Poi, di colpo, giunge l’alba (il gruppuscolo è stato, tra l’altro, scacciato in malo modo dal padrone, ostacolato nelle sue voglie da un Checco improvvisamente geloso) il suo freddo grigiore dilegua tutti i sogni e i piaceri, riafferma il principo di realtà e riconduce ciascuno alla propria separata finitezza. Ne La dolce vita Fellini non farà altro che raccontare per sette volte (sette sono gli episodi del film) questo magico trascolorare della notte nell’alba, della gioia più sfrenata nella tristezza delle livide luci del giorno.
Appare chiaro fin d’ora che il cinema felliniano - come per altri aspetti quello di Antonioni - si disinteresssa della realtà e delle sue dure problematiche sociopolitiche, prende in esame il mondo di quei marginali dediti allo spettacolo ovvero immersi nell’universo del piacere e del sogno, e si colloca in una posizione di estraneità nei confronti del cosiddetto “neorealismo” (i cui esponenti critici tuttavia non mancheranno di attaccare i film del regista riminese in quanto troppo “disimpegnati” e “qualunquisti”), così come della prevalente morale cattolica percepita come una grande costruzione fantastica. Fellini al riguardo si esprime come segue: “il pensiero cattolico... è un edificio intellettuale che , stabilendo un codice di comportamento, tenta di dotarci di una bussola, un orientamento che ci guidi nel mistero dell’esistenza; un disegno della mente che può salvarci dall’orrore esistenziale della mancanza di un significato”. L’ottica felliniana è dunque agnostica e nichilista, come tale non troppo dissimile da quella di Antonioni. E infatti anche al lavoro del neoregista - correttamente percepito come amorale - il Centro Cattolico non mancherà di far pervenire il proprio giudizio negativo (“escluso”).
Come si vede dunque Luci del varietà - sebbene tutt’altro che soddisfacente nel suo complesso - si configura come un film in cui appaiono allo stadio di schizzo preparatorio le tematiche dei capolavori futuri. E poco importa che Lattuada rivendichi per sé l’intera parte tecnica della regia (a dimostrazione ulteriore della sostanziale secondarietà del fatto tecnico nel racconto cinematografico): sono i motivi del futuro fellinismo ad essere gli unici elementi di interesse in questa sorta di prova generale.
Nel finale (secondo passaggio estremamente significativo) invece si viene concretizzando il destino di Liliana allorché appare sulle scene di un elegante, spazioso e ben frequentato teatro romano. Tale appare almeno al primo aprirsi del sipario; subito dopo però Fellini ci porta dietro le quinte dove sentiamo le maestranze abbandonarsi alle consuete, gustose dialettali rozzezze, tipiche dei teatri di provincia. La star di turno, grassa e sfatta, viene issata con fatica lungo un ascensore di scena fino a comparire in cima a una scala, entro una sorta di luminoso sole. Si torna allora all’immagine vista dalla sala: l’incanto riesce - da lontano - e coinvolge il pubblico come un enfatico rituale neopagano che culmina nella “adorazione” della neodiva seminuda (Liliana), contemplata in un alone solenne e quasi misterioso. L’apparenza dunque inganna - poiché nell’universo dello spettacolo tutto è mendace - ma l’evento, sebbene sia la creazione di una carovana di poveri guitti, c’è, incanta, crea il mito e riporta in vita l’ebbrezza di un paganesimo antico e amorale, percorso da un’inquieta sensualità.
Fellini sembra già intuire il fondamentale tema della transizione epocale, del cammino inarrestabile verso un’era sensuale e cialtronesca, priva di Valori definitivi e con ambigue “Divinità” (appunto le dive) che fanno segno “da lontano” e invitano a una “vita dolce”, proprio quella che - tra un decennio esatto - il regista riminese svilupperà quale tema centrale dell’opera più importante e ammirata del cinema italiano.