Il grido della terra, Il lupo della Sila e Cielo sulla palude

Il grido della terra, Il lupo della Sila e Cielo sulla palude: laici contro cattolici (1949)

                  Sopra le malsane paludi e il fango del       mondo si stende un cielo immenso di        bellezza”
                  Pio XII - discorso di canonizzazione di        Maria Goretti - (24 giugno 1950)

                  “Negli ultimi trent’anni il fango di cui        parlava Pio XII ha consumato altro         spazio del cielo, e la vile carne è sempre       più divenuta strumento di gioia        terrena...”
                  G. B. Guerri, Povera santa, povero assassino (1984)

Il cinema italiano del dopoguerra appare ripiegato su se stesso. Se affronta questioni sociali e politiche lo fa rimanendo saldamente ancorato alla realtà nazionale e le poche eccezioni (Emigrantes di Fabrizi, Germania anno zero di Rossellini, entrambi del 1948), peraltro relative occupandosi di situazioni in qualche modo correlate a quella italiana, non fanno che confermare la tendenza. Stupisce dunque l’impegno della Lux per una pellicola su una realtà del tutto estranea alle cose nazionali quale Il grido della terra (gennaio 1949; 90 min.) affidato al modesto talento registico di Duilio Coletti. Il film racconta lo scontro in atto in Palestina nel 1946-47 tra immigrati ebrei e forze di occupazione coloniale britanniche. David Taumen (Luigi Tosi) è a capo di una cellula terroristica ed è deciso a cacciare gli inglesi ad ogni costo per “liberare” la Palestina. Così guida un manipolo in un’operazione estrema: mette una bomba entro una caserma inglese causando numerosi morti (la vicenda si ispira alla bomba messa all’albergo King David, sede dello stato maggiore inglese l’11 luglio 1946 che causò 110 vittime e molti feriti). Viene però arrestato e condannato a morte. I suoi compagni intanto catturano un ufficiale inglese e ne decretano la morte in caso di avvenuta impiccagione di Davide. Il racconto termina con le due parallele esecuzioni, su una nota di totale, cupa mestizia.
Il lavoro, segnato da un moderato sionismo, è in fondo una prima e isolata collaborazione italoebraica (tra gli sceneggiatori ci sono Carlo Levi e Alessandro Fersen, i costumi sono di Emanuele Luzzati mentre produttore esecutivo è Domenico Forges Davanzati); quando esce nelle sale però risulta ampiamente sorpassato dagli eventi (rinuncia dell’Inghilterra al proprio mandato in Palestina e contemporanea proclamazione dello stato d’Israele da parte di Ben Gurion nel maggio 1948, conseguente espulsione di migliaia di palestinesi e scoppio della prima guerra arabo-israeliana) e passa quasi inosservato. La sua funzione originaria era probabilmente quella di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana riguardo ai diritti della minoranza ebraica in Palestina e al suo diritto ad avere un proprio stato autonomo. Tutto ciò non ha più senso nei primi mesi del 1949. D’altro canto il film, che merita perfino una recensione benevola dell’autorevole New York Times (agosto 1949) in occasione della uscita del film doppiato in inglese negli USA, mostra un punto di vista realmente inquietante (che i decenni a venire non faranno che confermare, tra sofferenze e sangue) poiché nel racconto non compare un solo personaggio arabo-palestinese. La questione viene trattata come se si fosse di fronte a un’insurrezione popolare israeliana nei confronti del coloni inglesi, mentre la maggioranza araba della popolazione storicamente residente in quel paese da secoli (gli ebrei vi emigrano a ondate a partire dall’inizio del Novecento; nel 1936 sono circa 400000, nel 1946 sono diventati 600000 ossia circa un terzo della popolazione palestinese) viene annullata, resa inesistente e pressoché invisibile. Al contrario l’intera narrazione del gesto terroristico prende le sembianze di una eroica lotta clandestina simile a quella della Resistenza italiana mentre la collocazione della bomba presso un edificio militare ricorda sinistramente lo sconsiderato gesto di via Rasella (Roma, 23 marzo 1944).
Il lavoro lascia dunque esterrefatti per il pressappochismo di personaggi e vicende, la goffaggine generale con cui una realtà quasi ignota viene evocata ispirandosi a eventi della storia italiana nonché la falsificazione storica evidente della reale situazione in Palestina. Come primo esempio di cinema italiano di indagine storica e di impegno civile a favore della libertà e dei diritti dei popoli, l’operazione appare piuttosto scadente, sortendo solo un compitino di rozza propaganda.
Non mancano infine elementi involontariamente comici: ex attori esemplari del cinema fascista come Andrea Checchi e Carlo Ninchi si trovano nuovamente a combattere in mare contro navi inglesi; e così l’intransigenza e l’avidità coloniale britannica, denunciate per anni dal regime mussoliniano, tornano sugli schermi italiani, ora descritte e combattute però in nome di ideali sionisti.
La Lux Film torinese, casa di produzione “illuminata” e antifascista nei primi anni quaranta (come si è spesso notato), sostiene senza sorprese la causa israeliana: di fatto la cultura ebraica costituisce la punta avanzata di quel modernismo laico-massonico entro i cui confini agisce con coerenza la cinematografia capitanata da Gualino e Gatti e perfettamente inserita nell’universo ideale prevalente da decenni nella metropoli dei Savoia e degli Agnelli.
Ancora il binomio Lux-Duilio Coletti, per il tramite del produttore Dino De Laurentis, mette in cantiere un nuovo “attacco alla tradizione” con la pellicola Il lupo della Sila (dicembre 1949; 95 min.), ambientato tra gli aspri paesaggi della Calabria rurale. Come già in numerose altre pellicola finanziate dalla ditta piemontese (si pensi ad esempio al simile Notte di tempesta di Franciolini, 1945; vedi) l’astuto meccanismo consiste nel calare una vicenda fumettistica, degna di un romanzo d’appendice, all’interno di una cornice dal sapore documentaristico e perfino “neorealistico” (riprese in esterni che valorizzano in modo abile il paesaggio calabrese, utilizzazione della popolazione locale, una magnifica fotografia in un denso e contrastato bianco e nero). Al centro viene collocata una figura mostruosa che finisce con il divenire emblematica di quel luogo e di quella cultura che si vogliono dipingere con accenti “arcaico-medievali”, pieni di disprezzo. Così Rocco Barra (Amedeo Nazzari), il più stimato proprietario locale, è un fanatico, disumano e autoritario difensore dell’onore familiare: dapprima impedisce alla sorella (Luisa Rossi) di scagionare il proprio amante (Vittorio Gassman) ingiustamente accusato di omicidio, decretandone in definitiva la morte; anni dopo invece, follemente inamorato di una giovane, prosperosa lavorante (Silvana Mangano), decide di sposarla senonché, quando il figlio Salvatore (Jacques Sernas), a cui sembra sinceramente affezionato, gliela porta via, lo insegue e immediatamente, saltando ogni doveroso chiarimento verbale, cerca di ucciderlo a fucilate. Insomma una vera e propria bestia infernale, animata da un feroce egoismo dettato da un’interpretazione estremistica e artificiosa delle tradizioni familiari del meridione d’Italia.
Si noti, per finire, che l’unica figura totalmente positiva è quella di Salvatore, un presunto calabrese interpretato da un attore francese (privo del minimo tratto somatico meridionale), il quale ha abbandonato la propria terra e le proprie convenzioni per vivere e studiare in una imprecisata, lontana e popolosa città: ovvero un perfetto e astratto modello di meridionale assimilato alla cultura laico-modernista.
Il film di Coletti, basato su questo sciocco soggetto inventato da Steno e Monicelli (e da loro sceneggiato con altri), è dunque soprattutto una caricatura indecente del costume del sud ad opera dei noti settori laici della Torino “illuminista”, settori assorbiti dalla propria guerra di modernizzazione di un’Italia rurale (fin dai tempi delle guerre d’indipendenza, della repubblica romana e dei Mille garibaldini) considerata oscurantista e inutile. In questa “guerra di religione” ogni mezzo è valido e ogni risorsa viene mobilitata: la bellezza provocante di Silvana Mangano (subito spogliata nella prima sequenza), l’autorità attoriale di Nazzari, la accattivante, veloce struttura narrativa (un Coletti finalmente in forma) animata da un montaggio serrato e da eventi spettacolari che si susseguono in modo trascinante (sebbene totalmente inverosimile) e infine una indubbia capacità di fotografare in modo perfino poetico la natura montagnosa e solcata di torrenti della Sila. Il pubblico resta giustamente soggiogato dal lavoro e ne sancisce un imprevisto, largo successo. Il centro cattolico al contrario, meno sensibile a queste qualità linguistiche e più attento alla visione ideale che la pellicola reca con sé, bolla con il solito “escluso” il prodotto Lux.

Di fronte alla aggressività della cinematografia laica il mondo cattolico decide di reagire filmando la vita “esemplare” della beata Maria Goretti in Cielo sulla palude (agosto 1949; 114 min.). Il regista Augusto Genina, inattivo dai tempi di Bengasi (1942; vedi), una volta entusiasta sostenitore dei destini del fascismo, diviene l’umile e sincero cantore della struggente vicenda della bambina Goretti. Quest’ultima, nativa di Corinaldo (Marche), aveva solo nove anni quando, nel 1899, si trasferì con la famiglia nella cascina di Ferriere, nelle paludi pontine, dove lavorava nelle terre del conte Mazzoleni. Il padre muore di malaria nel 1900 e lascia la madre con sei figli. Il nucleo condivide l’abitazione con i Serenelli, padre e figlio. Quest’ultimo di nome Alessandro, circa ventenne, ossessionato dalla presenza di Maria, tenta più volte di convincerla a cedergli. Infine tenta di violentarla il 5 luglio 1905; la ragazzina gli resiste, in nome della fede cristiana, e il govane la ferisce a morte con numerose coltellate. Il giorno dopo Maria muore nell’ospedale di Nettuno. Fin da subito un’onda di commozione circonda l’evento: i funerali vedono una massiccia partecipazione popolare cui segue la beatificazione della Goretti (1947, dopo un lungo processo iniziato nel 1935) e la creazione di un vero e proprio culto intorno alla sua salma condservata nel santuario di Nettuno. Il film di Genina, estremamente fedele ai fatti storici e salutato da un vasto successo, anticipa di poco l’evento della santificazione, avvenuta con enfasi nel giugno 1950 ad opera di Pio XII in una piazza San Pietro gremita fino all’inverosimile (non meno di 300000 persone; tra le autorità presenti si ricordano il presidente Einaudi, il capo del governo De Gasperi e il ministro degli interni Scelba). 
La pellicola, sceneggiata da Augusto Genina e curata nei dettagli storici da Alberto Bargelesi, ripercorre le peripezie della famiglia Goretti dall’arrivo nella cascina dei Mazzoleni fino alla morte di Maria (Ines Orsini). La scelta stilistica è audace e forse polemica poiché l’autore sceglie di filmare la vicenda secondo i canoni tanto discussi del “neorealismo”: esterni nei luoghi reali, attori tutti non professionisti, stile corale volto a illuminare più un insieme di persone immerse nel paesaggio che i singoli protagonisti. Sono scelte coraggiose che rischiano di punire un film tutt’altro che popolare e “facile”; eppure l’esito è pienamene godibile e gli incassi premiano il coraggio degli autori. Il film, presentato alla mostra di Venezia, ottiene inoltre il Premio della Presidenza del Consiglio dei ministri per il miglior film italiano, ulteriore riconferma del totale appoggio del mondo politico cattolico.
La prima metà del racconto è volto a descrivere la durissima esistenza dei contadini dell’agro pontino, immersi in un insalubre paesaggio di terra e acqua, in cui le zanzare diffondono fatalmente il morbo della malaria tra genti mal nutrite, sfinite dal duro lavoro materiale e dimoranti in baracche segnate da pessime condizioni igieniche. In questo inferno materiale la fede cristiana finisce col divenire l’unica, esile fiamma, l’unica speranza cui ancorarsi per sopportare un simile calvario. La bambina Goretti, dopo la morte del padre, deve lavorare e badare ai molti bimbi piccoli; la sostiene la scoperta semplice della fede attraverso un banale corso di catechismo finalizzato alla prima comunione, corso che neppure le sue coetanee prendono sul serio. Tra le pagine più importanti del film c’è la sequenza in cui una ragazza spiega all’ingenua Maria come bisogna evitare di commettere atti impuri e come si può tener testa alle insidie maschili; prima ancora che la lezione sia terminata la coetanea di Maria lascia l’amica per congiungersi con un corteggiatore, così negando immediatamente nei comportamenti ciò che andava spiegando a parole. Per tale via Genina vuole ricordare che anche agli inizi del secolo (così come nel 1949) erano diffusi gli esempi negativi, leggeri e improntati al soddisfacimento delle esigenze del corpo e che tuttavia il comportamento esemplare, cristiano, capace di fare del proprio corpo un tempio di purezza, rimane sempre lo stesso. Dunque anche ora, nell’epoca dei torbidi melodrammi con Silvana Mangano e delle scollacciate riviste di Totò, chi conosce la verità cristiana deve mantenersi puro anche se intorno tutto sembra muoversi in altre direzioni.
La Chiesa comprende bene che il diffondersi del laicismo nei costumi, ora possentemente incentivato dall’arrivo del consumismo edonistico-ateo americano, è un evento mortale che può modificare la società italiana finendo col minare la centralità della Chiesa fino a renderla marginale (come in effetti avverrà a partire dalla rivoluzione culturale degli anni sessanta). Pertanto film solenni e ammirevoli come Cielo sulla palude costituiscono l’estremo disperato tentativo di arginare il nuovo promuovendo gli antichi valori e gli austeri modelli di comportamento di un’epoca ormai superata dagli eventi. Giova inoltre ricordare che uno degli elementi che contrappongono in quegli anni il conservatore Pio XII e il più duttile e realista De Gasperis è proprio la pressante richiesta di una legge restrittiva della libertà di stampa e di espressione, legge volta a ridare forza e centralità all’istituto della censura preventiva. Non se ne farà niente poiché il primo ministro democristiano si rende conto che i magistrati (da lui definiti complessivamente di tendenza laico-liberale) non l’avrebbero applicata.
La seconda parte dell’opera si concentra sui due protagonisti, Alessandro (Mauro Matteucci) e Maria, e sui ripetuti tentativi dl primo di possedere la seconda. Il volto della bambina è sempre illuminato da una dolce luce mentre quello tormentato del futuro assassino tradisce una passione incontrollabile e demoniaca. Nell’epilogo tragico, descritto senza l’ausilio della colonna sonora (altrove presente con il proprio carattere ad un tempo misurato e melodrammatico), gli eventi si susseguono in un disperato, forte realismo che accentua la crudeltà dei gesti. Le dolci note musicali riprendono solo per commentare le immagini di Maria morente in ospedale.
Sebbene la morale complessiva sia scarsamente condivisibile (il sacrificio della vita in omaggio ai dogmi cattolici e in spregio alle norme dell’istinto naturale che pone innanzitutto l’esigenza dell’autoconservazione fisica), la sincera compassione che emerge in ogni momento da una pellicola di ammirevole classicità coinvolge e stupisce. Il taglio delle immagini è sempre elegante, sapendo coniugare sguardo documentaristico e composizione pittorica mentre i numerosi movimenti di macchina (carrelli e panoramiche) valorizzano il paesaggio, lo scrutano e lo percorrono donando profondità, ampiezza e verità al dramma dei Goretti. La severa bellezza delle immagini viene sottolineata dalla frequente presenza di un colto commento sonoro (creato da Antonio Veretti) di taglio lirico, privo di facili e roboanti effetti mentre i dialoghi riportano in vita un universo semplice e popolare, fatto di miserie ed egoismi come pure di ricerca di un accordo capace di andare oltre la grettezza individuale per cercare forme di utile collaborazione. Nulla suona falso o artefatto, soprattutto grazie all’attenta, incisiva direzione degli attori dilettanti, sebbene qualche momento di eccessiva, compiacente ingenuità sembra fare capolino di tanto in tanto.
Sebbene Cielo sulla palude possa considerarsi uno degli esiti più alti dei tentativi della poetica “neorealistica” e nonostante la mancanza di quelle forzature ideologiche e antirealistiche che viziavano i conclamati “capolavori” di De Sica, Rossellini, Visconti e De Santis (si veda in tal senso quanto scritto intorno a Roma città aperta, La terra trema, Sciuscià, Ladri di biciclette e Riso amaro), la critica militante, presa in contropiede, rifiuta di valutare il fim di Genina nel suo valore artistico e si trincera dietro banali scuse (uno per tutti: Giuseppe Ferrara in Il nuovo cinema italiano, 1957, parla di Genina come di “un abilissimo falsario... ”, di “linguaggio così abilmente preso a prestito - un linguaggio in origine sorto per difendere e capire le ragioni dell’uomo soffocato dall’ingiustizia...”). Il settore culturale laico-marxista guarda dunque con sospetto ed evidente fastidio a questo intruso, capace di descrivere la verità delle classi popolari e la loro sofferenza con una forza documentaristica superiore a quella presente nelle pellicole degli autori “consacrati”. Ciò che poi appare imperdonabile è che la situazione di miseria e sfruttamento di quelle popolazioni non sfoci nell’odio tra le classi ma che venga accettata come una situazione difficilmente modificabile nella quale è soprattutto la fede cristiana a rendere sopportabile l’esistenza. In ogni caso anche quella nelle paludi pontine è vita che offre qualche soddisfazione come mostrano ad esempio le serene sequenze delle fiere.
André Bazin, a sorpresa, elogia il lavoro di Genina (Un saint ne l’est qu’après, Cahiers du cinéma n 2, 1951; poi in Che cosa è il cinema?, Garzanti 1973) a patto però di stravolgerne completamente il senso attraverso una “sofisticata” e molto “francese” interpretazione: “....la condotta di Maria non è ancora convincente, poiché capiamo che Maria peraltro ama Alessandro... la povera vita di una ragazzina stupidamente infranta...”. Così la tragedia della palude diviene un’enigmatica storia d’amore (!!), ostacolata da incomprensibili remore morali. Le cose non sono mai ciò che sembrano, secondo un artificioso atteggiamento tipico degli commentatori più “avveduti” che ambiscono ad avere l’ultima parola sul senso “recondito” (e molto spesso decifrabile solo da loro) delle narrazioni artistiche, e dunque anche la storia della Goretti si può ricondurre alla tesi dell’amore universale che tutto spiega e giustifica. Siamo al ridicolo.
Venticinque anni dopo uno storico capace come Giordano Bruno Guerri riapre la questione con un testo fortemente polemico e anticlericale (Povera santa, povero assassino; Mondadori, 1984) nel quale non riesce a celare un superiore fastidio per questo universo contadino e una visione ancorata all’opulenta modernità tale per cui ogni evento della tragedia Goretti viene interpretato e risolto in una chiave tanto sarcastica e ferocemente riduttiva, nel segno dell’ignoranza e della stupidità, quanto gratuita e non verificabile (“Maria non era nient’altro che la sua miseria....Una bambina disgraziata, ottusa dall’ignoranza propria e altrui, una piccola testa impaurita in cui la religione agì non come illuminazione e forza, ma come freno dello sviluppo mentale”). I residui di Tradizione che si possono intuire in quella cultura primitiva e rurale vengono pertanto laicamente aggredditi e irrisi. La cultura vaticana replica alla disamina di Guerri tramite Antonio Sicari il quale parla di “intellettuale schifiltoso e razzista”, di “adulto disprezzo”, di “astio” e di “triste infortunio” (in Ritratti di santi, Jaca Book, 1987).
Tornando alle cose cinematogtrafiche possiamo affermare che il migliore cinema di Ermanno Olmi (Il posto, 1961; I fidanzati, 1963; L’albero degli zoccoli, 1977), un cinema non a caso marginale e isolato nel contesto italiano, prenderà proprio le mosse dall’amore e dalla comprensione per il mondo degli umili presente in Cielo sulla palude.