Germania anno zero e La terra trema

Germania anno zero e La terra trema: desolazione d'autore (1948)
 

              "...realismo è abbandonare l'individuo davanti alla
              macchina da presa e lasciarlo costruire lui stesso
              la propria storia. Dal primo giorno delle riprese
              mi metto alle spalle dei miei personaggi e lascio
              che la cinecamera gli corra dietro"
              (Rossellini, 1948)


Dopo i ragazzini disperati di Sciuscià (1946) e insieme al bambino triste di Ladri di biciclette e allo sfaccendato Ciro di Sotto il sole di Roma (1948) compare sugli schermi italiani il desolato tredicenne Edmund collocato da Rossellini nello scenario apocalittico della Berlino dell'immediato dopoguerra. Germania anno zero (78 min.) viene presentata al festival di Locarno (luglio 1948) dove ottiene il premio per la migliore regia e la migliore sceneggiatura (firmata dal regista, da Carlo Lizzani e da Max Colpet). La pellicola, accolta quasi unanimemente con grande rispetto e deferenza, appare ad uno sguardo disincantato forzata e inverosimile (non a caso l'autore dichiarava anni dopo: "il nesso logico del soggetto è il mio nemico.... è uno dei miei liniti" [1952]). Le macerie di Berlino, segno lacerante del disastroso conflitto appena conclusosi, sono le uniche vere protagoniste del film; i personaggi appaiono invece stereotipati e poveri, nonche' viziati da una descrizione meramente ideologica che esige la banale messa in relazione di nazismo e squallide perversioni sessuali; pertanto generali e ufficiali nazisti appaiono come un perfido gruppo di pedofili. Il giovanissimo protagonista invece, senza apparire eccessivamente sconvolto dalla miseria in cui vive, influenzato da un ambiguo sermone del suo ex maestro omosessuale (nonche' fervente nazista), prende la poco credibile decisione di avvelenare il padre malato per troncare le sue sofferenze. Eliminare i deboli era un luogo comune della propaganda nazionalsocialista ed Edmund, dopo averla fatta propria, capisce l'errore e si suicida. Quadro confuso della vita berlinese, tra feroce desiderio di riscatto economico e amari interrogativi intorno all'epoca hitleriana, il film si limita a mettere in scena una sorta di prevedibile, cinica giungla umana mentre le peripezie del ragazzo vorrebbero indicare l'impossibilita' della cultura tedesca a superare le proprie macerie morali prima ancora che materiali. Monotona e moralistica predica, Germania anno zero conosce solo alcuni momenti di vera poesia nel ritratto commosso di una citta' devastata; per il resto Rossellini appare prigioniero della semplicistica propaganda alleata, in misura perfino maggiore rispetto al sopravvalutato Roma citta' aperta (1945). Il quadro offerto dal contemporaneo (e altrettanto mediocre, seppure per altri motivi) Sotto il sole di Roma, pellicola che tratta ancora di giovani alle prese con le miserie del dopoguerra, appare meno artificioso e piu' aderente alla realta'. Peraltro basandosi sull'ingenua e vacua nozione di realismo citata in apertura il regista romano si condannava a filmare una serie di gesti improvvisati ed inutili che rendono dispersivo ed irritante il suo cinema. Essere autori significa sempre e solo creare, comandare, dominare la materia e formarla e non pigramente registrare l'esistente, "mettendosi alle spalle dei personaggi" ovvero dell'incerta creativita' di attori spesso professionalmente impreparati.
Con la modesta pellicola berlinese, caratterizzata da un linguaggio scarno e freddo, quasi documentaristico (il parco e generico commento musicale di Renzo Rossellini si limita a pochi, brevi motivi) termina la seconda trilogia della guerra rosselliniana (dopo quella girata in epoca fascista), tre pellicole esaltate da una critica politicamente di parte e naturalmente ignorate, nonostante la quantita' di premi internazionali, dal grande pubblico. Ne' manca chi, come sempre in questi casi, si abbandona alla difficile arte della profezia (ovviamente risultata fallace), parlando di opera "la cui bellezza sara' compresa solo col tempo" (Ferrara, Il nuovo cinema italiano, 1957). Nessuno nega in Roma, Paisa' e Germania momenti poetici e singoli episodi ben disegnati (lo stesso potrebbe dirsi tuttavia per La nave bianca [1941], Un pilota ritorna [1942] e L'uomo dalla croce [1943]) all'interno però di lavori complessivamente manichei e non esenti da uno sguardo superficiale e accomodante, volto a ingraziarsi i nuovi padroni della politca italiana e internazionale. In tal senso un sospetto di opportunismo serpeggia in entrambe le trilogie belliche, il cui proclamato realismo si dissolve all'interno di uno sguardo ideologicamente orientato.

L'apertura è un lungo e suggestivo pianosoquenza sulle rovine della capitale tedesca il quale approda alla presentazione di Edmund nell'atto di scavare fosse, evidente e perfino ingenua premonizione del destino di morte che lo attende. La famiglia del ragazzo vive, con altre quattro, in un appartamento requisito: borsa nera, fame, malattie e spietato desiderio di ascesa sociale denotano questo contesto sociale nel quale le regole della moralita' e dell'umana convivenza sono state temporaneamente sospese; code per il pane, freddo e prostituzione sono le tristi abitudini di questo universo abbruttito. Nei suoi vagabondaggi Edmund incontra solo ex nazisti pedofili che lo mandano a vendere un disco con uno dei tanti fluviali discorsi di Hitler: e' l'occasione per un buon momeno di cinema, allorche' la voce dell'ambiguo dittatore risuona tra le macerie della sua Cancelleria e in generale tra quelle di Berlino, spietata messa in relazione del nero ed ipnotico fascino hitleriano con gli apocalittici esiti finali della sua opera. E' il momento migliore del film, interrogativo senza risposta intorno alla enigmatica e in fondo stolta disponibilita' di un popolo a lasciarsi soggiogare da un simile, disumano progetto di conquista europeo: è il fondo irrazionale ed al tempo stesso ottusamente disciplinato (non ci fu Resistenza in Germania) dell'anima tedesca ad emergere dallo stimolante accostamento di quella roca voce imperiosa con gli esiti autodistruttivi indotti dal nazismo nella realta' tedesca. Il quesito e' tra quelli fondamentali per comprendere e risolvere la storia del Novecento e ridurre quindi il nazismo ad un gruppo di ufficiali omosessuali e pedofili, come avviene nel proseguio del breve film rosselliniano, non aiuta nessuno, anzi depista gravemente, allineandosi in modo servile ai dettami della propaganda americana che ama accostare nazismo, follia e perversioni sessuali per meglio criminalizzare un movimento politico, impedendone per tale via una seria indagine che conduca ad una reale comprensioen del fenomeno. Ne' il regista mostrava di possedere idee particolarmente originali sull'argomento allorche' dichiarava: "i tedeschi erano degli esseri umani come tutti gli altri: che cosa aveva potuto portarli a un simile disastro? ". Germania anno zero partecipa dunque all'attivita' di oscuramento posta in essere dai media intorno al problema tedesco e alle molte oscurità che ancora gravano sulla classe dirigente del nazionalsocialismo.
La lunga e silenziosa sequenza finale in cui la mdp segue i desolati vagabondaggi di un Edmund pentito segna il secondo momento alto della pellicola, una serie di campi lunghi nei quali il dramma del ragazzo si fonde con quello di una collettivita' smarrita, presente nella terribile cornice delle macerie berlinesi. Un organo diffonde mestamente le sue note (il celebre Largo di Haendel derivato dall'aria iniziale della sua opera Serse [1738]) da una cattedrale diroccata come da un palazzo devastato si getta, suicidandosi, Edmund. Questo drammatico momento conclusivo tuttavia e' realizzato goffamente sia in ambito visivo (il montaggio difettoso, degno di un cinema amatoriale), sia in ambito sonoro (dove imperversano colpi di timpani mediocremente melodrammatici). Nell'evidente sufficienza con la quale sono trattati i problemi tecnici, nel rifiuto della corretta e dignitosa rifinitura di un passo filmico di tale importanza emerge una sconfortante presunzione.

Circa trent'anni dopo i Taviani si ispirano a Germania anno zero (di cui citano la celebre sequenza finale) con Il prato (1979), uno dei loro film meno riusciti: come Edmund, Giovanni, amareggiato dal cinico stile di pensiero prevalente nel sociale, circondato da "macerie" ideologiche nel tramonto delle utopie che segna la fine degli anni settanta, incapace lui stesso di vivere l'astratto ideale della coppia aperta, morso da un cane rabbioso decide di lasciarsi morire.

Nell'agosto 1948 Rossellini partecipa al festival di Venezia con L'amore (78 min.) ovvero due mediometraggi: La voce umana, trasposizione filmica del lavoro teatrale La voix humaine (Parigi, 1930) di Jean Cocteau (il quale conoscera' in seguito la fortunata versione operistica [Parigi, 1959] di Francis Poulenc) girata nella primavera 1947, prima della pellicola berlinese, e Il miracolo, un breve apologo scritto da Federico Fellini e Tullio Pinelli e girato nel 1948 quale necessaria integrazione del primo film, per ottenere un lungometraggio di durata tradizionale.
La voce umana consiste in una fedelissima trascrizione in immagini del testo di Cocteau. La vicenda mette in scena una donna disperata e la sua ultima telefonata all'amante che, dopo cinque anni di felicita' condivisa, e' in procinto di lasciarla definitvamente, per sposare un'altra. Rossellini la realizza con una serie di piani medi e di primi piani di Anna Magnani, protagonista solitaria del dramma: ne nasce un film letterario ed accademico, privo dell'intensa e sincera vena comunicativa necessaria per rendere interessante la pena amorosa della protagonista e,  in generale, la statica situazione complessiva.
Il miracolo, mediometraggio girato dopo Germania anno zero, e' da considerarsi la prima apparizione della poetica felliniana piu' che un lavoro di Rossellini. La storia di Nannina, una pastora svitata che crede di vedere in un vagabondo (proprio Fellini nel suo unico ruolo di attore) san Giuseppe, viene posseduta nel sonno da quest'ultimo e ritiene poi di aspettare un figlio da Dio, indica in embrione la corrosiva visione anticlericale che trovera' ampio sviluppo nel cinema del maestro riminese fin dalla sua opera prima Lo sceicco bianco (1952). Rossellini filma per amore della Magnani questa vicenda lontana dalle sue corde, cercando di farne una sorta di calvario di una donna semplice, derisa dagli abitanti del suo paese, con alcuni punti di vicinanza addirittura con la vicenda del berlinese Edmund (in particolare la drammatica sezione finale, nella quale la mdp che segue docilmente i silenziosi vagabondaggi della matta, ricorda l'intensa chiusa di Germania anno zero). Il modesto film insomma appare irrimediabilmente lacerato tra l'intenzione sarcastica del soggettista Fellini (e giustamente a New York il cardinale Spellmann scatena una campagna di stampa contro il film [dicembre '48] e lo denuncia alla censura, provocando la momentanea interruzione delle repliche) e la vena patetica del regista che cerca di elevare l'ambigua materia a riflessione dolente e simbolica sulle umane sofferenze di colui che e' fatto oggetto della ottusa e fanatica persecuzione popolare, fino a fare del personale calvario di Nannina una ripetizione metaforica di quello originario. Tuttavia l'apologo, non casualmente collocato sullo sfondo di una comunita' immersa nella miseria materiale e spirituale, finisce soprattutto per stigmatizzare gli aspetti grotteschi di una religione costruita per i "poveri" e gli ingenui, fatta di dogmatismi elementari e di credenze illogiche (la pratica diffusa delle apparizioni: si noti che Fellini tornera' diffusamente sull'argomento in uno dei sette episodi che compongono il suo capolavoro, La dolce vita [1960]) tali da indurre nelle menti piu' predisposte alla credulita' episodi assurdi come quello del Miracolo. La concezione scettica felliniana travolge quella del cattolico Rossellini.

Nel primo dopoguera Visconti si dedica principalmente all'attività di regista teatrale: tra il gennaio 1945 e il febbraio 1947 dirige una dozzina di spettacoli tra i quali I parenti terribili di Cocteau, A porte chiuse di Sartre, Zoo di vetro di Williams e Il matrimonio di Figaro (con Vittorio De Sica protagonista) di Beaumarchais mentre difende apertamente la politica del PCI sulle colonne dell'Unita' (nel maggio 1946 ivi pubblica la sua "professione di fede" in Perchè voterò per il Partito Comunista). Tra il novembre 1947 e il maggio 1948 il regista si stabilisce ad Acitrezza per girare La terra trema (160 min.) ispirato a I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga, aiutato da due aiutoregisti quali Francesco Rosi e Franco Zeffirelli al loro debutto, nonchè da Antonio Pietrangeli autore del testo declamato dalla voce fuori campo. L'ambizione viscontiana è quella di superare lo scrittore il quale sarebbe colpevole di aver dato una descrizione meramente "estetica" e "antisociale" del dramma dei miseri pescatori "vinti" da un sistema economico spietato; con la volonta' di indagare le radici del fallimento dell'attività dei pescatori siciliani l'autore tenta di mostrare le iniquità di un sistema che, una volta illuminato e compreso, dovrebbe spingere le sue vittime ad unirsi agli operai del nord per rovesciare l'ingiusto ordine capitalistico. All'origine il film era stato infatti commissionato dal PCI che avrebbe voluto usarlo nella campagna politica per le elezioni dell'aprile 1948 e che si sarebbe accontentato di un documentario sulle condizioni dei pescatori siciliani.
In realtà la situazione è semmai antitetica: laddove lo scrittore siciliano tentava un quadro autentico nel quale i ricchi e i poveri, i vincitori e i vinti si affrontavano, come ovunque, nella spietata lotta per la vita, Visconti ingabbia i personaggi e gli eventi del celebre romanzo (appena modificati in particolari spesso inessenziali) in una visione ideologica sovrapposta per comodo ai fatti della realta' siciliana. La fede politica del regista spinge artificiosamente la narrazione verghiana all'interno di gravi contraddizioni logiche ed estetiche. Il difficile romanzo, uscito nel 1881, non riscuote alcun successo e divide la critica dell'epoca (scriveva allora l'autore: "I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo"); fu solo a partire dal saggio di Croce del 1903 (G. Verga in “Critica”, poi in La letteratura della nuova Italia, 1922) che inizia la rapida rivalutazione del romanzo il quale solo quindici anni dopo, nel primo dopoguerra, viene ormai accomunato ai Promessi sposi quale vertice della narrativa ottocentesca italiana. Ed è circa due decenni dopo, agli inizi degli anni quaranta, che il giovane Visconti comincia a riflettere intorno ad una possibile riduzione cinematografica del medesimo. Il racconto dello scrittore siciliano e' ovviamente più articolato del film, comprende un numero maggiore di personaggi e si svolge lungo un decennio (1865-75) laddove la versione cinematografica restringe gli eventi in un arco di tempo limitato. Ma la differenza radicale, come gia' anticipato, consiste nel fatto che nel romanzo la catastrofe della famiglia Malavoglia deriva dall'ansia di Ntoni di infrangere le tradizioni secolari della sua terra, avventurandosi in iniziative azzardate per le quali verra' come punito da un fato avverso. Scrive Luigi Russo nel suo celebre saggio: "La vaga bramosia dell'ignoto, l'insoddisfazione delle proprie umili condizioni doveva trascinare una casa patriarcale di pescatori alla rovina: il dramma oscuro del desiderio si svolgerà nell'anima di Ntoni.....e l'errore di uno solo segna la catastrofe di tutta la famiglia"; e altrove: " quando si e' rotto un patto di fedelta' con una legge sacra dei padri, bisogna che la vendetta delle cose si compia assoluta" (Giovanni Verga, 1919). Non vi e' qui alcuna sfumatura politica ma solo un amaro, radicale pessimismo interno ad una pacata contemplazione delle cose. Visconti invece rovescia l'ottica verghiana in nome di una visione dinamico-marxista che rende il tentativo di 'Ntoni e la rovina dei Valastro fatti eroici ed esemplari, premesse di una possibile rivoluzione futura. La ribellione del giovane viene descritta dunque da punti di vista antitetici e ciò rende La terra trema uguale ma anche molto lontano e differente rispetto all'originale ottocentesco.
Girato negli scenari siciliani autentici, utilizzando gente del posto che parla un dialetto catanese incomprensibile, il lavoro si condanna automaticamente al clamoroso fiasco commerciale (dopo la lusinghiera presentazione nell'agosto 1948 alla mostra di Venezia dove il film, fischiato a scena aperta da un pubblico spazientito che in buona parte abbandona la sala, ottiene tuttavia il Premio internazionale), rivelando nell'autore l'aristocratica presunzione di chi pretende di filmare un lavoro popolare, che tratta delle condizioni di vita delle misere genti dell'isola, e lo presenta con un sonoro indecifrabile perfino in altre aree della Sicilia. Al riguardo Sciascia si interrogava contrariato: "Perchè il vernacolo (non si puo' nemmeno parlare di dialetto), un vernacolo cosi' stretto e concitato da riuscire, in parte, di difficile comprensione agli stessi siciliani? Quali i motivi che lo portano [Visconti] nel 1948 ad operare una "regressione" nel vernacolo del mondo verghiano? " (La Sicilia e il cinema, in Film 1963). In seguito, nel disperato tentativo di recuperare il pubblico disinteressato ad un lavoro tanto ermetico, verra' approntata invano una copia accorciata drasticamente e doppiata in italiano ed infine, in tempi piu' recenti, ricomparira' la copia originale opportunamente sottotitolata in italiano.
In ogni caso i difetti di La terra trema sono ben altri e piu' consistenti. Visconti pretende di applicare meccanicamente le sciocchezze marxiste ad una realta' che mostra di conoscere assai poco. La croce viene gettata addosso ai grossisti definiti sfruttatori ed eretti a simbolo del male asoluto, laddove i pescatori vengono ritratti come gli unici veri lavoratori. Quadro stupido e manicheo, esso si contraddice da solo: quando finalmente, dopo tante lamentele, la famiglia Valastro si cimenta in proprio nel commercio del pescato, essa deve rimboccarsi le maniche, salare le acciughe, organizzare i carichi, portarli al mercato laddove prima essa passava la giornata oziando. Dunque i grossisti a loro volta fanno un lavoro (quel lavoro) e se ai pescatori sembra più facile e remunerativo, non resta loro che cambiare mestiere, tanto piu' che l'argomento lo conoscono. Se invece, nonostante il fatto che i pescatori sono troppi in relazioni alle modeste potenzialita' del golfo di Acitrezza (cosi' recita il commento redatto da Pietrangeli) e dunque il lavoro di molti di loro e' sprecato in quella sede, essi non sono in grado di trasformarsi in commercianti, cio' significa che mancano delle necessarie qualita' per svolgere una simile attivita' ed e' dunque meglio lasciarlo fare ad altri senza troppi rimpianti. Inoltre se la pesca rende tanto poco c'e' sempre Catania vicina dove si puo' cercare qualche altro lavoro. Insomma, come per la fallace costruzione del coevo Ladri di biciclette dove il furto di una bici di terza mano non poteva in nessun modo provocare il tremendo dramma che vi si descrive, cosi' le fondamenta del discorso viscontiano appaiono fragili e viziate dal dogma dell'ugualitarismo (uguali guadagni per tutti, anche se sulle barche si è in troppi in rapporto al pescato ovvero la logica improduttiva che porterà allo sfacelo le economie dell'est europeo comunista) laddove accettando la giusta logica della diseguaglianza (differenti talenti e capacità portano a differenti risultati) il mercato dimostra che chi sa meglio adattarsi alle esigenze del contesto economico, fornendo servizi più utili, meglio guadagnerà, vanificando con la sua dura semplicità tutto l'asserto predicatorio di La terra trema. Se il mare non produce ricchezza sufficiente per tutti, è tempo che molti cambino semplicemente mestiere e magari luogo; se invece si tratta solo della dittatura di un gruppo di grossisti che impone un tirannico monopolio non resta che andare a vendere altrove o rifiutarsi comunque (per un certo periodo) di vendere sotto un certo prezzo, che tanto nessun pescatore e' mai morto di fame....Appare del tutto inesatta quindi la conclusione di Miccichè posta alla fine di un analitico, sistematico ma anche un po' pedante esame della pellicola, conclusione in cui si afferma che il maggior pregio dell'opera consisterebbe nella "inerte contemplazione" di un' "ingiustizia secolare" (Visconti e il neorealismo, 1998) dove dietro il termine ingiustizia si nasconde il solito, aprioristico e utopico (nonche' foriero delle immense tragedie storiche partorite dalle assurdita' ideologiche del marxismo) dogma dell'ugualitarismo. D'altronde Miccichè, entusiasta, lo definisce appunto "l'unico grande film marxista del neorealismo", asserzione decisamente condivisibile sebbene non si tratti in realta' di un elogio (per uno spettatore scettico, estraneo alle forme ideologiche totalitarie, vantare le qualità marxiste di un film non è atteggiamento differente dall'encomiare le qualità fasciste di un'altra pellicola ed è in definitiva un dichiarare una sintonia politica che nulla ha a che fare con il valore artistico intrinseco dell'opera) bensi' dell'indicazione dei forti limiti di un'operazione di politica culturale costruita in ossequio ad un sistema di pensiero sbagliato nelle sue fondamenta.
In fondo l'autore si rende conto di manipolare una realta' che non capisce e ne e' riprova la scelta di utilizzare lunghi pianosequenza "esterni" che descrivono da lontano le scene d'insieme (le sequenze del mercato sulla spiaggia), restituendone un quadro confuso e degno dell'antiquata ed imprecisa estetica del cinema muto, con un sonoro ridotto a brusio e personaggi che si agitano goffamente, esagerando mimica e gestualità. Regna una sovrana confusione in questi stereotipati conflitti tra ingenui pescatori e torbidi grossisti.
La pellicola soffre della frequente, opinabile scelta "neorealista" di affidare i ruoli a non attori con il conseguente, penoso risultato di personaggi impacciati davanti alla mdp la quale registra impietosa le loro artificiose risatine, i loro gesti esagerati, i loro discorsi mal pronunciati, privi di ogni naturale fluidità. Lo spettatore purtroppo percepisce lo sforzo del recitare da parte di persone incapaci di calibrare il gesto e di sopportare con naturalezza lo sguardo della mdp, ne' e' certo sufficiente evitare i primi piani (totalmente assenti) per mascherare questa grave e decisiva falla del film. Inoltre la colonna sonora si limita a mediocri, stereotipate sottolineature, stabilento uno strano connubio tra immagini fredde e distaccate, con prevalenza dei campi lunghi e commento sonoro che cerca di ricondurre la pellicola entro la logica tradizionale del coinvolgimento emotivo dello spettatore.
La terra trema, sopravvalutato da una critica compiacente, è un film fallito, soprattutto se confrontato con Ossessione. Nel film tratto da Cain Visconti aveva saputo connettere con originalità tradizione melodrammatica e racconto cinematografico; ora di quell'operazione rimangono solo alcuni aspetti e qualche accenno isolato (e come tale stridente): ancora un percorso ineluttabile posto sotto il segno di una cupa "forza del destino", una sceneggiatura illogica ed inverosimile nonchè singoli episodi caricati di un'inattesa enfasi ed infine la narrazione scandita in tre precisi "atti"; mancano invece l'afflato lirico, i personaggi scolpiti, gli episodi forti, distinti e delineati ed una colonna sonora adeguata, tutte qualità presenti nella pellicola d'esordio. Nè la citazione della purissima melodia belliniana "Ah non credea mirarti" (aria conclusiva della Sonnambula, 1831), suonata al clarinetto dal nonno approda ad un significativo momento cinematografico: soffocata e resa incomprensibile dal confuso vociare che anima la sequenza della salatura delle acciughe, appare solo un'occasione sprecata.
In apertura scorrono le parole del regista che stigmatizzano la realtà che si sta per illustrare nella quale "uomini sfruttano altri uomini", ponendo fin d'ora la narrazione sotto l'insegna dell'ideologia ugualitaria ed inquadrandola all'interno di tesi preconcette. Così la prima parte descrive la misera vita dei pescatori e il loro sottostare al "criminale" ricatto dei grossisti, senza peraltro spiegare perchè la famiglia Valastro patisce la fame e al tempo stesso svende grosse quantità di pesce per poche lire (chiunque, sano di mente, ne tratterrebbe una congrua ed anzi abbondante quantità per i bisogni familiari, garantendosi almeno dei ricchi pasti; al contrario il commento della voce off rasenta il ridicolo quando all'inizio afferma: "Dodici ore di fatica nelle ossa, e a casa non riportano nemmeno quel tanto che basta per non morire di fame. Eppure le reti quando le hanno tirate su erano piene e il pensiero di non avere guadagnato abbastanza da sfamare tante bocche continuerà ad angustiarli"). Sono le non poche e non lievi oscurità di una pellicola che pretende di essere documentaristica e che in realtà manipola il reale all'interno di una precisa gabbia ideologica. Mentre le sequenze sulla vita quotidiana della famiglia di 'Ntoni si dilungano in particolari inessenziali e scontati, l'interesse di Visconti sembra accendersi soprattutto nelle parti in cui può mostrare la malvagità dei grossisti, un'attività necessaria ai pescatori (attività che loro sembrano ben lungi dal saper svolgere) ed in generale al ciclo produttivo della pesca eppure comodamente ritratta come un non lavoro, come una forma parassitaria gestita da perfidi gaglioffi. Ovviamente quando la medesima attività viene in seguito svolta dagli onesti, "proletari" pescatori allora la musica cambia: ci si accorge in quel frangente che si tratta di un vero, impegnativo lavoro, ma ciò viene messo in ombra dall'atmosfera festosa (degna del più trito realismo sovietico) che attraversa casa Valastro durante la salatura delle acciughe. La prima parte culmina nella ribellione orchestrata da 'Ntoni al mercato: anzichè vendere il pesce egli lo getta in mare (chissà perche' gettarlo e non portarselo a casa per mangiarselo o rivenderlo altrove...); ne nasce una rissa tra pescatori e grossisti e il protagonista viene arrestato.
Nella seconda parte 'Ntoni tenta di mettersi in proprio: ipoteca la casa, trattiene presso di sè il pesce pescato mentre la famiglia (finalmente) lavora per preparare le acciughe salate in barile da vendere in seguito. Anche i sogni amorosi dei numerosi personaggi della famiglia Valastro sembrano sul punto di realizzarsi in questo che costituisce il luminoso momento di una felicità ricca di promesse e di speranze. Ma tale apice presto raggiunto porta rapidamente alla catastrofe e ad un inesorabile declino secondo un antico schema narrativo tutt'altro che "neorealistico". Ecco dunque giungere il culmine della seconda parte nella scena madre della tempesta e del naufragio (solo immaginato dalle figure femminili in attesa sugli scogli) della barca del protagonista. Le donne scrutano il mare minaccioso in una posa scultorea dando vita ad immagini statiche e compiaciute in cui l'interesse figurativo cancella ogni preoccupazione realistica e trascina il film in un contesto epico e lirico proprio del melodramma.
La terza parte segna il declino e il dissolversi del nucleo familiare secondo uno schema ben altrimenti realizzato nei due capolavori successivi di Visconti ovvero Rocco e i suoi fratelli (1960) e La caduta degli dei (1969). Cola abbandona di nascosto la casa e si unisce a loschi individui, finalmente comprendendo che se non c'è lavoro ad Acitrezza, non resta che cercarlo altrove anzichè continuare a lamentarsi in quello sperduto borgo. Lucia cede alle offerte amorose del brigadiere e forse anche Mara sposerà il suo bel muratore (tutti questi "duetti" amorosi sono filmati con concise sequenze che rimarcano l'incapacità di creare veri, credibili personaggi da parte di questi attori dilettanti). 'Ntoni si trasforma in un personaggio da romanzo esistenzialista (con il suo cappello floscio e i suoi atteggiamenti sofferenti da bel tenebroso in questa fase ricorda impropriamente il protagonista di Ossessione, confermando cosi' il carattere astratto e letterario del personaggio) mentre il suo disordinato vagare rivela un incoerente compiacimento descrittivo: il quadro d'insieme vira nuovamente verso un contesto sovraccarico, tipico del teatro operistico. Dunque egli si aggira senza meta tra la gente del paese, rifiuta ogni lavoro che gli viene offerto (di fronte alla richiesta di fare il meccanico, altezzoso risponde che non ne e' capace perche' e' un pescatore: ovviamente si tratta di un banale lavoro di riparazione di barche che chiunque e' in grado di aprrendere in pochi giorni mentre 'Ntoni si conferma un vero "malavoglia"...), si ubriaca e predica intorno ad un'oscura ambizione di riscatto collettivo dei pescatori che avrebbe generato il suo gesto incompreso di ribellione mentre la famiglia, sfrattata dalla banca, e' affamata. I trenta barili di acciughe vengono svenduti ai grossisti ancora una volta in modo assolutamente inverosimile: i Valastro preferiscono cederli per una cifra irrisoria anziche' andare a Catania a venderli o meglio ancora trattenerli per sfamarsi durante l'inverno (ancora la voce off si contraddice da sola allorchè recita: "quando la fame stringe alla gola, bisogna rassegnarsi all'ingiustizia"; patire la fame e nello stesso tempo vivere in una sorta di deposito di acciughe salate è un interessante enigma che però non sembra avere incuriosito nessun esegeta del film). Ancora prevale l'impianto ideologico, volto essenzialmente a criminalizzare i grossisti ed esaltare i pescatori, a scapito del buon senso.
L'epilogo, con 'Ntoni che accetta di lavorare per i grossisti, costituisce il fastidioso apice della pretesa "denuncia" viscontiana: il capo dei gaglioffi insulta 'Ntoni sotto un'enorme scritta firmata Mussolini che, sbiadita, campeggia dietro le sue spalle, stabilendo così una banale ed errata continuità tra regime fascista e atteggiamenti autoritaristico-mafiosi laddove anzi Mussolini cercò invano di piegare la mentalità siciliana alla fede patriottica come dimostrano l'episodio del prefetto Mori e soprattutto l'immediata caduta dell'isola nelle mani degli alleati (salutati e festeggiati come liberatori) nel luglio 1943. I grossisti semmai rappresentano l'eterna e spietata legge del più forte e del più intraprendente (in fondo il problema centrale della famiglia Valastro, quale emerge involontariamente perfino dal film, è proprio la sua mancanza di iniziativa, la sua scarsa mobilità), legge che in Sicilia opera all'interno del sinistro sistema mafioso.

    testo scritto nel nov. 2006