Paisà e Il sole sorge ancora: la Resistenza e i suoi nemici (1946)
Dopo l'esperimento Parri, il primo governo De Gasperi, sostenuto da tutte le forze presenti nel CLN, inizia concretamente la normalizzazione: nel febbraio 1946 viene eliminata l'inutile commissione epuratrice
(il popolo italiano aveva aderito al regime per vent'anni...) mentre il ministro degli interni Giuseppe Romita sostituisce i prefetti provvisori incaricati al nord dal CLNAI con quelli di carriera (marzo), nonostante le
proteste dei partiti di sinistra. Inoltre il nuovo esecutivo ha il delicato compito di portare l'Italia al referendum istituzionale ed alle prime elezioni democratiche per la Costituente. Il 2 giugno il popolo italiano sceglie
la repubblica (54,3% dei consensi contro il 45,7%) con uno scarto di soli due milione di voti (12.717.000 voti contro 10.719.000; al sud pero' vince la monarchia) mentre i risultati politici assegnano alla DC il 35,2% dei voti
mentre il PSIUP ottiene il 20,7% e il PCI si ferma al 18,9%, l'Unione democratica nazionale (PLI) riscuote il 6,8% e l'Uq (L'uomo qualunque) il 5,1%. Nel luglio viene varato il secondo governo De Gasperi (sempre appoggiato dai
partiti della Resistenza) espressione dei nuovi equilibri politici. La DC guida la difficile e vasta opera di ricostruzione che tuttavia procede spedita, grazie soprattutto agli aiuti americani. Questi ultimi certamente
sono preziosi per l'opera di ristabilimento dell'economia e della vita sociale nella penisola, come in Germania e in Francia; d'altro canto essi sono anche "aiuti" all'economia USA ovvero sono doni in buona parte
interessati: nella repubblica statunitense si concentrano circa i due terzi dei capitali finanziari ed industriali del pianeta, capitali che necessitano di sbocchi in nuovi mercati pronti ad assorbire i prodotti USA poiche' il
solo territorio americano e' insufficiente ad acquistare l'immensa quantita' di beni prodotti come ha drammaticamente dimostrato la crisi del 1929 e i successivi desolati anni della grande depressione dai quali gli USA sono
usciti soprattutto grazie all'impegno bellico in Europa e nel Pacifico. Cosi' l'America aiutando l'Europa aiuta soprattutto se stessa. In ambito cinematografico tutto cio' si materializza nell'invasione di pellicole
hollywoodiane assenti dalla penisola da quasi un decennio, a causa dei rigidi provvedimenti autarchici entrati in funzione il primo gennaio 1939. La cultura cinematografica americana diviene di colpo egemone, stabilendo un
dominio (in Italia come in Europa) che durera' fino ai nostri giorni. A stento le cinematografie nazionali riusciranno a sopravvivere accanto ai prodotti americani ineccepibili quanto a confezione e professionalita'; in ogni
caso scompare la possibilita' di un costante e ricco interscambio tra le produzioni filmiche europee: in ogni nazione accanto alla preponderante presenza americana e a quella obbligatoria e comunque minoritaria della produzione
nazionale non rimane che un esiguo spazio per saltuarie apparizioni di pellicole europee occidentali ed orientali nella seconda meta' degli anni quaranta; e agli inizi del terzo millennio la situazione appare immutata. I popoli
europei consumano, finanziano ed arricchiscono la brillante e complessivamente piacevole produzione delle majors hollywoodiane. Attraverso questa decennale "sudditanza" le genti europee hanno assimilato profondamente
anche l'ideologia liberal (le molte sciocchezze del cosiddetto politically correct, un'ideologia mondialista e spersonalizzante, funzionale alla libera circolazione dei capitali e al conseguente mantenimento del predominio
dell'economia americana in Europa come altrove) insita con ossessiva e moralistica insistenza in quelle pellicole. Il caso cinematografico insomma dimostra secondo modalita' appariscenti l'utilita' a doppio senso degli
"aiuti" americani e conferma nei fatti come quella ricostruzione vada di pari passo con il tramonto di un'autonoma e dinamica cultura europea. Intanto sulla questione di Trieste fin dalla seconda meta' del 1946
risulta evidente la dipendenza di Togliatti dai diktat di Mosca ovviamente favorevole ad un'annessione del porto italiano alla Jugoslavia di Tito. Il PCI, parte integrante del sistema di potere sovietico, appoggia (seppure con
la necessaria cautela trattandosi di posizioni politiche assai impopolari) le richieste antiitaliane di Stalin e questo contribuisce a creare una prima, netta spaccatura tra DC e sinistre, spaccatura che riflette le differenti
e antitetiche alleanze internazionali dei maggiori partiti usciti dalla Resistenza. Gia' nel secondo governo De Gasperi il tripartitismo si manifesta sempre piu' come "una coabitazione forzata" (Piccioni): il nuovo,
aspro contrapporsi di partito cattolico e sinistre riflette le nascenti tensioni internazionali della guerra fredda.
Dopo il successo di Roma citta’ aperta, Rossellini prosegue la sua riflessione sull’orrore della guerra con un film piu’ impegnativo e complesso, Paisà (134 min.), in cui si racconta la presenza
degli alleati in Italia e la loro collaborazione con la Resistenza in sei episodi ordinati cronologicamente tra il luglio 1943 e il dicembre 1944, nonche’ geograficamente procedendo da sud a nord (Sicilia, Napoli, Roma,
Firenze, Romagna, Delta del Po). Le sei parti possono esse divise in due trittici: il primo, “meridionale”, esamina i complicati rapporti tra soldati americani e popolazione civile italiana; il secondo, “settentrionale”, mette
in scena lo scontro bellico, l’alleanza sul campo tra partigiani e alleati contro i tedeschi, ponendo al centro di questa seconda trilogia il quieto pannello del monastero, variazione mistica sul tema del conflitto tra vecchio
e nuovo mondo, tra dogmatismo e relativismo. Entrambi i trittici sembrano ispirati a strutture musicali: il primo rimanda a una serie di tre variazioni sul medesimo tema; la seconda, con la sua alternanza di due “tempi” veloci
che ne incorniciano uno lento, evoca la tipica struttura del concerto musicale (allegro-adagio-allegro). Il film, presentato alla mostra di Venezia (settembre 1946), divide la critica tra entusiasmi e riserve. In effetti
l’opera e’ originale e ambiziosa nella sua complessa struttura ma spesso risulta inadeguata nella concreta realizzazione, a cominciare da attori e dialoghi mediocri, per finire alla costruzione piuttosto approssimativa
dei brevi racconti. Nella scrittura semimprovvisata del regista e’ normale cogliere una forte discontinuita’, tra felici oasi liriche e momenti di imbarazzante goffaggine. Ciononostante nel tempo prendera’ corpo una riflessione
apologetica sullo stile “sperimentale” e sulla supposta capacita’ di cogliere senza diaframmi il vero (pia illusione essendo il cinema sempre e soltanto ricostruzione di una realta' fittizia a partire da un preciso quadro
ideale), dimenticando che tale scrittura era largamente mutuata dal cinema del primo De Robertis ed era gia' presente, come si e' visto in precedenza, nella trilogia fascista (1941-3) del regista romano. Tuttavia l'apprezzato
stile del Rossellini del periodo 1945-53 (insieme ovviamente al non secondario sostegno dato alla cultura resistenziale) verra' ampiamente esaminato dai critici francesi dei "Cahiers du cinema" e influenzera' perfino
numerose novita’ linguistiche della futura nouvelle vague della fine degli anni cinquanta, i cui protagonisti saranno ancora quei critici cinefili divenuti cineasti (tra gli altri Godard, Truffaut, Chabrol e Rohmer).
Analizzando spassionatamente le pelliccole rosselliniane ci sembra al contrario che questa tendenza all’improvvisazione sul set, alla “casualita’ vera” sia un limite e non un pregio, sia solo un girare frettolosamente che
finisce con il lasciar filtrare sullo schermo gesti stereotipati e non rielaborati dalla volonta’ artistica dell’autore il cui compito dovrebbe essere proprio quello di formare la materia, di dirigerla con forza in una
direzione espressiva precisa. Ci sembra infine che proprio negli "sperimentalismi" di questa nuova scrittura vadano ricercate le cause del precoce invecchiamento di tanto cinema "neorealistico" rosselliniano.
L’episodio siciliano e’ tra i meno convincenti. Domina il malinteso e l’equivoco: la popolazione locale confonde tedeschi e americani, rivelando l’indifferenza allo straniero e l’abitudine secolare
a sopportarlo; il lungo dialogo tra Carmela e Joe inizia all’insegna di una totale incomprensione per tramutarsi lentamente in un’affettuosa intesa bruscamente interrotta dal colpo di fucile tedesco. I soldati americani,
trovando il corpo esanime del loro compagno, credono che sia stato ucciso da Carmela. I dialoghi sono banali e recitati senza convinzione (mancano come gia’ in Roma citta’ aperta, molti dei necessari sottotitoli) da
attori dilettanti; la descrizione di americani e tedeschi e’ improntata al piu’ servile manicheismo (umanissimi gli uni che si consumano nella nostalgia della terra natale, brutali stupratori gli altri pronti ad approfittare di
Carmela), difetto questo perpetuato nell’intero film il quale appare dunque anche come un’opera di semplice propaganda nei confronti del nuovo ceto dirigente, in tal senso ben poco “realistica” o “neorealistica” se si
preferisce. Nel migliore episodio napoletano assistiamo ancora al rimpianto per la casa lontana di un soldato di colore al quale un ragazzino, parente degli sciuscia’ desichiani, ruba la scarpe. I due vagabondano insieme, si
parlano ma in fondo non si capiscono. Nel finale il soldato obbliga il giovane a portarlo a casa sua per riavere le sue scarpe e scopre allora una realta’ profondamente degradata; commosso il sensibile militare scappa via. Al
di la’ di questo finalino roseo, il racconto e’ probabilmente il migliore dei sei: l’ambientazione nelle strade e’ realmente efficace; l’incomunicabilita’ tra il soldato e il ragazzo è dipinta con accenti sobri e credibili;
gli attori sono all’altezza dei loro ruoli e i dialoghi sono limitati al minimo; infine il cinico pragmatismo del giovane trova nelle ultime, miserabili immagini (la sudicia abitazione collettiva, la rivelazione intorno ai genitori persi in un bombardamento) un’esauriente spiegazione.
Anche l’episodio romano, seppure viziato da una trovata profondamente inverosimile (un soldato si innamora di Francesca, una ragazza romana, nel “luminoso” giugno ’44; la ritrova sei mesi dopo abbruttita dalla miseria e
dalla prostituizione e, ubriaco, neppure la riconosce), ricorrente nel cinema dei primi anni quaranta e di derivazione operistica (La nave bianca dello stesso Rossellini; Marinai senza stelle di De Robertis), si
lascia tuttavia apprezzare per il duro cinismo che anima l’agire della ragazza: scoperta l’identita’ del soldato e il suo amore per la Francesca “pulita” di sei mesi prima, la giovane che conduce un’esistenza disperata, tenta
di ingannare il soldato, dandogli un appuntamento nella casa in cui si erano incontrati allora. Lei, vestita da brava ragazza, lo attende con ansia ma lui non andra’. L’inganno prevale nei rapporti tra gli italiani, provati da
quattro anni di guerra e i soldati americani, portatori di un nuovo benessere. Sul fondale della terza parte i locali popolati da musica swing, soldati gaudenti e ragazze italiane “disponibili” indicano l’entrata della penisola
nel “secolo americano”. Con il quarto episodio ambientato a Firenze nei giorni dei combattimenti tra partigiani e fascisti, il film entra nella seconda parte. L’attenzione si sposta dai singoli personaggi alla situazione
corale, all’interno della quale le singole figure funzionano da semplice pretesto. Cosi’ l’uomo e la donna alla ricerca dei propri cari nella citta’ spettrale e sconvolta servono unicamente a condurci all’interno di una feroce
guerra civile descritta con accenti crudi ed efficaci. La minacciosa e suggestiva colonna sonora (come sempre di Renzo Rossellini) sottolinea la tensione, mentre con
accenti disincantati l'autore mostra la crudelta’ e l'esasperazione presenti in entrambe le fazioni in lotta. Raramente la guerra civile italiana trovera’ una pittura piu’ concisa e agghiacciante di quella che ritrae la fredda esecuzione dei due cecchini fascisti che conclude nel sangue l’episodio fiorentino. In queste improvvise e brutali immagini il regista romano osa raccontare senza infingimenti la ferocia che domina gli animi di tutti, pervasi dallo spirito negativo di una guerra densa di rancori a lungo covati. Sullo sfondo i capolavori della Galleria degli Uffizi, impacchettati e muti, ricordano che questa umanita' ferita ha smarrito ogni interesse per i prodotti della creazione artistica. In fondo lo stile dimesso e cronachistico di Rossellini, teso a documentare e ad ammonire, ne e' la piu' concreta riprova.
L'episodio del convento, necessario momento di distensione lirica, si apre tuttavia con le immagini di alcuni carri armati: anche la quiete atemporale presente nel luogo sacro e' assediata dagli eventi bellici. Inoltre il
racconto del confronto tra i tre cappellani militari americani, uno cattolico, uno protestante e uno ebreo, e il candore privo di dubbi dei francescani e' tutt'altro che estraneo al nuovo contesto sociale che si va determinando
(peraltro il difficile dialogo tra mondo religioso e alleati angloamericani era stato raccontato anche in Un giorno nella vita di Blasetti, uscito qualche mese prima e probabile ispiratore dell'episodio rosselliniano).
L'interpretazione critica piu' diffusa di questo incontro appare generalmente sfocata, essendo portata a considerarlo come un semplice, grazioso intermezzo nella bufera del conflitto. Al contrario, proprio la scelta di aprire
con immagini belliche anche questo breve racconto prova la coscienza degli sceneggiatori che anche il conflitto teologico che prende corpo tra le mura del convento e' strettamente connesso con l'arrivo degli alleati e con
l'inevitabile diffondersi della loro cultura. I francescani, dogmatici, certi della loro fede e scandalizzati dalla presenza di "infedeli" tra le loro sante mura (in particolare l'avversione al religioso ebreo porta
con se' gli echi della lunga propaganda antisemita inaugurata con le leggi razziali del 1938) rappresentano il vecchio mondo fatto di isole separate e controllate da un unico pensiero forte; l'intrusione delle due altre fedi
nel convento racconta simbolicamente la fine del predominio cattolico in Italia e la necessita' di quell'universo chiuso di confrontarsi ora con un pensiero sociale e religioso pericolosamente relativistico. In fondo in qesto
geniale incontro-scontro si puo' vedere in controluce la storia cattolica dei decenni successivi e il necessario approdo al Concilio Vaticano Secondo (1962-5) quale successiva, obbligatoria fase di apertura al modernismo, alla
tolleranza della pluralita' dei pensieri, Concilio che permettera' tuttavia alla Chiesa di sopravvivere (seppur depotenziata) e di mantenere buona parte della presa sulle popolazioni europee. I simpatici e sprovveduti monaci
rappresentano un universo che tramonta. Mentre la vicenda trasporta a livello spirituale lo scontro di civilta' in atto (da un lato le rigidita' dottrinali e l' "autarchia" del vecchio mondo, dall'altro il
pragmatismo spregiudicato del nuovo), inserendosi percio' compiutamente nella seconda parte, corale e bellica, del film, lo stile invece conferma quanto gia' detto: l'idea narrativa, a suo modo profonda, e' minata dalla
realizzazione scadente, tra veri francescani (del convento di Maiori, vicino Amalfi) incapaci di recitare e dialoghi goffi e imbarazzanti. L'ultimo episodio, come il primo, racconta il conflitto tra americani e tedeschi; ma
mentre in Sicilia il popolo confuso e prudente si manteneva in disparte, nelle terre del Polesine, sul delta del Po, molti sono i partigiani che lottano al fianco degli alleati. Rossellini, ora guidato da un'intensa e dolorosa
ispirazione (indimenticabile la fulminea e straziante immagine della bimba che piange i propri cari tra le macerie di una probabile rappresaglia nazista), dipinge una vera guerra popolare ambientata a cielo aperto tra le
paludi, in un suggestivo paesaggio fatto di aria e di acqua. I personaggi si dissolvono e lasciano il posto a semplici figure su fondali aperti: da un lato gente semplice e vitale, decisa a riappropriarsi delle proprie terre;
dall'altro la nera imbarcazione a motore dei nazisti, emblema del male assoluto. Le immagini si rincorrono poetiche e prive di una trama ben delineata; sono solo suggestioni nel confronto tra una cultura della vita e una della
morte. L'episodio, inaugurato dalla terribile immagine di un partigiano morto, trasportato dalle acque del Po, si chiude sugli altrettanto orrendi, muti tonfi dei corpi dei resistenti prigionieri, sommariamente giustiziati dai
tedeschi (gettati in acqua con le mani legate dietro la schiena). Su queste immagini di un orrore quasi metafisico termina uno dei piu' celebrati e sopravvalutati lavori della cultura neorealistica (anche se nei fatti assai
poco visto e apprezzato dal grande pubblico). Eppure anche la forza di quest'ultimo episodio emana proprio dal suo antirealismo, volgendo verso un'astratta e metafisica rappresentazione dell'eterna lotta del Bene e del Male,
lontana dalla problematica e articolata complessita' della realta' umana e storica (l'affresco rosselliniano non da' mai la parola alla parte avversa, riducendo l'Italia arruolata nella RSI a insondabili e stereotipati emblemi
di una cieca crudeltà).
Dopo il 1945 Aldo Vergano, autore del patriottico, Quelli della montagna (1943; vedi), dignitoso esempio di propaganda bellica, si schiera a sorpresa con la sinistra piu' radicale, in difesa di quei valori del movimento partigiano che già verso la fine dell'anno seguente cominciano a venir archiviati. Infatti la sua terza pellicola,
Il sole sorge ancora (circa 90 min.), viene prodotta dall'ANPI. Sebbene generalmente considerato un film "importante" (seppur quasi "invisibile" da alcuni decenni), e difeso strenuamente da coloro che
ne condividono l'impostazione ideologica, esso costituisce in realtà un esempio deleterio di cinematografia resistenziale. I difetti già rilevati nei lavori di Rossellini si ritrovano, portati al parossismo, nella goffa
pellicola di Vergano (sceneggiata dall'autore insieme con Guido Aristarco, Carlo Lizzani e Giuseppe De Santis, quest'ultimo anche aiuto regista), nella quale i nazisti sono un branco di sadici e psicopatici, i capitalisti un
gruppo di meschini affaristi mentre solo nella classe operaia si manifestano le qualita' dell'innocenza, della purezza e dell'umanitarismo. Film giustamente dimenticato rappresenta tuttavia un esempio significativo di cinema
marxista e militante nel quale la passione politica trascina ad una distorsione del reale spesso francamente ridicola. Tutto cio' e' tanto piu' grave trovandosi l'autore a trattare (o meglio strumentalizzare) una materia
cosi' tragica e dolorosa. La vicenda, racchiusa opportunamente tra l'8 settembre e il 25 aprile (meglio dimenticare l'esistenza di un'Italia in precedenza ampiamente sedotta dal regime fascista), tenta di raccontare la
"rinascita" di un popolo desideroso di ritrovare la liberta' insieme ad un ordinamento sociale ugualitario: nella bassa lodigiana occupata dai nazisti (RSI) il reduce Cesare e' indeciso tra un'esistenza grigia accanto
alla ricca e sensuale Matilde e la partecipazione attiva alla Resistenza insieme a Laura, solare donna del popolo; scegliera' ovviamente la seconda e partecipera' alle gloriose giornate della liberazione mentre Matilde
cerchera' deliberatamente la morte. La scrittura del regista abbina un fondale fortemente realistico, colto nei luoghi reali popolati da gente semplice e fotografato con toni accesi e contrastati, a personaggi risibili e ad un
intreccio scontato e largamente debitore nei confronti dell' "inverosimile" teatro lirico. Il risultato, per molti aspetti simile (ma in via peggiorativa) a Roma citta' aperta, e' un "dissonante" sovrapporsi di gesti grotteschi ed enfatici sopra un fondale dipinto con ammirevole verismo.
La pellicola annovera qualche buona sequenza, quasi sempre di taglio documentaristico-corale. Resta impresso soprattutto l'episodio della fucilazione di don Camillo (ancora un sacerdote vicino ai
partigiani come in Roma citta' aperta) che va al patibolo recitando il rosario insieme ad una folla sdegnata e in sincera trepidazione. Di nuovo il cinema resistenziale (si ricordi anche Un giorno nella vita) finisce con
l'indicare nel diffuso cattolicesimo il piu' efficace elemento di coesione popolare di una nazione sconvolta e provata. Per il resto l'azione dei tre personaggi principali si incanala negli stereotipi dell'opera lirica
ottocentesca: 1) l'amore impossibile tra Cesare e Matilde, appartenenti a fazioni contrapposte (partigiani e fascisti) nella prima parte (I Capuleti e i Montecchi, ancora e sempre, musicati ad esempio da Bellini [1830],
Gounod [1867] e Zandonai [1922]); 2) lo scontro tra Matilde e Laura ovvero tra la donna sensuale e depravata e la fidanzata casta e ragionevole come accadeva nella celebre Carmen (Bizet, 1875; ma anche in molte altre partiture liriche); 3) il suicidio di Matilde in una scena madre (affacciata alla finestra durante i combattimenti, alla ricerca della pallottola mortale) degna di un finale d'atto. Dunque "neorealismo" moderno e progressista a parole, incapacita' di fuoriuscire da una logora tradizione narrativa nei fatti.
Spostandoci ad esaminare la contrapposizione tra universo popolare e mondo altoborghese, ci troviamo di fronte a ritratti talmente preconcetti da risultare irritanti. I padroni sono ridotti a individui insignificanti e
corrotti, immersi in fatue feste nelle quali risuona continuamente il molle e magnifico Mood Indigo di Ellington (1930), divenuto per l'occasione simbolo della decadenza borghese (!!) e forse della predisposizione degli
industriali ex fascisti all'accordo con i futuri vincitori americani (ma tale illazione non appare suffragata da alcun atteggiamento dei padroni, a parte il loro scontato voltar gabbana allorche' percepiscono che l'arrivo degli
alleati e' prossimo). Ne' mancano momenti di involontaria comicita': mentre sono in corso i furiosi combattimenti che porteranno a un nuovo ordine sociale e alla probabile rovina di chi aveva sostenuto troppo apertamente il
fascismo, il padre di Matilde dichiara con serioso masochismo, non disgiunto da un fare "didascalico", l'utilita' di tali rivolgimenti ("la nostra famiglia ne ha un certo bisogno"). Al contrario una virile
franchezza anima tutti, ma proprio tutti i rappresentanti dei ceti popolari. L'abissale differenza di qualita' umane e' tale che ci si chiede come gli uni, tanto stolti, siano stati in grado di sviluppare le loro importanti
attivita' imprenditoriali e come gli altri, cosi' seri, preparati e ben organizzati, siano rimasti nell'ambito lavorativo dei semplici operai. La descrizione dei tedeschi, popolo certamente duro e spesso anche razzista, propone
una galleria di mostri animati da un'inesauribile, gratuita sete di sangue (un loro ufficiale si esibisce in un sadico tiro al bersaglio nei confronti di partigiani legati a dei pali: di colpo sembra di essere finiti in un
campo Sioux..); inoltre Vergano, seguendo il cattivo esempio di Rossellini, sceglie di non sottotitolare dialoghi anche piuttosto lunghi dei nazisti, al fine di renderli ancor piu' estranei, lontani e incomprensibili,
rappresentanti astratti di un Male assoluto e metafisico; tutto cio' a scapito di un doveroso scavo psicologico e di una ricomposizione di un quadro generale credibile nel doloroso concatenarsi di cause ed effetti, aspetto
necessario quest'ultimo in una pellicola che si pretende "neorealistica". Seppure in modo imbarazzante Il sole sorge ancora (insieme ai film coevi di De Santis, Visconti, De Sica ecc.) documenta fin dalle
origini la netta scelta di campo del nascente cinema italiano postbellico ovvero la nobile predilezione per i ceti umili, non disgiunta pero' da un'aperta ostilita' verso ogni forma di iniziativa privata commerciale o
industriale, finalizzata a creare ricchezze personali. E' una scelta classista che indica l'adesione della maggioranza degli uomini di cinema ai valori fondamentali dell'universo culturale del potente partito comunista
italiano. Nei decenni successivi la ricostruzione filmica del reale verra' quasi sempre innervata da sottintesi di carattere marxista.
La modesta statura del regista romano trova inoppugnabile conferma nei mediocri film successivi tra i quali I fuorilegge (1950) ambientato nella Sicilia di Salvatore Giuliano e Amore rosso (1953), una
melodrammatica vicenda di amori e banditi in Sardegna ispirata al romanzo Marianna Sirca (1915) di Grazia Deledda. Aldo Vergano muore a Roma nel 1957.
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