Addio giovinezza

Addio giovinezza e Sissignora: melodrammi pucciniani (1940-42)

                “E io, senti, voglio più bene a te che al cinematografo, che ai miei due vestiti nuovi, che al mio manicotto bianco, che al teatro, alla Bohème, al ballo, alla giostra”
                (Dorina a Mario, mentre passeggiano al Valentino)
                 

Ferdinando Poggioli nasce a Bologna il 15 dicembre 1897. Si dedica al cinema dopo la svolta del sonoro, dapprima come aiuto regista e montatore; poi come documentarista. L’esordio in qualità di autore avviene con Arma bianca (1936), elegante trascrizione filmica della commedia Casanova a Parma di Alessandro De Stefani. Il secondo film giunge solo tre anni dopo con Ricchezza senza domani (1939), pellicola centrata intorno ad un industriale in crisi coniugale il quale, precedendo quello del Teorema (1968) pasoliniano, regala la propria fabbrica agli operai.
Il terzo lungometraggio dei regista, Addio giovinezza (dicembre 1940; 88 min), offre un’intensa versione filmica dell’omonima commedia (1911) di Sandro Camasio e Nino Oxilia la quale era già stata portata sullo schermo tre volte sempre nell’era del muto (1913, 1918 e 1927; la prima versione è dello stesso Camasio, le altre sono di Augusto Genina). I due commediografi (entrambi morti giovanissimi poco dopo la prima rappresentazione del lavoro, Camasio nel 1913 e Oxilia nel 1917) si sono ispirati nel loro racconto dolceamaro alla Bohème di Puccini (1896) e alle Scenes de bohème di Henri Murger (uscite a puntate nel periodo 1845-49) come risulta dalla versione sceneggiata da Salvator Gotta, dallo stesso regista e dallo scrittore ebreo Giacomo De Benedetti (non accreditato a causa delle vigenti leggi razziali). Così la Parigi del quartiere latino si è trasformata nella Torino del 1910, i gaudenti artisti in studenti altrettanto scapestrati e la fioraia Mimì nella sartina Dorina. Lo schema del libretto approntato per Puccini da Illica e Giacosa viene abilmente variato, pur mantenendo l’impianto generale in quattro episodi: assistiamo dunque all’incontro e all’innamoramento dello studente Mario e di Dorina (prima parte), alla loro “estate” d’amore (seconda parte), ai loro litigi allorchè il giovane, due anni dopo, perde la testa per una ricca ed elegante signora (Clara Calamai) cui segue la dolorosa rottura tra i fidanzati (terza parte) ed infine, dopo una lunga separazione, l’improvviso e fugace ritrovarsi nello struggente finale quando il giovane, ora laureato, sta per lasciare definitivamente Torino (quarta parte).
Poggioli filma questo poema della giovinezza con modi garbati, sapendo alternare il brio canzonato delle pagine iniziali e la luminosa gioia di quelle subito seguenti con il travaglio di una felicità definitivamente incrinata dal tradimento nella parte centrale per approdare alla devastante desolazione intima della protagonista, espressa da sottolineature piene di pathos misurato e da commossi primi piani valorizzati da una fotografia dai toni sfumati e crepuscolari. Se il regista evita il finale tragico presente nella celebre opera di Puccini, ciononostante l’incontro finale dei due giovani possiede un’intensità che si avvicina alla grande scena della riapparizione di Mimì nel quarto atto di Bohème ovvero a una delle pagine più drammatiche e sconvolgenti dell’intera storia del melodramma italiano. Dorina non muore di tisi; tuttavia il suo sentimento di disperazione è così totale che l’intero episodio conclusivo ne è scosso, tanto più che tale stato d’animo si incunea entro i festeggiamenti di amici e parenti per la sospirata laurea di Mario, risultandone, per contrasto, ulteriormente rafforzato (non diversamente l’irrompere di Mimì interrompeva una scena giocosa della allegra brigata riunita nella sofitta di Rodolfo e Marcello).
Vi sono inoltre altri momenti di esplicito e non casuale omaggio al mondo della lirica: il primo ed unico incontro tra Mario e la donna fatale avviene al teatro Carignano durante una recita del Barbiere di Siviglia (Rossini, 1816) del quale si ascolta proprio l’aria amorosa dl conte (“Se il mio nome saper voi bramate”) il quale, come il giovane studente, sta per incontrare furtivamente la donna amata, tenuta “sotto chiave” da un uomo anziano (Bartolo). Più avanti é ancora la musica del Barbiere rossiniano (la popolare cabaletta di Rosina “Io sono docile”) a essere l’oggetto della parodia di una goliardica messa in scena studentesca la quale nuovamente coinvolge gli amanti segreti a dispetto dei loro partner ufficiali.
Buona parte del futuro grande cinema italiano, da Visconti a Bertolucci, da De Sica a Bellocchio, da Fellini a Leone, prenderà le mosse dal morente universo della nobile tradizione melodrammatica e svilupperà il racconto in musica nel racconto in immagini (esaltate da intense e geniali colonne sonore), mantenendo intatta l’enorme, travolgente carica emotiva che aveva fatto la fortuna del teatro lirico italiano in Europa nei due secoli precedenti. In tal senso Addio giovinezza costituisce un episodio fondamentale di questo cinema italiano d’autore: Poggioli è tra i primi a intuire questa possibilità e a realizzarla ricalcando il capolavoro assoluto dell’epoca verista in una pellicola percorsa da un’autentica vena di commozione e intrisa della medesima grazia e mestizia che segnavano i capolavori del grande operista di Lucca.
Il film, girato in esterni a Torino, come si è detto descrive con dovizia di particolari un mondo studentesco animato da sentimenti sereni e giocosi. Il piccolo affresco di questi giovani totalmente assorbiti dai loro innocui scherzi e dai loro entusiasmi amorosi appare completamente inattuale nell’Italia entrata in guerra da pochi mesi nonché, da alcuni anni, afflitta dalla rigida e ottusa politica antiborghese del fascismo. Pertanto la pellicola di Poggioli appare realmente antifascista nel provocatorio isolarsi da tutte le indicazioni etiche della rivoluzione mussoliniana per riandare, nel momento più pericoloso “per le sorti della Patria”, a un’epoca prefascista, quieta, vagamente scettica e pervasa da un evidente edonismo; insomma, in piena bufera antiborghese, Poggioli si permette il lusso di firmare un film ultraborghese, avulso da ogni bellicismo e nel quale per giunta compare un’evidente nostalgia per un’era “lieve”, pacifica e meno ideologizzata alla quale il regime generalmente guardava in modo freddo quando non ostile.
Mentre larga parte della critica postbellica si ostinerà a cercare inesistenti tracce di antifascismo nelle pellicole di Rossellini, Blasetti e Camerini precedenti il 1945 al fine di giustificare un recupero e una valorizzazione di tali autori nella nuova era democratica e repubblicana, nessuno si ricorderà di Poggioli (morto forse suicida nel febbraio 1945) e del suo cinema silenziosamente alternativo.
Circa un anno dopo Poggioli firma un secondo “melodramma” di sapore pucciniano, Sissignora (febbraio 1942; 90 min.) nel quale pone in immagini La servetta di Masone (1940; edito a puntate su Il lavoro) di Flavia Steno, sceneggiato da Alberto Lattada (qui anche aiuto regista) ed Emilio Checchi. La centralità di una figura femminile dimessa, umile e fragile accomuna i due film anche se il secondo - nettamente inferiore - appare meno personale (il nome di Poggioli tra l’altro non compare tra gli sceneggiatori) e più allineato alla poetica del regime.
La giovane Cristina Pugno (Maria Denis) è una cameriera alle prime armi. Grazie all’interessamento di un centro cattolico che aiuta le giovani più sfortunate a trovare una collocazione dignitosa, cambia tre differenti padroni che costringono la ragazza a una progressiva discesa agli inferi. Dapprima due anziane bisbetiche (le bravissime sorelle Grammatica) la obbligano a vivere come una reclusa, le riducono al minimo gli spazi di libertà e ne controllano ogni movimento. In quella casa Cristina ha la sfortuna di innamorarsi - ricambiata - del loro nipote Vittorio (Leonardo Cortese). Ne segue il prevedibile licenziamento. Dopo essere passata nella dimora di gente ricca e indebitata che non la paga, finisce a casa di una vedova benestante (Evi Maltagliati) la quale trascura in modo colpevole il proprio figlio per dedicarsi anima e corpo all’amante (Roldano Lupi). Quando il bambino si ammala di scarlattina, la fa curare alla domestica, nascondendole i pericoli di contagio. Nel finale - per la verità piuttosto sbrigativo e artificioso - Cristina si ammala e muore in ospedale.
Il tratteggio della protagonista, eroina umile e delicata, è ben fatto sebbene l’attrice non sappia sempre conferire umana verità al difficile personaggio. Troppo generosa, essa si spende fino all’estremo per la bambina malata e accetta perfino di rinunciare all’amato per non comprometere l’equilibrio familiare in casa delle due bisbetiche. Intorno a lei si gioca un balletto infausto che ripropone gli archetipi del coevo cinema fascista: la media borghesia benestante ed egoista pensa solo a futili piaceri, trascura i propri figli, intralcia le sincere unioni in nome di un rigido classismo; anche il mondo cattolico, all’inizio guardato in modo positivo (provvede a trovare adeguate sistemazioni a donne del popolo prive di ogni sostegno) si tinge poi di tratti opprimenti e disumani quando suor Valeria (Rina Morelli), che gestisce il centro accoglienza delle giovani, obbliga Cristina a sacrificare il proprio legame amoroso per rispetto delle due bisbetiche (e all’insaputa del fidanzato). E‘ quest’ultimo un passo filmico poco credibile (in una pellicola già “neorealista”, attenta alla verosimiglianza di personaggi e ambienti) nel quale sembra emergere un tono di anacronistico anticlericalismo (buona parte del cinema italiano - come si vedrà - sta invece guardando al Papato come al possibile rifugio, nella bufera della tragedia bellica). Per spiegare questa forzatura narrativa si può congetturare che Poggioli, omosessuale infelice, si sia in parte identificato nelle peripezie della dolce Cristina, nelle crudeli umiliazioni che le tocca subìre e abbia, alla fine, proiettato nell’ottusa suor Valeria il sentimento dolente di una propria emaginazione sociale (certamente una delle cause del suo suicidio, nel 1945). D’altronde la Chiesa di Pio XII, severo baluardo della visione tradizionale del mondo, doveva essere percepita dal regista come una comunità ostile.
Di contro il mondo popolare, ben descritto nella Genova popolare dei mercati rionali e delle balere domenicali, offre figure tutte positive, volte a una fattualità semplice ed efficace, estranea a ogni problematica classista. In tal senso la domestica di Sissignora è una stretta parente della sartina di Addio giovinezza. In entrambi i film poi una elegante qualità figurativa incornicia le proprie figure, guardandole sempre un po’ da lontano e ricorrendo al primo piano solo per i momenti di massima tensione emotiva. Questo creativo uso della distanziazione trova un proprio superbo apice nell’episodio finale: Cristina, malata, nerovestita, si trascina verso il porto per salutare l’ex fidanzato in partenza (è un marinaio) mentre intorno a lei incombenti sagome nere (attrezzi, macchinari in disuso, àncore)  segnano il paesaggio in modo luttuoso, preannunciando la sua morte.
Sissignora è quindi un melodramma filmico: lo conferma oltre al soggetto “pucciniano”, anche la bella colonna sonora dell’operista Felice Lattuada (padre di Alberto), la quale conferisce i toni giusti, ora distesi, ora cupi, ora elegiaci, alle immagini. Lo conferma infine l’obbligatoria morte di Cristina, tesa a creare un climax conclusivo che - come si è detto - funziona poco. In Addio giovinezza un Poggioli più originale aveva evitato di far morire la sua sartina e ciononostante aveva saputo descriverne in modo sublime (nella parte finale) le sofferenze amorose.
In ogni caso anche il nuovo lavoro è opera complessivamente di buon valore (Piovene sul Corsera dell’epoca parla di “film d’alta classe, che bisogna vedere”), in quanto sa raccontare con sincera partecipazione la dolente odissea degli “umiliati e offesi”, di coloro che non sanno difendersi, che non riescono a opporre un’adeguata difesa alla marea montante degli altrui egoismi e finiscono per soccombere. E’ probabile che Poggioli percepisse questa tormentata poetica come parzialmente autobiografica.