Altri tempi, Cinque poveri in automobile e Noi due soli

Due mogli sono troppe, Gli eroi della domenica, Altri tempi, La fiammata, Vendetta... sarda, Cinque poveri in automobile, Noi due soli, Lo sai che i papaveri...  ed E’ arrivato l’accordatore: un dramma e alcune farse di diseguale valore (1951-52)

                “Da un punto di vista del tutto generale, la
                 nostra civiltà è edificata sulla repressione
                 delle pulsioni... Colui che, in virtù della sua
                 costituzione indomita, non può adeguarsi a
                 questa repressione pulsionale, diventa un
                “criminale”, un “fuorilegge” di fronte alla
                 società...”
                S. Freud, La morale sessuale “civile” e
                il nervosismo moderno
                (1908)

Dopo la parentesi del teso e violento Brigante Musolino (1950, vedi), Camerini torna ai propri soggetti abituali con Due mogli sono troppe (settembre 1951; 90 min.) infelice coproduzione italo-inglese che si basa su un classico canovaccio da opera buffa, nel quale anche il contributo sonoro di uno specialista di farse musicali quali Nino Rota non offre elementi di rilievo.
Il sergente David Fry (Griffith Jones), in viaggio di nozze, parte da Dover e giunge al paesino di Poppi del Sangro (nome di fantasia) situato da qualche parte nei dintorni di Cassino. Vuole mostrare alla paziente moglie Katharine (Sally Ann Howes) i luoghi in cui ha combattuto e quel paesino in particolare dove - dopo averlo “eroicamente liberato” dai tedeschi (che se ne erano andati praticamente senza combattere) - si è trattenuto per circa tre mesi, ospite della famiglia Maggini. Giuntovi, scopre con sorpresa che tutti lo attendono da quattro anni, credendolo padre del bambino Churchill (Freddie Meloni) e marito di Rosina Maggini (Lea Padovani). Quest’ultima aveva inventato il matrimonio con il sergente inglese per nascondere la poco onorevole condizione di ragazza madre. Lo stesso giorno rientra al paese, dopo anni, Rocco (l’irlandese Kieron Moore), il vero padre del bambino: dopo innumerevoli e prevedibili malintesi, tutto si aggiusta nel migliore dei modi.
La pellicola è fiacca e anzi, in numerosi punti, decisamente irritante. Se il soggetto e la sceneggiatura, nel loro complesso, sono opera di Suso Cecchi d’Amico, Franco Brusati e Antonio Pietrangeli, vi sono tuttavia numerosi interventi degli inglesi Denis Freeman, Noel Langley e John Hunter ai quali sicuramente dobbiamo attribuire la stereotipata rappresentazione del popolo italiano come composto da una massa di gente litigiosa, violenta, “pittoresca” e ottusa. Tutto il lungo, insopportabile episodio della stazione (la coppia inglese, descritta come perfettamente flemmatica, invano attende di poter ottenere un passaggio in auto verso Poppi mentre i “villici” si scatenano in ogni sorta di volgare e rumoroso bisticcio) sembra appartenere a qualche sciocco film inglese girato in Italia (si pensi, in epoca più recente, alla pessima ambientazione fiorentina di Camera con vista, Ivory, 1985) ed è certamente deprecabile che un buon autore come l’italianissimo Camerini si sia prestato a filmare una simile sceneggiata.
L’insieme del film è insomma modesto, quando non scadente; tuttavia qualcho simpatico tocco cameriniano c’è, a cominciare dall’ottima interpretazione dei due attori inglesi: risulta infatti spassosa la caratterizzazione del protagonista - un tipo simpatico, logorroico e testardissimo (riesce, con vari stratagemmi, a deviare il viaggio di nozze dalle mete programmate di Venezia e Roma a quella di Poppi) che ammorba chiunque trovi con il dettagliato racconto delle sue imprese belliche - caratterizzazione che si completa con quella della paziente moglie che lo sopporta con evidente rassegnazione e perfetto self control.
Commercialmente parlando, il film fu un totale fiasco. In Inghilterra uscì con l’appropriato titolo Honeymoon Deferred.
Non andò troppo bene neppure Gli eroi della domenica (dicembre 1952; 98 min.) che invece si basava su un cast di tutto rispetto e su un argomento - il calcio - che era all’apice della popolarità. In realtà anche questo film è modesto (anche se certamente molto migliore del lavoro “inglese”) e ricopia in modo abbastanza evidente la struttura narrativa dei recenti, felici successi di Emmer (Domenica d’agosto, 1950; Parigi è sempre Parigi, 1951). Camerini si fa aiutare in sede di soggetto e sceneggiatura ancora da Franco Brusati, cui si aggiungono Ennio De Concini, il giovane Dino Risi ed altri.
La vicenda corale si dipana lungo il weekend decisivo per la squadra dei falchi grigi che deve affrontare il Milan a San Siro, partita dalla quale si decide la sua permanenza nella serie A. Gino Bardi (il popolare Raf Vallone, ex calciatore del Torino) è l’uomo di punta della piccola squadra di provincia, il centroavanti i cui gol dovrebbero mettere in ginocchio la potente compagine meneghina (in campo figurano proprio i giocatori del Milan). Così intorno al giocatore si organizza buona parte della narrazione: c’è l’avida amante (Cosetta Greco) che cerca di corromperlo (gli propone - per conto d’altri - tre milioni purché non segni), c’è un malessere cardiaco che lo obbligherebbe a star fuori dal campo, ci sono i tifosi che sono giunti in massa solo per vederlo segnare, c’è l’innamorata (Elena Varzi) che spera di prendere il posto della screditata amante. Intorno a Bardi di organizza tutto il finale (il match) che assume anche alcune sfaccettature tese e drammatiche, convenzionali ma rese dall’autore con indubbia maestria.
Per il resto la pellicola descrive tipi pittoreschi, giunti nel capoluogo lombardo (di cui si vedono solo stadio e dintorni) con l’idea di divertirsi a tutti i costi: ci sono due accaniti tifosi (Paolo Stoppa, Gianni Cavalieri) in fuga da mogli petulanti, c’è la moglie (Marisa Merlini) di un noioso radiocronista (Enrico Varisio) in cerca di avventure sentimentali, c’è il portiere che cerca di sedurre una negoziante e finisce col polso slogato, c’è un altro giocatore (Mastroianni) che spera di soffiare l’amante al cannoniere e così via.
Il quadro, per quanto scontato, risulta piacevole e ci racconta (insieme a tante commedie del periodo) un’Italia fiduciosa in se stessa, nella quale la mania del football ha attecchito con vigore, lasciando magari in ombra problematiche sociali più serie. Ciononostante questo gruppo di personaggi, tutti di modesta estrazione, guarda alla vita con ottimismo, progetta la propria esistenza con serenità e realismo, risparmiando denari in vista di un futuro matrimonio considerato meta importante e risolutiva dell’esistenza. Camerini dunque descrive un’Italia rosa, che sa divertirsi e soprattutto che sa lottare con accanimento: in fondo l’intera vicenda della piccola squadra che si salva dal baratro (la retrocessione) può essere letta come una metafora della passione con cui gli Italiani stanno superando le dure prove del dopoguerra.
Il carattere tutto “positivo” del film irrita la critica militante e appare ad Aristarco una “conferma” di quanto aveva in precedenza dichiarato sulla rivista “Cinema” (la più influente del periodo) quando aveva definito Camerini “ormai completamente fuori dalla storia del cinema italiano”. Come sempre le fissazioni ideologiche della sinistra, che vorrebbero vedere sugli schermi solo vicende desolate e umilianti (come quelle del De Sica di Miracolo a Milano e Umberto D) per poterne trarre motivi di rivolta sociale e soprattutto di incremento elettorale, impediscono ai seriosi critici, “preoccupati” dei destini della nazione, di fare ciò che la stragrande maggioranza dei loro compatrioti va facendo, seduta nelle buie, affollate e un po’ caotiche sale cinematografiche dell’epoca: divertirsi.

Blasetti aveva firmato all’inizio degli anni quaranta una coppia di celebri film permeati da un segreto pacifismo massonico e antifascista (innanzitutto La corona di ferro, 1941; ma anche La cena delle beffe, 1942). Nel dopoguerra aveva “traslocato” dall’altra parte della barricata ovvero in area cattolica, girando tre pellicole finanziate dal Vaticano (Un giorno nella vita, 1946; Fabiola, 1949 e Prima comunione,1950). Con Altri tempi (settembre 1952; 127 min.) il regista, aiutato da un piccolo esercito di sceneggiatori (tra gli altri Vitaliano Brancati, Suso Cecchi d’Amico, Aldo De Benedetti, Brunello Rondi) seleziona abilmente una serie di novelle scritte negli ultimi decenni dell’Ottocento, attraverso le quali ritorna a esprimere in modo convinto e deciso una visione del mondo laicista e neopagana; ne fuoriesce un vivace affresco che può essere inteso come un inno entusiastico alle libertà del pensiero progressista.
Il titolo è fuorviante poiché questi presunti tempi passati (in sostanza gli ultimi decenni dell’Ottocento) vengono raccontati come l’unica auspicata e possibile premessa del tempo presente, un tempo in cui il governo della schiacciante maggioranza democristiana cerca di porre un argine alle tendenze del laicismo libertario, con evidente fastidio delle minoritarie forze massoniche.
Si inizia quindi con una breve rievocazione del celebre balletto Excelsior (Milano, 1881) di Manzotti e Marenco, una sorta di manifesto del pensiero delle logge in cui assistiamo alla lotta senza quartiere tra l’Oscurantismo (quello cattolico per intenderci) e la Luce (quella massonica, ovviamente) del progresso. Quest’ultima trionfa, portando nel mondo commerci più liberi e trasporti più veloci (nel brano selezionato vediamo proprio l’apertura del tunnel del Moncenisio). Nell’episodio subito successivo, tratto in modo relativamente fedele dal racconto Meno di un giorno di Camillo Boito (dalla raccolta Senso e altre novelle vane, 1883), vediamo subito a cosa servono i nuovi, efficienti trasporti: una moglie passa “meno di un giorno” (15 ore) in compagnia dell’amante dalle parti di Caravaggio, dove giunge e, in seguito, riparte appunto in treno. L’adulterio, consumato nella breve novella, va invece in fumo nella versione umoristica di Blasetti, forse preoccupato dalle reazioni della censura. Nel testo la coppia dormiva insieme mentre nel film si tratta solo di una giornata di continui battibecchi di scarso interesse e modesto divertimento. In ogni caso il tema della libertà sessuale appare l’unico elemento che, d’ora in poi, collega quasi tutti i testi ottocenteschi posti in immagini. Progresso e Luce significano soprattutto circolazione più rapida e caotica di persone e cose.
Ancora il tema del tradimento si colloca al centro della fedele trascrizione dell’atto unico La morsa (1892; rappresentato però solo nel 1910) di Pirandello. Anche in questo caso una moglie (Elisa Cegani) tradisce il marito (Amedeo Nazzari): scoperta e messa alle corde dall’intransigenza dell’uomo, la donna preferisce suicidarsi. La scelta è paradossale, poco motivata e tuttavia funzionale alla visione complessiva del film che vuole spezzare una lancia a favore dell’Amore, dei sentimenti incontrollati e incontrollabili ai quali tutto viene perdonato, rispetto ai vincoli dell’ordine tradizionale.
Si giunge all’apogeo con Il processo di Frine (una novella di Edoardo Scarfoglio del 1883), una lode smaccata e anche un po’ noiosetta delle libertà sessuali, poste al di sopra di ogni legge. Vi si narra di un’oca giuliva (Gina Lollobrigida), assai bella, che, sebbene sposata, si concede a tutti per buon cuore. Arrestata dopo aver avvelenato la suocera, viene assolta in ragione della sua affascinante sensualità. Un avvocato sornione (Vittorio De Sica) riesce a salvarla proprio mostrando a tutti il suo seducente corpo e proclamandola una “maggiorata fisica” (il gioco di parole, oggi incomprensibile, rovesciava la diffusa definizione, in ambito giudiziario, di minorato psichico con cui spesso si cercavano attenuanti per crimini vari; oggi - vigente in modo ferreo il dogma ugualitario - di minorati psichici non si parla più).
Al di là della novella boccaccesca, venata di un dubbio umorismo, quello che interessa in questa sede è la scelta degli autori di porre come gran finale, dopo le due novelle sul tradimento, questo inno neopagano (Frine era un personaggio dell’antica Grecia) alla bellezza femminile cui tutto è concesso. Per la verità non manca una certa goffaggine all’insieme, derivante dalla scelta opinabile dell’attrice la quale, pur possedendo doti di indubbia bellezza, non riesce a rappresentare quella forza vulcanica che le si attribuisce (ci voleva un tipo più statuario, una Sofia Loren, una Jayne Mansfield, una Marylin Monroe): il seno, su cui si insiste visivamente con numerosi primi piani, appare evidentemente esagerato dai soliti trucchi (imbottiture e rialzi) mentre la figura intera dell’attrice, esibita nel momento culminante, appare troppo minuta per l’arduo compito.
Al di là dei difetti di realizzazione, appare evidente che la Luce del Progresso, magnificata nel balletto Excelsior , si traduce in un’ottusa idolatria dei piaceri sessuali e in un’adorazione della Donna quale nuova divinità laica, quale Dea madre o divinità della Terra.
Per questa via - evidente elogio della naturale poligamia propria degli esseri umani, nonché esplicita esortazione all’universo femminile affinché segua con spregiudicatezza ogni proprio capriccio sentimentale - si snoda un preciso filone cinematografico che sfocerà nel battesimo neopagano di Mastroianni ad opera della diva Ekberg, nella fontana di Trevi (La dolce vita, 1960). Tale filone si colloca su posizioni antitetiche rispetto a quello “tradizionale”, riformulato di recente con geniale inventiva dal Matarazzo di Catene (1949; vedi): in quest’ultimo, problema primario era infatti la ricomposizione della famiglia insidiata, laddove la pellicola blasettiana sembra insistentemente caldeggiare la disintegrazione del nucleo familiare.
Blasetti quindi non ci sta parlando di “altri tempi” bensì dei nostri tempi, o addirittura dei tempi a venire (si pensi al simile neopaganesimo inneggiante alla Dea Madre del Codice da Vinci di Dan Brown, 2003). Non può dunque stupire il giudizio negativo (“sconsigliabile”) del Centro Cattolico.
Il pubblico risponde invece positivamente alle ingenti forze (il cast era strepitoso per l’epoca; oltre ai nomi citati compare anche Aldo Fabrizi) messe in campo dalla Cines e dalla brillante produzione diretta da Forges Davanzati, rendendo il film di Blasetti uno dei massimi successi della stagione.
Resta da aggiungere che i rimanenti raccontini di Altri tempi sono dei riempitivi meno interessanti, sempre allineati però con la suddetta concezione ideale: ne L’idillio le questioni sentimentali invadono, in modo artificioso, il mondo dei ragazzini e il piccolo Guido non esita a ribellarsi dall’autorità paterna (i genitori sono Paolo Stoppa e Rina Morelli) pur di poter andare alla festa dell’ “amata” (si fa per dire) bambina Filli (una vicina di casa). C’è poi il doveroso omaggio al Risorgimento con la trascrizione scolastica de Il tamburino sardo (Cuore, De Amicis, 1886), doveroso poiché quel “mondo nuovo” della Luce inizia, come noto, con l’Italia liberale dei Savoia (1861), nata dalle ceneri degli assolutismi cattolici e borbonici.
Se Altri tempi appare assai discutibile in quanto a visione del mondo, esso tuttavia possiede il merito di essere il primo film importante organizzato in una serie di episodi autonomi. Questo genere diverrà, soprattutto negli anni sessanta, una delle colonne portanti della cosiddetta commedia all’italiana.
Decisamente migliore è invece La fiammata (ottobre1952; 90 min.), pellicola tratta da La flambée (Parigi, 1911), commedia in tre atti dello scrittore ed editore belga di Henry Kistemaerckers, sulla base di una sceneggiatura stesa dallo stesso Blasetti con Vitaliano Brancati, Leonardo Benvenuti e Luigi Filippo D’Amico. Questo film, fedele al testo teatrale, organizzato in un’unità di tempo e di luogo (una sontuosa festa nella dimora del conte Stettin ovvero una lunga nottata cui segue lo scioglimento alle prime luci dell’alba), racconta una crisi coniugale posta su un importane fondale storico (la Francia del 1870, alle soglie della guerra con la Prussia) e stretta entro la morsa di un realistico e pesante ricatto spionistico.
Il colonnello Felt (un ottimo Amedeo Nazzari) è praticamente separato dalla consorte: la moglie Monica (Eleonora Rossi Drago) vuole il divorzio per poter sposare il ministro Beaucourt (Rolf Tasna) il quale è giunto alla festa per comunicare al rivale che il governo di Parigi rifiuta i suoi piani di fotificazioni antiprussiani. La guerra francotedesca è alle porte, Felt ne è convinto mentre a Parigi si ironizza a vanvera sull’argomento. Intanto il perfido Glogau (Roldano Lupi), un banchiere che controlla l’incresciosa situazione debitoria del colonnello e che opera segretamente in favore dei tedeschi, ricatta Felt: o gli cede i piani militari, o dovrà dichiarare bancarotta. Il protagonista, un uomo disperato costretto a combattere su tre fronti (militare, sentimentale e spionistico), ammazza Glogau e si prepara al suicidio quando tutti intorno a lui si riconciliano: la moglie comprende le sue ragioni e torna ad amarlo, il ministro abbandona i propri progetti matrimoniali, difende Felt (l’omicidio viene derubricato in atto militare utile alla nazione) e si impegna a far realizzare le fortificazioni previste dal colonnello. Alcune vicende secondarie - quella tormentata e nobile dei conti Stettin (Carlo Ninchi e Elisa Cegani; la donna in passato era sata sedotta da Glogau), imparentati coi Felt e quella della giovane Teresa Derrieux (Delia Scala) - arricchiscono il quadro. I balli costituiscono uno sfondo costante che viene abilmente interpolato con le vicende estremamente tese e drammatiche dei protagonisti.
Blasetti realizza con perfetto senso cinematografico questo popolare dramma di Kistemaerckens: attori tutti convincenti e misurati, dialoghi ben calibrati e resi essenziali, una giusta dose di mistero e di suspense, inquadrature di grande eleganza, precisi movimenti di macchina e una colonna sonora tardoromantica sono gli elementi che, ben armonizzati, creano uno spettacolo serrato e piacevole, teso e ricco di colpi di scena. I valori dell’onore personale, del dovere professionale, dell’unità del nucleo familaire difeso ad ogni costo - valori sui quali è costruito il testo di quarant’anni prima - suonano anacronistici: eppure essi vengono argomentati e svolti con severa grandezza (merito soprattutto delle interpretazioni di Nazzari, Ninchi e Tasna), risultando, in definitiva, credibili ed anzi alternativi a quelli relativi al facile sentimentalismo che viene affermandosi nella realtà filmica italiana e di cui lo stesso Altri tempi, girato praticamente da Blasetti negli stessi mesi, è un’evidente riprova. La fiammata, testo filmico antitetico al coevo film a episodi (basti pensare la gravità con la quale viene trattato il tema dell’adulterio e dell’onore rispetto ai toni leggeri e frivoli della commedia con De Sica e la lollobrigida), costituisce l’ultima opera del Blasetti conservatore, dopo Un giorno nella vita, Fabiola e Prima comunione.
Questa pellicola, oggi praticamente “invisibile”, di cui critici e storici parlano poco e male per sentito dire, senza in realtà averla visionata, fu a suo tempo un buon successo di pubblico: incassò più della metà di quanto fece Altri tempi, uno dei massimi successi di quella stagione.
Il dramma di Kistemaerkens era già stato tradotto in immagini da Carmine Gallone nel 1922.

Vendetta... sarda (febbraio 1952; min.) costituisce un altro capitolo della lunga collaborazione tra Mario Mattoli e Walter Chiari (dopo I cadetti di Guascogna, L’inafferrabile 12 e Arrivano i nostri). La pellicola - ricalcata sullo schema corale di Arrivano i nostri - appare tra le più fiacche dell’autore: la storiella è il solito pretesto per filmare scenette di avanspettacolo nelle quali il comico pugliese non riesce però a essere divertente. Le esigenze del palcoscenico, sul quale come noto Walter Chiari primeggia negli anni cinquanta, e quelle fotografiche del cinema sono assai differenti; cosicché le fanfaronate del nostro mattatore, probabilmente efficaci nell’ambiente tutto artefatto della rivista, appaiono alla lunga insopportabili se calate nell’atmosfera comunque realistica del filmato cinematografico (né appare casuale la scelta di girare Vendetta... sarda quasi interamente in studio, tra fondali palesemente finti come quelli del palcoscenico).
La storiella è imbastita intorno a una falsa eredità in Sardegna: ciò che Gualtiero Porcheddu (Walter Chiari) eredita non sono i sospirati denari, bensì il dovere di continuare una sanguinosa faida nei confronti della famiglia rivale dei Leoni. Malintesi, equivoci e futilità varie trascinano faticosamente la pellicola fino alla sospirata conclusione. Tra le poche cose interessanti si nota la ripresa della gag dell’ospitalità (i Porcheddu, inavvertitamente entrati nella casa dei nemici, vengono risparmiati finche sono ospiti dei Leoni, i quali però li attendono al varco per ammazzarli non appena si decideranno a metter piede fuori da quelle mura), gag sulla quale si fondava buona parte del capolavoro Our Hospitality (1923) di Buster Keaton.
Merita inoltre qualche riflessione il fatto che l’intera pellicola si basi su una feroce caricatura delle antiche usanze sarde (al punto che il regista ha voluto iniziare con una dichiarazione ipocrita, nella quale afferma che quella ritratta non è la vera Sardegna... ), non solo per ciò che concerne le violente faide, ma anche in riferimento al costume di tenere le donne soggiogate all’autorità maschile (il siparietto con le tre sorelle cui è concesso sposarsi, ma solo a patto di trovare tre mariti contemporaneamente). La società patriarcale del meridione è insomma il consueto facile bersaglio del modernismo cinematografico e il “merito” è probabilmento dell’affiatato quartetto di soggettisti e sceneggiatori (Metz, Marchesi, Steno e Monicelli) più che di Mattoli il quale, in precedenti occasioni, aveva mostrato una discreta sensibilità alla visione tradizionale del mondo.
Certamente migliore, anche se di poco, risulta Cinque poveri in automobile (settembre 1952; 100 min.), pellicola a episodi, salutata da un buon successo commerciale, che si basa su un vecchio soggetto di Cesare Zavattini (risalente addirittura al 1934), rimaneggiato da quest’ultimo e da una schiera innumerevole di altri autori (Monicelli, Steno, Aldo De Benedetti, Titina De Filippo, Aldo Fabrizi ecc.).
A Roma quattro poveracci vincono alla lotteria una costosissima automobile; non potendo tenersela la rivendono al padrone (Mario Pisu) del negozio d’autovetture, non prima di averla utilizzata per un giorno a testa al fine di togliersi qualche piccola soddisfazione. Titina De Filippo, umile comparsa alcolizzata a Cinecittà, può allora farsi accogliere dalla figlia e dal genero che l’hanno bandita dalla loro casa rispettabile e vedere, dopo anni, la nipotina. Finge di avere avuto un incredibile contratto con Hollywood e di essere in partenza per gli USA. L’episodio, monotono e inverosimile, rispecchia ancora i toni della vetusta polemica antiborghese promossa a metà degli anni trenta dal regime fascista e rivela l’antica e un po’ anacronistica origine del soggetto zavattiniano. Una famiglia medio borghese - descritta con sottile astio -  dove il capofamiglia impedisce per anni alla moglie di frequentare la propria madre e alla figlioletta di conoscere la proprio nonna (perché povera) è evidentemente un caso mostruoso, estremistico e, come tale, di ben scarso interesse.
Fin da questo primo episodio appare chiara l’ibrida natura dell’operazione: si parte da un prologo di sapore “neorealistico” con i poveracci, la lotteria e il lusso insolito, favolistico di un auto da milionari per approdare a quattro svelti raccontini i quali, sebbene pongano questioni morali, vengono svolti secondo lo stile consueto del Mattoli abituato a girare film leggeri e farseschi. Così gli intenti moralistici sulla bontà dei diseredati e la grettezza dei benestanti vengono annacquati in situazioni meramente macchiettistiche. L’episodio di Titina, sebbene a suo modo comico, rimane quello più “ricattatorio” e lacrimevole, quello più legato alla cornice “pauperistica” e infatti risulta, di gran lunga, il meno riuscito.
Già la vicenda di Fabrizi, vetturino (sostanzialmente si riprende il personaggio de L’ultima carrozzella, Mattoli, 1943; anche allora su soggetto e sceneggiatura dello stesso Fabrizi) che per un giorno vorrebbe atteggiarsi a gran signore con la sua limousine e finisce col fare l’autista di una coppia di amanti clandestini, è più vivace e piacevole, anche se ripetitivo nelle trovate comiche.
Il terzo episodio ripiega su toni moralistici: il netturbino Eduardo De Filippo lascia Roma in auto e si reca nel suo paesino d’origine (sui colli romani) per far credere a tutti di aver fatto fortuna; vorrebbe far rabbia soprattutto a un vecchio rivale che gli aveva soffiato la fidanzata, ma quando lo ritrova solo, malandato e ridotto a fare il barbone, vivendo di elemosine, si pente della volgarità del proprio gesto e gli svela ogni cosa. Sebbene anch’esso alquanto ripetitivo negli argomenti, questo episodio può avvalersi della bravura di Eduardo e dell’intensa impennata finale, quella in cui i due poveracci, posto da parte ogni stolto agonismo, si riconoscono e si consolano a vicenda.
Il quarto e ultimo episodio è impostato su Paolo (Walter Chiari) che usa l’auto per far ingelosire la capricciosa fidanzata Gina (Hélène Rémy): scambiato da un’avventuriera (Belle Tildy) per un riccone, Paolo la porta a spasso nella notte romana, pedinato dalla incredula Gina e da uno spasimante di quest’ultima. Alla fine ogni cosa si sistemerà per il meglio. Nella conclusione ai quattro si unisce un quinto poveraccio (Luigi Cimara), investito malamente dall’auto: anch’egli avrà una fetta di vincita quale risarcimento. Quest’ultimo episodio, il più modesto nei contenuti, è però anche il più riuscito quanto a gag, a vivacità di situazioni e a ricchezza di contesti narrativi. Alla solita tiritera patetica sui poveri per un giorno “in paradiso”, si sostituisce un’arguta vena misogina: un’avventuriera pronta a concedersi pur di vivere una nottata speciale e una fidanzata frivola che preferisce lo spasimante fornito di lambretta al fidanzato, apparentemente privo di mezzi di locomozione, sono le vere protagoniste di questo raccontino notturno nel quale si sottolinea la spasmodica ricerca del lusso che attanaglia la nuova società italiana, con particolare riferimento al desiderio di apparire radicato nell’animo femminile.
Cinque poveri in automobile offre una “sinfonia” in cui, secondo i noti canoni dello stile classico-romantico, si susseguono un movimento allegro e pensoso (la nonna rifiutata), uno scherzo (il vetturino controvoglia), un andante mesto (lo spazzino e l’accattone) e un allegro finale (il fattorino e la civetta). Se l’insieme “suona” ben “orchestrato”, i contenuti della narrazione appaiono discontinui, privi di una qualche coerenza ideale e mostrano un lavoro scritto da troppi, differenti sceneggiatori, frantumato tra pauperismo e misoginia, tra solidarismo di classe e bieco desiderio di rivalsa, tra sogno e risentimento, tra visione progressista e conservatrice.
In definitiva solo una cosa appare certa: i poveri possono andare in paradiso senza usare le scope volanti di Miracolo a Milano : basta offrire loro una giornata in limousine.

La coppia di amorosi interpretata da Walter Chiari e Hélène Rémy diviene la protagonista di  Noi due soli (novembre 1952; 90 min.), pellicola firmata da Metz e Marchesi (sogg., scen. e regia), aiutati in sede di regia da Marino Girolami. Walter e Gina (ancora Hélène Remy, come nel film di Mattoli) sono due operai ossessionati dal caos romano: non riescono a parlarsi, telefonarsi, stare soli in santa pace; inoltre il padre di lei complotta per accasarla con un perfido dirigente (un ottimo Raimondo Vianello) della ditta dove la coppia lavora. Tutte le sfortune sembrano accanirsi sui protagonisti e sul loro simpatico amico Carlo (Carlo Campanini in perfetta forma) al punto che i due amici, perso anche l’alloggio, si riducono a dormire in un rifugio antiatomico. Walter sogna allora di svegliarsi, con fidanzata e compare, in una Roma senza umani (una bizzarra bomba atomica avrebbe letteralmente dissolto i corpi di tutti gli abitanti), cosicché il terzetto superstite può finalmente spassarsela: la coppia alloggia al Grand Hotel, l’amico a palazzo Venezia, novello duce (Campanini era stato il primo a portare sui palcoscenici una graffiante satira di Mussolini con Il suo cavallo, nella Roma del 1944, con musiche di Rota), la calma è totale e ogni bene di lusso è ora disponibile. Questi tre poveracci hanno vinto migliaia di automobili... Presto, come ovvio, si accorgono che gli altri sono purtroppo necessari. Il sogno dilegua e in un elegante lieto fine (nello stile di Frank Capra) arricchito da un piccolo colpo di scena, ogni loro problema viene risolto: il presidente della ditta si rivela essere un conoscente del terzetto (frequentavano lo stesso bar) e sistema ogni cosa, con paternalistica benevolenza.
Questa commedia insolita possiede innumerevoli pregi. Intanto l’ambientazione onirica in una Roma deserta e lunare, ove nelle piazze principali stazionano solo veicoli distrutti, è realizzata in modo suggestivo ed è degna di un buon film di fantascienza. Si può supporre che Metz e Marchesi, nell’ideare l’insolita situazione che domina la seconda parte del film, siano stati influenzati dalle tensioni internazionali (guerra fredda e guerra in Corea), dalla paura incombente di una terza guerra mondiale, dal dibattito sulla potenza dei nuovi ordigni nucleari. L’idea della città deserta e della insopportabile solitudine si ritroverà nell’episodio pilota Is There Everybody? (La barriera della solitudine, 1959) delle serie televisiva Twilight Zone di Rod  Serling e può essere che il film italiano abbia, almeno in parte, ispirato il telefilm statunitense.
Oltre a questi virtuosismi scenografici, bisogna ricordare l’esilarante sequenza in split screen (uno dei primi esempi di divisione dello schermo in più immagini, nella storia del cinema italiano) con Walter e Gina al telefono che dialogano, senza volerlo, con un’altra coppia (interferenze che capitavano spesso nell’ormai lontana era del telefono fisso), dialogo che sfocia in ua serie di plateali insulti.
Gli attori sono tutti eccellenti, in particolare Walter Chiari in una delle sue più riuscite interpretazioni brillanti, mentre la colonna sonora di Rota dipinge con gusto sia il lato grottesco, sia quello sentimentale, con motivetti che ricordano quelli dell’universo felliniano ormai (dopo Lo sceicco bianco, 1952) in via di formazione.
Tuttavia quello che più colpisce nel’ideazione generale è il diffuso pessimismo morale. Gli autori partono dal film a episodi di Mattoli, riprendono l’ansia di riscatto dei poveri (anche qui il protagonista vince al totocalcio, ma scopre poi che si tratta di una cifra irrisoria) la quale, lungi dal comportare una qualunque “coscienza di classe” o l’aspirazione a un ordine socialista del mondo, si limita a sostanziarsi in un cocente desiderio di quel benessere concesso solamente alle classi dirigenti. Insomma i proletari vogliono diventare alta borghesia. Non solo. Le premesse del racconto - il carattere invivibile della metropoli (un tema decisamente in anticipo sui tempi, che diverrà realistico a fine secolo) - alludono a una generale misantropia e a una visione del mondo sociale quale giungla hobbesiana dove tutti sono ferocemente in lotta con tutti, con qualunque mezzo (in particolare il dirigente Vianello in combutta col padre e col fratello di Gina per costringerla, attraverso una sorta di ricatto, a un odioso matrimonio) e dove solo i raccomandati, quelli che appartengono a un clan possono fruire di certi privilegi. Certo, alla fine, vengono riconosciuti i vantaggi del vivere in comunità, ma solo in relazione alla necessaria divisione del lavoro e al reciproco prestarsi servizi quale fondamento del progresso sociale. Gli altri rimangono gli altri, del tutto differenti, sempre in agguato, individui utili, anche simpatici, ma dai quali bisogna essere sempre pronti a difendersi. Insomma una società di diseguali, che si vorrebbe ordinata, in ogni caso necessaria al benessere ma sostanzialmente estranea alle problematiche private del singolo. In fondo Walter e Gina vogliono solo sposarsi e fare figli, all’interno di un contesto funzionante; e la visione conservatrice degli autori viene ribadita dal cerimoniale del fidanzato che si reca dal padre della futura sposa a chiederne la mano.
Questa implicita visione del reale appare quindi agli antipodi della concezione dell’uomo quale essere sociale, tipico della corrente aristotelico-marxista. Non stupiscono dunque le feroci stroncature del film che compaiono sulle riviste ad opera dei soliti intellettuali di sinistra (la rivista “Cinema nuovo” ha parole di evidente disprezzo per il lavoro) i quali si trovano a maneggiare un oggetto scomodo, con proletari che ambiscono al lusso borghese, ricordano i tempi andati di palazzo Venezia con una qualche nostalgia (quanto meno perché rifletteva una visione più ordinata del sociale) e sognano un mondo senza umani.
Qualche mese prima era uscito Lo sai che i papaveri... (1952; 90 min.), farsa di buon valore sempre firmata da Metz e Marchesi, basata sul popolare tema di Jekyll e Hyde (la famosa versione di Fleming con Spencer Tracy e Ingrid Bergman era del 1941) e ancora affidata all’estro comico di Walter Chiari, coadiuvato dal valido Campanini e da Anna Maria Ferrero nel ruolo di prima donna (ma ci sono anche Raimondo Vianello e Fanca Rame). L’integerrimo prof Gualtiero a mezzanotte si sveglia, si alza e si trasforma in uno spregiudicato donnaiolo al night club Tarocchi, gestito da trafficanti di droga. Di giorno però dimentica ogni avventura notturna. Scoperto da un’allieva innamorata, da una noiosa collega (la fidanzata ufficiale, poi ripudiata) e dal preside, viene spedito da un ridicolo psicanalista (Vianello) che gli suggerisce come creare un efficace cortocircuito tra la vita diurna e notturna. Il lieto fine prevede, come sempre, felici nozze e una bimba di tre anni che, a mezzanotte, si sveglia e dice di voler andare a ballare...
La pellicola è briosa, gli interpreti sono convincenti, soprattutto Walter Chiari il quale, nel classico doppio ruolo del timidone e dello scapestrato, riesce a dimostrare finalmente - dopo tante prove incerte e troppo “burattinesche” - tutte le proprie doti di attore leggero, divertente e simpatico. Le sequenze al night, tra ballerine estremamente compiacenti e brillanti numeri musicali, sono molto riuscite (tanto da far appioppare un irritato giudizio di “escluso” da parte delle autorità cattoliche, nonostante il tono morale complessivamente conservatore della pellicola) e appare memorabile soprattutto il terzetto scatenato con Chiari, Campanini e una soubrette di Marsiglia (Belle Tildy, l’avventuriera di Cinque poverei in automobile) giocato su un francese maccheronico che finisce per confondere le idee anche alla cantante.
Esilarante risulta anche la satira della saccente psicanalisi ad opera di un scatenato Vianello il quale riduce il sapere di Freud a un paio di ridicole formulette a base di canguri e pipistrelli con le quali “spiega” a un bamboleggiante Walter Chiari le origini familiari della sua doppia vita. In definitiva comunque il punto di approdo per gli autori della pellicola è il medesimo dell’inventore della psicanalisi: un’equilibrata felicità ha i suoi costi e il “pipistrello notturno” che bazzica per night club va represso. Lo sai che i papaveri... non fa che divulgare le tesi sulla necessaria repressione degli istinti, tesi che sono il fulcro de Il disagio della civiltà (Freud, 1929) e collocarsi agli antipodi del neopaganesimo libertario delle “maggiorate” di Altri tempi.
Il pubblico accorre e decreta il grande successo del film. L’idea complessiva - una versione comica del dualismo Jekyll-Hyde - verrà ripresa da Jerry Lewis nel sopravvalutato Le folli notti del dottor Jerryll (The Nutty Professor, 1963).
Con Noi due soli e Lo sai che i papaveri... si conclude la breve carriera registica di Metz e Marchesi i quali nei rimanenti anni cinquanta e nel decennio successivo continueranno a essere sceneggiatori molto ricercati.

Rispetto alla briosa comicità di Mattoli, di Metz e di Marchesi, la pesante e monocorde farsa E’ arrivato l’accordatore (febbraio 1952; 90 min.) dell’eclettico Duilio Coletti appare un film anacronistico, oltre che mal riuscito. Si tratta della vecchia pochade Gonzague del francese Pierre Veber (1869-1942), già filmata nel lontano 1916, ed ora adattata per lo schermo da Mario Amendola e Paolo Ricora, nella quale si racconta di un poveraccio affamatissimo (Nino Taranto) che si intrufola in una casa signorile spacciandosi per l’accordatore; dopo avere fatto a pezzi il povero strumento, viene invitato a una sontuosa cena dalla supersitiziosa padrona di casa (Ave Ninchi) che teme di rimanere a tavola in tredici. Inutile dire che non riuscirà a mangiare niente. Intorno al protagonista, i numerosi caratteristi - tra cui un Sordi ancora imprigionato nella macchietta di bamboccione rimbambito (vedi Mamma mia, che impressione) - non riescono a dar vita ai propri personaggi burattineschi.
In nessun momento la farsa diverte, sia per la pochezza dei dialoghi, sia per l’ovvietà delle situazioni, sia per il carattere staticamente teatrale (in pratica non ci sono esterni), sia per l’assurdo ricorso a gag tipiche dell’era del muto (tutta la scena iniziale con Taranto che, anziché accordarlo, sfascia il pianoforte) le quali appaiono totalmente difformi al contesto, nonché allo stile cinematografico degli anni cinquanta.
Per finire il protagonista, al quale è assegnato il difficile compito di reggere l’inesistente vicenda, è un oltremodo monocorde Nino Taranto che, per tutto il tempo non fa che chiedere qualcosa da mangiare, e ciononostante riesce a sedurre la figlia (Antonella Lualdi) dei padroni di casa (!!!). Insomma uno dei peggiori film italiani del 1952.
Come prevedibile si trattò di un fiasco commerciale.

testo scritto nell’apr. 2009