Basta guardarla e Mazzabubù

Il trapianto, Nel giorno del Signore, Io non spezzo.. rompo, Il furto è l’anima del commercio?, Boccaccio, Il terrore con gli occhi storti, Il prode Anselmo e il suo scudiero, Quando le donne avevano la coda, Quando le donne persero la coda, Quando gli uomini armarono la clava..., Basta guardarla, Il provinciale, Mazzabubù, Er Più, Non commettere atti impuri, Ettore lo fusto, Anche se volessi lavorare che faccio?, Beati i ricchi, Incensurato provata disonestà carriera assicurata cercasi e La torta in cielo: umorismo popolare e farse plebee (1970-72)

                 “Non è la chiappa che fa l’artista”
                 dialogo tra Silver Boy ed Erica (Basta guardarla)

Nel dicembre 1967 il primo trapianto di cuore, effettuato dal prof. Christian Barnard a Città del Capo, ottenne enorme pubblicità sui media dell’epoca. Un paio d’anni dopo Steno firma Il trapianto (mar. 1970, 100 min.), una farsa poco divertente in cui si parla di un trapianto relativo a una parte del corpo squisitamente maschile...
Un anziano miliardario americano desidera soddisfare la propria giovane e bellissima moglie e offre un miliardo a chi vorrà cedergli un nuovo, efficiente membro maschile. La scelta cade su un prolifico padre di famiglia romano (Renato Rascel al suo ultimo film) e su un aitante seduttore siciliano (Carlo Giuffrè), entrambi pieni di debiti. Nella prima parte la pellicola ripete le situazioni già raccontate con ben altra verve ne Il boom (De Sica-Sordi, 1962; si trattava allora di vendere un occhio) mentre nella seconda il film segue quasi esclusivamente le vicende del seduttore il quale, tornato al paesello, si finge impotente (in realtà non ha ceduto alcun organo vitale... ) e ne approfitta - come ne Il turco napoletano che a sua volta riprendeva la commedia Nu turco napulitano (Scarpetta, 1888) o nel primo episodio di Signore&signori (Germi, 1965) - per accompagnarsi con le belle mogli dei perfidi concittadini. Nel finale, esasperato dagli insulti malevoli e dalla diffusa shadenfreude di coloro che lo avevano spinto all’insano gesto, mentre il treno si allontana definitivamente da loro li ridicolizza, chiarendo loro che ha approfittato delle loro consorti; però il treno (come la macchina dalla quale Sordi aveva insultato gli operai nella celebre sequenza de I vitelloni) si ferma e le vitime raggiungono il loro carnefice...
La pellicola è un centone che non possiede alcun tratto originale: le situazioni ripetono cose già viste e lo fanno in maniera sostanzialmente scialba, con dialoghi ordinari e interpretazioni (anche da parte della coppia di protagonisti) poco convincenti. Anche gli scenari sono poco valorizzati e la quasi totalità delle sequenze è ambientata in interni senza interesse. Il tono generale di denuncia relativamente all’egoismo cinico che guida l’agire umano (le malevole pressioni di “amici” e parenti delle vittime e la loro subdola soddisfazione dopo il trapianto, vero o presunto) è solo accennato e trattato in modo generico anche per il fatto che tutte le figure secondarie rimangono figurine bidimensionali, prive di una caratterizzazione credibile.
Gli incassi furono discreti.

Bruno Corbucci prende spunto dal grande successo di Nell’anno del Signore (Magni, 1969) e gira Nel giorno del Signore (mar. 1970; 95 min.), ambientato nella Roma del pontificato di Giulio II (1503-13).
Raffaello (Fred Robsahm), legato al papa (Francesco Mulè) da grande amicizia, si innamora della Fornarina (Igli Villani). La vecchia spasimante, l’aristocratica Beatrice (Ira Furstenberg), cerca in ogni modo di inguaiare la rivale, fino al punto di farla accusare dell’omicidio dell’usuraio Anticoli (un bravissimo Vittorio Caprioli); quando la giovane è già sul patibolo la verità emerge e tutto finisce per il meglio.
La vicenda è solo un banale pretesto per mettere in scena, con gusto e vivace umorismo, la Roma papalina in una serie di vivaci siparietti, tutti di buon livello, assecondati da un cast eccezionale (ci sono anche Dapporto, Franco e Ciccio, Capannelle, Bramieri, Buzzanca, Banfi, Macario, Sidney Chaplin...). Risalta innanzitutto la figura dell’usuraio ebreo Anticoli, vero e proprio coprotagonista, il quale insidia tutte le belle donne della corte (finendo infatti ammazzato) e si muove con sfrontata sicurezza tra papi e cardinali. Tutti hanno bisogno delle sue ricchezze e lui, spietato e avarissimo, non fa mistero di appartenere ad altro popolo (quello deicida come viene ricordato nei dialoghi), “maltrattato” (confinato nel ghetto) dal potere papalino. E’ una figura gustosa e ancora poco sensibile ai tempi nuovi del Concilio Vaticano II (1962--66) che aveva, da poco, definitivamente accantonato qualunque contrapposizione tra cattolici ed ebrei. Infatti proprio questo vivace conflitto, illuminato con una comicità lieve e ciononostante incisiva, è il cuore pulsante del lavoro attraverso il ritratto del lamentoso e furbo usuraio, un personaggio che, francamente, avrebbe potuto figurare anche in un film del periodo delle sciagurate leggi razziali (1938). Pur senza cattiveria (e senza alcun antisemitismo) Corbucci (con Mario Amendola cosceneggiatore) si diverte a proporre una brillante caricatura che sarebbe divenuta, nei decenni successivi, abbastanza imbarazzante e “inopportuna”.
Notevoli sono anche le sequenze con Franco e Ciccio carcerieri, coadiuvati da Mario Carotenuto (capo delle guardie) in cui la coppia sicula offre momenti di puro divertimento con dialoghi perfettamente calibrati nei tempi comici. Piacevoli anche gli inverventi di Buzzanca e Bramieri, mentre spassoso appare il bonario ritratto di Giulio II in cui si ritrovano, mischiate ad arte, autorevolezza e indulgenza. La parte più debole e stereotipata del racconto è ovviamente quella degli amorosi dove si assiste alle solite sbiadite schermaglie.
Gli incassi furono solo discreti, certamente non adeguati al superbo cast.

Al contrario ottenne buoni incassi il disastroso Io non spezzo... rompo (gen 1971; 95 min.), in cui Bruno Corbucci dirige la coppia Noschese-Montesano impegnata a impersonare una coppia di carabinieri pasticcioni (finiranno addirittura carcerati). Si tratta di una serie di banali siparietti privi di un tessuto narrativo compatto, con Janet Agren figlia del primo e fidanzata del secondo. Le battute sono poco efficaci e le situazioni prive di qualunque originalità.
La pellicola nasce con l’intento di fare la caricatura del celebre commissario di Indagine (Petri, 1970): Noschese lo imita per tutto il film mentre anche la colonna sonora cita quella grottesca di Morricone; ovviamene ciò non è sufficiente a rendere la pellicola degna di nota. Tutti i comprimari sono scialbi e anche Montesano, come spalla di Noschese, appare sacrificato.
Il buon esito commerciale porta il terzetto a replicare con l’altrettanto mediocre Il furto è l’anima del commercio? (lug 1971; 100 min.) in cui la coppia comica abbandona le divise dell’Arma e dà vita alla solita coppia di ladruncoli napoletani (Montesano romano in trasferta, in quanto cognato di Noschese) che entra ed esce da un simpatico carcere che somiglia molto a un hotel di periferia (certo agli antipodi delle prigioni terrificanti di Detenuto in attesa di giudizio con Alberto Sordi).
Il film offre una serie di episodi tutti prevedibili sia nelle vicende, sia nelle gag ovvero una rapina a un deposito carni, la sostituzione di un funzionario delle imposte (Bernard Blier; questo breve episodio è la cosa migliore) e la rapina a un banco lotto secondo il celebre schema del buco dal soffitto (Rififì, Becker, 1956), episodio prolisso e francamente noioso. Tra i comprimari si notano Lino Banfi (la cui breve apparizione è tra le cose più divertenti), Ave Ninchi e Francis Blanche.
La comicità della coppia rimane puerile e poco originale; ciononostante gli incassi furono ancora buoni.
Corbucci fa un po’ meglio in Boccaccio (mar 1972; 95 min.), pellicola che si avvale del medesimo cast e che si inserisce nel filone dei Decameroni pasoliniani.
Nella Firenze del 1340, (in realtà il quartiere medievale di Viterbo), assistiamo alle numerose conquiste amorose di Montesano e Noschese, coadiuvati da Lino Banfi, esilarante frate sporcaccione, tutte ai danni dei soliti mariti sciocchi e cornuti (tra essi Bernard Blier e Nello Pazzafini). Non mancano l’usuraio inflessibile (già protagonista di Nel giorno del Signore, pellicola a cui questo Boccaccio somiglia molto) e il solito scherzo (vittima Calandrino) del sassolino che rende invisibili.
La pellicola appare superiore alla media dello sterminato filone boccaccesco, grazie soprattutto all’ottimo cast (ci sono Sylva Koscina, Paola Tedesco, Isabella Biagini, Helene Chanel, Pippo Franco, Mario Carotenuto... ) mentre la sceneggiatura si trascina stancamente, senza colpi d’ala.
La pellicola rimane nel solco politico della conservazione, dipingendo un universo maschile attivo fatto da “cacciatori” e un universo femminile passivo composto da “prede” furbe e consenzienti, figure che si esauriscono nel loro ruolo di partner sessuali prive di qualunque ambizione “paritaria” (leggi femminista).
Gli incassi furono modesti.
Nel successivo Il terrore con gli occhi storti (ago 1972; 95 min.) Steno dirige la coppia Montesano-Noschese in una scialba parodia del recente cinema poliziesco, iniziando da quello paranoico-argentiano, per poi approdare a quello politico-complottistico.
La coppia di protagonisti, due spiantati con ambizioni artistiche (Noschese è una comparsa che, come il Peter Sellers di Hollywood Party, rovina ogni sequenza in cui recita), cerca di diventare famosa inscenando un falso delitto (ai danni di Isabella Biagini); come prevedibile invece finisce tra le maglie di un vero delitto commesso da criminali politici (Umberto Raho). Ne segue una lunga trafila di siparietti comici, sostanzialmente autonomi, per lo più noiosi.
Come nei due casi precedenti la pellicola è una farsa astratta che mette in scena situazioni inverosimili, scollegate da qualunque realtà in quanto totalmente derivate dall’universo filmico Non riuscendo a divertire, a causa di dialoghi scontati e situazioni scarsamente divertenti, questo cinema al quadrato produce un’opera insignificante.
Il film fu un fiasco commerciale.
Con lo scadente Il prode Anselmo e il suo scudiero (dic. 1972; 95 min.), Bruno Corbucci torna a dirigere la coppia attorniata dai consueti comprimari (Lino Banfi, Mario Carotenuto, Renzo Montagnani). Il modello è questa volta la saga di Brancaleone di cui il film ripete, senza estro, le principali situazioni (le crociate, le finte reliquie, ecclesiastici opportunisti e donnine compiacenti) cui si aggiunge perfino un cavallo parlante.
I modesti scenari sono sempre quelli della Viterbo medievale mentre situazioni ordinarie e gag risapute finiscono con l’annientare il notevole cast (ci sono anche Macario, Femi Benussi e Maria Baxa).
Il lavoro fu il secondo fiasco consecutivo e segnò la fine della coppia Noschese-Montesano. Il primo girerà ancora un paio di modeste pellicola (1973-74) prima di abbandonare la carriera di comico cinematografico.

Pasquale Festa Campanile, coadiuvato da Lina Wertmuller (per la sceneggiatura), gira l’insolito Quando le donne avevano a coda (set 1970, 105 min.), commedia farsesca di grande successo che inventa un’epoca primitiva di sapore grottesco e sciocco.
Gli autori decidono di miscelare l’universo delle scimmie di 2001 (1968; da cui si riprende anche l’uso del celebre valzer Sul Danubio Blu di Strauss) e il mondo selvaggio de Il pianeta delle scimmie (1968) con il carattere picaresco e giocondo del breve ciclo dell’Armata Brancaleone (1966; da cui si riprende anche la reinvenzione di un italiano maccheronico e sconclusionato; il secondo film, Brancaleone alle crociate, esce nel dic. 1970, dopo il film di Festa Campanile) al fine di dar vita a un primitivismo caricaturale, memore dei cartoni animati degli Antenati (o Flintstones, 1959) e perfino dell’orso Yogi (1958); il tutto arricchito da una vivace e spiritosa colonna sonora di Morricone. Viene arruolato un ottimo cast (Giuliano Gemma, Lando Buzzanca, Senta Berger doppiata da Mariangela Melato, Francesco Mulè, Renzo Montagnani, Aldo Giuffrè, Frank Wolff e Lino Toffolo) al quale è affidato il compito di rendere divertenti una serie di scontati siparietti di nessuna originalità. Nonostante tutte queste premesse l’esito complessivo è pessimo.
Nella prima parte i nostri eroi fanno conoscenza con il fuoco, poi uno di loro (Lando Buzzanca) tenta di volare e muore; entra in scena, allora, la figura femminile che accentra su di sé ogni attenzione: dapprima diviene la schiava personale di Gemma, poi di tutto il gruppo; ben presto la donna, dipinta come assai più perspicace dei maschi (descritti come un branco di imbecilli), riesce ad assumere l’iniziativa e a dettare legge mentre gli uomini finiscono prede di un’orda di amazzoni assatanate. Il racconto, iniziato come  un revival della versione più conservatrice del rapporto uomo-donna (c’è perfino Senta Berger portata al guinzaglio dal “padrone” Gemma), quasi a fare il paio con il cinema argentiano e poliziottesco quanto a ristabilimento dei naturali equilibri nella battaglia tra i sessi, molto presto vira verso la favola libertaria e perfino sessantottina, con un evidente inno (nell’orgia conclusiva) al libero amore, decisamente in voga in quegli anni e una sottintesa simpatia verso il matriarcato, tanto popolare nella cultura progressista.
Se sulla carta il discorso può apparire stimolante, la realizzazione è purtroppo rozza e approssimativa, spreca il notevole cast, sbaglia i tempi comici (allungati e prolissi) e approda a un esito imbarazzante. L’opera, cui seguono due altre puntate, anticipa il cinema trash (quello delle liceali e delle supplenti) di metà decennio.
Il buon esito commerciale induce Festa Campanile a perseverare con l’altrettanto scadente Quando le donne persero al coda (feb 1972; 95 min.) in cui il medesimo cast (senza Giuliano Gemma) ripete freddure e moine in un contesto semiteatrale, tra brutti scenari di cartapesta. L’unica novità è costituita dall’inserimento della “scoperta” del denaro e del baratto con tutte le situazioni paradossali che si possono immaginare. Gli uomini rimangono il solito branco di imbecilli mentre la sola Senta Berger (la cui bellezza è l’unica qualità della pellicola) sembra dotata di facoltà raziocinanti.
Questa volta il successo fu piuttosto modesto.
Ciononostante Bruno Corbucci si impadronisce dell’argomento e gira un terzo capitolo con un cast del tutto differente (sempre notevole) e con un attenzione maggiore agli aspetti erotici (infatti questa è l’unica pellicola del breve ciclo ad essere proibita a minori di diciotto anni). Quando gli uomini armarono la clava e con le donne fecero din don (set. 1972, 95 min.) è una pellicola anch’essa assai mediocre; tuttavia, non fosse altro perché si ispira vagamente a Lisistrata (411 a.c.) di Aristofane, approda ad esiti di poco migliori.
Come in 2001, due branchi di cavernicoli (tra cui Antonio Sabato, Vittorio Caprioli e Aldo Giuffrè) si contendono una pozza d’acqua e si fanno una simpatica guerra a colpi di clava; le donne, questa volta assai numerose (tra le altre Nadia Cassini, Valeria Fabrizi, Annabella Incontrera) stanche di essere trascurate, attuano uno sciopero del sesso; alla fine l’avranno vinta.
Pur tra lungaggini e freddure di ogni genere, il film riesce quantomeno a interessare nelle sequenze apertamente erotiche, attraversate da un piacevole umorismo; anche gli scenari, dopo quelli scadenti del secondo capitolo, tornano ad essere adeguati. Sebbene il film di Corbucci sia il migliore dei tre, ormai il pubblico appare disinteressato e il netto insuccesso del film sancisce la fine di questa minisaga.

Luciano Salce racconta il mondo popolare del varietà nel notevole Basta guardarla (dic. 1970; 100 min.), pellicola centrata sulle grazie e sull’indubbio talento di Maria Grazia Buccella. La vicenda ripropone tutti i luoghi comuni di questo particolare genere filmico e fotografa una realtà giunta al proprio tramonto: nel giro di pochi anni (verso la metà del decennio) alle ballerine si sostituiranno le spogliarelliste, rendendo il genere sempre più marginale; in seguito anche questo genere di avanspettacolo, contrastato prima dall’esplosione del cinema a luci rosse e poi, nel nuovo millennio, dai siti internet, tenderà a scomparire.
Erica (M.G.Buccella) è una contadina ingenua che riesce a entrare a far parte della scalcinata compagnia di rivista di Silver Boy (Carlo Giuffrè), affermandosi subito come una dilettante di successo (come accadeva nel recente Quella notte inventarono lo spogliarello, Friedkin 1958; ma anche in Vita da cani, Monicelli 1950 e Luci del varietà, Fellini-Lattuada, 1950). In poco tempo la nuova arrivata riesce a scalzare la prima donna (una divertente Mariangela Melato, milanese che si finge andalusa) e a divenire l’amante del capo. Poi però gli intrighi della rivale la mettono all’angolo ed Erica è costretta a passare nella compagnia concorrente di Farfarello (L. Salce). Anche qui si ripete il medesimo copione: la prima donna (Franca Valeri), in là con gli anni, ha un incidente sul palcoscenico ed Erica la sostituisce. Inizia allora un tira e molla (alquanto prolisso) tra la protagonista e Silver Boy, che, nel frattempo, si è reso conto dei propri errori e delle colpe di Marisa. Il loro amore trionfa mentre una nuova ballerina di fila entra nelle grazie di Farfarello e sostituisce Erica (secondo l’eterno schema di Eva contro Eva, Mankiewicz, 1951).
Niente di nuovo si trova, dunque, nel racconto, ispirato ai numerosi film precedenti. Ciononostante l’ottima regia di Salce che valorizza tutti i singoli personaggi, affidati ad attori perfettamente convincenti, caratterizza magnificamente gli ambienti, spesso assai miseri, in cui le compagnie si esibiscono e che riesce a rendere interessanti anche tutti i numeri d’avanspettacolo, nessuno dei quali appare un mero riempitivo. C’è rispetto e amore nei confronti di un sottogenere teatrale nel quale si sono forgiati attori di prim’ordine e che ha divertito le platee italiane per oltre mezzo secolo. C’è inoltre la sensazione che questo tipo di spettacolo sia ormai al suo crepuscolo sia perché la cultura media italiana si è elevata e tende a trovare meno divertenti i lazzi spesso assai grevi dei capocomici di rivista; sia perché l’offerta sessuale va facendosi sempre più esplicita e aggressiva (in altri contesti, dalle riviste cartacee al cinema d’autore e non): non a caso l’ultima rappresentazione della compagnia di Farfarello abbandona i consueti toni erotico-umoristici e, ispirandosi alla celebre canzone di Jane Birkin di quei mesi (Je t’aime moi non plus, 1969) offre Erica in un ruolo di seduttrice esplicita e partecipe (il numero si intitola Venere 2000...) . Sempre sullo stesso palcoscenico una ballerina finisce a seno nudo (per errore) e prosegue, acclamata, la propria esibizione.
Questo omaggio a una cultura popolare appare velata di malinconia poiché è evidente che nell’Italia della strategia della tensione e delle contrapposizioni politiche più drammatiche, un anno dopo piazza Fontana e nei giorni del misterioso golpe Borghese (dic. 1970), rimane poco spazio per un divertimento così semplice e ingenuo, in buona parte superato dalle nuove libertà sessuali generate dal ’68. In ogni caso esso ci viene descritto con uno sguardo sensibile da Salce il quale evoca anche il connesso universo dei fotoromanzi e interrompe spesso il fluire del racconto (nelle parti relative agli amori veri o presunti, appassionati o meramente erotici che si intrecciano nel contesto delle due compagnie teatrali) con didascalie che riprendono quelle ricorrenti in alcune riviste largamente diffuse tra lettrici di modesta estrazione sociale.
In Basta guardarla la sintonia con i due gruppi di teatranti è così totale che finisce col cancellare il mondo circostante, quello “reale”, ridotto alle anonime platee di spettatori tumultuanti e col sostituirlo con una serie di problematiche, di scaramucce e dispetti tutti interni a quell’universo anomalo e un po’ astratto.  Ciò finisce però col danneggiare la pellicola, calata in un’atmosfera divertente ma anche, a lungo andare, monocorde e ripetitiva.
L’insuccesso totale del film, snobbato da critica e pubblico, costituisce la più netta riconferma del disinteresse che ormai circonda il mondo dell’avanspettacolo.
Un insuccesso altrettanto netto (questa volta meritato) riscosse il successivo, mediocre Il provinciale (lug. 1971; 95 min.) in cui ritroviamo centrale la sempre affascinante Maria Grazia Buccella.
Il tema è ancora quello del provinciale che abbandona il paesello per farsi strada nella grande metropoli (Roma), questa volta come giornalista. Giovanni (Gianni Morandi) arriva a Roma dove cerca di farsi strada nientemeno che al Messaggero. Il personaggio è una semplice, sbiadita marionetta i cui tentennamenti e la cui ottusità stancano fin dall’inizio, non essendo compensati da una interpretazione di un qualche interesse. Il giovane incontra la squillo d’alto bordo Giulia (M. G. Buccella) e si lega alla donna senza comprendere il tipo di vita che conduce, sebbene lei tenti in ogni modo di farglielo capire. Di equivoco in equivoco ci si trascina fino al finale dolceamaro in cui la fin troppo disponibile Giulia dovrà cedere il passo a Silvana (Tery Hare), una rivale dallo stile di vita più ordinario.
Pellicola irrilevante, anche nel suo illustrare qualche prevedibile scorcio romano, Il provinciale suscita un’unica riflessione nel suo mettere in scena una donna emancipata, libertaria e sicura di sé al cospetto con di un giovane imbranato e un po’ fesso: il racconto indica, per l’ennesima volta, la rivoluzione epocale in atto e l’ascesa sociale del pianeta femminile capace ormai di mettere in crisi la parte più sprovveduta dell’altro sesso, fino a pochi anni prima dominatore assoluto della scena, familiare e non.
Da notare che Silvana è una delle prime ambientaliste del cinema italiano: già nel lontano 1971 (la prima Giornata della terra fu istituita da ambienti dell’Onu nel 1970) cominciano a popolare gli schermi e i rotocalchi figure di invasati o semi invasati che lanciano moniti apocalittici intorno al futuro del pianeta, causa inquinamento (poi si inventeranno altri termini allarmanti come effetto serra, buco dell’ozono, cambiamento climatico, riscaldamento globale ecc.); sono passati cinquanta anni e nessuna delle loro sciagurate profezie si è minimamente verificata. Eppure un pubblico senza memoria continua a dar loro credito (si noti che il maggio del 2019 è stato tra più freddi dell’ultimo mezzo secolo, obbligando addirittura alla riaccensione dei riscaldamenti in un mese in cui capita spesso di far funzionare i condizionatori... ).

Giunto al proprio ottavo lungometraggio, l’esperto regista di commedie umoristiche Mariano Laurenti firma Mazzabubù... quante corna stanno quaggiù? (feb.1971; 90 min.), pellicola a episodi che scherza sulla nuova sessualità post ’68 nel solco del recente Vedo nudo (Risi, 1969), anticipando Sessomatto (Risi, 1973).
Fin dal titolo l’autore si diverte a mostrare un piccolo esercito di Italiani che ha deciso di fare buon viso a cattivo gioco e pertanto di accettare le nuove libertà femminili che comportano una sorta di generalizzata poligamia. Le scenette alternano momenti spassosi a episodi noiosamente prevedibili. Tra i primi ricordiamo il tifoso che, allo stadio, dà del cornuto all’arbitro mentre tollera che sua moglie (Nadia Cassini) amoreggi con un altro tifoso; Salce critico d’arte malato di modernità che pretende che la moglie (Marilù Branco) si spogli e faccia l’amore davanti al lui con un pittore di tele astratte (l’episodio irride anche le pretese artistiche dell’astrattismo pittorico, un genere creativo legato a doppio filo alla cosiddetta modernità); un marito (Giancarlo Giannini), durante la prima notte di nozze, sospetta che la consorte (Rosemarie Dexter) non sia illibata, litiga e finisce con una prostituta (Silvana Pampanini) mentre la moglie si consola con un cameriere (Maurizio Bonuglia) dell’hotel (la scenetta si ispira liberamente a Lo sceicco bianco, Fellini 1952); uno stolto commendatore brianzolo (Umberto d’Orsi), che si crede sterile, assolda un allupato contadino veneto (un ottimo Renzo Montagnani accompagnato da una grossolana musichetta rurale) affinché fornisca lo sperma, senza accorgersi che la moglie (Claudie Lange) è, da tempo, l’amante del suo medico (Ettore Manni; un episodio simile si troverà in Sessomatto).
Meno divertenti  Franco e Ciccio che decidono di diventare “moderni” e di “salvare” i loro matrimoni attraverso una “trasgressione controllata” ovvero scambiandosi le riluttanti mogli (Isabella Biagini, Mariolina Cannuli), operazione che approda a un prevedibile litigio “in crescendo”. Scontati anche gli episodi con la moglie esquimese (Gianna Serra) e la donna del crociato (Riccardo Garrone), messa al sicuro con una cintura di castità.
Laurenti riesce a divertire proprio laddove mette sulla graticola le assurdità libertarie del nuovo corso. Impagabile, tra tutti, il “rozzo” Montagnani che, guardato con sufficienza dalla moglie fedifraga, si becca a ripetizione dell’ignorante da parte sia del medico, sia del ricco industrialotto che si crede “aggiornato” ed invece è solo una delle tante vittime dei “tempi nuovi”; al contrario il sempliciotto, attenendosi agli schemi di sempre, ha perfettamente compreso i veri termini della faccenda. Gli uomini di Laurenti (e degli sceneggiatori Continenza e Sollazzo) sono ormai succubi di tutti i capricci delle consorti e, pur di tenersele, accettano i loro tradimenti. Non a caso  gli intellettuali borghesi sono in prima linea (il critico Luciano Salce): il loro entusiasmo per la moderna e vacua arte astratta implica il medesimo stolto razionalismo che li porta a proclamare il presunto progresso insito nella parità dei sessi e nelle cosiddetta rivoluzione sessuale. E’ anche in film leggeri e sottovalutati come questi che si riflette sulla fine della società patriarcale in Italia.
Gli incassi furono modesti.

Dopo una lunga serie di fortunati western, Sergio Corbucci ritorna alla commedia drammatica con Er Più - Storia d’amore e di coltello (set. 1971 - 105 min.) in cui si rievoca la Roma umbertina di fine Ottocento, i suoi quartieri popolari (ricostruiti in studio con efficacia) e gli scontri tra capibanda di quartiere o bulli.
Nino (Adriano Celentano), pescivendolo manesco, assai abile col coltello, controlla il proprio quartiere (il borgo) con piglio deciso. Quando Augusto (Gianni Macchia), un intruso, forse perfino un delatore, inizia a corteggiare Rosa (Claudia Mori), la donna di Nino, lo scontro è inevitabile. Nel corso di un’aggressione, il pretendente muore e suo fratello Lorenzo (Maurizio Arena) cerca di vendicarlo nel corso di un solenne duello, girato in stile western. Il maresciallo dei carabinieri (Romolo Valli) giunge appena in tempo per chiarire che Augusto era morto in maniera accidentale e Nino non ne aveva colpa. Tutto sembra finire per il meglio, Nino finalmente sposa Rosa ma proprio durante la foto di rito il perfido e invidioso usuraio (l’ottimo Vittorio Caprioli), nonché abituale confidente dei carabinieri (come nel recente Madame Royale; vedi), spara a Nino anticipando l’eclatante gesto dell’anarchico Bresci. I re, piccoli o grandi, sono destinati a fare una brutta fine...
Il film, che ottenne un enorme successo, appare scolastico e generico. I personaggi sono figurine bidimensionali (ci sono anche Ninetto Davoli e Gino Santercole) che ripetono frasi fatte e stancano presto (lo stesso Celentano, milanese che parla un dialetto romanesco poco naturale, non convince fino in fondo) mentre le situazioni ricalcano le consuete schermaglie popolaresche volte a sancire il controllo di un territorio con tutto ciò che esso contiene (la bella Rosa). Tuttavia l’insieme riesce apprezzabile per la bella fotografia dai colori spenti, le piacevoli scenografie teatrali e le briose musiche d’epoca di Rustichelli. Su tutti svetta il bravissimo Caprioli e il suo brillante ritratto di un infame invidioso, unica figura non scontata del panorama, a cui di fatto spetta l’ultima parola.

Dopo quattro western consecutivi (1967-69) Giulio Petroni torna alla commedia umoristica con il mediocre Non commettere atti impuri (set. 1971, 90 min.).
In una Assisi ritratta in maniera completa (è questo il maggior pregio del film) si narrano le vicende di due nuclei familiari antitetici. Damiano (Luciano Salce) è un rappresentante infervorato dalle idee dei giovani contestatori con cui progetta manifestazioni e attentati dimostrativi; convive con la bella e trasgressiva Nadine (Barbara Bouchet) e col figlio Pino (Dado Crostarosa), un ragazzo imbranato che corteggia Maria Teresa (Simonetta Stefanelli), vicina di casa. Quest’ultima invece appartiene a una famiglia ultrabigotta di cui fanno parte la padre (Marisa Merlini) e lo zio (Claudio Gora). Petroni si limita a illustrare i due gruppi contrapposti quali segni rappresentativi di un’Italia divaricata tra clericalismo e rivoluzione. Entrambe le fazioni vengono ritratte con toni talmente carichi e farseschi da risultare presto ben poco divertenti, ripetitivi e prevedibili. Nel finale pasticciato e frettoloso lo zio seduce la nipote mentre Pino, disperato, si consola con la disponibile “matrigna”.
Le numerose, pittoresche figure sono, almeno a tratti, spiritose, anche se la presunta critica sociale, che dovrebbero veicolare, affonda rapidamente nella totale inverosimiglianza; invece la figura del protagonista, impacciato e perdutamente “stregato” dalla insignificante Maria Teresa, costituisce il punto debole del racconto.
Il film, nato sulla scia di Mazzabubù, fa parte del ristretto gruppo di pellicole che anticipa timidamente la stagione della commedia erotica italiano che verrà trionfalmente inaugurata da Malizia (Samperi, 1973).
Gli incassi furono molto modesti.

Enzo Castellari, valido autore del cinema d’azione (film western, bellici e in futuro poliziotteschi) si cimenta, senza troppa convinzione, nel racconto comico-farsesco con Ettore lo fusto (gen.1972, 105 min), in cui racconta una grottesca versione dell’Iliade ambientata nella Roma contemporanea.
Giove (Vittorio De Sica) utilizza Mercurio (Luciano Salce) per generare discordia tra due clan malavitosi: quello dei due re Menelao (Vittorio Caprioli) e Agamenone (Aldo Giuffré), che annovera tra le sue file anche Ulisse (Giancarlo Giannini), Achille (Mike Forrest) e Patroclo (Giancarlo Prete) e quello di Ettore lo fusto (Philippe Leroy), con Cassandra (Franca Valeri). La bella Elena (Rosanna Schiaffino), intesa come una insaziabile ninfomane, viene rapita da Paride (Jean Gallardo) e finisce per soddisfare mezzo clan “troiano”; per liberarla e per recuperare documenti scottanti (foto di cardinali, vescovi e autorità politiche impegnati in acrobazie amatorie) detenuti da Ettore a fini ricattatori, iniziano furibonde e noiose scorribande: dopo i fatali scontri tra Ettore e Patroclo ed Ettore e Achille, si giunge all’introduzione nel regno di Priamo di un insidioso regalo: una rolls royce stracolma di “guerrieri achei”...
Il cast è notevolissimo e la prima parte, giocata su dialoghi e situazioni ben costruite, appare realmente divertente: soprattutto il conflitto tra solennità cardinalizia (un ottimo De Sica) ed erotismo popolare presente nelle due case di tolleranza (quella scalcagnata dei due re e quella lussuosa di Ettore) è ben calibrata e approda ad una satira vivace e in linea con i numerosi film anticlericali del periodo (da La moglie del prete a Il prete sposato, da Io e Dio a Nel nome del padre). Il sesso, in tutte le sue manifestazioni normali e “anormali”, viene trattato con spregiudicata gaiezza, ribadendo l’antica concezione della donna felicemente asservita al desiderio del maschio padrone, alla faccia del femminismo montante. Quando però si passa agli episodi bellicosi, con gli assalti notturni e diurni, le scorribande in auto e i duelli in moto il film naufraga, non riuscendo ad amalgamare registro serio e umoristico: Castellari cerca di realizzare buone sequenze d’azione, inadatte a un film che dovrebbe innanzitutto divertire.
Da segnalare l’incredibile, grave incidente della Fiat 127 verde che, durante uno spericolato salto nelle vicinanze del palazzo dell’Eur, si va a schiantare realmente contro un muro (lo stuntman Remy Julienne ne uscirà miracolosamente illeso), incidente ce il regista decise di mantenere, con un abile accorgimento narrativo, all’interno del film.
Gli incassi furono buoni.

Flavio Mogherini, già scenografo nei due decenni precedenti in numerosi capolavori del cinema italiano (firmati da Pasolini a Zurlini, da Comencini a Risi), esordisce alla regia con lo scadente Anche se volessi lavorare che faccio? (apr. 1972, 100 min.), pellicola che racconta le peripezie di un gruppo di piccoli truffatori capitanati da Ninetto Davoli.
Il film, ambientato in piccole realtà rurali del Lazio, inanella una serie di episodi di scarso interesse che alternano modeste ruberie all’ambizione di svaligiare un importante museo archeologico. Il film appare un ricalco esplicito de Il bidone (Fellini, 1955), mentre vengono letteralmente citate situazioni e immagini da Accattone (la morte finale di uno dei protagonisti), L’armata Brancaleone, Otto e mezzo, I soliti ignoti e perfino Il giorno della civetta. Il film di Mogherini si trascina stancamente, non riuscendo né a coinvolgere emotivamente, né a divertire poiché l’umorismo è di grana grossa e spesso banale; si tratta di uno dei primi esempi di film cinefilo in cui il continuo ricorso a omaggi, citazioni e rifacimenti finisce con l’uccidere qualunque vitalità del racconto, rendendolo discontinuo e disordinato oltre al fatto, dannoso per l’opera, di evocare pellicole di qualità infinitamente superiore. L’idea di fondo è, probabilmente, l’esaltazione di uno stile di vita anarcoide e libertario (quello, insomma, dei bidonisti felliniani e dei sottoproletari pasoliniani) che, tuttavia, affoga nella noia complessiva della vicenda.
Il notevole cast (ci sono anche Luciano Salce, Adriana Asti, Maurizio Arena, Enzo Cerusico, Francesca Romana Coluzzi che rievoca la Barbara Steele de L’armata Brancaleone e Vittorio Caprioli nei panni di un simpatico iettatore) non può far nulla per rivitalizzare un progetto nato male.
La pellicola fu un fiasco commerciale.

Dopo il trittico “rivoluzionario” dell’esordio (1968-70) e una commedia nera dal titolo argentiano (Un’anguilla da 300 milioni), Samperi approda a Beati i ricchi (ago 1972, 100 min.), una farsa sempliciotta e abbastanza anonima in cui si salva solo il simpatico e bravo Lino Toffolo.
A Pallanza (lago Maggiore) Geremia (L. Toffolo) è un brillante contrabbandiere di sigarette, nonché seduttore seriale di bellezze locali (tra cui Enrica Bonaccorti). Suo cognato, invece, è un ottuso vigile (Paolo Villaggio con movenze prefantozziane), figura parzialmente ricalcata su quella disegnata da Sordi ne Il vigile (Zampa, 1959). Per caso la coppia si ritrova tra le mani la enorme cifra di due miliardi (che avrebbe dovuto prendere la via della Svizzera) mentre i legittimi proprietari (i notabili locali ovvero Umberto D’Orsi, Sylva Koscina e altri) mettono in opera un’infinita serie di trucchi (spesso puerili e prolissi nella realizzazione) per riuscire a recuperarli. L’avrà vinta il furbo Geremia mentre tutti gli altri rimarranno beffati.
Il raccontino è sciocco e ripetitivo, realizzato con situazioni e dialoghi privi di interesse. L’unico motivo per seguire la bislacca vicenda consiste nella interpretazione di Toffolo che dà vita a un personaggio di briosa originalità, perfettamente adeguato allo spirito dei tempi. Geremia è u contrabbandiere libertario e anarchico che rifugge il lavoro (chiama sovente schiavi gli svariati sottoposti dei notabili), è relativamente insensibile anche alla ricchezza (i due miliardi acquisiti per caso non lo smuovono dalle quotidiane abitudini) e non mostra alcun rispetto per i potenti di turno. Geremia è, insomma, ciò che resta delle tendenze rivoluzionarie di un regista che ha ormai abbandonato il discorso politico e che, tra poco, diventerà l’iniziatore del softcore italiano con l’esplosivo dittico (Malizia, Peccato veniale) incentrato su Laura Antonelli .
Il film fu un fiasco commerciale.

Marcello Baldi gira Incensurato, provata disonestà, carriera assicurata cercasi (dic. 1972; 100 min.), film che, forse a seguito del fiasco commerciale, risulterà essere la sua ultima opera. Il regista si inserisce nel circoscritto genere di satira politica che conta alcuni discreti titoli in questo inizio decennio (All’onorevole piacciono le donne, Il generale dorme in piedi, Vogliamo i colonnelli...) e lo fa con una pellicola poco interessante, ripetitiva e sconclusionata anche perché parte da una premessa abbastanza assurda.
Essendo morto all’improvviso un candidato democristiano, pur non perdere il seggio il partito arruola un individuo qualunque purché omonimo del defunto. La scelta cade sul fervente comunista Giuseppe Zaccherin (Gastone Moschin). L’uomo viene convinto addirittura da un alto dignitario (Arnoldo Foà) del Pci, mente tutti i suoi amici e conoscenti, accesi marxisti come lui, lo insultano e sbeffeggiano. La situazione precipita quando Zaccherin si trova sostenuto apertamente addirittura dai fascisti: l’uomo cerca invano di sfuggire alla kafkiana situazione ma, anziché farsi dimenticare, ottiene l’effetto opposto e viene eletto con una inattesa valanga di voti. A quel punto è la DC che non sa più come liberarsene e decide di “promuoverlo” presidente della repubblica...
L’assurda situazione stanca presto mentre la sceneggiatura non sa proporre varianti allo schema iniziale con un Moschin impegnato per l’intero film a cercare di scusarsi e di rendere accettabile a sé e agli altri il suo ruolo di candidato democristiano. Nel frattempo il racconto illustra tutti i giochetti di palazzo che legano, in maniera cameratesca, quei partiti che nelle piazze fingono di combattersi: Baldi, insomma, denuncia, vent’anni prima di Mani Pulite, la presenza di una solida casta parlamentare trasversale a tutti i partiti e radicalmente separata dalla gente comune. Tutto ciò non basta, però, a rendere vivace e interessante il film il quale, tra l’altro, si disperde in cento rivoli narrativi, tutti poco brillanti, senza riuscire a concentrarsi su un evento realmente efficace e decisivo. Anche la recitazione, tutta farsesca e sopra le righe, finisce con l’annoiare.

La politica tiene banco anche nel pessimo La torta in cielo (dic. 1972, 90 min.) di Lino Del Fra, da un racconto di Rodari, sorta di fiaba per bambini intorno a una torta volante scambiata per un Ufo. I militari, guidati da Paolo Villaggio, vengono dipinti come golpisti che non vedono l’ora di stabilire un regime autoritario con il pretesto dei marziani; i bambini, vivaci e “progressisti”, li combattono a torte in faccia...
Il film fu un totale fiasco.

testo scritto nel gen. 2020