Mamma, Il capitan Fracassa e Miseria e nobiltà

Kean, Mamma, Vertigine, Miliardi, che follia!, La Gorgona, Il ponte dei sospiri, Giù il sipario, La donna perduta, Il Bravo di Venezia, Il capitan Fracassa, Boccaccio, Miseria e nobiltà, La figlia del corsaro verde, I pirati della Malesia, Le due tigri, Se non son matti non li vogliamo, Signorinette, Cenerentola e il signor Bonaventura e Margherita fra i tre: divagazioni letterarie (1940-42)
 

            E pure che bella cosa è fà lo nobele!... Rispettato, ossequiato da tutti... cerimonie, complimenti... É un'altra cosa, è la vera vita!... Neh? Lo pezzente che nce campa affa?... Il mondo dovrebbe essere popolato di tutti nobili... Tutti signori, tutti ricchi!... Pezziente nun ce n'avvarriana stà!...”Felice in Miseria e nobiltà (II° atto, scena 7°; Scarpetta, 1888)
             

Guido Brignone, originario di Milano (n. 1887), esordisce come attore cinematografico negli anni dieci per poi passare alla regia a partire dal decennio seguente. Negli anni trenta confeziona commedie, operine musicali e film storici al ritmo di due, spesso tre pellicole l’anno senza firmare lavori particolarmente significativi. Nei primi mesi del 1940 esce il suo Kean - Gli amori di un artista (aprile; 80 min), trascrizione fedele del dramma teatrale in cinque atti (1836) di Alexandre Dumas padre che aveva già conosciuto numerose versioni filmiche nell’era del muto. Vi si racconta, ispirandosi a vicende reali, del popolare attore inglese Edmond Kean (1787-1833), ineccepibile interprete di testi shakespeariani, il quale si innamora della contessa Elena de Koefeld, sposata nonché oggetto delle attenzioni del principe di Galles. La donna, cedendo al fascino dell’uomo di teatro, fa segretamente visita all’attore nel suo camerino; il fatto però viene scoperto e a Kean, per evitare lo scandalo, viene ordinato di partire per l’esilio.
La versione del regista romano, con Rossano Brazzi nelle vesti del protagonista, è dignitosa e piacevole. Il cineasta riesce soprattutto a illuminare una società rigidamente classista immettendo una netta vena di ostilità nei confronti degli aristocratici (ritratti come gente meschina e salottiera) e animando le scene popolari (Kean frequenta malfamate taverne e la gente di un circo nel quale un tempo era saltimbanco) con una corrente di vivace simpatia. In tal modo sia lo spirito del testo di Dumas, sia la linea politica populista e radicalmente antiborghese del regime fascista, tipica della fine degli anni trenta, vengono avvalorate. Mussolini, un tempo rispettato dirigente socialista, mostra infatti crescente insofferenza verso una classe sociale pacifista e quieta, apertamente contraria alla guerra imminente e sospettosa verso la sua politica “rivoluzionaria” (in realtà utopica e sbagliata) volta a creare l’ “italiano nuovo” ossia l’indomito guerriero erede dell’impero dei Cesari. La vena popolaresca della pellicola di Brignone (e di tante altre coeve) blandisce pertanto le recenti linee guida della politica sociale del regime.
Nel 1953 il testo di Dumas viene rielaborato da Jean Paul Sartre in una nuova, fortunata versione alla quale si ispira Kean. Genio e sregolatezza diretto ed interpretato da Vittorio Gassman nel 1956.
Nel successivo Mamma (febbraio 1941; 81 min.) Brignone conferma la propria adesione al dettato ideologico del regime attraverso una pellicola che elogia l’universo rurale, la sottomissione della moglie (e soprattutto madre) al marito e il disprezzo per il futile modernismo della borghesia cittadina, contagiata da manie esterofile.
Mario, un celebre e ricco tenore (Beniamino Gigli) sposa Donata (Carola Hohn) una donna più giovane, straniera e poco innamorata. Giunti nella residenza del cantante, una signorile dimora immersa nella campagna laziale, la moglie manifesta un’evidente insofferenza per i “serafici” luoghi e comincia a flirtare con un giovane vicino di casa (Federico Benfer). La situazione precipita: l’anziana madre (un’ottima Emma Gramatica) di Mario dapprima redarguisce la nuora, poi la implora a rimanere accanto al marito, fino a morirne; la donna capisce e torna sui suoi passi. Nel luminoso, programmatico finale il regista ritrae la coppia felice, allietata dalla presenza di un bambino.
Il film di Brignone (che utilizza soggetto e sceneggiatura di Guido Cantini) illustra tutti i luoghi comuni del ruralismo nazionalista del regime: guarda con antipatia alla donna straniera sempre in cerca di feste e sciocchi diversivi; addita con scandalo l’usanza (tutta inglese) di dormire in stanze separate e con ancor maggior riprovazione la scelta della donna di non avere figli; infine la dipinge come una sciocca avventuriera alla ricerca di facili e transitorie avventure amorose col primo venuto (appare evidente la poca passione che anima il flirt extraconiugale con il vicino, un semplice rimedio alla noia calato entro uno stile di vita femminile dispersivo e mal concepito). Al contrario la descrizione del microcosmo rurale è venato da ogni possibile simpatia: persone sagge e premurose circondano l’anziana madre mentre il popolo dei coloni vive in completa, “corporativistica” armonia con la stimata padrona (un curioso accostamento andrebbe fatto con Novecento, 1976, di Bettolucci: la descrizione del rapporto tra le classi sociali nelle campagne italiane trova ovviamente descrizioni radicalmente antitetiche nelle due pellicole).
L’episodio conclusivo, nel quale tutte le tensioni vengono condotte al loro apice, è un piccolo capolavoro di montaggio alternato dal quale forse ha imparato qualcosa anche il Coppola della saga de Il padrino (con particolare riferimento al finale della terza parte, 1990, ambientata al teatro Massimo di Palermo durante un’esecuzione di Cavalleria rusticana): il cruccio del protagonista, raggiunto in teatro dalla notizia della fuga della moglie, si esprime subito dopo nelle scene operistiche dell’Otello (1887) di Verdi (la tempesta iniziale, il tema del bacio, il tetro monologo sulla gelosia, la morte conclusiva con la ripresa del tema del bacio) entro le quali si dipana l’affannosa rincorsa della madre nei confronti della nuora e del suo spasimante, rincorsa che termina con la sua morte e con la riappacificazione della coppia.
Pur all’interno di un reticolo di valori noti e prevedibili il racconto si svolge con una lodevole concisione e attraverso schemi narrativi che, da meri espedienti linguistici, si fanno sostanza e monito; così il ricorso al montaggio alternato, utilizzato non solo nel finale ma durante l’intera vicenda, serve a sottolineare la distanza ideale che separa Mario da Donata ovvero il positivo universo rurale-italiano da quello mondano-straniero il cui ozio programmatico “infetta” anche la sfaccendata, italica borghesia cittadina tra partite di tennis, feste danzanti e corse di cavalli.
Mamma è un’altro lavoro che sembra provenire da un passato arcaico e incredibile: in esso sopravvivono barlumi di una Tradizione che cominciava a essere spazzata via ancor prima dell’arrivo (e della successiva inevitabile affermazione) nella penisola della concezione laica, materialista ed edonistica degli anglosassoni. Visionato nel nuovo millennio esso offre un’automatica e involontaria critica di un tempo presente in cui l’industria del tempo libero è diventata una realtà opprimente e obbligatoria mentre la nascita di un bimbo (che corona felicemente la pellicola di Brignone, evento fondamentale che sancisce il definitivo approdo della moglie all’universo dei valori della vita e della comunità nazionale e dunque alla propria umana maturità) è spesso percepita come un ostacolo insormontabile alla realizzazione della propria esistenza. Nei primi anni quaranta Peter Pan (personaggio reso “universale” da Disney nel 1953) non era ancora un modello di vita.
Il successivo Vertigine (dicembre 1941; 85 min.) appare un’evidente copia di Mamma (soggetto e sceneggiatura sono ancora di Guido Cantini), altrettanto pregevole anche se meno ricca di stimoli nell’ambientazione e nelle figure di contorno. Ricompaiono Beniamino Gigli ed Emma Gramatica, ora nei ruoli di un padre sconvolto e di una zia preoccupata, entrambi alle prese con le peripezie della figliola (Ruth Hellberg) la quale si innamora perdutamente di un bancario (Herbert Wilk), incapace di liberarsi di un’antica amante (Camilla Horn). Il fidanzamento si rompe quasi subito, l’uomo abbandona tutto e inizia una fatua peregrinazione per i casinò della penisola (dove si indebita con la malavita) mentre la ragazza cade in una mortale depressione. Il finale è nuovamente modellato su quello della pellicola precedente: mentre Gigli, che interpreta il ruolo di un celebre tenore, interpreta La Bohème, la giovane rivede l’ex fidanzato, lo aiuta consegnandogli del denaro e, sfinita, torna a casa per morire nel proprio letto. Intorno al suo capezzale tutti i personaggi - increduli - la piangono.
La morte della protagonista e quella di Mimì (sulla scena) si intersecano e si fondono all’interno di un abile e spesso poetico montaggio alternato che giunge al proprio apice allorché Gigli pronuncia la celebre frase finale in parlato (“che vuol dire quell’andare e venire, quel guardarmi così”) scrutando dietro el quinte gli amici che si aggirano tormentati: in un attimo il tenore intuisce la sciagura capitata alla propria figliola e rientra in scena intonando lo struggente canto di commiato (sottolineato dalla grande frase orchestrale), il quale risulta ora indirizzato alla propria tragedia familiare (e in sostanza alla materia del racconto filmico) e, solo di riflesso, alla Mimì del palcoscenico.
In Vertigine (come già in Mamma) Brignone conferma la derivazione diretta dell’arte filmica italiana dalla grande tradizione del melodramma. Le vicende dei personaggi sono avvolte nella più totale, astratta inverosimiglianza, cosa che permette loro di divenire lo scenario quasi onirico di passioni esacerbate, espresse attraverso l’intensità senza pari delle note pucciniane dedicate all’idillio di Rodolfo e Mimì.
Il canovaccio della fanciulla per bene distrutta dall’amore per un avventuriero è tema ricorrente in quel periodo (si pensi a Primo amore di Gallone, uscito nelle sale due mesi prima), ma lo si ritroverà anche in decine di pellicole successive (ad esempio Femmina incatenata, Di Martino, 1949); vi tornerà lo stesso Brignone nel simile Inganno (1952) ambientato nella Trieste amministrata dagli Alleati. E’, in fondo, anch’esso un archetipo tipicamente melodrammatico, fin dai tempi di Carmen (Bizet, 1875; anche se in quel contesto i ruoli erano ovviamente rovesciati), archetipo che si presta meravigliosamente alla costruzione di “melodrammi” filmici.
L’originale struttura del finale architettata, per ben due volte, da Brignone, con il suo suggestivo, enfatico rispecchiamento delle vicende narrate in quelle poste in scena su un palco d’opera, trova un estimatore nel Gallone di Odessa in fiamme (settembre 1942) il quale giocherà tutto l’avventuroso finale del suo film “russo” su un simile raddoppiamento narrativo (in quel caso l’opera sulla scena sarà Tosca; vedi).
Brignone gira poi un terzo film “canterino”, Miliardi, che follia! (settembre 1942; 90 min.), che costituisce un ulteriore peggioramente rispetto a Vertigine. Ispirandosi al romanzo Un mlionario si ribella (1938) di Raffaele Carrieri, sceneggiato da Tommaso Smith, il regista racconta le “consuete” frustrazioni di un ricco industriale della plastica in un Sud America di cartapesta. Questo alto borghese (il tenore Giuseppe Lugo), come decine di altri personaggi del cinema fascista, è scontento, anzi oppresso dal lusso che lo circonda e lo “soffoca”. Sogna di poter abbandonare tutto e di cantare le arie di Verdi e di Puccini in teatri popolari. Gli autori, dunque, gliene offrono l’occasione: rapito dalla concorrenza, il nostro finisce in zone sperdute e misere, si aggrega a una compagnia di attori girovaghi, si innamora della prima donna (Mara Landi), recita in drammi shakespeariani nei quali inserisce le sue arie d’opera (Celeste Aida, Nessun dorma) di fronte a un pubblico di povera gente stupita ed insieme estasiata (insomma il sogno herzoghiano di Fitzcarraldo). Infine torna a casa appena in tempo per interrompere la cerimonia funebre in suo onore (lo si dava ormai per morto), annuncia il ritiro dagli affari e, con i suoi amici teatranti, opta per un’esistenza bucolica.
Il racconto è oltremodo fiacco e prevedibile in ogni suo aspetto: la residenza sontuosa dell’industriale è il consueto covo di gente frivola e opportunista, la compagnia girovaga è invece luogo genuino della semplicità e dell’amore, infine gli spettacoli nei piccoli centri dimenticati sono festose e divertenti rielaborazioni della somma poesia di “Guglielmo” (Shakespeare). Le lunghe parentesi sonore rendono ancor più statico e tedioso l’insieme.
L’unico episodio di un certo interesse è costituito dall’esordio del tenore: nei panni impegnativi dello Spettro (Amleto) non riesce a proferire parola e, allora, di fronte a una platea sghignazzante, si toglie d’impaccio intonando a sorpresa la romanza Celeste Aida. Le risa allora cessano e l’incanto verdiano conquista il cuore degli umili abitanti del borgo.
Miliardi, che follia! è insomma l’ennesimo spettacolo populista, generato dall’antico nocciolo mazziniano dell’ideologia fascista e prodotto per rincuorare la povera gente alla quale si racconta quanto è bello vivere di poche, umili cose. E’ questo, in fondo, il sogno di ogni ricco...
Il mese seguente esce nelle sale un altro film di Brignone, totalmente diverso dal precedente. Si tratta de La Gorgona (ottobre 1942; 85 min.), versione filmica (sceneggiata dal regista con Tommaso Smith) del dramma omonimo (1913) in quattro atti di Sem Benelli, che va a inserirsi nel solco del grande successo scandalistico de La cena delle beffe (Blasetti, 1942; sempre da Benelli, vedi). Il testo é altrettanto torbido, basandosi interamente sul progetto di uno stupro quale strumento di vendetta e il regista lo “arricchisce” con un iniziale nudo femminile, così da assicurarsi la squalifica ecclesiastica (scontato il giudizio di “escluso”).
Nella Pisa del 1160 una flotta di navi prende il mare per sconfiggere i pericolosi Mori i quali, partendo dalle vicine Baleari, attuano feroci incursioni sulle coste italiane. Nella repubblica marinara Spina di Pietro (Mariella Lotti), detta la Gorgona (noto mostro mitologico che trasformava in pietra chi osasse guardarla), è la vergine promessa ad Arrigo (Piero Carnabuci), valoroso condottiero che guida le armate italiane: ogni notte ella percorre le mura di Pisa con una fiaccola accesa e nessuno può avvicinarla, pena la morte. Il rituale neopagano simboleggia il connubio di purezza e forza. Lamberto (Rossano Brazzi), nobile fiorentino e rabbioso rivale di Arrigo, trasgredisce il divieto, viene scoperto e condannato a morte dal padre (Camillo Pinotto), cui è stato affidato il compito di vegliare sulle mura pisane. Lamberto e Spina si scoprono innamorati ma è tardi: l’uomo si uccide e la donna, rimasta sola, si getta dalle mura.
Il dramma oscuro e intenso, prevedibile nei suoi sviluppi, viene realizzato con abilità da Brignone il quale si affida a un montaggio nervoso e ricco di “cambi di scena” per animare l’intreccio dannunziano, di chiaro stampo teatrale. L’atmosfera intensamente cupa e gli attori perfettamente calati nelle loro parti danno vita a uno spettacolo decisamente desolato nel quale l’impulso patriottico (affidato alla figura di Arrigo e alla guerra sui mari, tutta peraltro “fuori campo”) si scontra con il contesto generale deprimente, nonché attraversato da inquietanti premonizioni al punto che la censura fascista avrebbe fatto meglio a vietare un simile spettacolo in quell’autunno 1942. Tanto più che Benelli era un noto antifascista (dopo gli entusiasmi della prima ora), le cui opere venivano discretamente ostacolate dal regime.
Siamo innanzitutto in un’Italia popolata da repubbliche, la stessa che verrà celebrata nella seconda metà degli anni quaranta (le repubbliche marinare sono un patrimonio storico al quale ci si riallaccerà dopo il referendum del 1946; si pensi alla prima emissioni filatelica di tipo commemorativo dedicato appunto a tali repubbliche e all’uso dei simbolo della repubblica veneta nelle banconote italiane a partire dagli anni settanta). L’Italia del 1160 è già spaccata in fazioni (ci sono, in lotta tra loro, i fedeli dell’imperatore e i seguaci del Papa) le quali, a fatica e solo in superficie, trovano un punto d’incontro nella lotta contro i Mori. Mentre Arrigo guida la coalizione, dentro le mura pisane un presunto alleato trama per distruggere il simbolo dell’unità e della forza dell’armata italica, attentando alla verginità della Gorgona. Insomma, in quest’atmosfera spaccata da rivalità insanabili, incapaci di ricomporsi neppure nel momento del pericolo supremo (la minaccia dei Mori), si presagisce già tutta l’Italia della guerra civile e del lacerato dopoguerra. Lo stesso finale tragico, per quanto allineato alla tradizione del dramma romantico e operistico in un film di evidente natura operistica (si ascolti la colonna sonora di Enzo Masetti), appare fuori posto nell’Italia del 1942: se l’esito militare della spedizione è scontato, l’ultima nera parola viene lasciata ai due amanti e al loro suicidio, segno evidente di una realtà conflittuale e infelice, prossima al disastro.
Il Brignone de La Gorgona non sembra preoccuparsi di comunicare una parola di speranza o di fiducioso patriottismo: egli altresì, forse inconsapevolmente, delinea sconvolti scenari futuri attraversati da odi settari, fin all’interno delle singole famiglie (il padre costretto a decretare la condanna a morte del figlio Lamberto) e da lutti incombenti.

Mario Bonnard, nato a Roma nel 1889, esordisce nel cinema come attore intorno al 1910 e come regista nella secondà metà del decennio. Nel periodo 1925-30 dirige film in Germania e in Francia. Rientrato in Italia lavora assiduamente (circa un paio di pellicole l’anno), privilegiando il genere della commedia. Nel 1940 firma addirittura cinque film tra i quali Il ponte dei sospiri (gennaio; 107 min), sontuoso prodotto d’intrattenimento derivato dall’omonimo romanzo (1901) dello scrittore francese Michel Zevaco (Piero Pierotti firma una nuova versione filmica dal titolo identico nel 1964). Quest’ultimo, autore di libri popolari di successo e di oltre millequattrocento feuilleton, vi narra i complotti orditi contro l’eroe Rolando da parte di una fazione avversa, capeggiata dal futuro sposo della figlia del doge la quale é invece (come dubitarne) innamorata di Rolando.
Ambientata nel Cinquecento la pellicola di Bonnard è una sorta di kolossal dell’epoca. Il regista (autore anche della sceneggiatura) delinea una efficace ambientazione veneziana, maneggia con discreta abilità i consueti stereotipi della tradizione teatrale e melodrammatica, non a caso avvolti da una colonna sonora di matrice operistica (essa contiene anche eleganti accenni madrigalistici volti a rendere più convincente la cornice rinascimentale) scritta dal compositore e direttore d’orchestra Giulio Bonnard (fratello del regista) e si solleva dall’ordinario mestiere con alcune originali sequenze. Tra esse ricordiamo l’agguato notturno a Rolando raccontato con incisivi effetti chiaroscurali e un commento sonoro teso e insinuante e soprattutto la grande sequenza centrale dell’alterco tra una cortigiana e un nobile che approda all’uccisione di quest’ultimo ad opera della prima (uccisione di cui verrà ingiustamente incolpato il protagonista). Questa pagina, organizzata in un virtuosistico montaggio alternato, giustappone le immagini della lite e dell’omicidio con quelle di un inquietante spettacolo di balletto che si tiene nelle sale adiacenti, spesso arrivando a suggestive giustapposizioni di inquadrature giocate su evidenti similitudini figurative (montaggio per “attrazione”). Bonnard infine illumina senza infingimenti il mondo delle compiacenti cortigiane con accenni erotici che scompariranno, di lì a poco, nell’universo cinematografico controllato dal potere democristiano.

Matarazzo si inserisce nel solco delle trascrizioni letterarie con il mediocre Giù il sipario (apr.1940; 80 min.). Il testo originale è la commedia Dietro le scene (1838) di Francesco Augusto Bon.
Vi si racconta di una sgangherata compagnia teatrale alle prese con l’opera prima di un modesto scrittore (Andrea Checchi), innamorato della primadonna (la bamboleggiante Lilia Salvi); nella squinternata rappresentazione si inserisce il capriccio dello zio (Armando Migliari) del poeta il quale dapprima è deciso a sabotare la rappresentazione, così da ricondurre il nipote a più seri studi e a migliori frequentazioni. Poi però anch’egli si innamora di un’attrice (Rosetta Tofano) della compagnia e allora cambia idea: paga tutti affinchè il lavoro abbia successo, magari come farsa, visto che come dramma è ridicolo.
Come si nota il soggetto è ben poca cosa e avrebbe necessitato di un cast eccezionale e di una regia spiritosa per ravvivarlo. Inveve siamo in presenza di un film smorto e tedioso, tutto girato in interni, prevedibile nei dialoghi e negli snodi narrativi. Inoltre, nel suo riprendere un innocuo e datato testo di un secolo prima, Matarazzo si estranea sia dalle linee guida della abituale propaganda populista del regime, sia dalla drammatica situazione che sta vivendo il popolo italiano, alle soglie della guerra.
Il film ebbe accoglienze tiepide e venne stroncato da numerosi critici.

Domenico Gambino adatta per lo schemro la piacevole operetta (1923) di Giuseppe Pietri La donna perduta (ago 1940; 85 min.). Il libretto, tra gli altri dal futuro regista e uomo politico Guglielmo Giannini, racconta di Giacomina (Elli Parvo), ex cameriera che ha fatto fortuna come cantante. La donna, ora da tutti ammirata anche se ritenuta dalle cerchie aristocratiche una “donna perduta”, ritorna al suo paese e intreccia un breve amore con l’aristocratico Alberto (Osvaldo Genazzani), fidanzato della nobile Doretta (Luisella Beghi). Quest’ultima fugge di casa, raggiunge la coppia nella villa di uno spregiudicato barone (Alberto Capozzi), riesce a far ingelosire Alberto e a riconquistarlo. La sottotrama buffa invece prevede un simpatico cameriere (Carlo Campanini), ex amoroso della cameriera Giacomina, che si traveste da marajà generando equivoci a non finire durante la festa conclusiva, nella villa del barone. Anch’egli riesce a rinsaldare l’antico rapporto amoroso. Ogni cosa torna al suo posto secondo l’antica regola aristotelica che vuole il simile attratto dal simile: i nobili con i nobili e i servi con i servi.
La continuità tra melodramma, operetta e cinema trova, con questo film, l’ennesima conferma. Gli attori, confinati entro scenografie rigorosamente teatrali, offrono interpretazioni convincenti; le parti recitate sono, di gran lunga, prevalenti mentre solo alcuni brani musicali vengono recuperati ed inseriti con abilità nel film. Nell’insieme la pellicola vale poco come opera cinematografica; è tuttavia una buona occasione per conoscere l’operetta di Pietri. Inoltre la regia accentua la consueta antipatia antiaristocratica del cinema di regime, esalta due servitori sempliciotti e un po’ amorali mentre mette alla berlina il classismo altero della famiglia di Doretta.

Il bravo di Venezia (settembre 1941; 85 min.) di Carlo Campogalliani (su una sceneggiatura del medesimo e di Alberto Spaini) è una pellicola molto simile al Ponte dei sospiri di Bonnard: ambientazione veneziana e rinascimentale, cornice sontuosa realizzata con largo dispendio di mezzi, ricche feste in case di cortigiane e agguati notturni tra le calli; in aggiunta vi si trova la figura del celebre pittore Paolo Veronese e della sua bottega. In essa lavora il protagonista (Rossano Brazzi) innamorato di una ragazza (una delle prime prove di Valentina Cortese, allora sedicenne) oggetto delle mire del Don Rodrigo di turno, un nobile potente e assai vicino al doge il quale riesce a far imprigionare il proprio rivale. Le drammatiche vicende (nel finale Brazzi viene salvato in extremis da un’ingiusta condanna a morte dal doge il quale prontamente punisce l’aristocratico criminale) ruotano intorno a questo scontato triangolo amoroso, come si nota lo stesso che animava il Ponte dei sospiri.
La pellicola di Campogalliani, regista (nato a Concordia sulla Secchia, vicino Modena, nel 1885) che aveva esordito all’epoca del muto e aveva firmato una decina di dignitose pellicole nel periodo 1930-40, non possiede però quelle qualità di suggestione visiva e di abilità nella costruzione del racconto (il suspense, il montaggio creativo) che salvavano a tratti il lavoro di Bonnard, riducendosi a una illustrazione tanto fastosa quanto inerte e dozzinale. Vi si riscontra la consueta simpatia “fascista” per le classi popolari (il protagonista è persona di umili origini, figlio addirittura di un bandito) e l’altrettanto nota diffidenza nei confronti di una aristocrazia sfaccendata e intrigante. La trionfante giustizia garantisce un finale rassicurante, volto a ricordare alle classi più umili (ora messe alla prova da privazioni e bombardamenti) che il supremo potere (il paternalistico doge-duce) riesce sempre a scovare le oscure macchinazioni delle mele marce (aristocratici o alti gerarchi), a sventarle e a ristabilire i giusti equilibri. Intrattenimento e messaggi “confortanti” si intrecciano come sempre in questo cinema pensato per masse popolari dai gusti semplici.

Il medesimo discorso vale per Il capitan Fracassa (novembre 1940; 94 min.) di Duilio Coletti, film d’amore e d’avventure fedelmente tratto dall’omonimo romanzo (1863) di Théophile Gautier, sceneggiato dal regista con Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio e Piero Tellini.
Il nucleo della vicenda è simile a quello de Il Bravo di Venezia: una coppia di innamorati, un nobile ribaldo che si invaghisce della giovane e la fa rapire, la resa dei conti finale e la figura di un padre severo che interviene a riportare la pace. Come di consueto si guarda con simpatia al mondo degli umili nel quale si svolge, quasi per intero, la vicenda anche se il taglio ottocentesco della fonte non consente di porre in atto l’abituale propagandistica contrapposizione di purezza popolare e corruzione aristocratica.
Nella prima metà del Seicento, in Francia, il barone di Sigognac (Giorgio Costantini), nobile decaduto, si unisce a una compagnia di teatranti girovaghi, prende il nome di Capitan Fracassa, si innamora della primadonna Isabella (Elsa De Giorgi) che nel frattempo viene corteggiata dallo spregiudicato duca di Vallombrosa (Osvaldo Valenti). Quest’ultimo non esita a farla rapire ed allora Sigognac assalta il castello del rivale con i suoi amici comici. Dopo combattimenti e duelli, in cui la cifra rimane sempre quella umoristica e picaresca, ogni cosa torna al suo posto. Non manca la classica scena d’agnizione finale: la primadonna è in realtà figlia illegittima di un nobile di buon cuore.
Dal romanzo di Gauthier era stata ricavato un melodramma (Parigi, 1878) da Emile Pessard. Nei primi decenni del Novecento - l’epoca del cinema muto - viene più volte messo in immagini mentre l’onesto lavoro di Coletti è tra le prime versioni del cinema sonoro. Tra i titoli successivi si trovano una versione francese di Pierre Gaspard-Huit (1961) e una italiana di Ettore Scola (1990). Siamo di fronte all’ennesima conferma della sostanziale continuità di teatro lirico e mondo filmico; d’altronde la struttura della narrazione, tra nobili decaduti, commedianti girovaghi, amori impossibili, aristocratici prepotenti e immancabili agnizioni conclusive, appartiene più al macchinoso universo degli intrighi teatrali (più precisamente a quello dell’opera semiseria) che a quello tendenzialmente (soprattutto in prospettiva) più dinamico e veristico del cinema. Quest’ultimo tenderà sempre più a disfarsi di questo genere di statici soggetti, ai quali tornerà saltuariamente, quasi sempre con esiti modesti.
In ogni caso la versione filmica di Coletti possiede una propria grazia, vanta attori brillanti sia nelle prime parti (oltre al sulfureo Valenti, c’è anche un’ottima Clara Calamai), sia in quelle dei caratteristi mentre la generica ambientazione, quasi tutta in interni, svela la natura sostanzialmente teatrale del romanzo di Gauthier.
Duilio Coletti, originario di Penne (vicino Pesaro, 1906), negli anni trenta si trasferisce a Roma per dedicarsi al cinema. Dopo qualche sceneggiatura esordisce alla regia con Pierpin (1935); Capitan Fracassa è il suo quarto film.

Marcello Albani, nato a New York nel 1905, si occupa di cinema a partire dagli anni trenta. Dopo alcune sceneggiature (tra cui una per Righelli) passa alla regia nel 1939. Il suo secondo film è Boccaccio (settembre 1940; 85 min.), lavoro liberamente ispirato all’omonima operetta viennese (1879) di Franz von Suppé, sceneggiata dal regista con Maria Basaglia, Max Calandri e Michele Galdieri. Se per certi versi la pellicola conferma la sostanziale continuità tra teatro musicale e arte filmica, d’altro lato essa indugia su elementi di forte invrosimiglianza, più consoni alla scena che al realismo fotografico del cinema.
Così capita di doversi sorbire nientemeno che Clara Calamai nelle vesti del seduttore Boccaccio (per contorti motivi sentimentali, la giovane decide di impersonare, a Firenze, il celebre scrittore): nonostante l’evidente assurdità (l’attrice non si é minimamente acconciata in maniera maschile), tutti la credono tale e assistiamo perfino a una supposta scena di seduzione nei confronti della matura tutrice di Fiammetta. In ogni caso la pellicola, infarcita da qualche frammento di Suppé, si snoda abbastanza piacevole, senza poter annoverare speciali meriti.
Due cugini - Osvaldo Valenti e Clara Calamai - nipoti di Boccaccio fanno a gara nel mettere in pratica i contenuti erotici delle novelle dello zio, il primo per convinzione, la seconda per rovinare le imprese del cugino di cui è innamorata. Oggetto delle brame è la bella Fiammetta (Silvana Jachino) che si scoprirà figlia naturale di un re, nonché promessa a un principe. Finale sereno con nozze doppie.
L’ambientazione, fortemente teatrale, è priva di fascino visivo e lo svolgimento della narrazione non riserva sorprese. Rimane qualche piacevole spunto musicale e qualche scenetta divertente. L’operazione complessiva è, tuttavia, insolita in quanto propone un atteggiamento felicemente licenzioso (non a caso derivante, prima ancora che dalle novelle del Boccaccio,  dalla brillante e spiritosa cultura operettistica della Vienna ottocentesca), piuttosto audace e quasi isolato nel panorama generale del cinema fascista. Vi si canta, insomma, il piacere dell’amore adulterino ovvero di qualcosa di aspramente condannato dall’ideologia del regime, incentrata sulla solidità dei valori familiari. Né sorprende che il Centro Cattolico bolli con un deciso “escluso” la pellicola di Albani.

Corrado D’Errico, nato a Roma nel 1902, firma il primo lungometraggio nel 1935 (La freccia d’oro). Il suo primo lungometraggio negli anni quaranta è Miseria e nobiltà (dicembre 1940; 63 min.), succinta trascrizione filmica (la prima del cinema sonoro) del capolavoro teatrale (1888) di Edoardo Scarpetta.
La trama è nota. Un manipolo di poveracci, capeggiato da Don Felice (Virgilio Riento) viene assoldato dal marchesino Eugenio (Adriano Rimoldi) per impersonare i suoi aristocratici familiari al fine di presenziare in casa di don Gaetano (Nicola Maldacea jr.), un ex cuoco arricchito. Quest’ultimo, la cui figlia Gemma (Alba Wiegle) è fidanzata con Eugenio, pretende infatti che l’intera famiglia del pretendente venga a fargli visita e gli chieda ufficialmente la mano della ragazza. Spassosi equivoci ne conseguono, cui segue l’immancabile scoperta della truffa, l’intervento inatteso dei veri aristocratici e l’obbligatorio finale lieto.
La pellicola, che non nasconde il proprio impianto teatrale (solo un paio le scene in esterni), rappresenta un ottimo esempio di cinema posto al servizio della divulgazione teatrale. Il testo originale, ampiamente sforbiciato, viene tuttavia reso con pienezza di accenti grazie soprattutto all’ottimo cast, perfettamente calato nei ruoli. All’ermetico dialetto napoletano viene sostituita la più universale lingua italiana, cosa che rende ancor più efficace l’operazione culturale.
La consueta simpatia per gli strati più umili - vero Leitmotiv dell’intero cinema fascista - si ritrova confermata in questa versione della commedia di Scarpetta mentre l’altrettanto abituale satira degli strati altoborghesi e nobiliari viene a mancare in quanto l’antico testo napoletano - ovviamente estraneo alle novecentesche preoccupazioni populiste del fascismo - proponeva, con un certo rispetto, la naturale divisione in classi sociali relativamente chiuse che caratterizzava la civiltà europea nell’Ottocento.
In questi primi anni quaranta il cinema fascista attinge a piene mani alla cultura letteraria italiana ed europea, svolgendo così un’evidente funzione educatrice nei confronti di quelle masse popolari che, in larga parte, non conoscono quei testi. Così i lavori principali di Manzoni, Fogazzaro, Hugo, Dumas, Stendhal e Gautier si trasformano in pregevoli pellicole.

Enrico Guazzoni, originario di Roma (n. 1876), dapprima scenografo, diviene regista intorno al 1910. Numerosissime le pellicole degli anni dieci; meno copiose quelle dei decenni successivi. Agli inizi degli anni quaranta firma una delle numerose riduzioni cinematografiche salgariane, La figlia del corsaro verde (dicembre 1940; 78 min.), realizzata con larghi mezzi e un cast di stelle (Fosco Giachetti, Doris Duranti). In realtà il testo è uno dei numerosi “falsi” - probabilmente scritto da Renzo Chiarelli - editi dopo il suicidio dello scrittore veronese (1911).
Le vicende avventurose e fanciullesche (situate ai Caraibi e girate nel mar Tirreno) non meritano un resoconto così come le interpretazioni meramente accademiche; l’insieme costituisce un prodotto oggi stucchevole anche per un pubblico di teenager. Emergono tuttavia la maestria scenografica e il gusto figurativo di alcune ambientazioni “corsare” (in particolare l’episodio del combattimento pubblico tra il protagonista e il brutale El Cabezo, interpretato da Primo Carnera).
Un anno dopo Guazzoni torna sull’argomento con I pirati della Malesia (ottobre 1941; 90 min.), questa volta ispirato a uno dei testi più noti (1896) di Salgari, sceneggiato da Mino Doletti e Gianni Franciolini. Il cast di tutto rispetto (Massimo Girotti, Clara Calamai e Luigi Pavese) appare decisamente sprecato (nonché in evidente imbarazzo) tra goffaggini e ingenuità varie.
Vi si narrano le peripezie dei pirati di Sandokan (Luigi Pavese) - nonché del loro alleato Janez (Sandro Ruffini) - impegnati nel tentativo di liberare l’amico Tremal-Naik (Girotti) imprigionato dai perfidi Inglesi in una terribile, disumana prigione dalla quale pervengono atroci lamenti. Inutile dire che sarà anche l’occasione per un sollevamente generale dei nativi, desiderosi di liberarsi degli spietati colonizzatori anglosassoni.
Se la avventure lasciano a desiderare e le ambientazioni sono generiche (si salvano alcuni bizzarri balletti sacri, dedicati alla dea Khalì alias Clara Calamai, nei quali scenografi e truccatori sembrano poter mettere a frutto la loro capacità di creare pittoreschi fondali d’opera), appare invece evidente l’intento di abbinare intrattenimento e propaganda antibritannica. Tutti i personaggi inglesi incarnano infatti sgradevoli tiranni e malvagi torturatori ai quali si contrappongono i valorosi e simpatici corsari della Malesia. La vittoria arride ovviamente a questi ultimi.
Poco dopo (a partire dal 7 dicembre 1941) i Giapponesi (parte dell’Asse Tripartito) scalzano (momentaneamente) gli Inglesi dalla penisola asiatica. Per una completa indipendenza i Malesi dovranno attendere il 1957; gli Indiani molto meno (agosto 1947).

Negli stessi mesi Simonelli utilizza gli scenari e il cast del film di Guazzoni (con l’eccezione della Calamai sostituita da Alanova) per girare Le due tigri (novembre 1941; 85 min.), pellicola ispirata all’omonimo romanzo (1904) salgariano, questa volta sceneggiato da Andrea di Robilant e Marcello Pagliero. La qualità è ancora modesta, la storia priva di interesse e la polemica antibritannica appena accennata.
A Calcutta Sandokan e Janez corrono in aiuto di Tremal-Naik al quale i perfidi Thugs hanno rapito la piccola Darma, nonché la principessa Surama, legittima erede di un regno, ora nelle mani dei colonizzatori Inglesi. Tutto scorre prevedibile entro scenari tanto asfittici (le inquadrature sono sempre chiuse sui personaggi per nascondere la povertà della messa in scena) da evocare più il palcoscenico teatrale che gli spazi aperti dell’India.
Le ultime immagini alludono a un terzo film (intorno alla liberazione del regno di Lahore e al ristabilimento sul trono della principessa Surama, gesta raccontate da Salgari in Alla conquista di un impero del 1907) che non verrà realizzato.

Esodo Pratelli al proprio secondo lungometraggio, trascrive in immagini la commedia di Gino Rocca Se no i xe mati, no li volemo (1926) che, persa la connotazione dialettale, diviene Se non son matti non li vogliamo (gen 1941; 105 min.).
La vicenda, carnevalesca e parossistica, racconta di tre anziani (gli ottimi Ruggero Ruggeri, Antonio Gandusio e Armando Falconi) che ricevono da un loro amico di gioventù (Paolo Stoppa) una ricca e strana eredità: potranno ricevere un lauto assegno mensile a patto che rimangano gli scapestrati che erano quando facevano parte della giovanile compagnia di matti, capitanata dal defunto. Dovranno, pertanto, continuare a dare scandalo, ubriacarsi, rompere finestre e travestirsi da pagliacci. Nel frattempo uno di loro ha avuto la cattiva idea di sposare una donna molto giovane, opportunistica e infedele, che scapperà con l’amante. La tragedia incombe: uno muore, uno impazzisce realmente e l’ultimo sopravvive, in preda all’angoscia.
Il testo, stravagante e ricco di simbolismi (la vita come mascherata inutile, segnata da un inevitabile destino di morte), è pensato per le tavole del palcoscenico; ridotto al realismo fotografico del cinema diviene un verboso susseguirsi di assurdità che risultano oltremodo artificiose. Invano i tre validissimi attori cercano di infondere verità a questa storia, ambientata su fondali di cartone: la prima parte non riesce mai a divertire e l’ultima cerca, con tutti i mezzi, di commuovere risultando di un patetismo banale e imbarazzante. Prudentemente gli autori del film hanno retrodatato al 1920 gli eventi così da collocare questo fumetto deprimente e cupo a prima della rivoluzione fascista poichè immaginare tante disgrazie negli anni della “rinascita” mussoliniana avrebbe potuto creare qualche problema censorio.

Giunto al proprio quarto lungometraggio, Zampa trascrive in immagini Signorinette (dic. 1941; 95 min), romanzo sentimentale (1938) di Wanda Bontà.
Vi si raccontano le stucchevoli peripezie di tre amiche liceali, assorbite più che dagli studi, dai primi turbamenti amorosi. Renata, la più carina (Carla Del Poggio), “si propone” con insistenza e sfacciataggine ad un noto scrittore e a un giovane dentista (Roberto Villa) generando equivoci e piccoli scandali; le altre due, Paola e Iris, assistono ammirate e invidiose. Paola muore per una malformazione cardiaca...
Signorinette è un film prigioniero della prospettiva femminile: tutto è osservato dall’ottica di queste tre ragazzine che sognano, dalla mattina alla sera, avventure sentimentali. Lo sfondo è inesistente (perfino piazza Navona viene filmata con un trasparente... ) e il melodioso commento musicale suona invadente e monocorde. L’effetto è oltremodo tedioso.
Come documento d’epoca, Signorinette conferma la prevalente visione di un universo femminile come marginale e devoto alla sfera erotico-domestica. Nonostante il racconto si occupi solo di fanciulle e di amori più o meno fortunati, appare evidente che tutto ciò si colloca in un contesto patriarcale in cui la libertà di movimento femminile è fortemente circoscritta (lo scandalo più dirompente riguarda il fatto che Renata si sia intrattenuta - spiata e “denunciata” dalla pettegola di turno - per qualche minuto con lo scrittore nella sua abitazione... ). Scrittrice e regista, non paghi del consueto sentimentalismo, concludono con l’evento lacrimoso della morte di Paola, trattato in modo convenzionale e poco autentico.

Sergio Tofano (Napoli, 1886), illustratore del “Corriere dei Piccoli” (si firmava Sto), inventa nel 1917 il solare personaggio di Bonaventura. In seguito (a partire dagli anni trenta) si dedica parallelamente al cinema in qualità di attore, con notevole successo. Firma due sole regie (entrambe negli anni quaranta) nella prima delle quali, Cenerentola e il signor Bonaventura (dicembre 1941; 75 min.), riunisce i personaggi della celebre favola (1697) di Charles Perrault e il suo Bonaventura (Paolo Stoppa), ispirandosi al suo testo teatrale La regina in berlina (1929). La principessa Cenerentola (Silvana Jachino), ora moglie del principe (Roberto Villa), fugge da palazzo reale dove è tenuta in poca considerazione dal re (Guglielmo Barnabò) suo suocero, dalla altezzosa corte e dalle immancabili sorellastre e finisce nell’antro di un terribile orco che se la vuole mangiare. L’ingenuo e fortunato Bonaventura, aiutato dal vanesio Cecé (Mario Pisu), riesce a salvarla e a riportarla alla reggia dove l’orco tenta, una seconda volta, di ammazzarla.
Favola abbastanza stucchevole nella storia, nei dialoghi (spesos in rima) e nella recitazione teatrale e marionettistica (stile quest’ultimo che mal si fonde con la verosimiglianza fotografica del racconto filmico), si avvale però di curiose scenografie surreali e oniriche, quasi cubiste, che tentano di rievocare lo stile bidimensionale del fumetto, nonché di una buona colonna sonora di Renzo Rossellini. Il tentativo autarchico di sopperire alla mancanza dei numerosi cartoons della Disney (solo Biancaneve e i sette nani, 1937, continuava a circolare nelle sale italiane) e della Warner (Looney Tunes) lascia, in definitiva, alquanto a desiderare.
Perfino in questo lavoro dedicato ai più piccini vengono inserite una ricca serie di punzecchiature antimonarchiche e antiaristocratiche (la descrizione della spocchiosa corte che guarda con fastidio alla ex servetta Cenerentola, ora principessa), nel più puro stile nazional-populista del regime.

Ivo Perilli, dopo la sfortunata esperienza di Ragazzo (1933), torna alla regia con il modesto Margherita fra i tre (lug. 1942; 75 min.), una trascrizione in immagini di un testo teatrale di Fritz Schwiefert. Si tratta di un semplice veicolo che offre la possibilità ad Assia Noris di mettere in mostra le proprie qualità camaleontiche.
La giovane Margherita, fiadanzata con l’avvocato Paolo (Aldo Fiorelli) è ostacolata dai tre zii (Carlo Campanini, Giuseppe Porelli, Enzo Biliotti) di quest’ultimo i quali, tutti vagamente misogini, pretendono che il nipote si occupi esclusivamente del lavoro. Riuscirà, in una sola sera, a sedurli tutti e tre assumendo differenti, appropriate identità: il terzetto, scoperto l’inganno, dovrà acconsentire ai desideri della scatenata fanciulla.
La pellicola, tutta in interni, è verbosa e prolissa e non bastano le doti mimetiche della Noris a salvarla; nè il lato umoristico del racconto risulta realmente tale. La derivazione tedesca porta nella cinematografia italiana personaggi insoliti e una logica antifamiliare (i tre zii, sebbene personaggi operosi e affermati, sono dei misantropi) del tutto estranea alla linea politica prevalente del cinema italiano.

 

testo scritto nel 2005; ultimo aggiornamento: ott.2017