Brucia ragazzo brucia, Amarsi male, I ragazzi del massacro, Metti una sera a cena, Vedo nudo, Il giovane normale, Top Sensation, Sai cosa faceva Stalin alle donne?, Io, Emmanuelle, L’isola delle
Svedesi, La stagione dei sensi e Femina ridens: eros e civiltà (1969)
La cosiddetta rivoluzione sessuale - centrale nelle contestazioni giovanili del ‘68 - approda sugli schermi italiani in una serie di pellicole nelle quali spesso il racconto si articola nel semplice confronto
- scontro tra personaggi “emancipati” e borghesi “all’antica”. In fondo la semplice trovata aveva avuto un battesimo importante nell’ambizioso Teorema pasoliniano (presentato a Venezia, durante la turbolenta mostra del 1968) nel quale il giovane e misterioso intruso che sconvolgeva la vita di una convenzionale famiglia altoborghese era addirittura circondato da un’aura sacrale (l’OCIC cattolico oserà premiare il film). Fernando Di Leo, al suo secondo lungometraggio, adotta volentieri la formula e ottiene un’enorme, inatteso successo con
Brucia ragazzo brucia (gennaio 1969; 90 min.), pellicola che scontò i prevedibili guai con la censura. Un bagnino anarco-marxista (Giovanni Macchia) fa le veci dell’enigmatico visitatore pasoliniano, amoreggia in
spiaggia con una giovane e disponibile amichetta davanti a mature signore borghesi, provoca queste ultime fino a sedurne una (l’altra lo implora, gli propone perfino del denaro, ma non ottiene ciò che desidera). L’opera di
conquista si accompagna a un vago e risibile sermoneggiare intorno ai mali del mondo, alle bellezze di una sessualità libertaria, alle ottusità della classe borghese e via sciorinando. Il nostro eroe si alterna quindi tra la
piacevole giovinetta (Monica Strebel) e Clara, la matura, elegante signora (François Prevost) e - come è prevedibile - propone anche del sesso a tre. Intanto la donna scopre niente di meno che l’orgasmo come qualcosa di
inedito, di nuovo, di mai provato prima e candidamente confessa tutto al marito (Michel Bardinet), pretendendo da lui di ricominciare sulla base di questa “novità”. L’ultima svolta narrativa di una vicenda tanto bislacca e
inverosimile è sempre nel segno della denigrazione nei confronti della medio borghesia e dell’omaggio alla “rivoluzione” incombente: il marito - che parla solo del proprio grigio lavoro - promette vendetta (separazione e
allontanamento dei figli dalla madre indegna); la donna si avvelena e l’uomo, anziché soccorrerla, si fa una bella paseggiata notturna e chiama l’ambulanza solo alle prime luci del mattino. Durante la nottata passata in
spiaggia, contempla la gioventù “rinnovata” che si diverte al suono dei rhythm & blues americani. Le svolte sociali giungono dunque dalla cultura giovanile d’oltre Atlantico mentre la spenta, attempata classe media europea sembra avere i giorni contati. L’alba del nuovo giorno vede correre l’autoambulanza verso la casa della famiglia borghese, una famiglia borghese che non esiste più, che si è dissolta al contatto con i valori edonistici della nuova generazione.
Brucia ragazzo brucia, sceneggiato dal regista con Antonio Racioppi, offre un condensato di stereotipi dell’epoca, trattati non senza abilità e malizia. La carica erotica presente nelle schermaglie del quartetto
sulla spiaggia, tiene desta l’attenzione e non appare affatto superata (molti anni dopo Di Leo dichiarerà che “ormai Brucia... lo danno anche nei locali dei preti”, ma si sbaglia di grosso poiché il film detiene abbastanza intatta la propria atmosfera libertina e amorale). Il merito è soprattutto delle due attrici che si muovono con piena convinzione, dando vita ai classici ritratti della giovinetta sensuale e spregiudicata e della donna severa ma al tempo stesso tentata dalla baldanza giovanile e un po’ scriteriata del suo seduttore. A tutto ciò si uniscono alcuni inutili snobismi registici (insoliti primissimi piani di dettagli del viso, qualche complicato movimento di macchina) ripresi dal solito Godard, finalizzati al tentativo di dare una furbesca patina artistico - culturale a questo prodotto complessivamente modesto e tuttavia assai significativo degli albori del cinema erotico italiano. La censura comunque non ci casca, sequestra il fim, lo processa e infine, però, lo assolve.
Di Leo tenta subito il bis e firma Amarsi male (agosto 1969; 96 min.), sorta di continuazione dello scandaloso Brucia ragazzo brucia, ma “sbaglia le dosi” e approda a uno sconcertante flop. Il bagnino si è
trasformato in Carlo (sempre Giovanni Macchia), studente alla facoltà di architettura e marxista militante. Il giovane si barcamena tra tediose riunioni politiche, scontri con la polizia e la scialba fidanzatina Elena (Micaela
Pignatelli). Il ruolo della donna matura viene ora affidato alla seducente Anna (Susan Scott), segretaria e amante del futuro ricco suocero. Scatta dunque la passione amorosa, vissuta agli esordi con totale libertà; poi però le
cose si complicano e il film precipita in un convenzionale melodramma amoroso con Anna che dapprima fa di tutto per tenersi il giovane (fino a prostituirsi di nascosto per risollevare la rovinosa situazione economica); poi
invece - ricattata - lo allontana e precipita nella tossicodipendenza mentre Carlo sposa Elena e intraprende la comoda vita del ricco borghese. Nel finale Carlo e Anna si reincontrano: forse qualcosa cambierà. Insomma Di
Leo tenta il film serio, il ritratto di una generazione di contestatori velleitari, pronti a rientrare in famiglia alla prima difficoltà e lo combina con divagazioni sulle nuove libertà sessuali (l’allora celebre testo di
Wilhelm Reich, La rivoluzione sessuale, 1936, viene citato mentre il nome dell’autore risuona storpiato in una pronuncia americaneggiante). Il tutto però non funziona: le parti “politiche” sono scolastiche e prolisse;
gli episodi erotici sono castigati e privi di mordente e infine la svolta melodrammatica annulla le novità tematiche precedenti, addirittura recuperando situazioni “ottocentesche”, memori della Traviata verdiana. Si salva solo l’intensa interpretazione di Susan Scott.
I produttori - delusi dall’esito commerciale - tentano perfino di rieditare (nel 1972) la pellicola col titolo Brucia amore brucia, ma il pubblico non abbocca neanche così. Poco riuscito è anche il seguente
I ragazzi del massacro
(dicembre 1969; 100 min.) nel quale Di Leo si misura con l’omonimo, recente romanzo (1968) di Scerbanenco ove si racconta lo stupro di gruppo e l’omicidio di una maestra in una scuola serale ad opera di una classe di sedicenni svitati e mezzi criminali. Duca Lamberti, il detective creato dallo scrittore nel romanzo Venere privata (1966; poi diventato per lo schermo Il caso “Venere privata” di Boisset, 1970; vedi), indaga con inusitata tenacia, intuisce che dietro l’orgia c’è un manovratore adulto e astuto e lo scopre solo dopo numerose peripezie e qualche cadavere.
Il film, come Amarsi male con il quale condivide la protagonista Susan Scott, avanza pretese sociologiche mal sviluppate (l’insieme dei personaggi è stereotipato e inverosimile, come peraltro l’intera vicenda), rimette in gioco (per la terza volta) donne mature sedotte da giovanetti, racconta una Milano generica, ridotta con scarsa originalità a pochi esterni dalle parti di piazza Duomo e della galleria Vittorio Emanuele (gli scenari periferici sono pochissimi, nonché ripresi di sfuggita) e tenta di accampare qualche generica scusante per l’inqualificabile operato del branco, in relazione alle modeste situazioni di vita degli interessati.
D’altro lato invece, sebbene quasi completamente girato in interni (una lunga sequela di interrogatori), il film possiede una buona tensione che nasce sia dalla intensa prova del protagonista (Pier Paolo Capponi), sia dallo
stile di ripresa che privilegia i primissimi piani, con una mdp che sta letteralmente addosso ai personaggi, senza dare loro tregua. Inoltre la sequenza chiave del film - la scena dello stupro-omicidio - collocata in apertura e
poi, più estesamente, in chiusura quando un efficace colpo di scena chiarisce le responsabilità dei singoli personaggi e rivela un inatteso colpevole (differente da quello del romanzo), si avvale di un montaggio quasi
sperimentale, scabro e urtante, nel quale costantemente i particolari prevalgono sull’insieme mentre una colonna sonora elettronica, nello stile tipico del rumorismo delle avanguardie, la rende totalmente indigesta, lacerante e
quasi espressionista. Scarso compiacimento e semplice orrore segnano dunque l’atto di barbarie. In definitiva, grazie a queste aspre e appassionate scelte stilistiche, il Male risulta tale, senza possibili giustificazioni:
in questa visione disincantata della diseguaglianza e del lato oscuro che segna indelebilmente alcuni individui (qualche ragazzo tenta fino all’ultimo di sottrarsi allo scempio mentre il colpevole era un criminale recidivo,
solo in apparenza “redento”), il film possiede indubbi elementi di interesse. Dopo il fiasco di Amarsi male, il giallo da Scerbanenco riporta Di Leo al pieno successo commerciale.
La stessa materia di Brucia ragazzo brucia viene sviluppata con ben altra classe dallo scrittore Giuseppe Patroni Griffi nella trasposizione filmica della propria fortunata commedia teatrale
Metti, una sera a cena (aprile 1969; 123 min.) del 1967. Aiutato nello stendere la sceneggiatura da Dario Argento (che ne trarrà alcuni spunti per l’ormai prossimo debutto alla regia con L’uccello dalle piume di cristallo,
1970), Griffi riesce a rendere abbastanza cinematografico il proprio testo grazie a una complicata organizzazione del racconto mediante continui flashback. La pellicola che ne esce utilizza un ammirevole montaggio creativo e
approda a una sorta di coinvolgente puzzle. Il film - opera seconda dello scrittore - si inserisce con furbizia nel nascente filone erotico e ottiene un formidabile successo commerciale. Gli scarti narrativi sono tali e
tanti che è impossibile raccontare nei dettagli la trama. Basti dire che si tratta di un esasperato sovrapporsi di triangolazioni amorose all’interno di un quintetto di personaggi, quasi tutti appartenenti alla borghesia colta
e benestante. Michele (Jean Louis Trintignant), scrittore di successo, ha sposato per capriccio Nina (Florinda Bolkan) senza sapere che la donna è sentimentalmente legata a Max (Tony Musante), attore famoso e amico dello
scrittore. La loro relazione sessuale prosegue senza troppo curarsi del sopraggiunto matrimonio e anzi, Max, per ravvivare il rapporto, inserisce anche Ric (Lino Capolicchio), un bisessuale di estrazione modesta che si fa
mantenere dai suoi amanti. Così la vicenda si ingarbuglia in un contorto menage a tre (Max intanto confessa la propria bisessualità) mentre Carlo sospetta - forse sa da sempre - e si consola con Giovanna (Annie Girardot), amica
di Nina. Fino a questo punto il film procede in modo vivace e intrigante, grazie all’ottima recitazione, ai dialoghi eleganti, al montaggio sorprendente, alla ovattata, calda fotografia di Tonino delli Colli e all’intensa
colonna sonora di Morricone. In particolare nella sequenza chiave dell’amore a tre, il musicista propone una fantasia musicale su un ossessivo e pertinente tema basato su tre note ascendenti. Nell’ultima parte, allorché
Griffi inserisce l’episodio della fuga d’amore di Nina che lascia tutti per dedicarsi al nuovo venuto, l’unico a dichiararsi follemente innamorato di lei, la narrazione perde colpi: dismessa la brillante polifonia di personaggi
ed eventi intrecciati, il film si fa stucchevole e sciocco. Nell’epilogo invece i cinque personaggi - riuniti intorno a un tavolo - riprendono a conversare amabilmente e terminano evocando lo spettro di un olocausto nucleare
causato dalla potenza atomica cinese (un tema allora assai sentito). Il clima di totale libertà sessuale attraversa ogni pagina del film ed esprime il sofisticato nichilismo di una precisa elite culturale. I riferimenti
finali a scenari apocalittici confermano l’impressione di vivere sull’orlo di un vulcano e sembrano giustificare l’atteggiamento di rilassatezza morale e di spasmodica ricerca del piacere. D’altro canto questo abile intreccio
di situazioni e gesti estremi si colloca più nell’ambito delle astratte speculazioni teatrali che della vita reale. Rispetto al dittico del Di Leo, qui manca totalmente il personaggio convenzionale e “arcaico” col quale fare i
conti: tutti sembrano automaticamente acquisiti alle nuove usanze sessuali e ne parlano come si trattasse di realtà sedimentate da decenni. Carlo e Nina si sono sposati per capriccio: manca loro qualunque visione realmente
familiare ovvero manca loro la dimensione del procreare (nel film i bambini sono del tutto assenti) e dunque il loro matrimonio (ovvero creazione di una madre) non ha grande significato. Sono in fondo due amici che convivono.
Le attività culturali sembrano invece essere l’alfa e l’omega di questo microcosmo culturale; l’unica a volere un figlio è Giovanna la quale però lo desidera in maniera irresponsabile, ovvero fuori dal matrimonio e proprio da
Michele. Insomma i personaggi possono dire e fare ciò che vogliono, soprattutto perché appartengono a un universo meramente letterario nel quale non affiorano le concrete problematiche della quotidianità. In questa
dimensione, tanto intellettuale quanto sterile, le libertà sessuali non solo sono immediatamente raggiunte; sembrano addirittura le principali attività dell’esistenza. In questa mancanza di verosimiglianza emerge il limite
della pellicola come pure il suo significato più intimo: le elite borghesi utilizzano i media per offrire nuovi modelli culturali di tipo infantile e disgregativo, volti a minare l’austera stabilità della famiglia e a creare
l’individuo isolato e consumista, indotto a ricercare innanzitutto l’ossessivo soddisfacimento dei propri istinti.
I disordini del ‘68, prima ancora che nella direzione di concreti cambiamenti politici, attuano una piccola, significativa rivoluzione dei costumi sessuali. Il femminismo, incentivato da una serie di ambigui
testi di Reich, Marcuse, Fromm e altri intellettuali osannati dalla nomenclatura di sinistra, approda a una più libera esposizione del corpo femminile e delle sue tattiche seduttive su riviste, immagini pubblicitarie e
ovviamente nel racconto filmico. In tal senso il grande successo della pellicola Vedo nudo (aprile 1969; 119 min.) è un segno dei tempi. Un esame attento dell’interessante film mostra però un panorama sconcertante. Il
lavoro, sceneggiato da Ruggero Maccari basandosi su un soggetto proprio, di Fabio Carpi, Bernardino Zapponi e Dino Risi e diretto da quest’ultimo, lungi dal presentare una galleria di figure gaudenti ed “emancipate”, offre
invece una serie di ritratti amarognoli e malati, nei quali prevale una garbata misoginia. Si comincia infatti con una riedizione popolaresca dell’episodio della diva de La dolce vita (Fellini, 1960): Silva Koscina, uno dei principale sex symbol degli anni sessanta, cattura l’attenzione di un manipolo di poveri sciagurati in un misero ospedale di provincia; nel frattempo un malato grave viene lasciato morire nei locali dell’accettazione. L’incantesimo delle seminude divinità laiche - emblemi della nuova era neopagana - incanta le folle sprovvedute. Il primario (Nino Manfredi, ottimo protagonista di tutti gli episodi), è perfettamente consapevole dell’aura che circonda la Koscina e, didatticamente, spiega che diva significa appunto divina.
Se da un decennio è iniziata l’età dell’adorazione del dio femmina - adorazione che viene ora accentuandosi con la svolta erotica del cinema italiano del biennio 1968-69 - non tutti sembrano esserne felici. Liberata da ogni
remora morale, la donna diviene una sorta di mina vagante, poco controllabile. Così nell’episodio della gallina (Processo a porte chiuse) uno strepitoso Manfredi afferma di preferire i piccoli bipedi alle sue compaesane,
ormai troppo esigenti (l’episodio verrà rifatto da Woody Allen nel mediocre Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso... del 1972, nell’episodio della pecora armena); in Motrice mia, il protagonista
abbandona regolarmente il letto coniugale e alla bella moglie sostituisce la mania per i treni che sfrecciano nella notte. Nell’episodio Ornella, Ercole (sempre Manfredi) - insensibile alle avance femminili di cui è
oggetto - lavora in un ufficio postale ove le frecciate misogine si sprecano (“le donne sono gentaccia” afferma un collega di lavoro che loda la ferrea indifferenza del collega). In realtà Ercole è un omosessuale il quale,
sotto la falsa identità di Ornella, intrattiene un elegante rapporto epistolare con un posato torinese, impiegato alla Fiat (un bravissimo Enrico Maria Salerno) che è alla ricerca dell’anima gemella. Dopo avere conosciuto a
fondo Ercole (che si spaccia per il fratello di Ornella) capisce il travestimento e sembra accettare l’inatteso partner. Lo smarrimento giunge al culmine nel lungo episodio finale che dà il titolo al film. Vi si ritrae un
fotografo pubblicitario fissato con il sesso (nell’esordio Manfredi sembra fare una garbata parodia del fotografo inglese, protagonista del celebre Blow Up, Antonioni, 1966) che, da un certo momento in poi, vede tutte le
donne prive di indumenti, cui si aggiungono alcune altre (sempre nude) puramente fantastiche. La paranoia lo porta in una clinica tedesca nella quale riuscirà forse a guarire dopo una lunga cura “disintossicante”. Ancora una
volta il proliferare di immagini erotiche non è fonte di gioia, come si potrebbe supporre, ma diviene presto un terribile incubo. Gli autori sembrano accorgersi - soprattutto in questo episodio - che il dilagare del nudo è un
semplice escamotage dell’universo industriale e mediatico volto a incentivare i propri profitti attraverso un martellante utilizzo del corpo femminile. Quello che era un piacere si trasforma in una patologia quotidiana, priva
di qualunque valore liberatorio. La figura maschile dunque affoga in un mare di immagini femminili volte a esasperare il suo desiderio, a creare insomma uno stato di eccitazione costante che, in definitiva, indebolisce
l’individuo, minando il controllo sulle proprie pulsioni. Anche L’ultima vergine - l’episodio piuttosto scontato del maniaco sessuale - può essere letto come una spia interessante. Di lì a un anno infatti, con l’esordio di Dario Argento (L’uccello dalle piume di cristallo, 1970),
la tematica del serial killer - le cui prede sono sempre donne giovani e avvenenti - diverrà uno dei filoni portanti del cinema italiano degli anni settanta. Perso il controllo sull’universo femminile, l’uomo attua una sorta di
vendetta fantastica, portando sullo schermo una sempre più selvaggia e visionaria “macelleria” il cui fondale è palesemente erotico. Nel racconto filmico l’uomo rimane padrone delle donne fino al punto di poterne ammirare la
morte secondo pratiche generalmente associabili - ora in modo esplicito, ora secondo modalità simboliche - alla violenza sessuale. Il film di Risi dunque anticipa anche questa situazione e ironizza sull’unica vittima che si è
salvata: intervistata in televisione, la ragazza ammette di avere fatto tutto quello che le era stato richiesto, alla faccia del modello cattolico di Maria Goretti (santificata meno di due decenni prima da Pio XII).
Nell’immaginario maschile quindi solo la donna sottomessa è degna di sopravvivere; e infatti anche la protagonista (Veronique Vendell), imparata la lezione, si concede senza indugio al tecnico dei telefoni, scambiato per il
maniaco. Vedo nudo dunque registra la rivoluzione sociale in atto e nel farlo mostra più perplessità che entusiasmo; tra le righe anzi gli autori sembrano avere perfettamente compreso che dietro la fallace patina liberatoria si nasconde l’ennesimo trucco del poteri forti, abili nel manipolare a proprio favore la svolta amorale che li rende padroni di comprare e vendere una merce preziosa come il corpo femminile.
Le perplessità aumentano fino a divenire scettico cinismo nel successivo Il giovane normale
(novembre 1969; 105 min.) firmato da Dino Risi su una sceneggiatura redatta ancora dal medesimo regista e da Ruggero Maccari e altri, ispirata liberamente all’omonimo romanzo (1967) di Umberto Simonetta. Come in Vedo nudo,
un brillante commento sonoro di Trovaioli accompagna e arricchisce la narrazione, peraltro sempre scandita da un ritmo vivace. Il nuovo lavoro sviluppa le tematiche del film precedente entro coordinate meno umoristiche e anche
meno compiaciute, venendo a costituire con il più fortunato film a episodi, un importante dittico il cui atteggiamento titubante e finanche conservatore nei confronti della modernità avanzante, garantì feroci e denigratorie
recensioni da parte della critica cinematografica, tutta compattamente “progressista”. Giordano (un ottimo Lino Capolicchio), ventiduenne ingenuo, decide di seguire la moda del momento e di fare le vacanze in autostop.
Viene caricato da un bislacco terzetto americano ovvero Sid, maturo professore di archeologia, la sua giovanissima e attraente moglie (Janet Agren) e il corpulento amico omosessuale Nelson. Il quartetto adotta il giovane
“normale”, gli paga le vacanze ma lo usa come autista e ragazzo tuttofare. Il film cambia spesso scenari: dapprima la Tunisia (tra l’altro si “visitano” i resti romani dell’anfteatro di El - Jem, a sud di Tunisi), poi la
Spagna, Cannes e infine il rientro in Italia. Durante il percorso appare evidente che gli americani hanno adottato una morale sessuale del tutto disinibita e in accordo con le mode post ‘68: il marito concede alla moglie (una
ex allieva) - pur di trattenerla con sé - ogni genere di libertà erotica (ovviamente il nostro eroe se ne innamora, viene usato dalla ragazza annoiata e presto liquidato per altri corteggiatori); Nelson cerca ovviamente
adeguate distrazioni mentre Giordano fatica a comprendere il nuovo orizzonte di valori. Mentre gli americani lo deridono come fosse una vecchia reliquia, il ragazzo milanese appare sconcertato dalle libertà sessuali del
terzetto, non comprende la tolleranza del marito (da cui teme violente reazioni), rievoca le proprie difficoltà con le ragazze, confessa una certa timidezza come pure una tranquilla frequentazione di prostitute. Inoltre il
racconto viene spesso interrotto da vignette divertenti, evocate dall’immaginazione di Giordano, nel quale emerge tutto il proprio ambiente popolare e convenzionale: i genitori sempliciotti (il padre è un tassista) che lo
vorrebbero in un sicuro impiego come fattorino alla Innocenti, gli amici del bar con i quali si vanta dell’ultima conquista femminile. Quando, in Tunisia, incontra un gruppetto di giovani italiani come lui, finalmente può
essere se stesso: tutti insieme infatti si precipitano nel bordello locale dove vengono irretiti da Wanda, una prostituta anch’essa italiana. Giordano rappresenta insomma quel giovane “normale” che la rivoluzione sessuale
cerca di modificare e spingere verso una visione confusionaria del reale in omaggio ai dogmi dell’ugualitarismo massonico. Coppia aperta, bisessualità sentita come possibile per ognuno, trasgressioni e tradimenti concepiti come
il sale della vita costituiscono l’inedito scenario al quale il nostro ragazzotto - quasi un sottoproletario pasoliniano - oppone le proprie arcaiche abitudini, ora divenute “maschiliste”. Gli autori guardano con scetticismo
alle novità erotiche del trio di benestanti americani, né appare casuale che si siano scelti degli anglosassoni verso i quali il ragazzo - che vive nel mito degli USA percepiti come una realtà in tutto superiore a quella
italiana - nutre un evidente complesso di inferiorità, frutto di un abile campagna mediatica volta da un paio di decenni a supervalutare tutto ciò che proviene dai “padroni” d’oltre oceano (non a caso il professore legge
quotidiani sui quali campeggia il titolo “Man on the Moon”; il film è stato girato nell’estate 1969, il riferimento sembra inevitabile anche se oggi è diffuso un certo scetticismo intorno alla verità di quell’impresa... ). Sono
appunto gli anglosassoni a perorare questa rivoluzione dei costumi (iniaziata infatti all’università di Berkeley, San Francisco, nel 1964), funzionale (come si è già spiegato) ai progetti del capitalismo globale. La
pellicola termina nel più amaro dei modi: brutalmente scaricato dal terzetto (dopo essere stato ingannato riguardo a future iniziative comuni) e sostituito con un altro giovane (secondo l’evidente logica consumistica che
presiede lo stile “americano”), il giovane, ora in auto con un nuovo compagno di viaggio, entra in una galleria e sul nero angoscioso e senza chiaroscuri dell’immagine termina il racconto. L’entrata di un saettante mezzo di
trasporto in una galleria, lungi dall’avere le ironiche e allegre implicazioni sessuali rese celebri dal finale di Intrigo internazionale (Hitchcock, 1959), ora sembra semplicemente alludere al precipitare del protagonista - e con lui di un’intera generazione - in un vortice oscuro e inquietante.
In questa vivace e intelligente pellicola Dino Risi sembra insomma intuire il dramma in cui andrà precipitando l’Italia per oltre un decennio, a cominciare da quella strage di piazza Fontana (tuttora priva di colpevoli
certi, ma nella quale sembra ormai accertata la connivenza di alcuni servizi segreti americani) che il 12 dicembre 1969 - pochi giorni dopo l’uscita nelle sale cinematografiche de Il giovane normale - sancirà la fine della stagione dell’innocenza e dell’amore.
Qualche mese prima Ottavio Alessi - cineasta siciliano con all’attivo una ventina di sceneggiature (a partire da Il testimone di Germi, 1946; vedi) - aveva toccato una tematica assai simile nel suo secondo e ultimo film da regista,
Top Sensation (marzo 1969; 89 min. la versione completa), pellicola oggi quasi introvabile che narra lo scontro tra un quintetto di “debosciati” e una coppia di “arcaici” rurali. Su un’elegante barca si muove uno
stravagante gruppo di personaggi: Andro un ragazzo (forse) ritardato, la sua facoltosa madre Mudy (Maud de Bellereche), la disinibita Ulla (Edwige Fenech) incaricata di provocarlo sessualmente e due coniugi trafficoni, Aldo
(Maurizio Bonuglia) e Paula (Rosalba Neri) che intendono strappare alla padrona della nave una non meglio definita concessione petrolifera. Nella comitiva l’occupazione principale è costituita da curiosi giochi erotici: Paula
intrattiene la matura Mudy mentre Ulla, pur fallendo con Andro, si rende interessante con Aldo “amoreggiando” con una capretta. Approdati su un’isola sperduta il gruppo incappa in una coppia di pastori all’antica. Beba (la
“bergmaniana” Eva Thulin) viene rapidamente irretita, finisce in un’orgetta lesbica a tre e sembra poi in grado di sedurre il ragazzo. Invece, a sorpresa, quest’ultimo la strozza. L’ambiziosa Paula sfrutta l’occasione: elimina
a fucilate il marito della vittima, scomodo testimone, in cambio della famosa concessione petrolifera. Fatti sparire i corpi dei malcapitati, il gruppetto si rimette in viaggio. Come si nota Top Sensation anticipa lo scontro tra modernità e tradizione de Il
giovane normale in un apologo più diretto e spregiudicato. Ogni regola morale è saltata nel microcosmo in movimento: la ricerca del piacere sessuale è la molla principale cui si legano l’avidità e l’ansia di arricchimento. Aldo non solo acconsente all’uso che la sua compagna fa del proprio corpo (seduce dapprima la padrona, poi il pastore e sua moglie) ma anzi si gode lo spettacolo mediante un circuito di telecamere presenti sulla barca. Di contro la coppia di isolani appare come inebetita e frastornata di fronte alle disinibite usanze degli abitanti della barca: essa soggiace quasi subito alle tentazioni e - come è giusto - ne finisce vittima.
Il fim dunque tratteggia - in maniera forse inconsapevole - l’irrompere della nuova morale “rivoluzionaria” (coppie aperte, amore lesbico e con animali) e - alludendo al macrocosmo sociale - ne preannuncia la facile
vittoria nei confronti di chi ancora si attarda entro antiquate regole morali. I corpi statuari delle due tentatrici (Edwige Fenech e Rosalba Neri) travolgono ogni remora: la coppia rurale viene divisa, ingannata, sedotta,
posta in aperta conflittualità, indebolita e infine fisicamente eliminata. D’altronde nel cuore profondo della barca si annida il ragazzo introverso e folle, segreto simbolo di questa umanità “posseduta” dalle passioni più
materiali, a suo modo “dionisiaca” come pure priva di un orizzonte di valori condivisi e di orientamenti certi in cui incamminarsi (non a caso la barca - mal governata - si incaglia nei pressi dell’isola). Pertanto Andro, dopo
essersi atteggiato a vittima, strangola senza preavviso l’ingenua Beba che gli ha concesso fiducia. La gioia estrema coincide con l’annebbiarsi della coscienza razionale e prelude a tragedie certe. Alessi, basandosi su un
soggetto di Lorenzo Ricciardi dal quale ha tratto la sceneggiatura (aiutato da Luciano Vincenzoni, Nelda Minucci e dallo stesso Ricciardi), mette in scena il conflitto tra nuova e antica sessualità quali simboli evidenti di una
visione più complessiva dell’organizzazione sociale e delle mutazioni che la attraversano. Non a caso la pellicola termina sul ricatto di Ulla che, accettando di farsi carico dei delitti, vuole partecipare agli “utili”
dell’operazione. Aldo e Paula accettano e stringono una sorta di patto per la vita che coincide peraltro con la loro familiarità in ambito sessuale. Un bizzarro modello “comunitario” - vagamente hippy - in cui si intrecciano
piacere sessuale e avidità, rimpiazza a tutti gli effetti la vecchia nozione di famiglia. Le sensazioni si collocano realmente “al top”, come recita l’efficace titolo. La pellicola costituisce - sia nelle tematiche, sia
nelle scene concrete - quanto di più audace si potesse concepire nei primi mesi del 1969 in Italia. Va però chiarito che le tre sequenze più esplicite in fatto di rapporti sessuali (due scene lesbiche decisamente convincenti e
il francamente ridicolo episodio con la capretta) quasi non esistono nella versione italiana (la quale si limita a suggerirle): sono state preparate in lingua inglese per alcuni mercati esteri più permissivi in fatto di
censura. In ogni caso, il fatto stesso di averle girate e di avere pensato il prodotto in questa duplice veste, mostra una cinematografia italiana ormai pronta a spingersi in ogni meandro dello spettacolo erotico.
Nel febbraio 1969 esce in Italia La via Lattea, surreale e blasfemo capolavoro bunueliano intorno ai dogmi, alle eresie e alle superstizioni della secolare storia cattolica. Maurizio Liverani, ex
critico cinematografico di Paese Sera, comunista pentito, prende come modello la pellicola del regista spagnolo in Sai cosa faceva Stalin alle donne?
(novembre 1969; 85 min.) nel suo ambizioso e sgangherato esordio cinematografico scritto in collaborazione con Benedetto Benedetti. Come prevedibile questa goliardica satira antisovietica viene risolutamente stroncata dalla seriosa critica militante tanto che il povero regista dichiara disilluso che “in Italia si può scherzare su tutto tranne che sul Vaticano e sul Partito comunista” (anche in tale dichiarazione traspare il legame con La
via Lattea). D’altronde, se l’idea di partenza è geniale, la realizzazione appare oltremodo modesta, confusa e priva della necessaria incisività sia nell’invenzione visiva, sia nella costruzione del racconto. I riferimenti
storico-culturali sono numerosi e stimolanti, ma da soli non possono tenere sufficientemente desta l’attenzione dello spettatore. Dunque anziché due pellegrini in cammino verso il santuario di Santiago De Compostela, ecco
due balordi intellettuali marxisti (Helmut Berger e Benedetto Benedetti) della media borghesia che viaggiano dentro la storia della tradizione comunista. Riprendento la completa libertà spazio - temporale del film di Bunuel, il
duetto rivive il processo a Trockij, la Resistenza a Venezia, il mito di Stalin (che a tratti sembra venire equiparato a quello di Mussolini e perfino a quello della aristocrazia nera dell’epoca dei Borgia), il neorealismo
militante (Riso amaro ridotto all’esibizione del deretano di una divetta di nome Silvana, agghindata da mondina), la morte di Stalin, il crollo del mito al XX° Congresso del PCUS, l’ascesa di Krusciov e di Breznev (“troppo grassi per risultare eroici” e poter competere con l’archetipo), la crisi cecoslovacca e infine i vietcong di Ho Chi Min. Questo pellegrinaggio “in una città delle bugie” - dove tutto si scopre simulazione e travestimento - costituisce un’idea forte e coraggiosa, evidentemente generata dalla profonda crisi del ‘68 praghese (più volte citata con amara ironia: “i cechi non combattono, si danno fuoco... ”) e dallo sconcerto, nella sinistra europea, determinato dal brutale intervento sovietico; peccato che la realizzazione lasci alquanto a desiderare, tra siparietti insulsi, dialoghi spesso imbarazzanti per la loro pochezza e una stucchevole ripetitività di gesti e situazioni. Finisce così sprecata anche la bella colonna sonora di Morricone basata su abili progressioni immerse in un’atmosfera sonora bizzarra e beffarda, fintamente solenne, in linea con le intenzioni degli autori (il musicista perfezionerà quel tipo di discorso sonoro di lì a poco, nel celebre soundtrack per Indagine su un icittadino al di sopra di ogni sospetto, Petri, febbraio 1970).
Se il marxismo si riduce a una messa in scena inaffidabile, ciò che invece appare quale passione salda e inesauribile, è quella per una sessualità libera, centrata sull’adorazione del fondoschiena femminile (Liverani
anticipa le ossessioni del cinema di Tinto Brass). E’ questa l’unica rivoluzione possibile - l’unica realizzata dal ‘68 al di là delle salottiere chiacchiere sul Vietnam e sui progressi della Cina di Mao (puntualmente
stigmatizzati nel film) - una rivoluzione in atto da tempo, da quando De Santis sfruttava abilmente le grazie della Mangano per raccontare le sue mondine sfruttate da padroni invisibili, e che ora è giunta al proprio apice. I
nostri due pellegrini marxisti in realtà sono innanzitutto soggiogati dalle donne: se le scambiano, attuano la cosiddetta coppia aperta (Benedetti sarebbe sposato con Margaret Lee che tuttavia amoreggia con chi capita, senza
che il marito se la prenda troppo), vivono in appartamenti tappezzati da fotografie di fanciulle nude e cercano appoggi nel partito per divenire cineasti e poter così liberamente manipolare il corpo femminile (di nascosto
Berger fa il fotografo per le storielle dei fotoromanzi). All’artificioso teatro marxista è quindi da preferirsi l’avanspettacolo erotico che almeno corrisponde a pulsioni biologiche naturali. La rivoluzione sessuale è perciò
l’unica degna di attenzione. Non stupisce che un simile film abbia trovato tutte le porte chiuse: comunisti inferociti, cattolici scandalizzati e laici troppo prudenti per inimicarsi la potente “chiesa comunista”. Né
sorprende il fatto che in seguito Liverani - nel suo secondo e ultimo film, Il solco di pesca (1976) - abbia accantonato le ambizioni politiche per dedicarsi a un cinema solamente erotico.
Numerosi sono i film minori che cavalcano l’onda erotica, con esiti spesso patetici. A questa categoria appartiene certamente Io, Emmanuelle
(settembre 1969; 96 min.) di Cesare Canevari in cui si ammorba lo spettatore con le peregrinazioni di una giovane signora (Erika Blanc) la quale - essendo indisponibile l’amante abituale - cerca soddisfazioni sessuali sostitutive presso quattro amici che si rivelano tutti piuttosto incapaci (tra essi “sfigurano” Adolfo Celi e Paolo Ferrari). L’insieme - inespressiva la protagonista, deliranti i dialoghi e le situazioni - è inguardabile tanto più che l’autore gioca con le tematiche dell’alienazione dell’Antonioni di inizio decennio e con i trucchetti visivi di Godard per mascherare l’assoluta mancanza di mezzi finanziari. Così la mdp indugia, spesso per lunghi minuti, intorno al volto e al corpo (peraltro vestito) della protagonista con effetti disarmanti.
Tematicamente va da sé che Canevari - seguendo la sceneggiatura di Graziella Di Prospero - si allinea al nuovo conformismo ideologico segnato dall’equazione progressismo - femminismo - libertà sessuali e ritrae lo
stereotipo di una giovane sensibile, emblema scontato e risibile di una presunta emancipazione in corso, in cerca di tenerezze presso rappresentanti di un “maschilismo” ottuso, regressivo e ormai (si pensa) superato. In realtà
l’unico scopo è fare un po’ di soldi offrendo dei banali (e piuttosto trasandati) nudi femminili con buona pace della rivoluzione anticapitalistica. All’attivo restano solo alcuni squarci documentari di Milano (piazza
Loreto, il bar Basso ecc.) nelle sequenze “rubate” alla vita quotidiana della metropoli milanese; il regista insiste, tra l’altro, sulle vetrine di un cinema di terza visione in cui si proietta il film - scandalo (per allora) Helga (Erich Bender, 1967) - uno pseudo documentario tedesco su sessualità e gravidanza che era stato tra gli iniziatori del genere erotico - quasi a voler rimarcare l’appartenenza di Io,
Emmanuelle a quel preciso filone. Va infine ricordato che la pellicola venne sequestrata a Milano, sottoposta a giudizio per oscenità e infine rimessa in circolazione (probabilmente “alleggerita” di qualche immagine).
Anche Silvio Amadio si inserisce in questa corrente cinematografico con il pessimo L’isola delle Svedesi
(agosto 1969; 84 min.). Di nuovo una giovane donna “piena di problemi” (saggiamente non esplicitati nei terrificanti dialoghi), la quale molla l’amante (Nino Segurini) e raggiunge un’amica (milionaria) che vive isolata su un’isola. Segue avventura lesbica, arrivo del fidanzato (ovviamente ottuso e fissato - non si capisce bene perché - nel volersi riprendere la compagna), prevedibili conflitti e addirittura strage finale (sopravvive solo la protagonista).
Ultranoioso, costellato di sequenze di riempimento semituristiche e fluviali tempi morti (al confronto il cinema di Antonioni risulta trascinante), affidato per la parte erotica alle discutibili grazie delle legnose Ewa
Green e Catherine Diamant, si segnala solo per due argomenti: l’insistenza (tipica del periodo) intorno alla presunta incapacità del maschio di comprendere le nuove “aspirazioni” femminili e la centralità della storia d’amore
lesbica (uno dei primi casi nella storia del cinema italiano). Nell’Isola delle Svedesi (che è poi La Maddalena) di fanciulle nordiche non se ne vedono. Il titolo segue una delle tante mode esterofile dell’epoca ovvero quella che dipingeva la Svezia come luogo principe di ogni libertà sessuale; vi aveva contribuito sorpattutto il libro-inchiesta di Enrico Altavilla, Svezia
inferno e paradiso (Rizzoli, 967) poi tradotto in immagini da Luigi Scattini (1968).
Altrettanto scadente appare La stagione dei sensi
(ottobre 1969; 86 min.) di Massimo Franciosa, film nel quale ritroviamo rovesciata la struttura narrativa della pellicola di Canevari. Questa volta sono quattro ragazze - rappresentanti disinibite del nuovo tipo ideale femminile - a voler sedurre un misterioso giovane (Udo Kier) in un maniero isolato su un’isola (non vi sono altri abitanti). Il protagonista inventa allora una serie di giochi, più o meno erotici, con i quali le tiene a bada senza svelare le sue reali intenzioni. Infatti l’uomo non sembra particolarmente entusiasta delle attenzioni di cui è oggetto e un’aria vagamente misogina attraversa la pellicola.
Se dunque - da un lato - gli autori (la sceneggiatura, derivata da un soggetto di Amedeo Pagani, porta ben quattro firme tra le quali quella di Franciosa non figura) civettano col genere erotico per evidenti motivi
commerciali e regalano qualche nudo abbastanza casto, d’altro lato il disprezzo con cui il protagonsta - sorta di goffo superuomo nietzschano - tratta le ragazze fa pensare allo scetticismo dei film di Risi sopracitati e allo
scontro tra mentalità “emancipata” e Tradizione. Si parte quindi da una specie di “Summer of love” (l’isola, le vacanze, l’amore di gruppo ecc.) di cui in fondo il titolo del film è una parafrasi per approdare a una sorta di
apologo sadico poiché nella seconda parte del racconto - con insistenza - il giovane minaccia le sue vittime con un affilato coltello per poi - nel finale - legarle tutte e quattro sul tetto del castello; lì le abbandona al
loro enigmatico destino. Queste ragazze dall’intelligenza limitata, che si atteggiano a Don Giovanni, che hanno fatto proprie le tendenze aggressive del maschio (nel film vanno di notte a “molestare” il giovane mentre dorme
nel suo letto) vengono dunque trattate come delle scocciatrici da non prendere sul serio e di cui è opportuno liberarsi in modo drastico. Quindi possiamo ben dire che il film gioca su due tavoli: si finge “progressista” per
motivi commerciali (le obbligatorie scene di nudo) mentre possiede un’anima reazionaria e vendicativa. E’ la contraddizione intrinseca a numerosi prodotti filmici di quel periodo di transizione o se si preferisce di “mutazione
antropologica” (Pasolini). . A questo punto va detto che tra i quattro autori della sceneggiatura figura nente meno che Dario Argento e che, in fondo, La stagione dei sensi è il fim che maggiormente prelude al suo fondamentale esordio di autore con L’uccello
dale piume di cristallo (1970) in cui donne disinibite vengono uccise in serie da un maniaco sessuale. Il fastidio per il nuovo, artefatto modello di donna “emancipata” viene insomma solo suggerito nel film di Franciosa e pienamente realizzato nelle morti simboliche del primo celebre “giallo all’italiana”.
Si noti che anche l’interessante colonna sonora di Ennio Morricone (certamente la cosa più valida nel film di Franciosa) con i suoi sussurri, i suoi sinistri rumori e gli accenni di inquieto caos sonoro, anticipa
compiutamente le tre importanti partiture dedicate dal musicista alla trilogia degli animali (1970-71) di Dario Argento.
Altrettanto astratta e governata dal medesimo disegno ideale è l’opera prima di Piero Schivazappa, Femina ridens
(agosto 1969; 88 min.), pellicola che racconta i giochi di crudeltà messi in atto del ricco filantropo Sayer (Philippe Leroy) ai danni della sua segretaria (Dagmar Lassander), durante un fine settimana. Anche in questo caso la persecuzione della vittima è messa in diretta relazione con l’emergente, minacciosa tipologia della donna emancipata (negli sconclusionati dialoghi il protagonista inveisce contro la pillola e arriva a prospettare un mondo governato dal sesso debole) e numerose appaiono le anticipazioni del famoso film d’esordio di Argento (anticipazioni anche visive, come nel caso della sequenza degli scatti fotografici che anticipa qualle d’apertura dell’Uccello alle piume di cristallo).
Schivazappa, nato a Colorno (Parma) nel 1935, entra nel mondo del cinema come aiutoregista di Zurlini agli inizi degli anni sessanta e firma con questa mediocre pellicola l’inizio di una carriera registica piuttosto
discontinua e povera di titoli. Femina ridens allude, fin dal titolo, alla inedita situazione di presunta superiorità nella quale viene a trovarsi la figura femminile dopo il ‘68. Per illustrare questo “teorema” l’autore si abbandona a un teatro da camera piuttosto stucchevole (praticamente i due attori sono gli unici in scena, quasi sempre in luoghi chiusi, tra antichi manieri e ville modernissime) in cui l’uomo spaventa e cerca di umiliare con ogni mezzo la compagna la quale dapprima implora di essere lasciata libera, poi lentamente seduce l’uomo, si trasforma in dominatrice e lo uccide (didascalica applicazione della dialettica servo - padrone, assai popolare nell’ “era hegeliano-marxista”). La violenza del maschio sarebbe insomma l’ultima spiaggia di una categoria perdente.
La sequenza conclusiva, ambientata in una piscina, organizza addirittura una specie di duello “western” tra i due contendenti - di resa dei conti finale nella guerra dei sessi - visivamente ispirato (sguardi in primissimo
piano organizzati, dilatazione del tempo filmico, annullamento del sonoro interno alla scena, musica come collante) ai celebri finale della trilogia del dollaro di Sergio Leone (anche la colonna sonora di Cipriani si modella
allora su quelle arcinote di Ennio Morricone). Al di là della morale allineata alle mode correnti, delle brutte musiche, delle insopportabili prolissità (nel film c’è materiale al massimo per un mediometraggio) e degli
effervescenti scenari pop (parzialmente ispirate all’ultima maniera astratta delle Superfici di Giuseppe Capogrossi) il cui apice è costituito da una “vagina” dentata che divora le sue prede, Femina ridens rimane il documento di un’epoca, fedele registrazione (insieme agli altri film sopra citati) di uno sbigottimento generale e di una malcelata misoginia: la tematica della violenza sulle donne, da evento saltuario nella storia del cinema, sta per diventare un fatto costante - con cadenze ossessive in questa fase storica - all’interno di una sorta di rivalsa fantastica nei confronti della rivoluzione sessuale in corso. Il lavoro di Schivazappa può almeno “vantare” il pregio di essere tra i più espliciti e convinti iniziatori di tale corrente cinematografica.
|