La contessa Castiglione, Carmela, Dagli Appennini alle Ande, I pagliacci, La signora in nero, Ti conosco mascherina!, La Fornarina, La locandiera e La donna della montagna: celebrazione del passato (1942-44)
Flavio Calzavara, nato a Istrana vicino Treviso nel 1900, spende parte della propria gioventù in Sudamerica. Rientrato in Italia si avvicina al cinema in qualità di
aiutoregista di Blasetti (per Vecchia guardia, 1934 e Aldebaran, 1938); esordisce alla regia con Piccoli naufraghi (1938) e prosegue con una ricca produzione filmica. La contessa Castiglione
(ottobre 1942; 85 min.) è una pellicola su soggetto dal regista e di Piero Accame, realizzata con vasti mezzi e volta a celebrare l’Italia patriottico-risorgimentale in tutte le sue componenti: quella diplomatico-monarchico dei Savoia e quella cospiratorio-repubblicana dei mazziniani. La vicenda si snoda tra il 1848 e il 1855-56: nella prima parte si racconta in flashback il nascente amore tra il carbonaro (Andrea Checchi) e la giovane Virginia (Doris Duranti), figlia di una famiglia della Firenze aristocratica. Nella seconda parte, ambientata a Compiègne nella fastosa residenza dell’imperatore Napoleone III, la giovane, divenuta la piemontese contessa di Castiglione (nonché cugina di Cavour), si impegna a sedurre l’imperatore per facilitare l’alleanza con Vittorio Emanuele II e la successiva, inevitabile guerra antiaustriaca (l’episodio possiede una qualche verità storica, comprovata in una lettera dello statista piemontese). Il sopraggiungere dell’antico amante e acceso antimonarchico complica le cose: nel finale tuttavia la giovane lascia il carbonaro, rinuncia momentaneamente all’amore per sacrificarsi alla ragione di stato fiduciosa che di lì a poco tutti i patrioti di differenti convinzioni si uniranno nello sforzo comune.
La pellicola, mediocre quanto a scrittura, è una necessaria, patriottica celebrazione della trionfale stagione del Risorgimento cui si attribuisce un’esuberanza bellicosa (ma in realtà ci vengono sempre e solo mostrate
delle elite aristocratiche all’opera, confermando il carattere assai poco esteso e poco popolare di quelle aspirazioni nazionali) che si vorrebbe estendere “per simpatia” ai giorni attuali del ben differente conflitto bellico.
Al di là degli scontati, evidentissimi intenti propagandistici, è oltremodo divertente assistere ai contorcimenti attuati dagli sceneggiatori per nascondere il rovesciamento attuale delle alleanze rispetto alla situazione di un
secolo prima. Così per quanto si esaminino la prima guerra d’indipendenza e i preparativi della seconda, la presenza di un nemico di lingua tedesca viene quasi completamente taciuto mentre non ci si dimentica di citare la
benevolenza del nordico stato prussiano ai maneggi di casa Savoia in funzione anti austriaca. D’altro canto la corte francese figura ora come l’alleato fondamentale e non resta che descriverlo come tale (d’altronde la Francia
di Petain è ormai sconfitta e sottomessa) sebbene in definitiva lo si screditi nel personaggio di un Napoleone III da operetta il quale si deciderebbe a sancire l’alleanza con il Piemonte per potere fruire dei favori sessuali
della contessa. Il film si inserisce poi nel solco della Cena blasettiana e permette alla Duranti di mostrarsi a seno nudo al fine di garantire un sicuro successo di scandalo alla “didascalica” pellicola. Anche nel
descrivere gli sforzi per giungere all’unità d’Italia Calzavara attua sottili equilibrismi per celebrare sia l’abilità diplomatica della corona (guerra del 1859), sia i maneggi carbonari di quell’ala democratica del movimento
che troverà sfogo nell’impresa dei Mille (1860). E’ ovviamente in quest’ultima fazione, popolare e giacobina, che si riconosce il fascismo: solo due anni dopo, nella problematica RSI, Mussolini utilizzerà proprio l’effigie di
Mazzini quale simbolo principale della nuova e debole repubblica per ribadire (ora a chiare lettere) il sotterraneo e antico legame del primo fascismo movimentista e rivoluzionario (in particolare periodo 1919-21) con alcuni
ideali della Giovine Italia. Dunque il regista nel mostrare le due differenti fazioni del Risorgimento, ora divise, ora unite, si barcamena cercando di adattare il passato al presente in una celebrazione pragmatica e funzionale
alle esigenze dell’oggi. Va detto che solo due anni dopo, nell’Italia spaccata tra RSI e Regno del sud una pellicola “concorde” come questa sarebbe stata impossibile da realizzare: la cinematografia del cinevillaggio veneziano
si sarebbe concentrata sulla figura del cospiratore limitando l’importanza della corona piemontese mentre in un ipotetico cinema del sud ci si sarebbe comportati in modo esattamente antitetico. Altrettanto mediocre risulta
Carmela (dicembre 1942; 85 min.), pellicola di Calzavara ispirata all’omonimo racconto presente nella raccolta giovanile Vita militare (1868) di Edmondo De Amicis, sceneggiato dal regista con Corrado Alvaro e Italo Cremona. Siamo nei primi anni dell’Italia unita, in un’isoletta del canale di Sicilia, avamposto militare nonché sede di un penitenziario. Carmela, una giovane squilibrata (Doris Duranti) crede di riconoscere in Carlo (Pal Javor), nuovo comandante della guarnigione, l’antico amante di tre anni prima ovvero un tenente che, trasferito altrove, l’aveva dimenticata. La giovane corre in lungo e in largo per l’isola, dà scandalo, rischia di essere rinchiusa in manicomio senonché il neocomandante finisce con l’avere pietà di lei, la cura, la aiuta a ritrovare il proprio equlibrio psichico e, nel finale, la chiede in sposa.
La monocorde pellicola è un semplice veicolo per la Duranti la quale ha modo di esibire tutte le proprie capacità di attrice drammatica, scarmigliata e scomposta, in un grande ruolo degno del melodramma della prima metà
dell’ Ottocento, nel quale le frequenti scene di follia si collocavano sempre nel punto apicale della rappresentazione. L’intera prima parte può inoltre ricordare la Madama Butterfly (1904) di Puccini: in entrambi i racconti una donna semifolle, prigioniera di un doloroso ricordo, vive scrutando il mare, in attesa del ritorno del suo seduttore, di cui non ha più notizie.
C’è poco altro nel film: immagini realistiche della vita miltiare dell’isola cui si oppongono gli interni animati da una fotografia fortemente contrastata, in cui si dipinge il dramma di Carmela; i vagabondaggi esagitati
della donna per paesaggi aspri e selvaggi che anticipano quelli della smarrita Ingrid Bergman di Stromboli (Rossellini, 1950) e infine i brevi appunti sulla dura routine di una colonia penale sorvegliata dai militari.
Film scolastico e prevedibile, dimostra una volta di più il difficile rapporto esistente tra narrativa ottocentesca e cinema del Novecento come pure la decisa continuità esistente tra la tradizione del teatro lirico giunto
al proprio crepuscolo e il cinema italiano degli anni quaranta ossia una forma d’arte ai propri albori. Pochi mesi dopo Calzavara gira Dagli Appennini alle Ande
(febbraio 1943; 90 min.), una modesta e scontata riduzione del racconto di Edmondo De Amicis contenuto nel libro per ragazzi Cuore (1886), sceneggiato dal regista con Italo Cremona. Il lavoro si colloca nell’ambito della coeva, ricca divulgazione cinematografica di opere popolari della tradizione italiana (si pensi ai recenti Promessi
sposi, Piccolo mondo antico, Malombra, Gelosia ecc.) offrendo una versione appena dignitosa del racconto. La vicenda è nota: Marco (Cesarino Barbetti), bambino genovese, si imbarca di nascosto per Buenos Aires dove
spera di ritrovare la madre di cui si sono perse le tracce. In realtà qust’ultima si è spostata a ovest e vive sulle Ande con la famiglia che le dà un lavoro di domestica. Il ragazzo dunque attraversa in modo rocambolesco
l’intero continente sudamericano e solo nelle ultime, patetiche immagini riesce a ricongiungersi con la madre, gravemente malata. Il racconto è un caleidoscopio di eventi abbastanza ripetitivi, affidati alla simpatia del
giovanissimo attore. Gli scenari sono artificiosi e non manca perfino il goffo tentativo di imitare il western americano nell’episodio che vede il bambino ospite degli indios nelle sconfinate steppe centrali. L’opera
sottolinea con evidente simpatia l’esistenza di una coesa colonia italiana in Argentina, di lì a poco destinata ad accogliere numerose figure compromesse del sistema politico fascista, nonché una nuova ondata migratoria come
documenta la pellicola Emigrantes di Aldo Fabrizi (1948; vedi). Una successiva versione del racconto di De Amicis si avrà nel film omonimo del documentarista Folco Quilici (1959).
Giuseppe Fatigati, nato a Latina nel 1906, opera in qualità di montatore e aiuto regista negli anni trenta. E’ autore di sole tre pellicole, la seconda delle quali è
la versione italiana de I pagliacci (gennaio 1943; tit. ted. Lache Bajazzo; 75 min.), film girato a Berlino da Hainisch. Anche questo lavoro si inserisce nell’opera di divulgazione dei “capolavori” dell’arte
italiana. La storia rievoca l’episodio criminoso (avvenuto in Calabria, a Montalto Uffugo nel 1865) che sta all’origine della celebre opera lirica verista. Si immagina che Canio (Paul Hoerbiger), uscito di prigione dopo
vent’anni, vada in cerca della figlia (Alida Valli), adottata piccolissima da una famiglia aristocratica. Nella dimora di questi nobili egli incontra il musicista napoletano Ruggero Leoncavallo (Carlo Romano) al quale narra la
sua triste vicenda (Canio uccise sulla scena la moglie infedele Nedda e il suo amante Silvio) e il musicista la trasforma nel noto capolavoro. Nell’ultima parte ambientata al teatro Dal Verme di Milano durante la prima,
fortunata esecuzione dell’opera (21 maggio 1892; in realtà diretta da Toscanini e non da Leoncavallo come invece appare nella pellicola), la figlia ritrova il padre il quale tuttavia, con dolore, nega qualunque parentela con la
giovane per non comprometterne il matrimonio con un giovane aristocratico. La pellicola è filmata con buon senso della misura: gli interpreti fanno vivere il loro dramma con intensa compostezza, dramma il quale si specchia
nell’acceso melodramma musicale. Il lavoro consente di rilevare ancora una volta la fondamentale continuità tra racconto in musica e racconto cinematografico: il verismo lirico cercava, alla fine dell’Ottocento, soggetti
stringati, dinamici, credibili e scabrosi, presi “dalla realtà” popolaresca, rivalutava insomma la scena e l’intreccio, dando loro quasi la stessa importanza conferita al discorso musicale; nel far questo esso anticipava, senza
saperlo, il canone principale dell’arte cinematografica, “lingua scritta della realtà” ( Pasolini), nel quale quel medesimo intreccio viene esposto entro immagini fotografiche in movimento. Ritrovare in questi 75 minuti di
Fatigati la stessa storia che si trova negli 70 minuti dell’atto unico di Leoncavallo, con le pagine più celebri della partitura a fare da colonna sonora del film (interpretate tra gli altri dal famoso tenore Beniamino Gigli),
offre la possibilità di osservare quella “dissolvenza incrociata”, avvenuta proprio in quegli anni quaranta, tra opera lirica e film che conduce la prima al crepuscolo mentre innalza il secondo ad arte popolare per eccellenza.
Nunzio Malasomma trascrive per immagini la commedia francese di successo La petite Chocolatière (1909) di Paul Gavault che era stata già filmata più volte
nell’ambito della cinematografia d’oltralpe (Andrè Libel, 1914; René Herlin, 1927; Marc Allègret, 1932). In Italia essa diventa La signora in nero (dic.1943; 85 min.), una spigliata e vorticosa Screwball Comedy che si lascia guardare con una certa simpatia grazie al folle ritmo e alla quantità insolita di personaggi che popolano la scena. Malasomma aggiunge solo un paio di idee (la presenza di una misteriosa signora in nero e l’inevitabile critica al mondo aristocratico) e, per il resto, si tiene vicino al testo originario. La pellicola è praticamente tutta ambientata in interni ed è divisa in “tre atti”.
Un’enigmatica donna in nero schiaffeggia il serissimo chimico Franco Dossi (un ottimo Carlo Ninchi) il giorno delle sue nozze; la cerimonia salta e quando la fidanzata Bianca (Vera Carmi) col padre, in piena notte, si reca
a casa dell’uomo per spiegazioni lo trova alle prese con una petulante e ambigua signorina ossia Laura Morando (Laura Redi). Le nozze saltano definitivamente e l’uomo, per giunta licenziato dal padre della ragazza, suo datore
di lavoro, precipita nell sconforto. In realtà era tutta una macchinazione di Bianca che, non volendo sposare una figura tanto noiosa ed avendo già, in coda, un secondo corteggiatore (Aroldo Tieri), aveva “arruolato” l’amica
Laura per creare queste situazioni imbarazzanti. Quest’ultima, tuttavia, si pente, fa assumere Franco dal proprio padre, rompe il proprio fidanzamento con un insopportable aristocratico (Filippo Scelzo) e riesce, alla fine, a
sposarlo. Il ritmo indiavolato e la buona interpretazione di tutti gli attori generano un meccanismo scoppiettante, a tratti quasi surreale (la lunga sequenza dell’invasione notturna a casa Dossi), innervato da una certa
misoginia (le donne appaiono tutte superficiali e pronte ad ogni simulazione pur di realizzare i propri assurdi capricci che solo un uomo forte e sicuro di sè riesce a rintuzzare) e, di conseguenza, da una visione solidamente
patriarcale. Rispetto al testo francese siamo in presenza, come sempre, di una perorazione della figura del borghese medio, operoso e serio, attento e scrupoloso (pertanto poco attraente per una certa tipologia femminile vacua
e festaiola) ovvero dell’ “uomo nuovo” dell’era fascista intorno al quale si aggirano figure altrettanto serie come Ottavio Morando (Antonio Gandusio) che sa valutare il nuovo assunto e spera che la figlia allontani da casa la
cerchia di aristocratici ovvero il suo inutile fidanzato e i suoi amici. Questa tematica, inesistente nel testo francese, viene inserita una volta di più per affermare il carattere parassitario e sterile della vecchia
aristocrazia romana che circonda la monarchia ed anche il papato. L’intento segreto del cinema fascista era preparare il popolo ad una eventuale defenestrazione del re (evento di cui a tratti si vocifera, soprattutto dopo la
creazione dell’Impero, nel 1936, con un Mussolini all’apogeo della propria fama), popolando ogni singola pellicola di figure di aristocratici scialbe e dannose. Va anche ricordato che, quando la pellicola esce nelle sale, il re
è fuggito al sud e una parte d’Italia è realmente divenuta una repubblica.
Nell’estate 1943 Eduardo De Filippo sta completando la sua seconda regia cinematografica, Ti conosco mascherina!
(dicembre 1943; 78 min.), trascrizione filmica della commedia in quattro atti Il romanzo di un farmacista povero (1882) di Eduardo Scarpetta (padre del regista) il quale, a sua volta, si era ispirato a Les trente millions de Gladiator di Labiche. Il lavoro cinematografico ovviamente viene interrotto dalle note peripezie belliche e continua nell’autunno. Il film esce a dicembre e viene salutato da un buon successo. Si tratta, tra l’altro, dell’ultima collaborazione tra Eduardo e Peppino De Filippo.
La vicenda si sviluppa intorno alla bella attrice “disoccupata” Elisa (Lida Baarova) e al suo furbo servitore Carmine (Eduardo De Filippo), due perenni squattrinati i quali, adocchiato un anziano aristocratico sul punto di
ereditare una fortuna, lo tallonano: al momento di riscuotere la forte somma l’uomo, ammaliato da Elisa, potrà sposarla. Sebbene la pellicola soffra delle tipiche verbosità teatrali, nell’insieme offre tuttavia uno spettacolo
gradevole, allineato sui canoni di uno sfrontato, pragmatico libertinismo di marca francese che ben si adatta ai difficili tempi nuovi di un’Italia affamata sotto i bombardamenti. D’altronde il testo cinematografico accentua
notevolmente il carattere opportunistico dei due protagonisti, carattere più sfumato nella prosa ottocentesca di Scarpetta. Insomma tutto è in vendita. La storia secondaria racconta invece di Felice (Peppino De Filippo),
povero assistente in una farmacia che dapprima amoreggia con Elisa; poi, allontanato da Carmine, si sposa con la fidanzata del suo odiato principale (Paolo Stoppa). In un episodio assai discusso il giovane si adatta a fare
pubblicità al futuro suocero dentista magnificandone le doti professionali tra i pazienti in sala d’aspetto. La frase adulatoria “ Che dentista, che genio, non c’è che lui, non c’è che lui!”, continuamente ripetuta con ridicola
enfasi da Felice, viene da molti critici letta come uno sberleffo antifascista e di conseguenza il gesto del braccio alzato di un ragazzino viene additato come caricatura di un saluto romano. Tale interpretazione è assai
forzata: innanzitutto la frase in questione riprende, senza modifiche, il testo di Scarpetta mentre risulta molto improbabile che nella Roma sconvolta dell’8 settembre, con i nazisti nuovi spietati padroni, il duo De Filippo,
fino a quel momento collocato su posizioni “scettiche” e poco politiche, si sia arrischiato a prendere in giro Mussolini. Peraltro, anche in seguito (si veda il ruolo di Eduardo in La vita ricomincia, M. Mattoli, 1945)
la posizione del commediografo napoletano rimane piuttosto moderata e “centrista”. La critica postbellica cerca in tutti i modi di “giustificare” quegli autori alla quale è affezionata e dei quali è impossibile non riconoscere
le qualità artistiche; tale operazione passa attraverso una sistematica rilettura deformante della loro produzione di epoca fascista (si ricordi quanto detto per Rossellini e De Sica).
La Fornarina (settembre 1944; 100 min.) è invece l’ultimo lavoro di Enrico Guazzoni: ispirato a un romanzo di Tullo Gramantieri il film, girato con ampi mezzi, rievoca la Roma di papa Giulio II e Leone X (nel periodo 1508-20) e le vicende amorose di Raffaello, conteso da tre donne: la popolana Margherita Luti (una sua modella) detta la Fornarina (Lida Baarova) poiché figlia di un fornaio di Trastevere e due nobildonne ovvero un’amante del passato e la fidanzata ufficiale. La prima delle due, la potente e gelosa duchessa Eleonora d’Este (Anneliese Uhlig), fa rapire la Fornarina da un assassino di cui facilita la fuga dal carcere; la donna, amata caldamente dal pittore, riesce però a sfuggire alla morte e rientra a Roma dove si ricongiunge a Raffaello. Poco dopo questi, a soli trentasette anni, muore (1520). La pellicola, tra le prime a comparire nella Roma degli alleati, è stato girata in precedenza.
Sebbene la trama sia alquanto ovvia, nonché di pura fantasia quanto alla vicenda del sequestro, essa trova un valido contrappeso sia nell’ottimo senso figurativo di Guazzoni che ritrae dei veri e propri “affreschi viventi”
la cui compostezza si ispira alla pittura rinascimentale e manierista, sia nel buon ritmo e nell’efficace recitazione delle due attrici “rivali”. Seguendo la moda instaurata dalla Cena delle beffe, Guazzoni inserisce un
paio di nudi (uno di schiena, forse il primo nella cinematografia italiana sonora) volti a rendere lo spettacolo più “stupefacente”: anche attraverso queste pellicole “scandalose” il regime cerca di distrarre l’opinione
pubblica dalle molteplici sciagure generate dallo stato di guerra. Come Dagli Appennini alle Ande e I pagliacci, il film di Guazzoni rende omaggio a un capitolo importante della storia dell’arte italiana,
mostrando numerose tele del maestro di Perugia e rievocando con accettabile approssimazione il lavoro della sua bottega.
Luigi Chiarini, originario di Roma (n. 1900), è tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia (1935) del quale è direttore fino a tutto il periodo bellico.
Critico e saggista esordisce alla regia con Via delle cinque lune (1942). Anch’egli si inserisce nel “comodo” filone celebrativo dei passati capolavori dell’arte italiana con il suo terzo lungometraggio, La locandiera
(70 min.), libera e accademica trascrizione filmica dell’omonima commedia in tre atti di Carlo Goldoni (1753), sceneggiata insieme a Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti. Nel settembre 1943 il lavoro sta per essere ultimato ma gli eventi bellici ne interrompono la lavorazione. Chiarini, per evitare di aderire alla RSI e di trasferirsi al cinevillaggio veneziano, abbandona la pellicola che viene completata in sede di sonorizzazione senza il suo contributo ed esce nelle sale del nord nel dicembre 1944.
La famosa commedia si basa su un vivace girotondo di corteggiatori che ambiscono alle grazie della bella locandiera Mirandolina (Luisa Ferida); quest’ultima, popolana furba e civetta, accetta complimenti e regali da tutti,
cavalieri, baroni e marchesi, ma alla fine sposa il suo impiegato Fabrizio, una figura debole sulla quale sa di poter esercitare un controllo totale. Carlo Goldoni firma un lavoro in cui risulta partcolarmente accentuata la
rivalutazione della libertà femminile, quasi un testo “femminista”; la sua locandiera è una sorta di Don Giovanni in gonnella che tutti seduce per il proprio piacere e che si tiene alla larga da seri impegni familiari. Quando
alla fine si trova costretta a prendere marito sceglie il più inoffensivo con il dichiarato proposito di poter continuare alle sue spalle la ricerca del piacere. Il commediografo veneziano era considerato ai suoi tempi un
innovatore e i suoi lavori proponevano ideali sociali ugualitari di matrice illuministica. E’ quasi certo che l’artista abbia infatti aderito alla loggia massonica presente in Venezia dal 1746 e che abbia trovato nell’appoggio
della medesima un importante canale per ottenere ascolto e successo nella città lagunare. L’ideale ugualitario, asse portante della filosofia liberomuratoria, trova nella lotta per la parificazione della donna nel sociale uno
dei suoi più importanti punti di applicazione (lotta a tutt’oggi non conclusa; si pensi a tale riguardo alla irritante, irrispettosa e ossessiva pressione dell’Occidente “imperialista” sulla cultura islamica); in tale campo nel
Settecento letterario il lavoro di Goldoni si trovava dunque “in prima linea”. In seguito la repressione romana (Inquisizione) costrinse alla prudenza e la felice stagione goldoniana (gli anni cinquanta) volse al termine mentre
risorgeva l’astro del conservatore Carlo Gozzi. Così nel 1762 Goldoni lasciò Venezia per stabilirsi a Parigi dove morirà povero nel 1793. A differenza degli altri lavori citati in questo capitolo l’operazione di Chiarini,
Barbaro (futuro marxista e critico dell’Unità) e Pasinetti appare quinti tutt’altro che apolitica e celebrativa. La figura della locandiera, donna attiva, lavoratrice, sfacciata e pragmatica (le punte più amorali del
personaggio vengono però prudentemente censurate dal trio) costituisce dunque una proposta di rottura nei confronti della moribonda ideologia fascista di stampo “patriarcale”. Gli autori inoltre si inventano un finale
(corrispondente al terzo atto della commedia) in cui i personaggi si recano a vedere la Turandotte di Gozzi, lavoro “reazionario” e stereotipato al quale si contrappone il realismo semplice e popolare dei personaggi goldoniani. Questa inattesa trovata, se ha il merito di animare la pellicola, è tuttavia l’ennesimo falso storico in quanto la fiaba del Gozzi verrà scritta circa un decennio dopo (1762) il testo goldoniano. In ogni caso l’operazione punta a ribadire la consunta tesi “verista”, poi fatta propria dal “neorealismo” e dalla concezione artistica progressista, secondo cui l’arte deve copiare il vero e non ripetere gli astratti modelli di una tradizione fantastica e atemporale.
Come il film di Chiarini, anche La donna della motagna
(95 min.), terzo fim di Renato Castellani, sta per essere ultimato nell’estate del 1943 quando le note vicende belliche ne interrompono la lavorazione. La pellicola, libeamente ispitrata al romanzo I giganti innamorati (1938) di Salvator Gotta, viene poi terminata in modo frettoloso e distribuita nell’ottobre 1944.
Vi si raccontano i crucci di Rodolfo (uno sbiadito Amedeo Nazzari), un ingegnere impegnato in un cantiere dalle parti del Cervino, che perde in un incidente di montagna l’amatissima e un po’ misteriosa moglie Gabriella. Il
film apre sul funerale della suddetta e introduce immediatamente l’allucinata Zosi (un’intensa Marina Berti), la quale, accecata da un amore folle, non vuole lasciare solo l’uomo neppure nei giorni del lutto. Riuscirà a farsi
sposare da un Rodolfo indifferente che finisce col maltrattarla duramente e i cui unici e costanti pensieri sono rivolti alla donna morta. In casa non può mancare la stanza della defunta, perfettamente conservata. Nel frattempo
veniamo a sapere che Gabriella era una donnina allegra che si accompagnava con l’autista ed altri mentre l’ingenuo marito lavorava alacremente; Zosi sa ma tace. Il melodramma conosce le prevedibili aspre punte di tensione fino
al lieto e artificioso scioglimento nel quale Rodolfo capisce i propri errori e finalmente ricambia l’amore di Zosi. La vicenda, più adatta al teatro lirico che al realismo fotografico del cinema, offre uno spettacolo
monocorde e tedioso: i personaggi, stereotipati ed assurdi, non riescono a prendere reale, umana consistenza (con l’eccezione, forse, della figura di Zosi, ben interpretata dalla Berti) mentre l’impianto generale copia
sfacciatamente Rebecca (Hitchcock, 1940), pellicola fortunosamente distribuiita in Italia nell’autunno 1941. Il film esamina il rapporto servo-padrone, toccando punte di sadismo abbastanza inconsueto per il cinema coevo:
il gelido disinteresse di Rodolfo per l’ostinata e devota Zosi si trasformano in un gioco al massacro in cui la donna sembra provare un sinistro piacere nel venire costantemente umiliata. Sono questi insoliti e surreali eccessi
a divenire l’unico elemento di interesse di una pellicola insolita, lettararia e calata in un contesto sostanzialmente atemporale. Saggiamente gli autori hanno ambientato la vicenda nel 1938, al di fuori dal contesto
bellico, così da potersi concentrare unicamente sulle dinamiche relative ai tre personaggi del racconto.
testo scritto nel 2005; ultimo aggiornamento: giu.2017
|