Don Cesare di Bazan, Non canto più e Due cuori tra le belve

Don Cesare di Bazan, Non canto più e Due cuori tra le belve: pro e contro Hollywood (1942-43)

            “Dimodoché in definitiva non si perderà nulla a non veder più questi tre buffoni (i fratelli Marx) sugli schermi italiani. Effettivamente non ho mai capito lo spirito dei tre pagliacci, né posso    credere a coloro che asserivano di divertirsi alle loro ‘birbonate’ “
            Guglielmo Ceroni (“Lo schermo”, luglio 1939)

Riccardo Freda nasce il 24 febbraio 1909 ad Alessandria d'Egitto da genitori di origine napoletana. Lavora come sceneggiatore a partire dal 1937 (collabora con Alessandrini e Matarazzo) e firma la prima regia con Don Cesare di Bazan (ottobre 1942; 78 min), pellicola ambientata nella Spagna secentesca governata da Filippo IV (1621-65), sceneggiata da Vitaliano Brancati e Cesare Zavattini (sulla base  della commedia francese Don César de Bazan, 1844, di Adolphe d’Ennery e Dumanoir) e interpretata da Gino Cervi. Il film, alquanto anonimo, si fa notare esclusivamente per la contorta orchestrazione di un micidiale complotto di corte (peraltro completamente inverosimile) e per il tentativo di creare una sorta di suspense all’interno di una trama che miscela perfidia criminale e raggiro politico. Sebbene la scrittura filmica sia dozzinale, Freda osa affrontare in modo insolitamente crudo gli snodi del racconto tra false esecuzioni (evidente il ricordo del finale di Tosca, Puccini 1900), ricatti e vendette sommarie.
La vicenda riguarda le ambiziose trame dell’ambasciatore francese a Madrid il quale, in accordo con il ministro degli interni e con i suoi accoliti, cerca di attrarre il re in una trappola mortale al fine di garantire alla Catalogna l’indipendenza e attraverso di essa lo smembramento del potente impero spagnolo. Il prode Don Cesare di Bazan (Cervi aiutato dal fedele scudiero interpretato da Paolo Stoppa), arrestato perché a conoscenza del complotto, si salva rocambolescamente dall’esecuzione, sventa il piano criminale e uccide i colpevoli. Gli sceneggiatori pagano l’abituale contributo alla coeva politica culturale fascista ponendo in pessima luce la Francia e tessendo l’elogio del re Filippo IV e del valente popolo spagnolo (ora sotto la vigile dittatura dell’ “alleato” Franco).
Ancora un attento contributo alla visione del regime permea l’insolita commedia giallorosa Non canto più (1943; 76 min.), su soggetto e sceneggiatura del regista e di Steno, in cui si raccontano le peripezie di un bizzarro tenore che accetta il trucco escogitato della sua spregiudicata manager per procurarsi un’insolita pubblicità: si finge autore del furto di una preziosa collana. La polizia indaga inutilmente e alla fine, dopo innumerevoli, sciocche disavventure, l’equivoco si chiarisce. Freda intende ora affrescare l’universo “altro” delle Americhe (il film è opportunamente ambientato a Città del Messico) con particolare riferimento al gretto, sempliciotto materialismo ivi imperante (l’accento sull’universo delle trovate pubblicitarie ne è un efficace emblema) e all’altrettanto deprecabile matriarcato (il tenore protagonista si autodefinisce una vittima degli intrighi delle donne). In tal senso l’avere affidato a una tipica “donna in carriera” il ruolo di motore trascinante dell’azione (la manager del cantante escogita il trucco pibblicitario che dà l’avvio agli eventi e in seguito continua a gestire persone e cose con autorevolezza) è emblematico di una concezione sociale che il fascismo percepisce come lontana e nemica, la medesima che invece veniva e verrà celebrata nei più differenti e fantasiosi modi dal cinema di Hollywood.

Al contrario alla comicità hollywoodiana si ispira palesemente Totò nel suo quinto film, Due cuori tra le belve (maggio 1943; 82 min.) diretto da Giorgio Simonelli e ispirato a un racconto di Goffredo D’Andrea sceneggiato tra gli altri da Steno. La vicenda è un mero pretesto per dar modo al comico napoletano di mettere in mostra il proprio repertorio di mimiche e lazzi, nonché per mostrare un certo numero di fanciulle in abiti succinti (nel solco aperto dalla Cena delle beffe, 1942). Totò si unisce clandestinamente a una spedizione “scientifica” in Africa durante la quale si cimenta con tribù di cannibali, oscura il sole con rituali magici, smaschera i trucchi di un sedicente scienziato, si dichiara pacifista (lieve stilettata alla politica fascista in un momento assai critico) e salva la bella di turno (Vera Carmi) da situazioni perigliose.
Rispetto alle più misurate farse create nel 1940-41 (vedi), con Due cuori tra le belve (in seguito riedito anche come Totò nella fossa dei leoni) il comico accentua in modo radicale il registro dell’assurdo e si pone alle origini del cosiddetto cinema-spazzatura, destinato a inattese “glorie” a partire soprattutto dagli anni settanta (il ricco filone Banfi-Fenech e company): una serie inesauribile di bizzarrie, ben poco divertenti, si allineano nelle avventure clownesche di Totò alle prese con cannibali e belve; ciò che appare evidente è la derivazione tutta americana di questo pasticcio: mossette chapliniane si alternano a fluviali, incomprensibili monologhi memori di Groucho Marx, atteggiamenti di impassibilità keatoniana confluiscono in episodi degni di un cartoon hollywoodiano (la sequenza di Totò pianista, infervorato esecutore della Seconda rapsodia ungherese di Liszt); in generale la struttura complessiva del lavoro appare ricalcata sulle pellicole “insensate” dei Marx Brothers alcune delle quali, sebbene invise al regime, erano note in Italia prima dell’avvio dell’era monopolistica nel 1939 (da quell’anno nuove leggi promilgate nel 1938 vietano l’importazione di film americani). Insomma è possibile delineare un curioso percorso che, dalle strampalate avventure dei fratelli Marx porta allo sconclusionata commedia sexy degli anni settanta passando per il peggiore Totò. In tutti questi generi contesti irreali sono la cornice necessaria di freddure catastrofiche, di un ridotto numero di episodi esilaranti e di una consistente quantità di curve femminili. La ricetta è infallibile nel generare uno spettacolo popolare di largo consumo e poche pretese.
In quel fatidico 1943 dunque qualcuno prosegue imperterrito la propria sottile critica alle democrazie moderniste laddove altri si preparano ad accoglierne ideali e tipologie di scrittura. Fedeltà alla linea e insofferente voglia di sabotarla percorrono segretamente le ultime fatiche cinematografiche del regime.