I due orfanelli, Il fiacre n. 13, Assunta Spina, Fifa e arena e Totò al giro d’Italia: il centrismo ironico di Mattoli (1947-48)
Mentre Riccardo Freda inizia a lavorare al grande progetto dei Miserabili (gennaio 1948), Mattoli lo segue nell’ambito del racconto d’appendice realizzato con vasti mezzi e inaugura addirittura una delle prime collaborazioni produttive italofrancesi con Il fiacre n. 13 (febbraio 1948; 186 min.). Avendo allestito un set tanto ricco il regista decide di sfruttarlo per una piccola farsa affidata al duo Totò-Campanini: nasce così il film
I due orfanelli (novembre 1947; 85 min.) il quale si ispira solo vagamente al dramma classico delle Due orfanelle, più volte portato sullo schermo (da Griffith, 1922, a Freda, 1966). L’ambientazione propone
una tranquilla Parigi (anno 1865) governata dall’imperatore Napoleone III. La coppia di svitati scopre per caso le proprie origini: Totò è figlio di una casata nobiliare, Campanini è il figlio del boia della città. Seguono
svariate e pretestuose disavventure, spesso venate da un simpatico gusto surreale; esse culminano nella scena della decapitazione del “nobile” il quale, dopo essersi rimesso la testa sul collo, un attimo dopo si sveglia dal
brutto sogno nel proprio letto all’orfanotrofio. Il vero motivo di interesse della pellicola consiste invece nelle audaci tirate di argomento contemporaneo del comico napoletano il quale se la prende con tutto e con tutti: la
borsa nera, la guerra inutile, Hiroshima, i furbi sempre premiati e i fessi gabbati, offrendo, in modo intermittente, un quadro amaro dell’Italia del 1947. L’apice viene raggiunto con la gag del piazzale popolato da
innumerevoli coppie duellanti, segno di un’Italia tornata a essere litigiosa e caotica e nel satirico ritratto dell’avversario ferito il cui braccio ingessato simula il saluto fascista. Con aria divertita Totò lo sfida a uscire
di casa conciato a quel modo, alludendo ai sanguinosi regolamenti di conti posti in essere dai partigiani di sinistra negli anni del dopoguerra, esecuzioni sommarie (le vittime furono molte migliaia) svolte spesso con la
segreta benedizione di Togliatti (come dimostra la documentazione ora disponibile presso gli archivi ex sovietici e ampiamente citata da Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel fondamentale Togliatti e Stalin, 1997) e
finalizzati, oltre che alla semplice vendetta, a indebolire in prospettiva il centro destra democristiano-vaticano-atlantico. Dunque il film di Mattoli conferma la posizione di cauto centrismo dell’importante regista,
coadiuvato in questo caso dalla verve inarrestabile di Totò. Un velo di malinconico scetticismo avvolge dunque questo lavoro di routine e lo rende un documento a suo modo significativo. Il pubblico italiano sorprende le
attese dei produttori. Mentre la “piccola” favoletta con Totò e Campanini ottiene un notevole successo commerciale, il mastodontico Fiacre n. 13 (febbraio 1948), uscito nelle sale in due parti (Delitto, 90 min; Castigo 96 min) viene quasi snobbato. Il lungo e animato racconto, tratto da un romanzo d’appendice dello scrittore Xavier de Montépin (sceneggiato da Jean Jacques Rastier), narra tortuose e largamente inverosimili vicende: un duello abilemente provocato da un sicario, un misterioso delitto avvenuto nel maggio 1948, una coppia assassina disposta a tutto pur di mettere le mani su un’ingente eredità, un innocente condannato all’ergastolo, un bambino abbandonato in un fiacre (carrozza). Vent’anni dopo gli eventi la famiglia dell’uomo ingiustamente imprigionato si incrocia al ministero con il giovane (Leonardo Cortese) un tempo dimenticato nel fiacre il quale decide di indagare fino in fondo e di rimettere a posto i pezzi del complicato puzzle. Ci riesce tra mille peripezie e la verità finalmente appare.
La pellicola di Mattoli è tra le prime a riportare i Italia un certo gusto per il romanzo a forti tinte e soprattutto per il giallo poliziesco al quale il pubblico della penisola era stato completamente disabituato dalle
direttive del regime che proibivano film di argomento criminoso (così come la pubblicazione di ampi articoli di cronaca nera sui quotidiani). Il film propone dunque una vera e propria novità, anticipando per certi versi i
futuri, estesi sceneggiati televisivi degli anni sessanta e trova un pubblico impreparato e forse ostile a una pellicola divisa in due parti che esige una particolare attenzione a ogni dettaglio narrativo e obbliga ad andare
due volte al cinema a breve distanza di tempo per potere visionare l’intero racconto. Il successo dell’ordinario I due orfanelli e il mezzo fiasco del Fiacre appaiono, a distanza di tempo, abbastanza comprensibili.
L’opera offre motivi d’interesse sia nei contenuti, sia nello stile. Le gesta di Giorgio De la Tour Vaudieu (Marcel Herrand) e della sua complice Claudia (Ginette Leclerc), finalizzate a uccidere dapprima l’erede Filippo De
la Tour Vaudieu (fratello di Giorgio), poi la sua famiglia (il bimbo si salva fortunosamente) dipingono il ritratto di un uomo deciso a scalare l’alta scietà parigina con ogni mezzo. Egli diviene uno dei notabili del terzo
impero, stimato e temuto, ma la sua carriera è fondata sul sangue e nel sangue prosegue poiché l’uomo utilizza uno spietato sicario (Sandro Ruffini) per eliminare ogni ostacolo alla propria carriera. Il testo di Montépin e il
film di Mattoli mostrano pertanto le logiche eterne del potere politico il quale possiede una facciata pubblica rispettabile e tranquillizzante dietro la quale cela la propria amoralità e l’uso di mezzi altamente criminosi
(oggi parleremmo di servizi segreti “deviati”). In tal senso il film possiede una propria modernità e una capacità analitica di indagare i meccanismi del Potere piuttosto rara nella cinematografia del periodo. Tutto ciò
avviene attraverso un abile utilizzo di una fotografia crepuscolare e spesso fortemente contrastata che finisce per calare gli episodi più drammatici entro una cornice memore di certo cinema espressionista tedesco degli anni
venti. Ciò vale soprattutto per la prima parte e per l’intera rievocazione degli atti criminosi che si svolgono intorno al duello abilmente provocato e all’agguato del ponte dove trova la morte un ignaro dottore e dove il bimbo
viene rapito e lasciato nel fiacre. Inoltre l’efficace colonna sonora di carattere tipicamente melodrammatico di Renzo Rossellini sottolinea ogni evento, a tratti accentua il registro cupo e dissonante, altrove contribuisce a
creare la suspense (uso del pizzicato agli archi), ovunque esalta i colpi di scena e ricorda il fondamentale e ancora vivo legame tra cinema italiano e teatro lirico, tanto più evidente allorché si tratta di commentare un testo
ottocentesco. Nella seconda parte invece prende corpo una più netta contrapposizione tra gli strati popolari di una Parigi marginale, fatta di simpatici malviventi, e la classe dirigente tutta assorbita da sontuose feste e
complessi intrighi di Potere. Il gioco del montaggio si fa manicheo nel contrapporre ostinatamente i due universi come quello del bene e del male, riprendendo così una serie di stereotipi quali quelli del cinema francese di
sinistra degli anni trenta (Renoir, Carné) e quelli antinobiliari (più volte segnalati) tipici del cinema fascista. Questa seconda parte dunque funziona come un inno alla semplicità del popolo (presso i malviventi è costretto a
rifugiarsi il protagonista che ormai sa troppe cose ed è inseguito dalla polizia e dallo spietato killer al servizio di De la Tour Baudier, un po’ come accadrà nell’America del Watergate al Robert Redford de I tre giorni del condor di Pollack, 1975) che, generosamente unito, riesce a opporsi ai loschi intrighi di palazzo e a far trionfare la Verità. Il finale, per la verità, é singolarmente frettoloso e raffazzonato (il suicidio di George De la Tour, l’arresto della sua complice) e sembra dar ragione a chi parlò all’epoca di alcune parti di pellicola andate accidentalmente distrutte.
Edito a pochi mesi dalla fatidica data del 18 aprile 1948 anche il Fiacre, con la sua carica populista e antiborghese, porta in definitiva un piccolo contributo alla causa del fronte popolare, nonostante le simpatie
centriste del moderato Mattoli. All’inatteso insuccesso del dittico italofrancese segue il fiasco totale e altrettanto imprevisto di Assunta Spina
(marzo 1948; 90 min.). Con il contributo di un cast eccezionale (una straordinaria Anna Magnani dnel ruolo principale e un superbo Eduardo de Filippo nei panni di Michele Boccadifuoco, nonché autore della sceneggiatura) Mattoli mette in scena il celebre dramma teatrale (1910) di Salvatore Di Giacomo, rispettandone la cifra stilistica legata al verismo di inizio secolo e anzi rafforzandola grazie sia a un’accurata ambientazione tra i vicoli di una Napoli misera, sia all’accesa colonna sonora di Renzo Rossellini, memore del capolavoro mascagnano (Cavalleria rusticana,
1890) che sancì l’inizio in Italia del teatro musicale verista. Il testo teatrale era già stato tradotto in immagini nell’era del muto da Gustavo Serena (1915) e Roberto Roberti (1929). Assunta Spina, donna passionale e
imprevedibile, viene sfregiata dal gelosissimo e possessivo amante Michele il quale viene quindi condannato a due anni di carcere. Nel frattempo la donna si innamora perdutamente di don Federico Funelli (Antonio Centa) il
quale, dapprima ne approfitta in ogni senso (si fa prestere anche del denaro dalla donna), in seguito, stanco, tronca ogni rapporto con la medesima la quale soffre indicibilmente. La sera in cui, finalmente, Assunta riesce a
ottenere un nuovo incontro con Funelli viene colta sul fatto da Michele uscito anticipatamente dal carcere. Quest’ultimo, come impazzito accoltella il rivale e Assunta, annichilita, si assume la colpa dell’omicidio di fronte ai
sopraggiunti carabinieri. La Magnani è all’altezza di questo potente ruolo, anzi costituisce l’anima di una pellicola che spesso indugia su elemento secondari e coloristici (la lunga sequenza del miracolo di San gennaro e le
conseguenti processioni religiose). L’attrice delinea il ruolo di una donna all’antica, come poteva pensarla un letterato meridionale dell’Ottocento: Assunta vive in completa balia delle proprie forti passioni amorose che sono
la sua unica ragione di vita. E’ una donna selvaggia e impulsiva, che non si arrende mai e che, se abbandonata, perseguita senza sosta l’oggetto perduto del desiderio. Pertanto, nonostante il contributo della Magnani, il film
appare anacronistico nel dopoguerra al pubblico italiano il quale, stordito e “sedotto” dai valori della modernità che innervano le centinaia di pellicole d’oltre Atlantico che si riversano sugli schermi italiani, ha poca
voglia di rituffarsi in un dramma del passato, in un’opera “localistica” (recitata a tratti in dialetto napoletano) nella quale probabilmente si intuisce un passato ormai lontano. Le nuove figure femminili del cinema
hollywoodiano offrono modelli di emancipazione e attivismo ben differente (si pensi tra le tante alle protagoniste di Gilda, 1946, e de La signora di Shangai, 1947), spesso all’interno di contesti noir nei quali
la donna non è solo la dark lady ma è spesso il motore fondamentale dell’intrigo. Anche Assunta, a suo modo, è una femme fatale (in tal senso la bellezza opinabile della Magnani non è all’altezza del copione) ma si propone come totalmente passiva, sottomessa al desiderio del maschio in maniera servile (ogni sera, per due anni, la donna si reca sotto le mura del carcere per rassicurare Michele) e in definitiva vittima secondo uno schema assai prevedibile.
In tal senso la sequenza più bella e originale è quella del confronto tra la donna sconvolta dalla pena amorosa e l’ingenuo soldatino pescarese, sorta di Don José (dalla Carmen di Mérimée-Bizet) che le propone un tranquillo matrimonio e una differente e nuova cornice (Pescara) per la futura esistenza. La donna mostra allora la propria anima più profonda, avvisa e salva il malcapitato spiegandogli che lei è una malafemmina e che rispetta solo chi sa dominarla con la forza e la brutalità. In questa accensione poetica si rivela tutto il carattere passionale, succube e dipendente della donna latina, unica verità che anima e spinge il dramma alla sue estreme conseguenze. D’altro canto l’epoca delle donne che attendono quietamente in cucina il ritorno del loro uomo (clamoroso il caso della moglie di Funelli, mai mostrata dal regista, la quale vive talmente nell’ombra da permettere al marito di dichiararsi scapolo ad Assunta e frequentarla per oltre un anno in tale, mendace veste) appare definitivamente tramontato nella neonata Italia repubblicana.
In definitiva questa ennesima versione di Cavalleria-Carmen, illustrata con pregevole abilità ma senza colpi d’ala da Mattoli, appare troppo risaputa e arcaica al pubblico del secondo dopoguerra.
Nell’estate Mattoli gira con Totò Fifa e arena (novembre 1948; 85 min.; sceneggiatura di Marcello Marchesi e Steno), sorta di libera parodia del popolare Sangue e arena (Mamoulian, 1941), giunto da poco sugli schermi della penisola. La pellicola diviene uno dei massimi successi del cinema italiano del dopoguerra e stabilisce finalmente la celebrità di Totò in ambito cinematografico. Non a caso dal film successivo (Totò al giro d’Italia,
dicembre 1948) il nome del comico napoletano appare nel titolo, al fine di distinguere il film e da garantirgli un richiamo certo, sempre premiato da buoni incassi. Rispetto al recente I due orfanelli in cui l’esuberante Totò era ancora arginato da Campanini, ora l’intero interesse della pellicola poggia sulla esibizione del mattatore il quale, parzialmente abbandonati i toni surreali, offre al suo pubblico momenti di grande ilarità attraversati da importanti (forse inconsapevoli) riflessioni sullo stato delle cose italiano.
Totò, semplice farmacista, succube di una zia moralista e invadente, viene scambiato per un feroce serial killer. Fugge a Siviglia dove si fa passare per Nicolete, un torero napoletano “in tournée”. Le stravaganze del nuovo
arrivato irritano il vero torero Pachito e tra i due si scatena una folle rivalità per il cuore della miliardaria americana (Isa Barzizza) in procinto di scegliere il proprio tredicesimo marito. Totò millanta coraggio e bravura
ma teme soprattutto di dovere scendere nell’arena; fino all’ultimo istante, di fronte a una immensa folla che si attede la sua esibizione, egli è certo di farla franca con astuti stratagemmi. Invece dovrà infine confrontarsi
col toro e, a sorpresa, ne uscirà fortunosamente salvo, perfino acclamato. La pellicola riprende alcuni tratti del canovaccio americano ma li cala in modo netto nella coeva realtà italiana. Totò è l’uomo comune che vive di
espedienti, odia lottare, cerca scorciatoie in ogni situazione ed è ancora traumatizzato dall’esperienza della guerra. Ogni sirena viene scambiata per un allarme antiaereo e la fame appare tuttora un problema centrale e
angoscioso. Giunto in Spagna l’uomo è affascinato dalla bella di turno che spia seminuda attraverso un acquario; la visione, opportunamente censurata dai continui passaggi di un grosso pesce, fa imbestialire l’attore che
definisce “democristiano” il fastidioso animale (con riferimento al recente ritorno in grande stile della censura nell’ambito cinematografico). La donna è una ricchissima americana, moderna e disinibita, sorta di incarnazione
di quell’opulenza sensuale e rassicurante rappresentata nell’immaginario popolare dalla presenza degli alleati in Italia (piano Marshall) dopo la lunga e desolata tragedia bellica. Posto in questa nuova situazione Totò incarna
l’italiano di sempre, l’attore abile e cinico che tutto simula pur di dover giungere al risultato e che niente teme più del dovere dare prova concreta nell’azione, di qualità umane tutte verbali e inesistenti. Qui si colloca il
cuore segreto della pellicola, il perfetto punto di incontro tra la verve del comico e l’anima profonda del disastro italiano: il finto torero è insomma una inconsapevole caricatura del finto fascista che per un paio di decenni
ha tenuto banco sulla scena della penisola. Entrambi in pubblico impersonano il ruolo del guerriero pronto a tutto mentre in privato cercano ogni mezzo der evitare la discesa nell’arena (e d’altronde nel film più di uno
spagnolo sospetta che Nicolete sia “un impostore”...). La paura è il carattere dominante della figura di Totò (il comico lo dice apertamente), paura che si configura in fondo come nient’altro che un logico attaccamento alla
vita, diffidente e nichilista rispetto a ogni ideologia marziale e funeraria (fascismo, comunismo e affini). In tal senso l’irriverente e dispettoso comico offre l’opportunità al vasto pubblico italiano di ridere delle proprie
recenti tragedie, riformulandole in uno specchio deformante. Il coraggio e la paura sono dunque gli argomenti centrali della pellicola e il finale ottimistico adombra l’eterna fortuna italiana: la ripresa della vita normale
avviene in tempi rapidi (rispetto a Germania e Giappone) proprio grazie all’atteggiamento ambivalente della nazione, divisa fin dall’origine tra fascismo bellicoso e Vaticano pacifista cui si aggiunge, dopo il 1943, la
(modesta) cobelligeranza della monarchia al fianco degli alleati e la Resistenza. Il disastro è ormai dietro le spalle e si guarda al futuro con un certo ottimismo e non senza un’ironia benevola: il pesce “democristiano”
(la censura e la limitazione tutta cristiana di un’aperta sensualità) è in definitiva un fastidio sopportabile così come la democrazia basata su scontate ruberie (nel copione, in un passo assai brillante, il comico afferma “a
proposito di politica non si potrebbe mangiare qualchoserellina...”). Le fazioni femminili in lotta per sostenere Pachito e Nicolete si svolgono in un clima di totale rissa a Montecitoros (club taurino femminile): così la
democrazia rinata prende le sembianze di un innocuo chiacchiericcio femminile senza senso e senza scopo, anch’esso largamente preferibile al tuonare mussoliniano sullo “scoccare di ore della patria” che alla (stragrande
maggioranza della) patria non interessavano e anzi gettavano in un silente sconforto. Fifa e arena è meritatamente uno dei grandi successi del 1948 (nonostante il prevedibile giudizio morale totalmente negativo del Centro Cattolico Cinematografico che assegna un netto “escluso” alla pellicola; anche da questi minuti dettagli appare come fin d’ora gli italiani si sottomettano alla DC per mera utilità, snobbandone le indicazioni etiche; la devozione cattolica è solo la nuova maschera necessaria ad accontentare i potenti di turno) poiché, assai meglio delle desolazioni neorealiste, interpreta lo stato d’animo della nazione, ricorda la recente, rovinosa burrasca e allude ad alcune delle cause che l’hanno generata: il fossato incolmabile che esiste tra il dire e il fare in Totò rispecchia quello di un popolo felice di essere tornato entro innocue e più consone coordinate “provinciali” e di avere lasciato ad altri (Usa-Urss) la gestione delle cose del mondo.
Ancora il trio Mattoli - Marchesi -Steno, cui si aggiunge Vittorio Metz, firma il seguente, modesto Totò al giro d’Italia (dicembre 1948; 90 min.) le cui riprese iniziano in ottobre, quando Fifa e arena non è ancora uscito nelle sale. Della pellicola “spagnola” però si perdono la varietà di situazioni e la ricchezza di riferimenti extrafilmici, sostituite da una farsa surreale piuttosto ripetitiva e noiosa. Le premesse tuttavia sono buone: per conquistare la sensuale Doriana (ancora Isa Barzizza) Totò ovvero l’arcaico e imbranato professore di liceo Antonio Casamandrei (il cognome rimanda a quello del dirigente azionista Piero Calamandrei, il nome forse a quello di Gramsci mentre la barbetta aguzza ricorda quelle dei gerarchi Dino Grandi e Italo Balbo; così sinistra e destra sono “servite”) vende l’anima al diavolo. Le numerose apparizioni dell’elegante demone sulfureo (Carlo Micheluzzi), caratterizzate da una “serietà” degna di un impiegato bancario e i conseguenti duetti con lo scatenato comico napoletano sono tra le cose più godibili dell’operina. Il professore firma (col sangue) il regolare contratto in cui si prevede che egli vincerà il giro d’Italia (in barba a Coppi e Bartali) al fine di ottenere le grazie della Barzizza e non si accorge che esso stabilisce anche l’ora della sua morte (poco dopo la strabiliante vittoria sportiva). A quel punto la situazione si rovescia e Totò fa di tutto per perdere la gara senza riuscirvi; si finge pazzo in un ristorante e cerca perfino di farsi arrestare insultando il ministro degli interni Scelba e cantando Giovinezza,
giovinezza ma è inutile. I sopracitati campioni del ciclismo arrancano dietro di lui. Solo un banale stratagemma della madre del “campione” lo salverà. La prevedibile farsa possiede alcuni aspetti ed episodi degni di
nota. L’atteggiamento complessivo del protagonista non è poi lontano da quello di Nicolete: ancora una volta, in modo superficiale, egli acconsente a gesti estremi (il patto) ma quando finalmente si accorge del reale costo di
quell’adesione “infernale” egli fa di tutto per infrangere la parola data e rientrare nella cornice più ordinaria e dimessa. Alivello episodico invece, oltre ai già ricordati duetti con il diavolo “di seconda classe”, restano
nella memoria le sgangherate “esibizioni” canore di Totò che intona la rossiniana “Una voce poco fa” (Il barbiere di Siviglia, 1816) le quali offrono l’esilarante caricatura della testardaggine di una Rosina in versione
maschile: dunque niente può fermare Antonio De Curtis il quale, quando si tratta di una bella donna, è capace di vendersi al demonio, con buona pace del Vaticano trionfante (il quale tuttavia guarda con maggiore indulgenza a
questa pellicola più “casta”, assegnandole il giudizio “adulti”). Nel complesso infatti il film è attraversato dalla medesima vena laicista (sensualità diffusa, mancato controllo delle proprie pulsioni sentite come naturali,
addirittura commercio con il demonio) che segnava il lavoro precedente, venendo a fissare una netta scollatura tra Italia politico-rituale “devota” ai valori democristiani e Italia privata e godereccia, dimentica delle
consguenze concrete che quei valori implicano. L’arguto, irrefrenabile Totò ci racconta l’eterno ripetersi della simulazione italica pronta ad abbracciare qualunque valore egemone purché giudicato idoneo a garantire un
soddisfacente benessere privato e a debellare pericolose utopie socialisteggianti dai confini incerti. Il comico napoletano si conferma quindi l’icona di un popolo nichilista, versatile e al fondo semplicemente conservatore di
un ordine liberale e individualistico. Anche Totò al giro d’Italia, nato nel solco del precedente e meno fortunato film sportivo 11 uomini e un pallone (Simonelli 1948; tra gli sceneggiatori c’erano appunto Marchesi e Metz), è uno dei grandi successi della stagione, sebbene gli incassi siano inferiori a quelli di Fifa e arena.
|