I mostri, Il giovedì, Il gaucho e L'ombrellone

I mostri, Il giovedì, Il gaucho, L’ombrellone, I complessi, Il treno del sabato, Frenesia dell’estate, Se permettete parliamo di donne, I Basilischi, Questa volta parliamo di uomini, Made in Italy, La corruzione, La donna è una cosa meravigliosa, Tre notti d’amore, La bugiarda, Le bambole, I tre volti e Menage all’italiana: donne scatenate (1963-65)

                “Anzi, adesso non si chiama più nemmeno Parlamento, ...
                si chiama Pappamento, si chiama ... Eh ... tu ridi ... eh ...
                c'è mica tanto da ridere, sai, ... ci sarebbe da piangere ...
                altro che storie. Perché, vedi, quelli che dovrebbero pensare
                agli interessi pubblici pensano invece agli interessi propri”.
                Tognazzi ne I mostri (1963)

Dino Risi firma con I mostri (ott. 1963; 120 min.) uno dei film a episodi più fortunati e riusciti della storia del cinema italiano. Alla sceneggiatura di questa variopinta e rutilante galleria di personaggi vitali e strampalati lavora un piccolo esercito di sceneggiatori: Age, Scarpelli, Petri (che in un primo momento doveva curare anche la regia), Maccari, Scola e lo stesso Risi. Gli episodi, quasi tutti ambientati a Roma, sono addirittura venti, ma alcuni durano solo qualche minuto mentre altri posseggono un respiro ampio ed articolato. Protagonisti sono Tognazzi e Gassman, entrambi magnifici.
Il quadro che esce da questo afferesco caricaturale e macchiettistico è quello di un’Italia piena di vita, cinica, diffidente, individualista, spietata, ipocrita e amorale. Il fascismo, la sua rigida ideologia e la tragedia bellica sembrano appartenere ad un altro secolo mentre, in realtà, esso corrisponde all’infanzia e alla prima giovinezza dei personaggi di cui “ammiriamo” le gesta in questa pellicola.
In Un’educazione sentimentale Tognazzi spiega al figlio (Ricky Tognazzi) la propria filosofia di vita fatta di soprusi, furberie e trasgressioni a getto continuo. Il figlio, cresciuto a questa scuola, da adulto diventerà un criminale. In Come un padre Lando Buzzanca irrompe in piena notte a casa dell’amico Tognazzi per lamentarsi che la moglie rientra a casa ad ore impossibili e certamente lo tardisce; l’amico lo rassicura e lo congeda, poi torna in camera da letto dove c’è proprio la moglie dell’amico. Ne Il povero soldato un militare (Tognazzi) apparentemente tonto cerca di vendere per tre milioni e mezzo il diario scandalistico della sorella, una giovane prostitua d’alto bordo morta ammazzata nel proprio appartamentino romano. Ne La giornata dell’onorevole Tognazzi fa la caricatura di un potente democristiano (un po’ Andreotti, un po’ Moro, un po’ La Pira) il quale abbandona nel proprio studio per un’intera giornata un generale che è sul punto di consegnargli documenti compromettenti per alcuni suoi colleghi di partito. Quando finalmente rientra in ufficio la giornata è trascorsa e quei documenti sono divenuti irrilevanti. In Testimone volontario l’avvocato Gassman riesce quasi a fare arrestare un poveraccio (Tognazzi) che si è presentato spontaneamente (per dovere civico) come testimone in un caso di omicidio, rinfacciandogli tutte le scorrettezze commesse negli ultimi anni (prive di relazione con il caso in questione). Ne I due orfanelli Gassman e un amico cieco chiedono la carità; un medico avvicina il primo per avvisarlo che forse può curare la cecità del suo collega e Gassman, allora, si allontana precipitosamente, senza comunicare l’importante novità all’amico. Ne La musa, Gassman (in panni femminili) riesce a far assegnare il premio letterario a uno scrittore semianalfabeta che è poi il suo amante. Ne L’oppio dei popoli, una signora (Michele Mercier) riceve l’amante in camera da letto mentre il marito (Tognazzi) - come in trance - guarda per ore la tv. Ne La nobile arte un faccendiere squattrinato degli ambienti pugilistici, pur di guadagnare qualcosa, convince a rientrare sul ring un campione in disarmo (Gassman) il quale - dopo il disastroso incontro - finisce su una sedia a rotelle.
I nostri protagonisti, pur di assicurarsi un facile guadagno o di mantenere una posizione di potere commettono ogni sorta di nefandezza, certi che la moralità è un’invenzione per fessi e che la realtà è una giungla dove solo chi è senza regole può cavarsela in modo soddisfacente. La sottile amoralità che costituisce il filo rosso di questi raccontini si ritrova, identica, in quelli a sfondo sessuale: le relazioni amorose, che tanta soddisfazione danno ad alcuni dei personaggi, avvengono sotto il segno della truffa e del raggiro. La ragione è sempre e solo del più furbo o del più forte mentre ai più deboli non resta che soccombere, senza lamentarsi troppo per non perdere quel poco che hanno.
I mostri delinea, dunque, il ritratto di un’Italia sveglia, vivace e indifferente ai valori del passato, nella quale anche il cattolicesimo (argomento sfiorato in modo sarcastico ne Il testamento di San Francesco in cui si descrive un ipervanitoso predicatore televisivo che elogia nientemeno che l’umiltà francescana) è solo una rappresentazione illusoria alla quale ci si attiene per convenzione. La commedia all’italiana, insomma, critica i valori dell’Italia ufficiale e smaschera i vizi dell’Italia reale.
Nel 1977 Risi, Scola e Monicelli firmeranno il meno interessante I nuovi mostri (vedi), con Tognazzi, Gassman e Sordi, ideale continuazione di questa pellicola.
L’anno successivo Risi cambia registro, gira una pellicola più riflessiva e ciononostante altrettanto valida. Ne Il giovedì (gen. 1964; 105 min.) si racconta la lunga giornata di Dino, un padre legalmente separato (un ottimo Walter Chiari) che rivede dopo anni il figlio Robertino (Roberto Ciccolini) di otto anni. L’uomo è un pasticcione che vive di espedienti (non lontano da alcuni personaggi della galleria de I mostri), rifiuta un lavoro stabile (glielo propone con insistenza la convivente, interpretata da Michele Mercier), attende la grande occasione e, nel frattempo, si finge con tutti (ed in particolare col figlio) ricco e indaffarato. Dopo una mattinata generica (spende quasi tutti i soldi che ha per comprare un Meccano al figlio) nella quale l’uomo - che ha interpretato la solita parte fasulla e buffonesca - è già pronto a riaccompagnare il figlio a casa (nonostante abbia preso l’impegno di stare con lui fino a sera). La delusione di Robertino però finisce col commuovere il padre ed inizia allora un vivace pomeriggio alla fine del quale l’uomo rivela se stesso al figliolo e viene pienamente accettato da quest’ultimo.
In questa seconda parte il racconto si trasforma in una sorta di aggiornamento di Ladri di biciclette: un padre e un figlio a spasso per la periferia romana (della Roma storica non si vede nulla) fatta di casermoni in costruzione e grandi prati dove i bambini giocano e corrono, piccoli cinema che proiettano western americani (L’uomo che uccide Liberty Valance di Ford), condomini di sette piani senza ascensore (dove vive la madre del protagonista), appartamenti antiquati, senza televisore e senza frigorifero dove ancora si affittano singole stanze per arrotondare la pensione. Nell’epilogo il padre si reca negli studi Rai (è l’occasione per vedere un numero delle gemelle Kessler) a riscuotere una cifra per un losco intrallazzo, finalizzato all’evasione fiscale. Il presunto beneficiario lo riceve e lo insulta in malo modo: l’interessamento di Dino presso il fisco non solo non lo ha fatto risparmiare, ma ha peggiorato la situazione. Il padre, umiliato davanti al figliolo (si ripete il celebre finale del film di De Sica) riconduce il bambino a casa e, come traumatizzato, gli racconta tutta la sua verità. In realtà Robertino aveva già capito e ciononostante si era perdutamente affezionato a quel padre-bambino. Il finale è lieto: l’uomo decide di piantarla di fingere e di attendere il grande evento; andrà a lavorare e rivedrà suo figlio.
Il film ha, intanto, un primo merito: quello di ricordare che in Italia c’è sempre stato l’istituto della separazione legale (riformulata e precisata in una legge del 1939) e che dunque, sebbene non ci fosse il divorzio, è sempre stato possibile separarsi e porre fine a un rapporto che poteva essere, per svariati motivi, impossibile da portare a vanti. Il divorzio degli anni settanta è quindi una discutibile conquista: esso semplicemente offre la possibilità di risposarsi a chi ha deciso di troncare un matrimonio insoddisfacente. Al contrario la sola separazione legale risolveva in modo più razionale le questioni coniugali: ci si poteva separare, così da evitare una forzata e spesso disgustosa convivenza, ma al tempo stesso si rimaneva obbligatoriamente legati ai figli generati da quell’unione, divenendo impossibile metterne al mondo altri, quanto meno all’interno della cornice legale del matrimonio. Il successivo divorzio, invece, consente a chi ha sbagliato di ritentare la sorte, con esiti tragici per i figli - quasi sempre colpevolmente trascurati - che si trovano a vivere in stravaganti, spesso doppie o triple famiglie allargate ed, inoltre, contribuisce all’iperaffollamento dei tribunali i cui tempi biblici sono a tutti noti. Ovviamente il discorso cambia assai nel caso di coppie sposate senza figli, il cui divorzio (ed eventuale nuovo matrimonio), in sostanza, non danneggia nessuno ed anzi, molto spesso, apporta un reale vantaggio complessivo agli ex coniugi.
Tornando alla pellicola, Risi racconta in modo ammirevole uno spaccato della società italiana animata da una crescente battaglia tra i sessi. Dino ha abbandonato una moglie che è una rigida donna d’affari (la quale ha affidato/abbandonato il figlio ad una governante tedesca) e si è unito con un’altra che a sua volta lavora; nei confronti di entrambe l’uomo, per propria incapacità (si vanta di non avere alcuna formazione scolastica), si trova in situazione di evidente sottomissione. Vorrebbe trovare la grande occasione, riscattarsi, divenire ricco (il modello americano attraversa l’intero film: padre e figlio parlano di film hollywoodiani e girano su una monumentale macchina americana), possedere beni durevoli di alta qualità e viaggiare per tutto il mondo; eppure proprio a contatto con la semplice esigenza di affetto di Robertino l’uomo si riscatta, comprende la futilità dei propri precedenti modelli esistenziali e si incammina verso un’esistenza esteriormente modesta, ma più ricca di soddisfazioni interiori.
Il film di Risi, scritto con Castellani e Pipolo, è un bel racconto morale in cui sono sempre presenti i valori classici dell’esistenza (gli affetti familiari, il lavoro quotidiano) ed in cui si accenna allo stretto rapporto esistente tra emancipazione della sdonna, ora lavoratrice incallita, e disarmonie coniugali.
Il film fu, inspiegabilmente, un mezzo fiasco. Forse il pubblico si attendeva un altro film comico da Risi (dopo I mostri), forse l’argomento era troppo insolito (in fondo il film sembra trattare un tema dei giorni nostri più che degli anni sessanta) ed anche piuttosto amaro.
Nel successivo Il gaucho (giugno 1964; 110 min.) Dino Risi, coadiuvato per la sceneggiatura da Ruggero Maccari ed Ettore Scola, reinventa il film-viaggio incentrato su una compagnia di rivista, tipico dei primi anni cinquanta, sostituendo a comici e ballerine un gruppo di modesti cinematografari. Li guida il vulcanico Marco Ravicchio (Vittorio Gassman), capo dell’ufficio stampa, il quale sbarca a Buenos Aires per presentare un nuovo film al festival di Mar del Plata, accompagnato da uno sceneggiatore accigliato e comunista, una star (Silvana Pampanini) sul viale del tramonto e due stelline in ascesa (Maria Grazia Buccella e Annie Gorassini). Li attende, tra gli altri, l’ingegneere Marucchelli (Amedeo Nazzari), un emigrato nostalgico il quale non perde occasione per celebrare gli italiani (ma solo quelli di una qualche notorietà) in visita in Argentina. Il film procede con un taglio semimprovvisato tra serate danzanti, conferenze stampa, visite alle tenute dell’ammiratore milionario, corteggiamenti e relazioni passeggere destinate a durare lo spazio di una nottata. Al centro dello spumeggiante racconto si apre una parentesi amara con l’incontro di Marco, squattrinato e sempre alla ricerca di prestiti, e Stefano (Nino Manfredi), un amico di gioventù che aveva lasciato l’italia un decennio prima e che Marco crede ricco. Invece Stefano vive in condizioni di miseria, è disoccupato e ha una deprimente moglie argentina. Invano Marco cerca di raccomandarlo al suo amico Marucchelli il quale promette di aiutare Stefano, ma certamente non lo farà poiché ama solo l’Italia dei vincenti.
Il film termina con il ritorno a Roma della troupe: tante cose sono accadute ma di fatto ognuno è rimasto esattamente come era.
Il gaucho è un piccolo capolavoro come Il giovedì, anche se di segno opposto; ai toni riflessivi e introversi del film con Walter Chiari si sostituiscono i toni accesi e brillanti di questa narrazione che vuol essere anche uno sguardo semidocumentaristico sulle vie animate e sulle piazze monumentali di Buenos Aires nonché sugli estesi allevamenti che si trovano alla sua periferia. La sostanza rimane però sempre quella: i protagonisti rimangono figure che vivono ai margini del sistema e cercano espedienti per raggungere una ricchezza facile che sembra dietro l’angolo ma che, di fatto, non si materializza mai. Marco Radicchio e Stefano sono parenti stretti del Dino del film precedente (tra l’altro Marco vive con una donna legalmente separata che ha un figlio, situazione che rievoca la tematica de Il giovedì): essi rifiutano la via del lavoro grigio e quotidiano, cercano il gran colpo e si arrabattano all’ombra di chi il successo, invece, è riuscito ad agguantarlo. Così Marco intreccia una relazione con la moglie del milionario nostalgico, Luciana con un ricco argentino che le fa balenare una prospettiva coniugale (e poi la abbandona) mentre le due stelline si concedono generosamente a chi capita, in attesa di qualche occasione importante; solo il grigio sceneggiatore comunista, sfottuto da Marco e inviso all’ingegnere (di cui si intuiscono le simpatie fasciste), non cerca nulla e si accontenta di quel che trova.
Il cinismo di Risi fa di nuovo centro, regalandoci questo piccolo affresco di una “dolce vita” marginale, dove alle grandi esternazioni di eterna amicizia fanno riscontro azioni ed eventi improntati al più ipocrita egoismo. In fondo tutti tradiscono tutti, pur di ottenere ciò che vogliono, spesso nel modo più volgare (si veda la relazione tra Marco e la moglie del loro “benefatore” argentino), senza provare alcun rimorso. La vita è una rappresentazione senza senso, una farsa sciocca dove ci si agita per nulla e nella quale anche la sessualità è uno strumento di dominio, una merce di scambio per ottenere questa o quella sistemazione. In questo contesto l’ “impegnato” sceneggiatore che pretende di commuovere il pubblico raccontando le peripezie di una prostituta (si tratta del film presentato al festival argentino, di cui non vediamo alcuna immagine) è il peggiore degli illusi e infatti viene considerato una nullità, deriso continuamente (le batture sulla Russia sovietica si sprecano) ed emarginato da tutti. Quello scrittore, che pretende di conoscere e raccontare i fatti del mondo (in fondo la scampagnata argentina è finalizzata proprio alla visione del suo film) è quello che ha capito meno di tutti il reale funzionamento del tessuto sociale. Per tale via Risi finisce con l’ironizzare su se stesso, sul proprio strano mestiere e su quello dei cineasti in generale, persone che, spesso, pretendono di spiegare il mondo senza in realtà averne compreso gran che.
Il film ottiene un buon successo.
Con L’ombrellone (dic. 1965; 105 min.) Risi torna ai toni più introversi de Il giovedì, confermando la tendenza ad alternare film brillanti e riflessivi. Il racconto, sceneggiato dal regista con Ennio De Concini, riprende il tema dell’episodio La Sospirosa di Alta infedeltà (Rossi, vedi): Giuliana (Sandra Milo), villeggiante a Riccione, si invaghisce del conte Antonio Bellanca (Lelio Luttazzi) che si occupa di arte e discetta di poesia. Quando il marito Enrico (Enrico Maria Salerno) giunge nella cittadina balneare per passare il weekend con la moglie, si trova in una situazione di totale spaesamento. Riccione è assediata da un esercito di caotici e volgari turisti, la moglie ha perso la testa per un adulatore dozzinale e lo trascura mentre egli devo sorbirsi un gruppo di amici sciocchi e petulanti (tra essi si distinguono Leopoldo Trieste, Raffaele Pisu e Daniela Bianchi) dai quali la donna non si stacca mai. La vita balneare si rivela più faticosa di quella cittadina (romana) e solo dopo diverse schermaglie l’uomo riesce a riconquistare la donna e a farla tornare in sé.
L’ombrellone fotografa la nuova realtà italiana ossia un’umanità che, a vent’anni dalla fine del conflitto, vive in un completo benessere che consente a larga parte degli strati produttivi del paese di passare lunghi periodi di soggiorno al mare. La voglia di divertirsi ad ogni costo è così grande da trasformare queste cittadine balneari in veri e propri inferni, perfettamente descritti dalla mano abile di Risi. Si finisce col preferire la quiete di una città abbandonata in agosto a questo carnaio caotico, dove la gente sembra avere mandato in vacanza anche la propria intelligenza. All’interno di questa sorta di non luogo anche le regole morali sembrano venire sospese e i tradimenti delle mogli sono all’ordine del giorno. La lieve misoginia di Risi si conferma anche in questo tagliente ritratto di massa dove appare evidente che le nuove libertà sessuali sono figlie del benessere: le mogli, sole al mare (spesso senza figli, come nel caso della protagonista, cosa abbastanza incomprensibile) tradiscono per noia e perché ormai è “di moda”. Ai mariti, spesso alquanto sorpresi, non resta che far buon viso a cattiva sorte.
L’ombrellone è innanzitutto una pittura d’ambiente vivace e riuscita: Risi non ha voluto una star ed ha optato per due attori di media notorietà (Salerno e la Milo) i quali finiscono con il confondersi con l’ambiente. Con un Tognazzi o un Sordi il film avrebbe preso un’altra direzione; i toni più dimessi e introversi di Salerno, realmente bravissimo, donano alla narrazione una maggiore verosimiglianza ed efficacia. La sua vicenda finisce con una specie di duello (non dimentichamo che nella sale impeversano le imitazioni di Per un pugno di dollari): per farsi valere agli occhi della moglie, Enrico affronta e batte il rivale in una partita a poker serrata e carica di implicita violenza. In questo climax (la regia si disinteressa delle carte: entrambi i contendenti hanno una modesta doppia coppia) Salerno rilancia più volte con l’intenzione di umiliare l’avversario a qualunque costo; e ci riesce. Giuliana, impressionata e già parzialmente delusa dal corteggiatore, se ne disinteressa e finalmente si concede al marito.

Alcuni mesi prima era uscito I complessi (ago 1965; 110 min.) film composto da tre episodi. Si inizia con Una giornata decisiva, un efficace ritratto di gruppo firmato da Dino Risi su una sceneggiatura propria e di Ruggero Maccari. Il raccontino è, di nuovo, un piccolo concentrato di veleni intorno alle furbizie femminili ed all’ingenuità maschile. Il timidissimo impiegato Quirino (Nino Manfredi) è innamorato della collega Gabriella (Ilaria Occhini), le fa segretamente la corte e vuole approfittare di una scampagnata di gruppo per manifestare i propri sentimenti. La donna, perfettamente consapevole delle attenzioni del collega, finge di accettare la sua proposta di matrimonio, ma in realtà lo strumentalizza per ingelosire l’amante, il collega Alvaro (Riccardo Garrone), sposato e deciso a non lasciare la moglie. Quirino, spaesato e deluso, non si rende conto della schermaglia in corso e finisce per accettare le attenzioni di un’altra collega, bruttina ma decisa...
L’argomento è sempre la nuova conflittualità tra i sessi nel mondo che cambia e Quirino è l’ennesimo esempio di figura maschile soccombente.
Nel secondo spassoso racconto, Il complesso della schiava nubiana, Franco Rossi dipinge il ritratto caricaturale di un famoso professore (Ugo Tognazzi), abituato a tenere ogni cosa sotto stringente controllo, il quale scopre che la moglie in gioventù aveva interpretato una piccola parte da figurante in un film storico, mostrandosi seminuda. L’uomo inizia una forsennata caccia a tutte le copie del film, affinché ogni traccia di quella indecenza possa scomparire. La fortuna aiuta il paranoico personaggio fino all’episodio di Piacenza dove il professore, all’insegumento delle ultime foto di scena, finisce in un festino omosessuale in cui irrompono polizia e giornalisti. La sua immagine, in posa equivoca, finisce sulle prima pagine dei quotidiani...
Il tema apparentemente differente, è ancora quello della dignità coniugale (affrontato da Rossi nei due recenti episodi, interpretati da Nino Manfredi, presenti in Alta infedeltà e Controsesso; vedi), seppur rovesciato nell’argomentazione: anziché una figura femminile infedele, il film prende in esame un uomo all’antica in un mondo in divenire, la cui ossessione per il decoro familiare - legata alla incomprensione della disordinata realtà coeva - lo trascina verso un’imprevista catastrofe. Insomma ai mutamenti in atto è inutile opporsi...
Il terzo episodio, diretto da Luigi Filippo d’Amico, certamente il più noto, è anche quello meno interessante. Ne Il dentone Alberto Sordi (autore anche della sceneggiatura) ci propone uno dei suoi personaggi più folli e riusciti, all’interno però di un contesto ripetitivo e abbastanza prevedibile. Il protagonista, uomo brillante e dotato di una cultura fuori dal comune, si cimenta in un difficile concorso per lettori del telegiornale alla Rai. Sarebbe il naturale vincitore (tra i concorrenti ci sono anche Franco Fabrizi e Ugo Pagliai) se non fosse per la sua abnorme dentatura che mette in mostra ogni volta che si accinge ad aprire bocca. La commissione del concorso (guidata da Nanni Loy) vorrebbe bocciarlo, ma non osa ricordargli il suo handicap. Così, a sorpresa, Guglielmo si aggiudica l’ambito posto.
Il raccontino è simpatico grazie alla bravura di Sordi ma sciocco, inverosimile e dolciastro. Anziché adottare il tipico cinismo che pervade le migliori commedie italiane del periodo, d’Amico finisce col farci credere che il merito si afferma su tutto, sulle tante e potenti raccomandazioni e perfino sulle difformità fisiche. La favoletta è ben raccontata, ricca di presenze illustri (ci sono le gemelle Kessler, Gaia Germani, Armando Trovajoli autore tra l’altro della briosa colonna sonora ed altri) ma troppo ottimistica per piacere completamente.
Il film ottiene un trionfale successo.

Sul tema dei mariti che fanno visita alle mogli in vacanza Vittorio Sala aveva anticipato Dino Risi con lo spassoso Il treno del sabato (feb. 1964; 90 min.), raccolta di tre epiosdi sostanzialmente autonomi, ambientati a Viareggio e basati su una sceneggiatura del regista con Marcello Fondato ed altri.
Nel primo un marito gelosissimo (Umberto d’Orsi) ha piazzato la moglie (Giorgia Moll) in un villino isolato, nella speranza di tenerla lontana dalle tentazioni. Quest’ultima, invece, vi ha organizzato - nei giorni feriali - nientemeno che una casa di tolleranza...
Nel secondo un altro marito parimenti geloso (Francesco Mulé) cerca invano di sorvegliare la moglie (Gianna Maria Canale) il cui spasimante (Riccardo Garrone), pur di immobilizzare il “guardiano”, riuscirà a ingessargli una gamba sanissima...
Nel terzo un ricco industriale milanese (Claudio Gora) cerca di barcamenarsi tra moglie (Eleonora Rossi Drago) e amante (Ingrid Scholler), entrambe troppo assillanti (una pretende uno yacht, l’altra una villa); finirà per abbandonarle entrambe e ritornare anzitempo al lavoro...
Il film possiede un andamento spigliato, attori perfettamente calati nelle parti e una simpatica ambientazione marina; la vena misogina è ancor più tagliente rispetto a quella de L’ombrellone anche se le figurine del ritratto sono tutte astratte e inverosimili, frutto di un gusto caricaturale simpatico e brioso. Un paio di canzonicine sguaiate e invasive arricchiscono il quadretto.
L’impressione complessiva che si ricava anche dalla pellicola è quella di un’Italia spensierata e benestante, in cui le figure femminili, dotate di un feroce cinismo, hanno ormai abbandonato i loro ruoli tradizionali per incamminarsi in una sfrontata ricerca del piacere che travolge argini e convenzioni. Ai maschi non resta che subìre e battere in ritirata.
Il pubblico dell’epoca non apprezzò questa gaia commediola, forse a causa della mancanza di attori maschili di chiara fama.

Anche Luigi Zampa si cimenta negli stessi mesi in una commedia balneare, Frenesia dell’estate (feb. 1964; 100 min.), sceneggiata da Age, Scarpelli, Monicelli ed altri ma il risultato è modesto. Sempre a Viareggio (e nella vicina Lucca) si snodano, intrecciate, alcune storielle piuttosto dozzinali alle quali il regista, alquanto idneciso, non riesce a conferire un carattere unitario, alternando momenti chiaramente farseschi ad altri più seriosi (Zampa viene pur sempre dall’esperienza neoralistica) e finendo con il deludere su entrambi i fronti.
Il capitano Nardoni (un Gassman sotto tono), stanco della propria fidanzata Selena (Graziella Galvani), si sente attratto da quello che crede essere un travestito (una bellissima Michele Mercier): ne seguono equivoci e malintesi facilmente immaginabili. Spaventato l’uomo torna dalla fidanzata e decide di sposarla. Scoprirà in seguito che il travestito non era tale.
Un conte squattrinato (Amedeo Nazzari) sbarca il lunario facendo l’indossatore; dopo un litigio con Alba (Lea Padovani), la propria fidanzata nonché padrona della ditta per cui lavora, cerca di ingelosirla corteggiando la scatenata ventenne Foschina (Gabriella Giorgielli).
Yvonne, una venditrice di bomboloni (Sandra Milo), accoglie nel proprio letto un corridore spagnolo (Vittorio Congia) del giro d’Italia mentre una coppia di trafficoni (Philippe Leroy e Livio Lorenzon) noleggia un piccolo aereo da impiegare in attività pubblicitarie (lancio di volantini, scritte acrobatiche nel cielo), con esiti disastrosi.
Il film, pur avvalendosi di un ottimo cast e di una buona valorizzazione degli scenari di Lucca, procede stancamente e finisce così come era iniziato, senza mai divertire e tantomeno stupire; l’unico episodio dotato di un certo umorismo è quello con Nazzari anzianotto che cerca invano di tenere il passo di una tarantolata Giorgelli, finendo con l’impietosire l’ex fidanzata. La scelta del bianco e nero e un commento sonoro sotto tono non aiutano certamente il film il quale, pur promettendo vivaci ambientazioni balneari, finisce per essere girato quasi tutto in interni. Di tanto in tanto compaiono perfino malinconiche immagini di una Viareggio piovosa e autunnale, interessanti se prese a sè, ma incoerenti con il progetto complessivo.

Dopo avere scritto decine di sceneggiature, Ettore Scola esordisce alla regia con Se permettete parliamo di donne (mar. 1964; 120 min.), un film a episodi (la sceneggiatura è firmata anche da Ruggero Maccari) basato sull’incontenibile bravura di Vittorio Gassman il quale, nel solco de I mostri, dà vita ad una serie di ritratti bizzarri, provocatori ed estremi. Ancora una volta emerge il ritratto di un’Italia in fermento dove le nuove libertà sessuali, prevalentemente coniugate al femminile, segnano un nuovo stile di vita impostato su un edonismo materialista che si fa beffe delle vecchie convenzioni morali di impianto cattolico.
Così una moglie sarda (Maria Fiore) non esita a concedersi a un minaccioso uomo con la lupara (Gassman), temendo che voglia ammazzarle il marito; un’altra (Giovanna Ralli) fa la prostituta col benestare del marito (Umberto d’Orsi) il quale simpatizza con i clienti (ad es. Gassman); un cameriere, finito il turno di notte, finge di accompagnarsi con delle prostitute motorizzate al solo scopo di farsi accompagnare a casa; un uomo (sempre Gassman) si reca dal seduttore della sorella (Walter Chiari) col proposito di fargliela pagare ed, in breve, diventa suo amico e “discepolo”; un rozzo straccivendolo viene sedotto da una signora altoborghese in un lussuoso appartamento; la moglie infedele (Jeanne Valerie) di un carcerato canterino (Gassman) riesce a far ottenere una licenza al marito in modo da fargli credere di essere il padre del figlio in arrivo. In un altro racconto invece una coppia (Gassman e Silva Koscina), piuttosto spregiudicata, cerca invano un posto tranquillo per fare l’amore; l’uomo spazientito, si sfoga con una cameriera di un motel mentre l’amica, ignara, lo aspetta in auto.
Gli episodi sono tutti piuttosto divertenti, ben scritti e ben recitati. Il filo rosso che li tiene uniti è costituito dal nuovo tipo di donna - attenta al proprio piacere prima di tutto - che si sta affermando, con la complicità, ora consapevole, ora inconsapevole, del maschio.
Il film ebbe un notevole successo.

Lina Wertmuller, dopo essere stata aiuto regista di Fellini per 81/2 (1963), esordisce alla regia con un sorta di remake de I vitelloni ovvero I Basilischi (set. 1963; 84 min.) basato su una sceneggiatura propria. Il titolo allude sia a un rettile mitologico, sia agli abitanti della Basilicata: infatti il film, ambientato in un immaginario paesino non lontano da Bari, è stato girato tra Michelino Murge (Puglia) e Palazzo San Gervasio (Basilicata, il paesino del padre della regista).
La vicenda ricalca quella dell’originale: un gruppo di giovani sfaccendati passa le proprie giornate tra passeggiate inconcludenti, serate passate al circolino del paese e corteggiamenti poco efficaci. Tutti sognano di abbandonare il paesino, descritto come un mortorio senza fine dove prevalgono antiche consuetudini, ma nessuno in realtà osa farlo per pigrizia o, forse, per paura di dovere affrontare una realtà differente e più impegnativa. Anche quando Antonio (Antonio Petrucci), uno dei tre amici, ritorna da Roma dopo un breve periodo “di prova”, sebbene si mostri entusiasta della realtà metropolitana e dichiari di volere subito ripartire, finisce poi per non muoversi più.
Il film è tutto qui, privo di vicende forti o di eventi sconvolgenti: una cronca minuta, indecisa peraltro tra il tono realistico, quasi documentario, ed il tono caricaturale di evidente matrice felliniana.
La Wertmuller ha inoltre inserito una componente di riflessione classista e dunque politica: i due amici, Antonio e Francesco (Stefano Satta Flores) appartengono a categorie sociale differenti essendo l’uno figlio di notai, l’altro di contadini. Questo genera attriti e conflitti soprattutto nella famiglia benestante che disapprova l’amicizia del figlio con gente di “basso rango”.
Al di là di questi aspetti secondari, la pellicola affronta in modo suggestivo, forse senza saperlo, la centrale ed onnipresente contrapposizione di Tradizione e Modernità. Il paese stesso, con le sue mute consuetudini e le sue ferree regole di casta, con i suoi matrimoni stabiliti in famiglia e la sua diffidenza verso ogni novità proveniente dalle grandi città, è un vero e proprio emblema della Tradizione, certo ritratta in modo caricaturale dalla gente di cinema, la quale appartiene, per la sua stessa professione, alla modernità.
Al riguardo c’è una battuta folgorante nel film: tra le tante chiacchiere inutili, uno dei protagonisti chiede a un’amica se le sembra possibile sposare una donna che va in video (alla Rai) ossia una donna che svolge una libera professione che la espone quotidianamente agli sguardi di tutti. E’ evidente che la civiltà dello spettacolo e dello sguardo, pur con tutto il suo fascino, viene percepita come nemica dei costumi antichi, invasiva e “collettivista” laddove nella Tradizione il matrimonio è un contratto esclusivo che trasforma il marito in capofamiglia indiscusso e arbitro ultimo di ogni questione. C’è poi un’altra battuta favolosa allorché, dopo che una moglie bella e “venuta da fuori” decide di fuggire dal consorte, dal paese e da una sorta di “prigionia”, il padre notaio dice al figlio che la moglie non deve essere troppo avvenente perchè “la moglie bella fa il marito cornuto”.
Insomma la Wertmuller, all’interno di un film di mera imitazione, riesce a far rivivere con un’intensità perfino superiore a quella rpesente nel modello felliniano, lo scontro finale tra due culture in un momento di evidente trapasso dall’una all’altra.
Se, per altri versi, il film delude, questo è a causa della opacità degli interpreti (Fellini aveva a disposizione Alberto Sordi, Franco Fabrizi e Leopoldo Trieste; qui si salva solo Satta Flores) e della ripetitività delle situazioni. In ogni caso I Basilischi è un esordio di tutto rispetto, impreziosito poi da una spiritosa colonna sonora di Morricone, che utilizza in modo ironico, anche qualche sonorità “western”.
Nonostane alcuni riconoscimenti conseguiti al festival di Locarno, la pellicola  passò nel totale disinteresse: gli incassi furono irrisori.
Anche per il suo secondo film, Questa volta parliamo di uomini (mar. 1965; 92 min.) la Wertmuller, ancora autrice unica di soggetto e sceneggiatura, adotta un preciso modello evidente fin dal titolo ossia il recente Se permettete parliamo di donne di Ettore Scola. I rusultati sono, questa volta, disastrosi.
Al posto di Gassman troviamo Manfredi il quale dà vita a cinque differenti personaggi in altrettanti episodi, tutti nel segno del paradosso più estremo. Il problema consiste nella realizzazione: i raccontini, che si svolgono quasi tutti in interni, sono tirati per le lunghe a causa di dialoghi verbosi e ripetitivi che rendono il film pesantemente teatrale. Se a questo si aggiunge che Manfredi non possiede la naturale, brillante estroversione di Gassman, si può immaginare il modesto risultato.
Tra l’altro, sebbene il titolo ponga l’attenzione sugli uomini, sono ancora le donne le protagoniste assolute di almeno due episodi: il primo in cui un marito industriale si ritrova una moglie (Luciana Paluzzi) cleptomane la quale ha riempito un intero cassettone di preziosi gioielli rubati alle amiche e il secondo in cui una donna ampiamente sfigurata (Milena Vukotic) si accompoagna ad un lanciatore di coltelli mezzo cieco (invano lo implora di rifarsi gli occhiali... ). In entrambi i casi gli uomini sono comparse mentre la scena viene egemonizzata dalle stramberie della moglie ladra e dalle tendenze masochiste della donna-bersaglio. Si tratta tra l’altro dei due episodi migliori; gli altri due, incentrati su un Manfredi sbruffone - professore saputello in un caso (con Margaret Lee nel ruolo della moglie “cretina”), popolano fannullone nell’altro - si trascinano nella noia. Infine il racconto che fa da cornice -  Manfredi, chiuso fuori dal proprio appartamento, nudo e in preda al panico - non riesce a divertire.
La Wertmller conferma il proprio personale gusto per la caricatura, ma lo mette al servizio di un copione scadente e ne nasce un mortorio. anche questa volta gli incassi sono modesti.

Dopo tre anni di silenzio, Nanni Loy firma con Made in Italy (dic. 1965; 132 min.) il sesto lungometraggio, sceneggiato insieme a Ettore Scola e Ruggero Maccari. Partendo dal fortunato schema del film ad episodi, la pellicola ha l’ambizione di offrire uno spaccato degi Italiani in tutti le loro sfaccettature; infatti la pellicola si divide in cinque ampi settori intitolati Usi e costumi, Il lavoro, La donna, Cittadini Stato e Chiesa e La famiglia all’interno di ciascuno dei quali si snodano più racconti.
Nonostante il regista abbia a disposizione un cast invidiabile, il film è un fallimento. Loy allinea frammenti di taglio documentaristico (vedi soprattutto Il lavoro) con episodi dal taglio farsesco e caricaturale in una scelta che risulta infelice poiché obbliga lo spettatore a passare da un opposto all’altro. Le parti caricaturali poi - di gran lunga la maggioranza - sono prive di inventiva, prevedibili negli argomenti e tirate per le lunghe. Inoltre Loy insiste nel volerci presentare solo due tipologie di Italiani: gli ultraricchi (tutti cafoni) e gli ultrapoveri (tutti martiri), laddove nelle immagini che ritraggono città ed ambienti si avverte la presenza forte di un italiano medio di cui il film non sembra occuparsi. Ecco allora famiglie di poveracci che non riescono neppure ad attraversare un strada troppo trafficata (episodio conclusivo con Anna Magnani) oppure la ragazza (Catharine Spaak) che vive in un miserabile scantinato, fingendosi una gran dama per sedurre il riccone di turno oppure la signora (Sylva Koscina) che sfreccia in jaguar inseguita da un corteggiatore (Jean Sorel).
Dell’Italia Loy restituisce un ritratto sciocco e noioso, ammalato della consueta, ottusa esterofilia (a Firenze solo gli Inglesi sanno dove si trova un certo quadro di Raffaello... ) e prigioniero di stereotipi troppo noti per risultare divertenti (Buzzanca, fidanzato siculo, fanaticamente interessato alla verginità della propria fidanzata che mette alla prova ad ogni incontro; Castelnuovo avvocato che, per anni, non trova lavoro e finisce a insegnare passi di danza in una balera; l’interminabile episodio di Manfredi che deve recuparare un certificato di residenza in uffici comunali che somigliano a bolge infernali). La scelta di calare questi sketch in atmosfere farsesche eccessive e sovraccariche peggiora le cose. Insomma il desiderio di criticare ad ogni costo i costuni di casa propria, a vantaggio di una “superiore” cultura nordica, appare viziato dalla scelta narrativa di mettere in scena miliardari cafoni e spiantati ottusi, dimenticandosi di quell’estesa classe media di cui anche il regista e i suoi collaboratori, in fondo, sono parte integrante.
Rimane all’attivo del fim solo il brillante episodio con Sordi sorpreso dalla moglie (Rossella Falk) a letto con l’amante: l’uomo riesce, attraverso un diluvio di parole, a passare dalla parte del torto a quella della ragione ed esce di scena perdonando la moglie inopportuna...
Made in Italy ebbe, ciononostante, un buon successo.

Mauro Bolognini firma La corruzione (mar. 1963; 90 min.), un film basato su una sceneggiatura di Ugo Liberatore. Nella Milano industriale e concreta, già ritratta ne La notte di Antonioni, Leonardo (si noti il nome, evocativo di un sapere enciclopedico e disincantato), un editore di successo, laico, scettico e sicuro di sé (Alain Cuny doppiato da Enrico Maria Salerno), si ritrova, quale figlio unico, Stefano (Jacques Perrin), un giovane confuso il quale, terminati gli studi in solitudine (presso un collegio cattolico), ha deciso di prendere i voti. Il padre, inorridito da una simile scelta irrazionale, tenta ogni via per convincere il proprio erede a desistere. In particolare organizza una gita sul proprio lussuoso yacht in compagni di Adriana, una simpatica ed affascinante prostituta d’alto bordo (Rosanna Schiaffino). Il giovane cade in tentazione e comprende quanto fragile sia la propria vocazione. Da quel momento aumenta in Stefano il disprezzo verso il padre e verso l’intero suo universo, fatto di intellettuali che recitano differenti parti in commedia (a seconda di chi li retribuisce meglio). Nel finale aperto, egli fugge dalla villa di famiglia anche se si intuisce che tornerà all’ovile.
La corruzione è un film interessante e riuscito il quale, ben prima de I pugni in tasca e de Il laureato, ritrae una diffusa condizione giovanile di disagio e di conflitto generazionale. I giovani degli anni sessanta sono forse i primi ad avere passato un’infanzia solitaria, spesso abbandonati in scuole e collegi da genitori troppo assorbiti dalle proprie carriere professionali. Nel caso di Stefano, il padre è una figura lontana e inaccessibile che il ragazzo conosce a stento mentre la madre (Isa Miranda) passa l’esistenza in cliniche di lusso a curarsi mali inesistenti. Ecco allora il comparire di aspirazioni vaghe ed alternative rispetto ai modelli genitoriali del lavoro e del successo professionale, modelli tuttavia vaghi e non reamente sentiti, vie di fuga da una realtà che si conosce poco e male. Il giovane cerca quindi di fronteggiare il potente padre ma, sconfitto su tutta la linea, preferisce fuggire e nascondersi, con Adriana, in una balera.
Il marxismo e le rivolte stiudentesche devono ancora affermarsi nelle nuove generazioni come una nuova cultura di massa e al nostro protagonista - una figura in definitiva sbiadita e priva di una vera personalità - non resta che la fuga nella religione percepita come un’àncora di salvezza, un’isola quieta e serena. La ribellione possiede, questa volta, tratti inconsapevolmente arcaizzanti, quasi reazionari.
Nella figura di Stefano appare inoltre evidente l’influenza dalla recente trilogia dell’alienazione di Antonioni: l’ambientazione milanese (La notte, come si è detto), la gita in barca (L’avventura), gli insistenti dialoghi che si interrogano sul senso ultimo delle cose, una certa cura visiva soprattutto nel modo di ritrarre Adriana, le musiche jazzistiche e fredde di Giovanni Fusco (già importante collaboratore di Antonioni) sono tutti elementi permeati di quella malinconia soffusa che attraversa i capolavori del regista di Ferrara.
La donna, impersonata da Adriana, figura spregiudicata e scettica che usa il proprio corpo per arricchirsi e non crede nei valori tradizionali dell’amore e della famiglia, incarna perfettamente il senso dei tempi nuovi di fronte ai quali Stefano prova un’evidente paura. Egli cede alla tentazione ma è consapevole di non condurre il gioco ma di essere, semmai, usato da altri (il padre che vuole lasciare la casa editrice al figlio; la donna che lo circuisce su commissione). Stefano, insomma, ha orrore della modernità, dello scetticismo che guida i gesti e le scelte di tutti i principali attori del dramma (il padre, l’amico intellettuale, la prostituta) e, per difendersi da quell’universo corrotto, sbandiera valori di purezza e cristianesimo che non sente fino in fondo. Il giovane è insomma un perdente; i suoi coatenaei però, di lì a poco (a partire giù da Prima della rivoluzione, Bertolucci, 1964), orienteranno la propria rivolta generazionele in un contesto più apertamente politico e rivoluzionario.
Quanto a incassi La corruzione fu un mezzo fiasco.
Bolognini passa dallo scettismo alla più convinta misoginia con La donna è una cosa meravigliosa (set 1964; 90 min.). La sceneggiatura è di Goffredo Parise, Antonio Guerra, Giorgio Salvioni ed altri (come nel caso rpecedente, il regista non collabora alla stesura del copone).
Il film si divide in due episodi tirati per le lunghe (cui si aggiungono una paio di cartoni animati di differenti autori). Nel primo, La balena bianca, ambientato in un circo, gli autori riprendono i temi del recente, fortunato Divorzio all’italiana e raccontano i cento modi in cui il nano Eros (Arnoldo Fabrizio) cerca di “divorziare” dalla moglie, una donna cannone (Giampiera Colombo). L’uomo è perdutamente inanmorato di Luciana (Carmen Navarro), un’acrobata nana del circo la quale lo incita al delitto ma i tentativi si rivelerano fallimentari e alla fine Eros si ritrova nella situazione iniziale.
Ancor più esplicitamente misogino è Una donna dolce dolce in cui Sandra Milo tratta il marito Vittorio Caprioli come un bamboccione: lo coccola, lo imbocca, gli fa il bagnetto... Siccome la coppia non può avere figli, la Milo ha trasformato il marito in un bambinone che comanda a bacchetta (la situazione può vagamente ricordare L’ape regina, 1963, di Ferreri). Quando quest’ultimo sta per partire per un lungo viaggio di lavoro, la donna lo fa cadere da una scala e lo rende un invalido. A quel punto l’uomo è completamente in sua balìa. Di lì a poco però l’uomo muore in un incidente e la donna ne sposa subito un altro che sottopone al medesimo trattamento.
Le donne sono dunque sempre più dominanti e vengono ritratte come figure amorali e sciocche, capricciose e infantili mentre gli uomini appaiono completamente succubi. La pellicola è piuttosto originale, mettendo in scena due situazioni estreme e quasi surreali, non lontane da quelle dell’universo ferreriano. Il difetto consiste però nella scarsa inventiva di regista e sceneggiatore che non riescono a sviluppare l’idea iniziale.
Il film fu un totale fiasco commerciale.

Nello stesso periodo Bolognini firma due dei cinque episodi del film La mia signora (ott. 1964; 100 min.), un film che si rivela, invece, un ottimo successo. La pellicola esamina nuovamente i rapporti coniugali, mettendo in scena cinque differenti coppie, sempre interpretate da Alberto Sordi e Silvana Mangano, entrambi in piena forma. La sceneggiatura è di Rodolfo Sonego per quattro episodi mentre Eritrea si basa su un copione di Marcello Fondato.
Ne I miei cari, un breve raccontino, Bolognini ci mostra un Sordi malato, bloccato in un letto d’ospedale, aggredito da moglie e suocera che lo vogliono nuovamente attivo e che appaiono del tutto insensibili alle problematiche sanitarie del poveretto. In Luciana invece Bolognni mette in scena due coniugi (Sordi e la Mangano) entrambi soccombenti ai propri consorti i quali passano una lunga giornata insieme, in attesa di un aereo che deve riportare loro gli odiati consorti. Tra i due nasce una breve relazione amorosa. L’episodio, sebbene interpretato in modo accattivante, è tirato per le lunghe (35 min.) oltre che piuttosto prevedibile e illumina poco la materia, rimestando sul solito trito argomento del matrimonio di interesse (i protagonisti erano due poveracci, prima di sposare i loro ricchi coniugi).
Decisamente migliore è l’episodio di Comencini - Fondato, Eritrea, un episodio che prende spunto da La dirittura morale (uno dei racconti de La donna degli altri è sempre più bella, Girolami, 1963 con Mario Carotenuto e Maria Grazia Buccella) e che è destinato a fare scuola (lo replicherà Sergio Corbucci in Rimini, Rimini, 1987, con Jerry Calà e Livia Romano). Un abile palazzinato insegue invano un potente politico per farsi autorizzare un’operazione immobiliare; quando però quest’ultimo mostra un forte interesse per Eritrea (S. Mangano), la presunta moglie del faccendiere - in realtà una prostituta di strada - il gioco è fatto. Attori tutti eccezionali per un raccontino brioso e animato da dialoghi frizzanti. L’Italia della corruzione e del malaffare viene illuminata con indulgenza mentre la figura femminile si fa largo sempre grazie ai soliti stratagemmi. Nel finale il costruttore ritrova la donna sposata ad un principe...
I due brevi episodi di Tinto Brass sono poca cosa: ne L’uccellino un uomo, esasperato dall’amore per gli uccellini della moglie, li ammazza uno dopo l’altro e infine uccide la donna; in L’automobile, davanti a un commissario stupefatto, un riccone si lamenta, della perdita della propria jaguar (è stata rubata alla moglie mentre era in albergo con l’amante), disinteressandosi delle relazioni adulterine della donna. Realizzate in modo abbastanza monotono, le due storie tuttavia rielaborano quel disagio evidente che atraversa gli equilibri coniugali di inizio decennio, volgendoli al grottesco. L’immagine finale con Sordi che abbraccia la propria jaguar e si becca un sonoro ceffone dalla moglie inviperita è da antologia. Gli uomini cominciano a prendere le distanze dall’altra metà del cielo, prefendo beni materiali maggiormente controllabili.

Ritroviamo la firma di Comencini anche in uno dei tre episodi di Tre notti d’amore (ott. 1964; 120 min.) uscito nello stesso mese. Il film è totalmente incentrato sulla bellezza e bravura di Catherine Spaak (caso abbastanza unico di una corrente filmica che privilegia il protagonismo maschile di genere comico-brillante) la quale dà vita a tre differenti tipi di donne. Ne La vedova (regia di Renato Castellani; scenegg. di Castellani,  Castellano e Pipolo) è la vedova francese di un potente mafioso: la donna si aggira con fare provocante per un paesino assolato della Sicilia, guardata a vista dai parenti. Chiunque osa importunarla (o peggio) viene immediatamente ammazzato; un compiacente medico legale stila certificati di morte per malattia o incidente. Tra le vittime Renato Salvatori e Tiberio Murgia. L’episodio, per quanto ripetitivo, è molto divertente.
In Fatebenefratelli (regia di Comencini; scenegg. di Comencini e Marcello Fondato) l’attrice interpreta la parte di un’allegra mantenuta, bloccata in un letto d’ospedale (in un convento) da fratture multiple; la accudisce fra’ Felice (John Philip Law) che diviene subito oggetto di una esasperante opera di seduzione da parte della donna alquanto annoiata; alla fine getterà la tonaca ma scoprirà che, nel frattempo, la Spaak si è fatta suora... L’episodio è il più debole, anche perché quasi interamente ambientato nel chiuso di una stanza; inoltre la sorpresina finale, se per certi versi si mantiene in linea con il carattere surreale del film, risulta abbastanza sciocca e poco motivata dal carattere della protagonista.
Decisamente migliore è La moglie bambina (regia di Franco Rossi; scenegg. di Massimo Franciosa e Luigi Magni) in cui la Spaak interpreta il ruolo della giovanissima consorte di un serio professionista (Enrico Maria Salerno in un ruolo abbastanza simile a quello che sosterrà ne L’ombrellone, 1965, di Risi; vedi) il quale è depresso, geloso e pieno di complessi. Lo psicologo (Adolfo Celi) gli consiglia di tradire la moglie per uscire dallo stato di blocco mentale e lui lo pende in parola. La moglie però lo scopre...
Questa vicenda, anch’essa estrema e quasi fantastica, risulta interessante per la bravura di tutti gli interpreti, con una Spaak pronta a passare dal ruolo di ragazzina a quello di moglie attenta e premurosa, per terminare in quella di vittima indispettita.
Tre notti d’amore, un buon successo di pubblico all’epoca, è una raccolta anomala in quanto, anzichè esaminare situazioni dotate di un intrinseco contenuto realistico (come ne La mia signora, Alta infedeltà, Controsesso, I complessi ecc.) mette in scena una casistica già in partenza inverosimile e provocatoria - una disinibita moglie francese di un mafioso; una mantenuta sola in una stanza con un giovane novizio; una moglie che potrebbe essere la figlia del marito - e cerca di trarre tutti gli elementi di possibile comicità da quella premessa. Castellani e Rossi fanno centro; Comencini no. In ogni caso la pellicola - proprio per la sua miscela di realismo e surrealismo - appare meno stimolante di altre.

La coppia Salerno - Spaak ritorna nel successivo film di Comencini, La bugiarda (mar. 1965; 103 min.), pellicola che riprende piuttosto liberamente (la sceneggiatura è di Marcello Fondato) l’omonimo testo teatrale di Diego Fabbri (scritto per Rossella Falk ed andato in scena in prima assoluta al teatro Manzoni di Milano nel 1956). Il personaggio inventato dal commediografo appare quanto mai adatto ai tempi nuovi; e se già l’opera teatrale era in odore di scandalo, la versione ben più audace (quasi una commedia hippy in anticipo sui tempi) messa in pellicola è un segno di un’epoca di transizione.
Maria (C. Spaak) si finge Silvana, una hostess sua amica, per poter intrattenere due relazioni amorose, entrambe impegnative e complete: l’una con il conte Adriano (Enrico Maria Salerno), rappresentante dell’arisotcrazia vaticana; l’altra con il dentista Arturo (Marc Michel). Quando, a causa di un incidente aereo, i nodi vengono al pettine (entrambi gli amanti la credono morta), ella riesce dapprima a fare accettare ai due spasimanti una sorta di menage a trois e, subito dopo, grazie ad un abile strtagemma, riesce a ristabilire la situazione iniziale, riprendendo ad ingannarli entrambi. Nel frattempo si è unito alla combriccola un terzo pretendente al quale la generosa ragazza non ha saputo dire d no...
Come si nota Silvana rappresenta il trionfo del principio dle piacere, tipico degli anni sessanta: ella non vuole rinunciare a nulla e pretende di fare tutti felici, ingannandoli; d’altro lato gli uomini sono ormai della larve impresentabili, pronti da accettare qualunque compromesso pur di non perdere l’oggetto amato. La bugiarda preanuncia la tematica delle libertà sessuali tipiche della cultura hippy e lo fa con un candore ammirevole. La commedia era ben più casta poiché, in essa, la bugiarda era sposata ad uno dei due (il borghese) e intratteneva una relazione segreta con il nobile; insomma un classico triangolo.
Il film è certamente emblematico di un’epoca ed esprime compiutamente il declino del ruolo maschile; da un punto di vista più strettamente estetico la pellicola è insoddisfacente come la maggior parte delle trasposizioni in immagini di testi teatrali. Da un lato l’assoluta inverosimiglianza delle situazioni, accettabile sulle assi del palcoscenico, confligge col realismo narrativo tipico del cinema; inoltre i lunghi dialoghi in interni e la ripetitività della situazioni appesantiscono l’opera, rendendola abbastanza stucchevole. Il pubblico tuttavia non fece mancare un discreto successo al film.

Risi, Comencini, Bolognini e Rossi si ritrovano nel film Le bambole (gen. 1965; 110 min.) i cui quattro episodi, di valore diseguale, si concentrano sul carattere disinibito e spregiudicato del nuovo tipo di donna e lo fanno calcando la mano sulle questioni sessuali, fino al punto di determinare il sequestro della pellicola, un processo e addirittura una lieve condanna (nell’ottobre 1966) per Mauro Bolognini, Gina Lollobridiga e Jean Sorel in riferimento al loro episodio (alla luce dei costumi attuali la cosa appare incomprensibile ma calandosi nella mentalità dell’epoca e tenendo conto del contenuto decisamente provocatorio dell’episodio incriminato, si può anche comprendere l’evento).
Ne La telefonata (regia di Dino Risi), il più divertente dei quattro racconti, un marito (Nino Manfredi) è costretto ad attendere la fine dell’interminabile telefonata della sensuale moglie (Virna Lisi) per poter consumare un amplesso pomeridiano; esasperato, corre dalla disponibile vicina mentre le due donne continuano a parlare un po’ di tutto (anche della bella dirimpettaia... ). L’episodio estremamente brillante gira intorno ad un unico argomento con un’insistenza del tutto insolita per l’epoca: anche La telefonata andrà infatti sotto processo nel 1966.
Ne Il trattato di eugenetica (regia di Luigi Comencini) una straniera (Elke Sommer), in giro per Roma, cerca il padre perfetto di un figlio che intende poi crescere da sola; finirà invece per sposare il goffo autista che la scarrozza per la città e per dare alla luce una nidiata di ragazzini alquanto brutti. Sebbene il soggetto sia originale e divertente, la messa in scena di Comencini è di una noia proverbiale: lo stesso regista detestava questo suo filmetto.
Ne La minestra (regia di Franco Rossi) una disperata e bellissima Monica Vitti cerca in tutti i modi di fare ammazzare il proprio rozzo marito che, per sua sfortuna, riesce sempre a scamparla mentre un divertente Orazio Orlando (che scimmiotta Marlon Brando) le fa una corte spietata.
Ne Monsignor Cupido (regia di Mauro Bolognini) un’amorale “locandiera” (Gina Lollobrigida), per giunta maritata, ha messo gli occhi sul nipote bello e tonto (Jean Sorel) di un monsignore; il suo albergo è stracolmo di ecclesiastici venuti a Roma da ogni parte del mondo per le sedute del Concilio (1962-65) e la donna si muove in mezzo a loro con fare apertamente provocatorio (la storiella proviene addirittura dal Decamerone di Boccaccio). Dopo molte peripezie, utilizzando la dabbenaggine del monsignore (fingendo cioè di essere molestata dal nipote dell’uomo), la donna riuscirà a farsi notare dal giovane che finalmente si unirà a lei.
Questo episodio che, come si è detto, verrà condannato per oscenità, unisce sacro e profano in modo troppo disinvolto (bisognerà forse attendere il Decameron pasoliniano per ritrovare questa pericolosa contaminazione) e, probabilmente per tale motivo, irritò le alte sfere fino a far ottenere addirittura una condanna alla pellicola. Certo il racconto possiede tinte forti, è condotto con mano sicura, è divertente e impegna, tra l’altro, un mostro sacro del cinema italiano (la Lollobrigida).
In definitiva Le bambole si concentrano sulla nuova sessualità femminile e la descrivono come disinvolta e sganciata dalle vecchie remore. Si parla solo di sesso in questo film, ne parlano innanzitutto le donne le quali si mostrano decise ad ottenere ciò che vogliono, in barba ad ogni vecchia consuetudine. Sono dunque loro a dare la caccia agli uomini (secondo e quarto episodio) e, se si sentono insoddisfatte dal tipo di vita che conducono, non esitano ad assoldare sicari di ogni genere per liberarsi del fastidioso consorte (terzo episodio). Il primo racconto, quello che sembrerebbe più ligio alle antiche regole (la moglie si vanta addirittura, nella lunga telefonata, di essere giunta vergine al matrimonio) possiede una tale insistenza su tali telmatiche da divenire un testo provocatorio in sé, il cui finale a sorpresa (la vicina disponibile con chiunque, senza essere una prostituta) poi mostra tutta l’attuale fragilità delle consuetudini coniugali.
Il film ottenne un enorme successo commerciale.

Poco dopo nelle sale esce I tre volti (feb. 1965; 110 min.), una pellicola incentrata sulla neoattrice Soraya (ex moglie dello scià di Persia) e formata da tre episodi diretti da Michelangelo Antonioni, Mauro Bolognini e Franco Indovina. Nel primo racconto, Il provino, Antonioni, con il suo abituale stile freddo e controllato, popolato da inquadratura di forte suggestione, mette in scena alcuni paparazzi romani in cerca di uno scoop accanto alle immagini gelide che ritraggno la “diva” al trucco e su un set improvvisato. Il regista di Ferrara, seguendo una scenegiatura di Tullio Pinelli (abituale collaboratore di Fellini), ripete le situazioni de La dolce vita (Fellini, 1960), depotenziandole e guardandole “da lontano”, interrogandosi sulla fatuità dell’universo dell’immagine che sta diventando sempre più invasiva e potente. In fondo questo breve spezzone, non privo di un proprio fascino, anticipa le riflessioni più ampie contenute in Blow Up (1966): in entrambi i casi un fotografo, a caccia di immagini, si ritrova tra le mani qualcosa che non lo soddisfa (le immagini “rubate” alla diva sono confuse e inutilizzabili) o che non comprende.
Decisamente meno interessante il secondo episodio, Gli amanti celebri, firmato da Mauro Bolognini (sceneggiatura ancora di Pinelli ed altri) in cui si raccontano le peripezie di due amanti molto in vista - uno scrittore in crisi (Richard Harris) e la moglie di un potente industriale (Soraya) - giunti ormai al termine della propria relazione, ma costretti a protrarla nel tempo per vicendevole opportunità in quanto essa concede loro una scandalosa notorietà di cui essi sembrano non poter fare a meno, tanto più dopo che il marito della donna ha riifutato di riprenderla con sè.
Migliore invece l’episodio di Franco Indovina, Il latin lover, grazie alla presenza di Sordi (anche coauture della sceneggiatura insieme al regista e a Rodolfo Sonego) nel ruolo di un gigolò a pagamento in là con gli anni, messo a disposizione di una ricchissima donna d’affari (Soraya) in visita a Roma. La donna, in realtà, non sa che farsene dell’ingombrante accompagnatore anche se, un po’ alla volta, finisce con l’affezionarsi allo stravagante tipo e con il permettergli di comparire accanto a lei in alcune foto di circostanza che, in qualche modo, ne confermano il buon “mestiere”.
L’insieme del film è tutt’altro che brillante, anche a causa dei limiti della protagonista, dotata di un affascinante sguardo e di poco altro; non a caso la pellicola si esaurisce in un interminabile carosello di primi piani. Inoltre la particolarità della protagonista, intesa dagli autori come una diva adorata da tutti (secondo il già citato modello felliniano), sfocia in una serie di storie artefatte e disancorate dalla realtà sociale italiana (a differenza della maggior parte delle commedie a episodi del periodo). Il pubblico tuttavia aderisce all’operazione con l’evidente curiosità di vedere una principessa sui set di Conecittà. Il successo è buono.

Franco Indovina gira con Menage all’italiana (dic. 1965; 95 min.) una nuova variazione sul tema della bigamia, scritta dall’autore con Rodolfo Sonego, dopo E’ primavera (Castellani, 1949) e Finalmente libero! (Amendola, 1953) e prima di Professione bigamo (F. Legrand, 1969); anche Il bigamo (Emmer, 1956), La bugiarda (Comencini, 1965) e L’immorale (Germi, 1966) sono film che trattano sostanzialmente il medesimo tema.
Il nostro eroe (Ugo Tognazzi) colleziona un numero inverosimile di mogli ma, a differenza di altri suoi parenti stretti, non vive le unioni in contemporanea, bensì una dopo l’altra. L’uomo, un mentitore nato, simula differenti identità, si innamora perdutamente delle fanciulle più diverse e decide di sposarle tutte, per poi abbandonarle appena le medesime lo contraddicono o deludono su qualche dettaglio. Alcune di queste mogli abbandonate (tra esse Anna Moffo, Dalida, Maria Grazia Buccella, una giovanissima Romina Power) si rassegnano e si costruiscono nuove esistenze; altre invece gli danno una caccia spietata. Così le vicende del protagonista, organizzate tendenzialmente come in un film a episodi, conoscono tuttavia stumolanti intrecci laddove una “vecchia” moglie viene ad interferire con una più recente...
Questa farsa possiede buoni momenti ma non convince nel suo insieme. Il regista non sa decidersi tra il taglio del film surreale e “sgangherato” e quello del ritratto semipatetico di un uomo senza identità; lo stesso Morricone appare a disagio e allinea temi musicali grotteschi (quello d’apertura anticipa il celebre motivo di Indagine su un cittadino... 1970) e temi lirico- corali, rafforzando l’eclettismo disordinato del film.
Va inoltre notato che il regista illustra le vicende con un assoluto distacco, quasi si trattasse di un racconto a fumetti, finendo per stancare lo spettatore che si trova di fronte una farsa che non diverte quasi mai, non possiede un buon ritmo e non coinvolge emotivamente. Se a questo si aggiunge che il film è inefficace dal punto di vista del ritrato di un’epoca (trattandosi di una pura fantasia) si può comprendere il poco interesse che suscita l’intera operazione. Anche il pubblico si dimostrò tiepido.