I pompieri di Viggiù, Signorinella, Al diavolo la celebrità

I pompieri di Viggiù, Signorinella, Il vedovo allegro, Al diavolo la celebrità, Totò cerca casa, Totò le Mokò e L’imperatore di Capri: voglia di trasgressione (1949)

                    “<Sono tutti così tolleranti?>
                    <Questa è una casbah di tolleranza>”
                    Dialogo in Totò le Mokò

                     “Nessuna orma di valori umani ed
                     espressivi lascia intravedere
                     L’imperatore di Capri
                    G. Aristarco, “Cinema”, 30 gennaio 1950

                     “Ma via come si fa a fare lavori di
                     questo genere? Cosa c’entra     l’umorismo con questa roba?”
                     E. Bruno su L’imperatore di Capri

Nel 1948 Dino De Laurentis, durante il lavoro sul set di Riso amaro, pensa a una formula cinematografica inedita: mostrare al pubblico della penisola una selezione dei numeri più riusciti della rivista e dell’avanspettacolo, legandoli insieme con un esile pretesto narrativo. Propone l’idea a Mario Mattoli, un regista veterano del teatro leggero, che ne è subito conquistato. Molto meno entusiasti sono i “sofisticati” produttori della Lux Film: Gualino e Gatti per il momento rispondono negativamente e De Laurentis procede senza di loro. Nasce così I pompieri di Viggiù (aprile 1949; 91 min.), pellicola che sortisce un immediato, clamoroso successo commerciale che obbliga rapidamente la Lux a fare retromarcia e a decidere di distribuire la pellicola. La vicenda è irrilevante: il capo dei pompieri di Viggiù (Carlo Campanini) scopre che la figlia (Silvana Pampanini) si esibisce con una compagnia di rivista a Milano e si precipita in loco (presto seguito dai colleghi e dalla moglie) per dissuaderla e riportarla a casa. Così ha modo di assistere a un lungo e diversificato spettacolo, in realtà un collage di numeri di differente provenienza. De Laurentis inventa così, nell’era pretelevisiva, una forma di ghiotto reportage che offre una carrellata delle migliori esibizioni dell’epoca. La formula verrà poi ripresa con enorme successo negli anni sessanta da un’innumerevole quantità di filmetti dedicati agli spettacoli dei locali notturni e di strip tease dell’Europa e delle Americhe (a partire da Europa di notte, 1959, di Blasetti), modo furbesco per confezionare, sotto le mentite spoglie del documentario, un film erotico per platee quasi digiune (nell’Italia cattolica) di quel tipo di esibizioni. 
D’altronde anche I pompieri di Viggiù punta soprattutto sull’esposizione di discinte bellezze femminili, con una insistenza e audacia inedite per l’epoca. Se all’inizio degli anni quaranta il cinema fascista aveva osato infrangere il tabù del nudo femminile (si veda in particolare La cena delle beffe, Blasetti, 1942), aveva però evitato di calcare la mano su un tipo di spettacolo erotico-leggero in cui l’unica ragion d’essere fosse la presenza di prosperose bellezze in succinti bikini. Mattoli invece apre questo spiraglio dimostrando di intuire i futuri percorsi dell’universo della cultura dell’immagine, ampiamente soggiogati dall’erotismo femminile. In tal senso la scenetta con Nino Taranto (lo sketch Censura e bikini dalla rivista Nuvole) è di gran lunga la più significativa: un vigile cerca di far ricoprire tre signore poco vestite le quali non solo si rifiutano ma anzi si vantano di potere finalmente esibire i propri corpi, ben rendendosi conto che ciò mette in imbarazzo il maschio e lo rende più debole e manipolabile. Questo moderno inno al corpo possiede il sapore inequivocabile di una dichiarazione femminista netta e dura, di un femminismo tutto particolare e in definitiva vincente: quello che utilizza l’esibizione delle grazie femminili per dare alla donna un nuovo potere sociale. Il giudizio totalmente negativo (“escluso”) del Centro Cattolico è ampiamente scontato: spettacolo e religione si avviano verso uno stato di perenne conflittualità, soprattutto a causa del carattere progressivamente più libertario e sensuale del discorso filmico.
Peraltro la “liberazione” della donna era già un obiettivo criptico presente nelle produzioni Lux dell’era fascista (si ricordi quanto detto per Violette nei capelli, Bragaglia, 1942) e dunque il nuovo atteggiamento di sostegno a un cinema apertamente erotico (si veda il coevo Riso amaro) è scontato. Visione laico-modernista e cattolico-tradizionale sono destinate a farsi un’aspra guerra nei decenni seguenti (si vedano al riguardo anche le sorde lotte intestine alla Rai degli anni sessanta, ben testimoniate nel vivace resoconto autobiografico L’uomo di fiducia, 1999, di Ettore Bernabei, direttore democristiano dell’ente radiotelevisivo nel periodo 1960-74).
Tornando ai Pompieri di Viggiù il secondo numero memorabile è quello di Totò mimo, spasimante di Isa Barzizza (a cui ricorda, con una simpatica citazione intertestuale riferita al recente Fifa e arena, di non conoscerla totalmente solo a causa di un pesce, a suo tempo definito “democristiano”) e costretto a confondersi con una serie di manichini per non farsi scoprire dal marito della donna tornato anzitempo.
Signorinella (1949; 85 min.), seconda pellicola firmata da Mattoli in quel 1949 è invece tra le cose più mediocri e indifendibili dell’autore. Tornato a collaborare con Aldo De Benedetti per soggetto e sceneggiatura, il regista racconta l’inconsistente vicenda di due ladri d’auto (Aroldo Tieri e Ughetto Bertucci) che, giunti in un paesino dell’Abruzzo, vengono scambiati per ricchi italoamericani tornati dopo molti anni nel loro paesino d’origine. Equivoci a non finire costellano la narrazione il cui umorismo è prevedibile e fiacco, sostenuto da una recitazione poco convinta nonché ulteriormente rallentato da numeri canori (affidati a Gino Bechi) di nessun interesse. Solo nella parte iniziale alcuni spunti sembrano promettenti: da un lato la coppia di ameni truffatori sembra una caricatura dei più “seri” ladri di biciclette desichiani mentre dall’altro l’assedio di gentilezze e richieste con cui il popolo del paesino assilla i due malcapitati appare una bonaria satira del potere di seduzione del mitizzato benessere americano. La pellicola dunque attua una caricatura nei confronti dell’opportunistico e furbastro atteggiamento italico, caricatura che allude perfino all’intero piano E.R.P. salutato come una solenne benedizione dall’Italia di fine decennio. Purtroppo questi accenni dileguano presto per lasciare il posto a una serie di trite schermaglie amorose e “patrimoniali” di cui non merita dar conto.
Il pubblico non casca nel tranello e decreta il totale insuccesso dell’opera.
Nel solco del successo di Viggiù, Mattoli gira Il vedovo allegro (dicembre 1949; 90 min.), nuovo striminzito raccontino finalizzato a giustificare l’ennsimo ritratto del mondo dell’avanspettacolo. Il vedovo del titolo è un locale notturno situato a Cannes nel quale si esibiscono con sucesso Bebé (Carlo Dapporto) e altri artisti di varietà; è gestito da un malavitoso (Ubaldo Lay) e frequentato da un commissario in cerca di prove per arrestarlo. Intanto Bebé deve districarsi all’interno del consueto triangolo amoroso e soprattutto deve trovare diecimila dollari per pagare uno costosa operazione alla figlioletta: glieli presta una donna matura (Ave Ninchi) in cerca di “compagnia” e un poco verosimile medico americano (Amedeo Nazzari) attua il miracolo. Così l’unico elemento di interesse della pellicola canterina è costituito dal permanere (in Mattoli; vedi Signorinella) di una corrente di odio-amore nei confronti degli Stati Uniti, descritti come il paese della modernità più avanzata (l’intervento chirurgico salvifico, ignoto ai dottori italiani) ma anche paese colpevole di crimini efferati (in un dialogo si stigmatizzano le stragi causate dalle bombe atomiche sul Giappone).
Un cast di tutto rilievo, dagli sceneggiatori (Aldo de Benedetti, Age e Scaropelli), alla fotografia (Aldo Tonti) ai numerosi attori (in ruoli secondari anche Isa Barzizza, Irasema Dilian, Mario Pisu e Arnoldo Doà), produce una pellicola totalmente ordinaria. Anche l’ambientazione in costa azzurra si limita a pochi, banali esterni mentre la scrittura ribadisce una forte caratterizzazione teatrale, confermata nel brillante finale in cui tutti i personaggi escono ordinatamente dal locale notturno, come si trattasse di un proscenio dal quale salutare il pubblico che applaude, anche se, in queso caso, da applaudire c’è ben poco.

Mario Monicelli, originario di Viareggio (1915) e Steno alias Stefano Vanzina, nativo di Roma (1917), dopo una lunga gavetta in qualità di sceneggiatori, esordiscono insieme con il film Al diavolo la celebrità (novembre 1949; 92 min.) e proseguono in tandem per altre sette pellicole (periodo 1949-52). Il lavoro, sceneggiato dai due registi partendo da un soggetto di altri, sfrutta l’espediente dell’apparizione di un “povero diavolo” per inanellare quattro differenti episodi nei quali Franco Bresci (Leonardo Cortese), un professore spiantato e bizzarro, si incarna in un celebre tenore (Ferruccio Tagliavini), in un famoso pugile (Marcel Cerdan) e in un ambasciatore americano (Misha Auer) per conquistare l’amore della magnifica segretaria (Marilyn Buferd) di quest’ultimo. Lo aiuta (si fa per dire) Emilio (Carlo Campanini), cuoco all’ambasciata e fidato amico del professore. Nel finale il protagonista scopre che la fanculla si è innamorata di lui fin dall’inizio e che le sue successive “incarnazioni” sono state solo una perdita di tempo. La morale è quanto mai dozzinale e falsa: l’amore basta a se stesso e la celebrità non aggiunge nulla, anzi è d’impaccio.
Queste consuete sciocchezze sull’amore e sulla secondarietà di potenza e ricchezza, sciocchezze destinate a un pubblico ingenuo e credulone, rendono la pellicola complessivamente mielosa e fasulla sebbene numerosi siano i passaggi brillanti e godibili: i duetti tra il novello Faust e il suo goffo aiutante sono ben scritti, le parentesi operistiche (un duetto dal Mefistofele di Boito e un’aria dall’Arlesiana di Cilea filmate alla Scala di Milano) sono valide e originali e soprattutto colpisce nel segno la burrascosa seduta di un’assemblea internazionale a Parigi, con i politici che, minacciati da un terrorista, fanno a gara nell’essere generosi (un sosia di De Gasperi afferma che l’Italia è felice di non possedere pù colonie mentre il rappresentante israeliano abbraccia quello palestinese promettendogli la restituzione dei territori sottratti). Questa cinica e sarcastica sequenza finalmente mostra (contraddicendo l’assunto principale della pellicola) che gli individui e le nazioni, in perenne lotta tra loro, scelgono la generosità solo se costretti da forze superiori. Altro che massonica prevalenza dell’amore universale e dell’umana fratellanza: la sgangherata minaccia terroristica agisce come il glockenspiel di Papageno (nel mozartiano Flauto magico) e induce un’artificiosa bontà universale destinata a scomparire con il dileguare della minaccia incombente (o della magia musicale in Mozart). Non l’amore dunque ma proprio la più spregiudicata potenza, affibbiata dal titolo a Satana, governa le umane cose. La verità si fa strada tra le righe, mettendo in ombra l’ipocrita assunto generale. D’altronde l’ultima parola è lasciata proprio al “povero diavolo” il quale, in qualità di vigile, ottiene una piccola, beffarda vittoria ai danni dell’ambasciatore americano. 
A parte questi episodi e le connesse notazioni, il film appare solo la fiacca giustapposizione di tre storielle scelte con un’ottica meramente spettacolare (la Scala milanese accostata ai ring messicani e alle assemblee politiche internazionali) mentre la vicenda amorosa, oltre che “rinnegata” dai suddetti mefistofelici eventi, è estremamente convenzionale.
Subito dopo il duo registico firma un nuovo, fortunato capitolo della saga di Antonio De Curtis ossia Totò cerca casa (dicembre 1949; 90 min.) destinato a bissare il clamoroso successo commerciale di Fifa e arena (1948; vedi). La pellicola nasce da un contratto doppio del comico con Carlo Ponti: esso prevedeva la lavorazione quasi contemporanea del suddetto film e de L’imperatore di Capri. Come nel lavoro d’esordio i registi (anche sceneggiatori, coadiuvati da Metz e Marchesi) mettono in fila una serie di episodi pressoché autonomi, legati dal pretesto narrativo di sapore neorealistico della disperata ricerca di un alloggio da parte della famiglia Lomacchio. Così il quartetto di sfollati (Totò, sua moglie, un figlio e una figlia fidanzata con l’onnipresente Aroldo Tieri) dapprima vive in una scuola, poi nell’appartamento del custode di un cimitero, poi in quello di un pittore; dopo aver vinto un milione acquista una lussuosa abitazione da alcuni truffatori (che l’hanno venduta a numerosi altri allocchi) e infine ripiega tra gli archi del Colosseo. Ogni mutamento di dimora coincide con un differente episodio.
La questione sociale è lasciata nello sfondo mentre l’unico motivo di interesse è costituito dall’irrefrenabile verve surreale del comico napoletano, qui in piena forma. Le esibizioni in qualità di vecchio ripetente in una classe al cospetto di un onorevole e di filantropiche benefattrici è esilarante e anticipa l’intero filone “scolastico” della commedia trash degli anni settanta (ma anche alcuni episodi di Amarcord, Fellini, 1973); altrettanto indimenticabili sono la performance in qualità di impiegato dell’anagrafe che sconsiglia a un padre nomi “politicizzati” come Franco, Umberto e Tito e quella di falso pittore al cospetto di una mantenuta che vuole farsi ritrarre nuda per il suo amante turco. Altre situazioni sono la semplice riproposizioni di stereotipi della farsa napoletana come il generico episodio del camposanto (a base di “zombie” nostrani) e quello dei numerosi inquilini truffati, conviventi nel medesimo appartamento, gli uni all’insaputa degli altri.
L’assoluta centralità delle esibizioni di Totò finisce con lo stancare Monicelli che lascia anzitempo il set (il film è dunque soprattutto opera di Steno) dichiarando: “Ho abbandonato la regia perché Totò dice ‘La macchina qui, la macchina là’. Due registi per un film andranno bene, ma tre sono decisamente troppi!”. Qualunque ambizione autoriale è dunque marginalizzata sebbene la pellicola appaia tutt’altro che innocua o impersonale (come tra l’altro dimostra il giudizio “escluso” del Centro Cattolico); essa è infatti attraversata da umori cinici e anarcoidi che non risparmiano nessuno: la filantropia ipocrita della nuova classe borghese, i politici inetti (nel finale l’attore si schianta a tutta velocità su un inutile monumento alla ricostruzione ovvero soldi sprecati a fronte di situazioni sociali ancora assai miserabili e problematiche, come dimostrano le peripezie del protagonista), la burocrazia statale lassista e arraffona e infine il linguaggio saccente e presuntuoso del perbenismo trionfante. Totò è soprattutto uno sfrontato distruttore della lingua italiana, atto irriverente nel quale è implicito un orgoglioso ribellismo il quale, in nome degli innegabili bisogni fondamentali (cibo, sesso e stabile dimora), contesta un Potere ampolloso, mendace e inefficiente.

In questo finale di decennio esplode una vera e propria Totòmania che costringe il comico a un superlavoro. Così sempre nel dicembre 1949 esce anche Totò le Mokò (90 min.) di Carlo Ludovico Bragaglia, pellicola con la quale gli sceneggiatori (Metz, Scarpelli e Continenza) mettono in scena una libera parodia del celebre Pepé le Mokò (tit. it. Il bandito della Casbah di Julien Duvivier, 1936). L’originale consiste in un popolare fumettone di impianto teatrale e vagamente espressionista, sopravvalutato a posteriori da una critica solidale con il cosiddetto realismo poetico francese. Il modesto film con Totò incomincia in realtà più come un sequel che come una parodia: Pepé è morto e Totò, suo lontano parente, lo sostituisce alla guida della sua banda di rapinatori all’interno della casbah di Algeri. Ovviamente il nostro eroe è solo un mite capobanda musicale (sogna di dirigere un valido gruppo di strumentisti) il quale però si ambienta rapidamente tra i malfattori algerini. Grazie a una pozione magica diviene più spietato di loro e maltratta soprattutto le donne. Nel finale il vero Pepé ricompare (Carlo Ninchi offre una buona caricatura di Jean Gabin) e i due si scontrano in un duello fracassone che in breve coinvolge mezza casbah. Totò finisce con lo sterminare l’intera banda e può infine tornare nella sua Napoli.
Come sempre i numeri del protagonista (spesso di ottimo livello), tutti derivati dallo stile esagerato e mordace dell’avanspettacolo, sono l’unica ragion d’essere della pellicola cui arride un notevole successo commerciale. Tra le cose da ricordare ci sono la caricatura delle “sacerdotali” movenze democristiane (allorché il comico si appresta ad ascoltare come in confessione le confidenze di una donna perduta), la vena di sadismo che innerva la danza con una ballerina (Totò le sbatte il muso contro una ringhiera e le rompe una bottiglia in testa) e le numerose allusioni sessuali in un contesto piuttosto disinibito (tra le battute memorabile c’è quella sulla “casbah di tolleranza” sopracitata). La sfrontatezza del comico rompe gli argini, si disinteressa di problematiche sociopolitiche (limitandosi allo sberleffo inconcludente), tralascia la rivendicazione dei diritti delle minoranze più o meno misere e oppresse e mostra invece l’apparire semplice e ineludibile delle pulsioni primarie: la lotta per il controllo del territorio e delle donne emerge senza infingimenti in questo lavoro e passa attraverso l’esibizione della forza, anche nei confronti del gentil sesso a cui si attribuisce (secondo un eterno stereotipo maschile) una sorta di segreta anima masochista.
Da tutte queste considerazioni si deduce come questo cinema costituisca una netta anticipazione di quello softcore degli anni settanta: entrambi conseguono un netto successo popolare grazie alla efficace miscela di gag imprevedibili e soubrette poco vestite, il tutto spavaldamente infrangendo quei canoni realistici che governavano (e governano) il cinema più “serio” e “attendibile”. La critica tratta dunque con sufficienza i lavori di Totò e per una volta si viene a trovare in perfetto accordo con i giudizi morali negativi del mondo cattolico (anche Totò le Mokò è classificato “escluso” come la quasi totalità dei film di quegli anni del comico napoletano). Ridere, sorridere e divertirsi sono considerato mali preoccupanti soprattutto dalla cultura comunista, sempre annichilita dalle sue problematiche pauperistico-universali, mentre quella cattolico-sessuofobica guarda con fastidio al comparire con sempre maggiore insistenza del corpo femminile quale centro ineludibile dello spettacolo filmico.

Tutto ciò risulta ulteriormente accentuato ne L’imperatore di Capri (90 min.), il terzo film con Totò a uscire in quel dicembre 1949 nelle sale della penisola, ottenendo un notevole successo di pubblico, il quale, sommato con quello di Totò cerca casa e Totò le Mokò, mostra un’Italia completamente soggiogata dalle fenomenali qualità comiche dell’attore napoletano. Dopo il fiasco del pregevole esordio Proibito rubare (1948; vedi), Luigi Comencini si sottomette suo malgrado a girare per la Lux L’imperatore di Capri, lavorando alla sceneggiatura coadiuvato da Metz e Marchesi. E’ ovvio che gli spazi di manova per un autore ambizioso e che in futuro si dimostrerà dotato di un preciso e personale mondo poetico, sono esigui. Tuttavia la nuova avventura di Totò si differenzia dalle precedenti per il tono meno farsesco e per il trattamento più organico e unitario della narrazione la quale si concentra proprio sulla scottante questione sessuale. Antonio De Fazio (Totò) è infatti un modesto cameriere, sposato, oppresso da una suocera bigotta e ossessionato dalle belle donne che ammira nell’albergo di lusso in cui lavora. Una serie di equivoci gli permettono di trasferirsi a Capri e di interpretar il ruolo di un ricco principe indiano: a quel punto donne di ogni genere si presentano alla sua porta e Totò può recitare la parte del Don Giovanni partenopeo. Non manca un ridicolo profeta Geremia che lo perseguita urlando “Pentiti” (come la Statua del Commendatore nel celebre finale del Don Giovanni mozartiano), ennesima tagliente caricatura della nuova atmosfera clericale che attraversa le cose italiane. Gli autori inoltre non lesinano critiche e sberleffi a tutti, aiutati dalla consueta, irrefrenabile verve del mattatore: così per le sinistre c’è la caricatura degli scioperanti dei traghetti, disattenti alle necessità del turismo; per i tedeschi la vicenda della baronessa Von Krapfen (Marisa Merlini), dedita a culti macabri memori dei rituali delle SS (Totò la insulta sbofonchiando un “Ribbentrop, Kesselring”); per i politici che agitano i problemi della coscienza di classe e della maturità delle masse democratiche c’è un’impietosa satira del senso comune, pronto a emulare qualunque idiozia, purché giunga da una fonte “autorevole”, ricca e aristocratica (qualunque sconsiderato gesto del presunto principe indiano viene immediatamente copiato dai vacanzieri dell’isola).
In ogni modo il bersaglio primario rimane la morale comune e le restrizioni volte al discorso pubblico sulla sessualità; e questa volta Totò si spinge molto oltre il consentito: per tutto il film si accompagna a un ridicolo attore di teatro mettendo in scena un vero e proprio insistito duetto gay (assai audace per l’epoca) mentre fanciulle poco vestite si affollano intorno al comico, sperando di potere accedere alla sua camera da letto. Il tutto reso ancor più eclatante dal fatto che Totò ha lasciato a Napoli una regolare moglie (che infatti nel finale giunge a Capri a rovinargli la festa). Ciò che nelle pellicole precedenti, scandite in differenti e distinti episodi, era relegato in alcune delimitate sezioni narrative, ora diviene l’argomento centrale e unico per la disperazione di censori, democristiani e comunisti.
Infatti non sono solo i cattolici (come è logico) a reagire negativamente a questo genere di spettacoli. In modo compatto reagisce con spregio anche l’intera nomenclatura critica di stampo laico-comunista. Le stroncature si sprecano; e ciò che colpisce è il carattere astioso di numerose di esse, un astio che dalle “autorevoli” testate del periodo (spesso intente a discettare con enfasi degna di miglior causa intorno ai “capolavori” sovietici) si riversa non solo contro gli autori materiali di questi lavori, ma perfino contro il “rozzo” pubblico colpevole di sancirne il clamoroso successo. Il ribellismo irridente di Totò non è funzionale alle mire “educative” dei socialcomunisti che vorrebbero un cinema esclusivamente dedito a indagare le miserie degli strati più poveri e sfortunati della penisola (così da generare malcontento e, di conseguenza, da spostare consenso e voti ai partiti di opposizione). Al contrario l’anarcoide Totò pensa solo a divertirsi, a soddisfare i propri bisogni immediati, a parlare di un’esistenza breve e senza premi trascendenti, a infrangere i limiti della morale e del costume spinto da un’allegra, dinamica voglia di vivere comunque e dovunque; e questo suo “ingenuo” e naturale ottimismo si rivela contagioso e in definitiva alieno da ogni ambizione “rivoluzionaria” poiché la felicità è radicalmente ridotta a un fatto personale e privato, cui fa da ostacolo solo un certo assillante bigottismo ideologico. Così, in un anno privo di “capolavori neorealistici” (Riso amaro viene osteggiato dai critici e recuperato solo decenni dopo in quella direzione; vedi), il diluvio Totò rende ancora più caustici e intolleranti i critici militanti, incapaci di vedere quello che ogni normale spettatore poteva ammirare: la straordinaria capacità di un comico di soggiogare le platee attraverso un uso sapiente di mimica e dialogo, di tic e ammiccamenti innervati da una perfetta scelta dei tempi e da una eccezionale spontaneità improvvisatoria. Una capacità che va oltre le regole abituali del discorso filmico poiché perfino il tradizionale statuto di verosimiglianza della narrazione per immagini viene regolarmente infranto con naturalezza e tranquillità, sempre però all’interno di un istintivo senso della misura. Insomma l’esuberanza di Totò travolge le regole del cinema e i critici, anziché stupirsi, si adombrano.