I promessi sposi e Pastor Angelicus

I promessi sposi, Pia de’ Tolomei, Pastor Angelicus, Rita da Cascia e L’abito nero da sposa: confidando nella Provvidenza (1941-45)

            “M’hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m’hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio....”
            “Dio, Dio”, interruppe l’Innominato: “sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato”.
            Lucia e l’Innominato (I promessi sposi, capitolo XXI)

Il capolavoro letterario di Alessandro Manzoni, edito negli anni 1825-27, conosce un numero relativamente limitato di trasposizioni operistiche e cinematografiche. Nell’Ottocento i compositori Amilcare Ponchielli ed Enrico Petrella ne siglano due versioni liriche, la prima (Cremona, 1856) di modesto successo, la seconda (Lecco, 1869) un po’ più fortunata (in ogni caso entrambe cadute nell’oblio) la quale tra l’altro ebbe il placet del Manzoni medesimo. Nel Novecento il cinema si occupa solo tre volte del popolare romanzo mediante le trascrizioni filmiche di Mario Bonnard (1923), Mario Camerini (1941) e Mario Maffei (1963). Maggiore risonanza avranno in seguito le due lunghe versioni sceneggiate per la televisione firmate da Sandro Bolchi (1967) e da Salvatore Nocita (1989).
Di una versione imponente dei Promessi sposi si parla alla fine degli anni trenta; poi il progetto sfuma. Invece qualche anno dopo si fa avanti la casa di produzione Lux del torinese Riccardo Gualino la quale fornisce i capitali necessari per una simile impresa. La pellicola viene affidata alle mani esperte di Mario Camerini il quale scrive la sceneggiatura aiutato da Ivo Perilli e dal saggista e critico Gabrile Baldini (futuro studioso shakespeariano, nonché autore di un noto saggio sull’arte di Giuseppe Verdi, pubblicato postumo nel 1970) e raduna un cast impressionante nel quale figurano tra gli altri Gino Cervi (Renzo), Dina Sassoli (Lucia), Ruggero Ruggeri (Federico Borromeo) e Armando Falconi (don Abbondio). Infine la colonna sonora viene affidata dal musicologo Guido Gatti (braccio destro di Gualino e autore di un importante saggio biografico-critico su Giuseppe Verdi) a Ildebrando Pizzetti ovvero al più autorevole esponente dell’universo operistico italiano del periodo storico racchiuso tra le due guerre mondiali (tra i suoi lavori più significativi ricordiamo Fedra, 1915; Debora e Jaele, 1922 e Fra Gherardo, 1930) il quale però sigla una modesta e prevedibile partitura d’impianto tardoromantico. Il film (112 minuti) esce nelle sale nel dicembre 1941 ed ottiene il prevedibile successo.
Il racconto narra in modo piuttosto scolastico le note peripezie dei due fidanzati costretti alla fuga dal capriccio del potente don Rodrigo nella Lombardia secentesca, in larga parte succube della dominazione spagnola; quello che soprattutto incuriosisce è perché proprio ora, in un’epoca tanto travagliata, si decide di riesplorare il testo manzoniano. Cominciamo con il ricordare che Riccardo Gualino, industriale, finanziere e intellettuale di quella Torino da sempre poco in sintonia con il regime, aveva nella seconda metà degli anni venti organizzato nella città sabauda una ricca attività operistico-concertistica volta a valorizzare gli autori più complessi e innovatori della scena europea (Schoenberg, Stravinski, Malipiero e Casella). Tale attività meritoria era stata stroncata dapprima dal fallimento finanziario (il pubblico torinese in definitiva non accorreva in massa per assistere a questi spettacoli), poi addirittura da una condanna per irregolarità finanziarie (caldeggiata dallo stesso Mussolini che definisce Gualino un “Cagliostro della finanza”) che aveva costretto il mecenate a un periodo di cinque anni di confino. Rientrato nella vita culturale della nazione, Gualino tenta nella seconda metà del decennio la via della produzione cinematografica fondando la Lux film, casa che si situerà tra le principali protagoniste del mondo dello spettacolo dell’immediato dopoguerra. La pellicola di Camerini costituisce il massimo sforzo della nuova creatura del torinese in quanto si avvale, oltre che del cast sopracitato, anche di una grandiosa ricostruzione a Cinecittà della Milano secentesca (soprattutto lo scenario del duomo) e di ingenti masse di comparse.
L’esito artistico è intermittente: qua e là il gusto figurativo del regista approda a quadri “pittorici” di notevole splendore; la pregevole interpretazione della Sassoli perviene a qualche pagina di grande forza espressiva (la sequenza della solitaria disperazione e del voto alla Madonna) come pure notevoli sono i ritratti dell’Innominato (Carlo Ninchi), del cardinale Borromeo e la pagina che narra la compiuta redenzione dell’uno al cospetto dell’altro. L’opera tuttavia offre momenti di reale grandezza soprattutto nell’ampia sezione conclusiva dominata dalla peste. In tali sequenze una sorta di gusto fosco ed apocalittico si impadronisce del film e lo immerge in un’angosciosa tetraggine che trova il proprio apice nella impressionante sequenza finale del lazzaretto milanese. Di colpo i significati adombrati nella prima parte appaiono in tutta la loro pregnanza: Renzo e Lucia sono i simboli di un’Italia popolana e semplice, trascinata da una serie di gratuite malvagità nella bufera (bellica), Italia la quale, come sempre, nel momento del massimo pericolo si rifugia nell’antica saggezza cattolica, all’ombra delle robuste mura del Papato. L’incubo della peste, le stragi e le centinaia di corpi esanimi mostrati sullo schermo rimandano ovviamente alla guerra in corso mentre la pioggia purificatrice dell’epilogo sancisce il ritorno della Grazia sul capo dei due fidanzati ricongiunti ossia di un’Italia infine scampata alla rovina per esclusivo merito del Vaticano e della Provvidenza.
Quando Camerini asserisce che “c’è senz’altro un fondo antifascista nei Promessi sposi” possiamo pienamente concordare con lui: non si tratta questa volta di opportunistiche e falsificanti riletture a posteriori; qui appare evidente l’afflato mistico e pacificatore che attraversa il racconto, il suo riflettere, in una metafora tutt’altro che criptica, l’angoscia del presente ed il suo individuare nell’autorevolezza religiosa delle gerarchie ecclesiastiche l’unico baluardo certo, l’unica sopravvivenza istituzionale cui guardare. Al popolo italiano, impreparato materialmente e spiritualmente ad affrontare una guerra lunga, disinteressato nel suo intimo alla mistica fascista della razza, della forza e dell’impero, viene rivolto mediante il racconto delle peripezie di Renzo e Lucia, l’invito alla calma, alla prudenza, all’attesa “neutralista” e alla fiducia nella Provvidenza divina: sono essenzialmente le sagge parole, circonfuse di luce, di fra Cristoforo e soprattutto del cardinale Borromeo a ribadirlo, divenendo il centro assoluto della creazione cameriniana.
Il tranquillizzante elogio della pace che attraversa il film esprime in forma spettacolare la nuova segreta alleanza tra larghi settori della cultura improntati agli ideali di un laicismo massonico universalista e filoanglosassone (ideali di cui si fa portatore la casa di produzione di Gualino che si intitola non a caso Lux) e la naturale propensione antibellicista del Vaticano (ribadita a più riprese nei coevi discorsi di Pio XII), alleanza che si può far probabilmente risalire all’invio in Vaticano dell’ambasciatore Myron Taylor, fiduciario di Roosevelt, nei primi mesi del 1940. D’altro canto lo riprova i fatto che la materia manzoniana si sarebbe prestata a un utilizzo “patriottico”: è noto che lo scrittore milanese e liberale aveva adombrato nella dominazione spagnola secentesca quella austriaca nel Lombardo Veneto ottocentesco, indicando (seppure in modo timido) la necessità di uscire da quello stato di soggezione; al contrario Camerini, il quale nel recente Una romantica avventura aveva inventato un’apposita cornice risorgimentale di evidente carattere nazionalista (siamo però ancora nei primi mesi di una guerra che si pensa di breve durata) per il racconto inglese di Thomas Hardy, si guarda bene un anno dopo dall’utilizzare il contesto storico “spagnolo” per possibili allusioni in direzione patriottico-bellicista. Al contrario l’attenzione del regista e degli sceneggiatori si appunta, in modo efficace, intorno al carattere “anarchico” del Potere, agli aspetti di crudeltà gratuita ed antiumanistica che lo animano e soprattutto intorno al suo disporre delle vite altrui in modo assoluto (si pensi alle azioni dei bravi di don Rodrigo e dell’Innominato, al cinico ricatto cui deve sottostare la compromessa monaca di Monza, costretta a consegnare Lucia per avere salva la vita). In questa direzione si può cogliere nella pellicola addirittura una tenue allusione critica al totalitarismo fascista.
In definitiva con l’approssimarsi della resa dei conti la cultura italiana prende le distanze da un regime che non ha mai particolarmente amato ma che ha comunque servito nei lunghi anni del suo successo culminato nella dichiarazione dell’Impero (e proprio di quegli anni è Il grande appello, 1936 ossia la pellicola più apertamente fascista di Camerini). Così mentre Mussolini inasprisce i toni populistici e antiborghesi e si inabissa nell’avventura bellica, il paese lentamente dismette la superficiale “maschera” fascista per tornare a quella cattolica basata sull’eterna furbizia di chi cerca di intimidire l’avversario assumendo atteggiamenti di assorta devozione religiosa: è un vecchio trucco, estremamente efficace fin dai tempi di Leone I (capace con la propria autorità spirituale di rendere dubbioso Attila e di convincerlo ad abbandonare l’Italia nell’anno 452; se ne ricorderà perfino l’anticlericale Verdi nel suo Attila, 1846) e reso ancora possibile dall’ammirevole ed intatta forza politica di una Chiesa che estende la propria capacità di influenza su numerosi continenti. Quella dello stato italiano è una situazione paradossale ed unica: nato un secolo prima proprio dalla guerra voluta dalla borghesia massonica ai danni del Papato, ora, nei primi anni quarantadel Novecento, esso si trova ad un passo dalla rovina e pertanto la sua classe dirigente fa ritorno, secondo un’incredibile prassi camaleontica, all’unica realtà forte operante nel territorio. La produzione Lux, voluta da figure certamente poco “religiose” quali Gualino, Gatti, Camerini ed altri, testimonia della nuova, serpeggiante realtà politica: quella stessa borghesia, un tempo aspramente anticattolica, innegga ora al senso cristiano, descrive con toni sublimi le figure di fra Cristoforo e del cardinale Borromeo e si dilunga sul profondo senso religioso che innerva la vita quotidiana della popolazione più semplice. Nulla salverà tedeschi e giapponesi dalla terrificante distruzione della propria realtà nazionale messa in atto senza scrupoli dagli Alleati (si pensi soprattutto alle due conflagrazioni atomiche dell’agosto 1945); gli Italiani invece, seppure militarmente assai più “deboli” dei loro ex compagni di sventura, escono dalla guerra con rovine relativamente limitate: hanno saputo “mettere in campo” il loro Dio.

Un medesimo afflato religioso e filocattolico si può notare anche nel di poco precedente Pia de’ Tolomei (settembre 1941; 90 min.) di Esodo Pratelli, regista originario di Lugo di Romagna (n. 1892) il quale firma pochi lungometraggi nel perdiodo 1939-43, mentre nel dopoguerra tace.
Il film è una scolastica e tediosa trasposizione delle note vicende della povera Pia (Germana Paolieri), ingiustamente creduta infedele dal marito Nello (Carlo Tamberlani) e rinchiusa in una fortezza in Maremma. In realtà è di tutto colpevole il perfido Ghino (Nino Crisman) che la vorrebbe per sé mentre la donna, insidiata dallo spasimante preferisce gettarsi dal balcone e morire, non prima di essere stata riconosciuta innocente da un avvilito Nello.
Già immortalata negli ultimi versi danteschi del V canto del Purgatorio (<ricordimi di me, che son la Pia/Siena mi fé, disfecemi Maremma>, v.130-136), la mesta figura della sfortunata sposa in seguito viene sviluppata in una novella di Bartolomeo Sestini (Pia de’ Tolomei, 1822), in un dramma di Giacinto Bianco (idem, 1936) e infine in un melodramma di buon valore di Gaetano Donizetti (idem, Venezia, 1837).
Quello che soprattutto interessa in questa modesta versione di Pratelli (sua la sceneggiatura, in collaborazione con Guglielmo Usellini) è la figura di Fra’ Martino (Lauro Gazzolo) il quale funge da consigliere spirituale di Pia e di Nello, sui quali invoca al protezione divina. Alla prima suggerisce la speranza e una quieta rassegnazione mentre al secondo, che chiede di potersi rifugiare presso di lui, caldeggia scelte equilibrate, non violente e infine la comprensione e il ritorno dalla sposa innocente. Nello e Pia, coppia travagliata e dolente, non è distante da Renzo e Lucia; su entrambe - simboli più o meno consapevoli dell’Italia - veglia amorosa la Chiesa.
Appare insomma evidente - nella centralità della figura del religioso in un momento di doloroso travaglio per quella comunità medioevale - che gli autori guardano alla antica saggezza del cattolicesimo romano quale prezioso  strumento per uscire dalle peggiori lacerazioni del passato e del presente, siano cioé i dolori particolari e circoscritti dell’onore insidiato di Nello o il dramma più ampio di un intero popolo portato sull’orlo dell’abisso da sciagurate iniziative belliche.

Nella primavera del 1942, tra Roma e Milano, viene segretamente fondata la Demcrazia Cristiana. Appare ormai altamente probabile la sconfitta bellica, la caduta del fascismo e la necessità di nuove formazioni politiche pronte a colmare il vuoto di potere che, inesorabilmente, si sarà venuto a creare. Nelle stanze vaticane De Gasperi, Moro, Andreotti e soprattutto Luigi Gedda, capo dell’Azione Cattolica, si organizzano. Tra le iniziative più concrete e importanti di questa nuova alba politica bisogna certamente annoverare il bel documentario Pastor Angelicus (dicembre 1942; 85 min.) basato su un soggetto appunto di Gedda, sceneggiato da Diego Fabbri, Ennio Flaiano, Andrea Lazzarini e Romolo Marcellini; quest’ultimo, originario di Macerata (n. 1910; aveva esordito come regista con il film “africano” Sentinelle di bronzo, 1937), viene incaricato dal Centro Cattolico Cinematografico, di dirigerlo.
Pastor Angelicus, vero e proprio regalo natalizio della Santa sede al popolo italiano, viene erroneamente descritto come una sorta di biografia di Eugenio Pacelli alias Pio XII, salito al soglio pontificio da pochi anni (marzo 1939); l’errore viene perpetuandosi nei testi anche perché il film è praticamente invisibile e numerosi critici si limitano a copiare quello che trovano. La pellicola è invece un’operazione squisitamente politica: essa propone agli spaventati abitanti della penisola la figura di un nuovo leader carismatico, un uomo religioso, sapiente, buono, pacato, attento ai bisogni di tutti, capace, diplomatico, autorevole e colto. La vicenda personale di Pacelli viene ridotta a pochi doverosi minuti (la casa natale, gli studi, il sacerdozio ecc); quello che invece si vuole proporre agli Italiani è una sorta di antiMussolini: tanto quest’ultimo sbraita, si scompone, propone gesti autoritari e netti, impone missioni sgradite e sgradevoli, tanto l’altro offre silenzio, comprensione paternalistica, attenzione ai problemi degli umili, dei sofferenti, dei reduci, delle famiglie in cerca di notizie dei propri cari e soprattutto invoca una sincera speranza di pace. Pio XII viene quasi sempre ritratto da lontano, a figura intera, nel suo elegante e quieto incedere, capace di fronteggiare ogni situazione (in questo simile al “modello” mussoliniano) eppure abissalmente altero e lontano (nel film non lo udiamo mai parlare, se non nella sequenza conclusiva).
Pio XII riceve i diplomatici di tutta la terra (come Mussolini), parla a tutte le classi sociali, proletarie e borghesi (come Mussolini), opera quotidianamente con inflessibile energia (come Mussolini), si occupa di “architettura” (il restauro della cupola di Michelangelo; come Mussolini), riceve i reduci cattolici, i feriti e i sofferenti (come Mussolini). Ma su quest’ultimo punto si avverte la radicale antinomia col fascismo. Con grande cautela gli autori evitano qualunque giudizio di valore sugli attori della guerra in corso, la definiscono tragedia senza prendere posizione. Già questo fatto è grandioso (ma venne ampiamente disconosciuto dalla maggioranza degli storici del dopoguerra) e mostra la presenza di una fenomenale, estesissima opposizione interna alla politica fascista (impensabile qualcosa di simile nella ferrea Germania nazista come pure nella Russia staliniana la quale, giova ricordarlo, era stata, nella prima fase del conflitto relativa a Polonia e Finlandia, aggressiva e imperiale quanto la Germania): le sterminate folle che si radunano in piazza San Pietro (la visione è realmente suggestiva) per ascoltare il Papa sono quelle che ne condividono la politica apertamente pacifista. Il film non osa prendere le distanze dalle scelte belliciste del regime (in ogni caso l’odiatissima Germania nazista, tanto cara all’ultimo Mussolini, non è mai citata, neppure di sfuggita), né avrebbe potuto fare altimenti; d’altro canto l’atteggiamento di critica aperta alle tragedie umanitarie e di soccorso ai reduci, ritratti come poveri sofferenti, vittime di un’immane tragedia (e non come “santi” immolatisi sull’altare della Patria; si veda in tal senso la retorica di tanti film bellicisti, Rossellini e De Robertis compresi), si pone in completa antitesi nei confronti della martellante politica militarista di Mussolini. Viene infine ribadito con coraggio il celebre messaggio pacelliano dell’agosto 1939: “con la pace nulla è perduto, con la guerra tutto”, messaggio inequivocabile quanto a scelta di campo. L’apertura del conflitto mondiale pone la Santa Sede naturalmente nel campo delle forze alleate, in una sorta di segreta alleanza sancita dalle visite romane dell’americano Sumner Wells. Si può dunque azzardare che una parte importante dell’Italia non è stata sconfitta nel conflitto: non si tratta della Resistenza, fenomeno ridotto, circoscritto e ambiguo (si ricordi il legame di sudditanza nei confronti dell’URSS delle brigate comuniste) sorta a giochi fatti e finiti (dopo l’armistizio e la resa incondizionata) bensì del vasto popolo cattolico guidato da Pio XII.
Tra le molte attività documentate dal film, costante elogio del Vaticano, si nota soprattutto quella degli uffici preposti a cercare informazioni intorno alla sorte di quei soldati dispersi di cui i parenti cercano disperatamente notizie: attraverso le formidabili diramazioni ecclesiasiche, il Vaticano riusce spesso ad avere informazioni dai numerosi campi di concentramento di entrambe le parti in lotta e a girarle ai diretti itneressati. E’ l’ennesima riprova di quello spirito di servizio che rafforza il prestigio e la grande popolarità della Chiesa in quegli anni terribili.
Pio XII viene costantemente dipinto come il capo universale delle genti cattoliche del pianeta: pertanto nel film non viene concesso alcun particolare spazio ai politici italiani e alle questioni inerenti la penisola. Mussolini non viene mai citato (il che è piuttosto clamoroso in un film italiano di natura storico-politica), mentre Vittorio Emanuele III viene ricordato solo per una visita formale fatta in Vaticano. Il Papa è l’autorità spirituale suprema, è il vicario di Cristo in terra, pronto ad ascoltare e amorevolmente consigliare chiunque abbia un problema materiale o religioso: se l’Italia si avvia verso la catastrofe, è logico allora guardare oltre Tevere per affidarsi a questa nuova guida politica, equilibrata e non compromessa con la sciagurate scelte belliche del fascismo. Questo dunque il chiaro messaggio: dalle solenni stanze vaticane, affrescate da Raffaello e Michelangelo ossia da alcuni dei massimi geni dell’italianità, nelle quali risuonano le luminose e misurate polifonie di Lorenzo Perosi (lo si vede dirigere il coro), un italiano eccezionale, apprezzato in ogni continente (la precedente attività diplomatica di Pio XII), offre il proprio generoso aiuto al proprio popolo in difficoltà. E per tale via finirà con l’ereditare proprio quello stato italiano costruito dal Risorgimento massonico e anticlericale, principalmente a spese dello piccolo Stato della Chiesa. Sono le incredibili, beffarde svolte della Storia.
Pastor Angelicus è un film importantissimo e, non a caso, oggi scomparso, poiché scomodo per l’universo socialcomunista che ama ritrarsi quale unico salvatore dell’Italia per il tramite di un tipo di Resistenza compromessa, in realtà, con azioni di stampo “terroristico” (quelle poi “lasciate in eredità” alle Brigate Rosse). Al contrario la vera Resistenza di massa è, fin dagli inizi della guerra e non solo dopo l’8 settembre, quella (demo)cristiana il cui capo assoluto è Pio XII e la cui parola d’ordine è sempre stata attendismo: attendere cioè, senza ulteriori spargimenti di sangue, l’inevitabile sconfitta del nazifascismo ad opera della coalizione alleata, nettamente superiore su tutti i fronti.

Nel solco dei precedenti film si colloca pure Rita da Cascia di Antonio Leonviola (marzo 1943; 95 min.), fedele trasposizione della biografia della santa umbra vissuta tra il 1381 e il 1447, basato su una sceneggiatura del regista e di Celestino Spada coadiuvati da padre Vanzin. Vi si raccontano le peripezie della giovane contadina Margherita Lotti detta Rita (Elena Zareschi) di Roccaporena (paesino poco distante da Cascia, sede quest’ultima della nota e recente basilica dedicata alla santa che ne conserva il corpo) la quale, assai religiosa fin da piccola e promessa al convento, decide di sposare Paolo (Ugo Sasso), un uomo d’armi, violento e perfino criminale. La sua ferma intenzione è di convertirlo alla fede e l’intendimento si realizza. Molti anni dopo, quando l’uomo viene ucciso in una faida, Rita cerca in ogni modo di fermare i figli (una coppia di gemelli) decisi a vendicare il padre. In una sorta di raptus mistico la donna prega il Signore di riprenderli a sé piuttosto che farne degli assassini; la terribile richiesta viene misteriosamente accolta. Sconvolta dalla morte dei figli, Rita cerca invano di essere ammessa al convento delle suore agostiniane; rifiutata, in quanto vedova, si ritira in un’esistenza di eremitaggio tra le rocce fino al giorno in cui una forza divina la trasporta fin dentro le mura del convento. Scioccata dal miracolo, la madre superiora si affretta ad ammettere Rita tra le suore. In questa comunità religiosa la donna passa gli ultimi quarant’anni della propria esistenza (1407-47), durante i quali ulteriori miracoli e segni divini la circondano.
Rita da Cascia viene beatificata nel 1627 da Urbano VIII e canonizzata da Leone XIII nel 1900.
La pellicola di Leonviola non offre rilevanti qualità artistiche: l’ambientazione è accettabile, la recitazione è abbastanza scolastica e i toni della fotografia sono contrastati quel tanto che serve a ingenerare il senso austero del dramma; il volto di Rita è costantemente illuminato secondo scelte visive scontate come ampiamente didascalica (si veda l’uso delle numerose didascalie informative) è la narrazione nel suo insieme. Se la pellicola fosse stata realizzata nel 1933 o nel 1953 ci sarebbe poco da aggiungere: un onesto prodotto divulgativo. Il fatto eclatante è, invece, che siamo nel marzo 1943 ovvero nei mesi più accesi e disperati del conflitto, dopo anni di martellante propaganda guerriera del regime nella quale si invoca quotidianamente l’annientamento dei nemici e la vendetta nei confronti degli angloamericani, “colpevoli” di numerosi bombardamenti sulle città italiche (come se italiani e tedeschi non avessero attuato la medesima politica “terroristica”  nei confronti delle città inglesi). Di fronte all’accanimento cieco e insensato di un regime ormai prigioniero nel vicolo cieco in cui è andato a cacciarsi, opere come Rita da Cascia, innervate da un profondo e radicale pacifismo e da un viscerale rifiuto di ogni impulso vendicativo (Rita, come si è detto, invoca addirittura la morte dei propri figli pur di non vedere spargere ulteriore sangue), si collocano quindi come lavori controcorrente, silenziosamente antifascisti e allineati con la politica religiosa del Vaticano, contrario all’avventura bellica dell’Italia fin dal primo giorno. Insomma mentre l’Italia ufficiale parla quotidianamente il linguaggio della ritorsione e dell’odio, l’Italia cattolica invoca la rapida conclusione delle atrocità belliche, disconoscendo il valore del patriottismo armato.
Rita da Cascia è l’ennesima conferma di un paese allo sbando che guarda al Papato e alla sua secolare tradizione alla ricerca di un’onorevole via d’uscita dalla tragedia bellica. Il film si iscrive dunque nella consistente seppur minoritaria corrente cinematografica cattolica, corrente che risale a I promessi sposi cameriniani (1941) e che si protrae, negli anni del conflitto, fino a La porta del cielo (1945) di De Sica. Nella seconda metà del decennio essa proseguirà con un certo successo soprattutto grazie ai lavori di Scotese (Il sole di Montecassino; vedi), Blasetti (Un giorno nella virta; Fabiola; vedi) e Genina (Cielo sulla palude; vedi), per poi scomparire nel decennio successivo.
Antonio Leonviola, nato a Montagnana (Venezia) nel 1913, lavora come operatore negli anni trenta e come soggettista e sceneggiatore nei primi anni quaranta. Rita da Cascia è il suo primo lungometraggio.

Per il suo quinto lavoro Luigi Zampa sceglie il dramma teatrale Tha Cardinal (1903) dello scrittore inglese Louis Parker di cui stende la sceneggiatura con Ennio Flaiano, Mario Pannunzio, Riccardo Freda, Gherardo Gherardi e lo intitola L’abito nero da sposa (maggio 1945; 88 min.)  La lavorazione viene interrotta dalle vicende dell’8 settembre, riprende nella Roma liberata e la pellicola esce solo nel dopoguerra. Ciononostante essa appartiene idealmente al clima caotico dell’ultima parte del conflitto, racconta una vecchia e “inutile” storia per proporre nuovi valori religiosi di sapore pacifista, che si muovono controcorrente nella declinante Italia fascista. Anche Zampa, insomma, si affida alla provvidenza e al prestigio del Vaticano nel difficile momento storico.
Nella Roma di Giulio II (1503-13) , Giuliano de’ Medici (Enzo Fiermonte) viene ingiustamente accustao della morte del mercante Chigi (Aldo Silvani), della cui figlia Berta (Jacqueline Laurent) è fidanzato. L’omicida è invece il prode guerriero Strozzi (Carlo Tamberlani) il quale ammette il delitto con il cardinale Giovanni de’ Medici (Fosco Giachetti) fratello di Giuliano (nonché figlio di Lorendo il magnifico) e futuro papa Leone X (1513-21), ma sotto il vincolo della confessione, e poi lascia la città per andare a combattere contro i Veneziani. Nel frattempo l’innocente viene condannato alla decapitazione e solo un abile stratagemma del cardinale – il quale riesce a far ripetere in pubblico al reo il proprio delitto – salva in extremis Giuliano dalla morte.
L’abito nero da sposa è un costante inno alla grandezza universale della Chiesa del Rinascimento, quella di Raffaello (che compare nel film) e di Michelangelo. Tra le sue mura tutto è solennità e giustizia (si noti poi che un Medici non esita a fidanzarsi con la figlia di un mercante, segno del interclassismo implicito nell’ugualitarismo cattolico) mentre l’unico personaggio negativo è il guerriero Strozzi (ovvero il tipo ideale del fascismo) il quale, sebbene sia un eroe di guerra celebrato dal papa, uccide,  ricatta (vuole sposare ad ogni costo la fidanzata di Giuliano) e si comporta in modo vile e cinico. La pellicola termina addirittura con un infervorato monologo del cardinale, in procinto di salire il soglio pontificio, il quale esalta il carattere pacifico e universale della chiesa romana, sotto la cui ala si vuole riunificare nell’amore l’intero mondo civile dell’epoca (si noti che viene citate perfino le terre  “americane”, appena scoperte da Colombo). Nella realtà storica avverrà esattamnte il contrario poiché sarà proprio durante il pontificato di Leone X cha Martin Lutero inchioderà le sue celebri 95 tesi al portale della chiesa di Wittemberg (1517); ma questa è un’altra storia...
La pellicola, ordinaria in ogni suo aspetto (recitazione, ambientazione, dialoghi, organizzazione del racconto) e sostanzialmente noiosa, riveste tuttavia un notevole interesse per il suo carattere discretamente antifascista e filopapale. Il valoroso eroe Strozzi è anche colui che, naturalmente incline alla violenza, non esita a utilizzarla per sordidi motivi mentre la filosofia che guida l’esistenza nello stato pontificio appare improntata a ben altra grandezza, pacifica e universale, regolata dai dogmi cristiani (l’intero intreccio si basa sul rispetto del dogma della confessione).
Le nuove qualità che vengono proposte al pubblico sono allora quelle della fede, della giustizia, della misura, del rispetto dei comandamenti cattolici e della quieta razionalità, qualità che sembrano guidare i gesti di tutti i protagonisti di quell’armonico universo rinascimentale di cui, in qualche modo, si auspica il ritorno nel travagliati giorni della caduta del fascismo.