I pugni in tasca, La Cina è vicina e Amore e rabbia: la rivoluzione come passatempo culturale (1965-69)
Marco Bellocchio esordisce con I pugni in tasca
(lug. 1965; 100 min.), insolita pellicola capace di intercettare gli umori di un’epoca. Vi si narrano le vicende familiare di uno stravagante gruppo di personaggi - quattro fratelli e la loro madre - che vivono in una grande villa alla periferia di Piacenza. Il più adulto dei quatto, Augusto (Marino Masé), è anche l’unico “normale” in quanto ambisce a liberarsi dall’opprimente gruppo familiare e ad andare a stare in città con la futura moglie; al contrario Leone (Pierluigi Troglio), il fratello più piccolo, soffre di un evidente ritardo mentale mentre la madre (Liliana Gerace) è cieca. In mezzo si collocano i due veri protagonsiti del racconto, Alessandro (Lou Castel) e Giulia (Paola Pitagora), fratelli mentalmente disturbati, legati da un rapporto incestuoso (solo accennato per motivi di censura), chiusi in quella realtà locale, privi di rapporti con il resto del mondo.
In particolare Alessandro, giovane frustrato e depresso, annoiato (è lui ad avere i “pugni in tasca”) medita una serie di omicidi per ravvivare la propria quotidianità ed eliminare una serie di personaggi che incombono
sulla sua esistenza. E’ interessante notare che questo spostato elimina innanzitutto quelli più folli di lui o non aderenti ai canoni di normalità ovvero dapprima la madre, poi il fratello minore. Medita anche di eliminare la
sorella, molto simile a lui, ma su quel punto appare indeciso e inconcludente mentre in nessun momento pensa di eliminare il fratello maggiore. Anzi progetta i primi delitti per far piacere a quest’ultimo il quale, pur avendo
notizia delle sue intenzioni, lo lascia fare, intuendo che la cosa può portargli solo dei vantaggi. Al contrario a contatto coi “normali” (la sequenza della festa borghese), Alessandro si mostra relativamente tranquillo,
perfino impacciato. Nel finale Alessandro fa risuonare un disco de La Traviata, canta, balla e mugugna sulle note di Sempre libera degg’io, in un gioco di sovrapposizioni complesse: il giovane arrabbiato approva
l’energia trasgeressiva del canto verdiano (di cui, in fondo, egli è un lontano prodotto) ed al tempo stesso ne detesta il carattere di antichità, di reperto museale (e pertanto lo irride con una serie di smorfie). Al culmine
dell’euforia, egli cade preda di una crisi elpilettica ed invano chiede aiuto all’amata sorella la quale, compreso il proprio di destino di vittima designata, lo lascia morire. Se questa pellicola esprime un desiderio
rivoluzionario, essa lo fa in modo ambiguo e distorto. E’ vero che in mezzo ai tanti reperti arcaizzanti che popolano la residenza di famiglia (foto della reggia di Torino, del re, vecchie riviste di epoca fascista, mobili
ottocenteschi... ) risalta la foto di un Marlon Brando ribelle (quasi certamente da I selvaggi, Benedek, 1954) a simboleggiare la pretesa continuità con la generazione beat degli anni cinquanta ed è anche vero che il
ribellismo radicale e solitario di Alessandro rimanda ad altri protagonisti del Free Cinema inglese di inizio decennio (I giovani arrrabbiati, Richardson, 1959, Billy il bugiardo, Schlesinger, 1963; La doppia vita di Dan Craig,
Reisz, 1964... ); d’altro lato però scaricare la propria frustrazione un po’ malata su congiunti disabili non appare proprio la premessa ideale per aprire le porte alla rivoluzione. Certo si percepisce la rabbia sorda
dell’autore contro un mondo tradizionale, antivitale e spento, clericale e bigotto, ma questo astio antiborghese annovera l’autore semmai tra i seguaci dell’Antonioni della tetralogia dell’alienazione: come il regista
ferrarese, anche Bellocchio descrive una borghesia privinciale depressa e crepuscolare, che vive all’interno di un contesto abitudinario soffocante; e come il suo più blasonato collega, diviene immediatamente oggetto delle lodi
sperticate di una critica militante che non vede l’ora di trovare nipotini di Antonioni, pronti a seguirne le orme nel tratteggiare una classe media portatrice dei peggiori difetti e come tale al tramonto. Ne conseguono premi
ai festival cinematografici, buona stampa e una fama subito ampia. Ciononostante il grande pubblico non cade nella rete e gli incassi sono modestissimi. La pellicola tuttavia possiede indubbi meriti che gli derivano però da
un’altra fonte. Bellocchio contamina il film d’autore di sapore evidentemente autobiografico con la narrazione gotica della tradizione popolare del cinema di Mario Bava (a sua volta debitrice nei confronti del cinema inglese
della Hammer Film e di Roger Corman). L’esplosiva miscela di queste due componenti, apaprtenenti ad universi distinti e distanti, genera un film a suo modo unico e irripetibile, perfino per il suo autore. Una vecchia
residenza isolata, polverosa a antiquata (quasi il luogo unico del racconto), una famiglia di tarati, uno svitato pronto a tutto pur di seguire le proprie ossessioni paranoiche, una vicenda di eredità (la morte della madre
rende tutti liberi e benestanti), un matrimonio osteggiato (quello tra Augusto e la sua fidanzata), una magnifica colonna sonora di Morricone che rielabora il tema del Dies Irae in formule ora angeliche (cori femminili), ora inquiete e dissonanti: ecco gli elementi che danno vita a questa parabola esistenziale che racconta le ossessioni di uno pseudorivoluzionario secondo i canoni del racconto gotico.
I pugni in tasca è l’incredibile prodotto di un giovane (ventiseienne) cineasta colto, attento alle inquietudini (letterarie e filmiche) della coeva cultura borghese, permeabile agli umori iconoclasti della sua generazione come pure affascinato da un universo fantastico arcaico, popolare e immaginifico, che riesce a sintetizzare con buona eleganza e a rendere in qualche modo attuale.
Due anni dopo, con La Cina è vicina
(set. 1967; 100 min.), Bellocchio, coadiuvato in sede di sceneggiatura da Elda Tattoli, firma una pellicola più compiuta e incisiva, realistica e sarcastica allo stesso stempo, in cui le venature gotiche sono completamente scomparse per lasciare il posto a situazioni segnate da un umorismo nero. Recitato pefettamente da tutti i protagonisti, ambientato in una Imola sonnolenta, accompagnato da citazioni cinefile (Visconti, Gilbert) e musicali (Verdi), il film è tra le cose più riuscite del regista piacentino.
In fondo La Cina è vicina (titolo straordinario) è la prosecuzione de I pugni in tasca: i cinque personaggi principali drivano tutti, in qualche modo, dal quartetto del film precedente. L’estremista di turno
si chiama ora Camillo (Pierluigi Aprà): figlio minore di una famiglia nobile e ricca, sogna la rivoluzione, di giorno frequenta la parrocchia (i cui abitanti sono descritti come la conuseta masnada di deficienti) e di notte
imbratta le vie cittadine con scritte inneggianti alla Cina di Mao. Egli ha preso di mira il Psu cittadino (Partito socialista unificato ossia Psi e Psdi), considerato un covo di revisionisti borghesi e traditori, pronti a
sostenere giunte e governi di conservazione pur di accedere al potere. Nel Psu milita poi suo fratello magiore, il prof. Vittorio Gordini (Glauco Mauri), un insulso docente di liceo al quale è stata offerta la carica di
assessore alla cultura da un partito ansioso di presentarsi come rappresentante della borghesia illuminata, lontano da qualunque ambizione comunista o rivoluzionaria. Il suo assistente Carlo (Paolo Graziosi), un vero socialista
di modeste origini, stanco di fare il tirapiedi, punta ora ad accasarsi con Elena Gordini (Elda Tattoli), la ricchissima sorella del professore, così da entrare a far parte di una delle famiglie più importanti di Imola. La sua
amante Giovanna (Daniela Surina), nonché governante in casa Gordini, scoperto il tradimento di Carlo, decide di cedere all’insistente corte di Vittorio. Entrambe le donne saranno messe incinta da Carlo (il professore crede
stoltamente di essere lui il padre del bambino di Giovanna... ) e, alla fine, cederanno ai rispettivi partner. Di fronte a questo quadro disarmante, descritto con graffiante acutezza, le gesta dei tre “cinesi”, Camillo
e i suoi due amici (tra cui un giovanissimo Alessandro Haber), costituiscono un contrappunto brillante e significativo: l’ideologia marxista è solo una povera maschera per la coppia di personaggi adulti mentre appare uno
elemento di sfogo perfino goliardico per i “giovani arrabbiati” i quali cercano una propria differente e nuova identità in questo utopico “nuovo corso”. La gioventù si ribella ad una Tradizione che sembra loro stantia (si veda
la descrizione dell’universo della parrocchia) ed il bersaglio è innanzitutto la famiglia (come nel film precedente) e, subito dopo, il clan dei falsi rivoluzionari (il Psu). In tal senso Camillo agisce in modo non troppo
differente dall’Alessandro de I pugni in tasca, allorché piazza una bomba, di modesta potenza, nel bagno della sede del partito generando il panico nei suoi tranquilli frequentatori in una delle sequenze più divertenti
della pellicola. Certo va anche detto che, di lì a qualche anno, molte bombe scoppieranno in Italia e che quello che ora sembra solo un gioco beffardo (tuttavia la bomba di Camillo avrebbe anche potuto fare delle vittime... )
si trasformerà nei drammatici anni della strategia della tensione anche per opera di individui non troppo dissimili da Camillo. I giovani giocano con la rivoluzione mentre gli adulti la fanno a modo loro: la lotta di
classe esiste realmente ed è quella che i due piccolo borghesi, Carlo e Giovanna, mettono in atto nei confronti della coppia nobile, riuscendo infine ad incastrarla. Bellocchio si rende conto che dietro i finti proclami dei
socialisti c’è poco o nulla mentre il vero scontro di classe si gioca su altri tavoli e secondo altre modalità. La coppia di servi - molto simile ai due fratelli adulti (Paola Pitagora e Marino Masé) de I pugni in tasca -
riesce a divenire padrona dei propri padroni i quali, a loro volta, non hanno saputo resistere alle attrattive sessuali rappresentata dai loro “dipendenti”. La dialettica servo-padrone governa le relazioni sociali e blocca in
una ferrea interdipendenza “ricchi” e “poveri”. Per loro l’esistenza sarà comunque grigia. Gli unici a divertirsi sono, per ora, i giovani “cinesi” che, mantenuti in famiglia e privi di qualunque responsabilità, si baloccano
con ipotesi rivoluzionarie radicali e fantasiose. Molteplici sono poi i riferimenti alla storia della cultura filmica e operistica. Nel corso del racconto Vittorio va a vedere Vaghe stelle dell’orsa (Visconti, 1965), storia incestuosa di un triangolo amoroso che possiede punti di contatto con quello presente nel racconto di Bellocchio. Nell’atrio del cinema si vedono poi i manifesti di Alfie (Gilbert, 1966), storia di un Don Giovanni di provincia il cui protagonista (un eccellente Michael Caine) è assai simile a Carlo; tra l’altro entrambi si confrontano con la tematica dell’aborto allorché mettono incinta le loro compagne, sebbene con atteggiamenti antitetici. C’è infine il rapporto con Verdi, molto simile a quello delineato da Bertolucci in Prima
della riuvoluzione (1964): anche in questo caso alcuni personaggi - Vittorio ed Elena - vanno ad assistere al Macbeth (1846), opera rivoluzionaria per eccellenza (vi si narra sia l’uccisione di una figura paterna, sia la rivoluzione patriottica) e ne risultano annoiati al punto da abbandonare anzitempo il teatro. Come nel caso di Bertolucci, cui certamente Bellocchio fa riferimento, la carica rivoluzionaria di Verdi da un lato disturba quel mondo statico e conservatore, dall’altro la sua stanca ripetizione nei teatri-museo, luogo per eccellenza dell’esibizione del proprio benessere, ha reso quella musica opprimente quanto gli innumerevoli cimeli storici (di grande valore peraltro; c’è perfino la scarpa di un Papa, ennesimo segno del livore antireligioso dell’autore... ) che contiene la loro vasta ed invidiata abitazione. Quest’ultima è infatti la replica di quella che angustiava i personaggi de I pugni in tasca:
una casa-museo antivitale per chi la abita e vi si sente come prigioniero, ma oggetto del desiderio per chi, abituato ad un’esistenza spartana, è costretto a far l’amore su due panchine accostate a mo’ di letto, nella sede del
partito... La Cina dunque è tutt’altro che vicina: sono invece alle porte gli anni della contestazione giovanile come dimostra lo spassoso finale con i tre pastori tedeschi lanciati all’inseguimento dell’ipocrita Vittorio,
durante un inutile e falso comizio elettorale. In definitiva Bellocchio non sembra credere troppo nella sincerità e nella fondatezza delle ambizioni rivoluzionarie di questo universo di provincia ove tutto si risolve in
goliardia e mascherata come dimostrano due altre favolose sequenze: quella in cui una turba di proletari comunisti incavolati distrugge l’auto del falso socialista Vittorio (sul fondale le fotobuste di A 007 dalla Russia con amore irridono i malcapitati Carlo e Vittorio, in quanto dalla “Russia” comunista giungono solo legnate... ) e quella dell’aborto di Elena, interrotto abilmente da Carlo con l’aiuto di un sacerdote di fronte al quale il chirurgo improvvisa una subitanea penitenza, accompagnata da una ricca offerta in denaro per tacitare i testimoni. L’universo siociale descritto da Bellocchio è dunque un luogo di semplici maschere i cui discorsi rappresentano delle mere coperture dei propri reali desideri che riguardano sempre e solo la ricchezza ed il soddisfacimento sessuale.
Il film ebbe un notevole successo di pubblico.
Con l’episodio Discutiamo, discutiamo, posto in conclusione di Amore e rabbia
(mag. 1969; 100 min.), Bellocchio e la Tattoli proseguono e concludono il propio dibattito politico che contrappone la logica rivoluzionaria dei gruppi extraparlamentari al gradualismo revisionista dei partiti della sinistra tradizionale. Dopo avere aspramente sbeffeggiato il Psu, è ora la vota del Pci al quale si riserva il medesimo trattamento.
In un’aula dell’università di Roma, alle cui pareti si notano fotografie del leader nordvietnamita Ho Chi Min, gruppi di studenti discutono di politica e rivoluzione. Gli estremisti di sinistra ripetono le solite formule
stereotipate di Marx nonché inerenti l’ugualitarimo di Rousseau (dogma assoluto sul quale tutto si poggia, in definitiva). Di contro, dapprima un gruppo di studenti conservatori cita Hobbes, parla di uomo naturalmente malvagio
e obietta frasi di buon senso, radicate nella Tradizione (“la differenza tra intelligenti e asini risale all’alba dei tempi, gli esami servono a stabilire se uno studente sa
o non sa...” ) ma che, in quel contesto malato, finiscono per sembrare essenzialmente la voce della reazione impaurita dalle pretese del “nuovo che avanza”. Per la verità Bellocchio sembra non prendere il tutto troppo sul serio e, in fondo, l’aver immerso questo pettegolezzo ideologico (in cui peraltro si teorizza e legittima l’uso della violenza contro i rappresentanti del sistema... ) nel quadro di una mascherata ironica è l’unica cosa a salvarsi dell’episodio. In fondo un tarlo scettico sembra abitare il pensiero del regista piacentino il quale, in fondo, ritrae queste accanite lotte di ragazzi come una mezza pagliacciata, una rappresentazione gratuita e fantasiosa ad opera di una generazione che, nella sua parte più “arrabbiata” e frustrata, vuole farsi notare ad ogni costo.
Il film Amore e rabbia, segnato dal clima della guerra fredda e apertamente schierato dalla parte di Urss e Cina, è costituto da cinque episodi - uno più brutto dell’altro -
affidati ai massimi esponenti del cinema ideologico dell’epoca. Lizzani, ne L’indifferenza, pretende di raccontarci l’insensibilità degli abitanti di New York i quali rimangono appunto indifferenti di fronte ad un
tentativo di stupro e ad un uomo che, gravemente ferito in un incidente automobilistico, invoca l’aiuto dei passanti. Girato per le strade della metropoli americana, l’episodio, vergognoso nella sua falsità, ha il solo pregio
di ritrarre la vita quotidiana di quella straordinaria città. L’acceso clima di tensione e di guerra fredda, nei giorni in cui il conflitto in Vietnam è al proprio apogeo, attraversa anche gli episodi di Pasolini e Godard i
quali, entrambi, discettano con la consueta saccenteria intorno alla necessità di abbandonare l’innocenza in un mondo attravesato da troppe disgrazie e ingiustizie (in La sequena del fiore di carta un Ninetto Diavoli puerile e nullafacente, come ai tempi di Accattone,
corre per le strade di Roma con un fiore di carta, importunando la gente che lavora... ) e di prepararsi alla guerra che sola può traghettare l’Occidente in declino verso il “radioso” futuro del socialismo (l’orribile episodio
“L’amore” sui fidanzati Nino Castelnuovo e Christine Gueho che scoprono di appartenere a classi sociali differenti e, pertanto, si lasciano). Bertolucci, invece, mette in scena una rappresentazione del Living Theatre intitolata Agonia,
in cui si racconta la fine di un vescovo, emblema di una Tradizione morente e ormai sopraffatta dal Modernismo internazionalista. Il film è dunque un esplicito sermone intorno alla religione dell’ugualitarismo e alla sua
inevitabile, futura vittoria, sermone incapace di trasformarsi in spettacolo godibile. Tutte le argomentazioni degli autori si fondano sull’accettazione acritica dell’idea di uguaglianza naturale degli individui, accettazione
che conduce automaticamente verso l’elegia del comunismo. Solo Bellocchio, col suo fare irridente e scettico, mostra di avere qualche dubbio poiché mette in bocca (seppur brevemente) ad uno dei suoi studenti rivoluzionari
l’argomentazione intorno alla credenza nelle qualità innate dell’individuo, vero scoglio su cui si infrange l’intera utopia socialcomunista. Amore e rabbia ha il solo pregio di illuminare, senza possibilità di dubbio, l’ideologia comunista -accolta in modo fideistico, come una verità religiosa - che sottostà alle opere filmiche (quanto meno quelle degli anni sessanta e settanta) di questi importanti e capaci registi del cinema italiano. Sponsorizzato dall’Italnoleggio cinamatografico (ente egemonizzato dal Pci), il film risulta oggi inguardabile ma risultò indigesto anche agli spettarori dell’epoca che disertarono le sale in cui lo si proiettava.
Nonostante le prestigiose firme, la pellicola ottenne incassi vicini allo zero assoluto.
|