I vinti e La signora senza camelie: identità smarrite (1953)
Dopo il notevole Cronaca di un amore, Antonioni attraversa una breve crisi. Il suo secondo lavoro, I vinti
(settembre 1953; 110 min.) viene realizzato dal regista ferrarese senza troppa convinzione, nel probabile tentativo di sbloccare una stato di inerzia creativa. Aiutato da un esercito di sceneggiatori (Turi Vasile, Suso Cecchi D’Amico, Diego Fabbri) Antonioni si ispira a fatti estremi, realmente accaduti, inerenti a delitti commessi per noia da ragazzi borghesi cui non manca nulla e realizza una “cronaca di un omicidio” moltiplicata per tre: a Parigi, a Roma e a Londra. L’autore è palesemente estraneo a quanto viene narrando (dichiarò addirittura: “la “gioventù bruciata” e l’eterno problema dei giovani erano allora un tema discusso quanto oggi, ma a me non interessava per niente: feci il film a freddo...”) e la pellicola si rivela un fallimento artistico e commerciale.
In precedenza Antonioni aveva saputo indagare l’angoscia nichilista di chi intuisce la transitorietà e la nullità dei propri gesti, comparati in una dimensione infinita e perfino cosmologica. Cerca ora di ripetere il
teorema con una materia insulsa, con personaggi di nessun interesse, appena schizzati, con attori poco convinti (pessima l’interpretazione di Franco Interlenghi e Anna Maria Ferrero nell’episodio romano) e con dialoghi
artefatti. Per quanto gli autori traggano i fatti dalla cronaca nera, in realtà essi non riescono in alcun modo a restituire una dimensione convincente delle figure in questione, anche a causa della scelta del film a episodi
che riduce tutto a semplici macchiette per mancanza di tempo. Alcuni studenti francesi (tra essi il futuro regista Jean Pierre Mocky), palesemente idioti, decidono di ammazzare un proprio compagno per rapinarlo e per
commettere un gesto grandioso e gratuito. Nella periferia romana un ragazzo di ottima famiglia fa il contrabbandiere per ansia di guadagno e, inseguito dalla guardia di finanza, dapprima ammazza un guardiano, poi si ferisce in
una caduta; vaga per un intero giorno, va dalla fidanzata a fare una ridicola scena madre di taglio esistenzalista, in cui delira intorno ai temi del tempo, del denaro e della fuggevole giovinezza e, infine, torna a casa dove
muore. A Londra uno psicopatico (Peter Reynolds), desideroso di guadagnare le prime pagine, ammazza un’anziana prostituta, avvisa reporter e polizia del cadavere, scrive sull’argomento articoli in prima pagina e, quando
l’interesse della cosa va scemando, confessa. Finirà sul patibolo. Siamo di fronte a casi talmente estremi e isolati da essere privi di qualunque rappresentatività. Gli sceneggiatori e il regista invece cercano di spacciare
il film per una sincera indagine con la quale si vuole ammonire riguardo a una presunta immaturità della gioventù
nel suo complesso, incorniciando eventi già di per sé “ai confini della realtà” con patetici sermoni sulla facile influenzabilità dei giovani, disposti a tutto pur di avere un momento di notorietà o per sfuggire alla morsa della quotidianità attraverso una rincorsa a facili profitti. Contemporaneamente Antonioni cerca di piegare questa impossibile materia alla propria visione scettica ed esistenzialista, tentando di trasformare questi inconsistenti personaggi in figure ribelli, accecate da una libertà assoluta, pronte a trasgredire tutte le regole sociali di cui avrebbero intuito il ferreo e gratuito dispotismo. Il tentativo parafilosofico di mostrare personaggi tormentati, intenti a costruire un proprio futuro radicalmente diverso (utopico si potrebbe azzardare) da quello iscritto nel loro naturale destino - ovvero di fantasticare esistenze imprevedibili e sciolte dalle determinazioni dell’ambiente - appare letterario e stucchevole, approda a prevedibili sconfitte e sfocia in goffe tirate verbali di matrice teatrale che, tra l’altro, divergono radicalmente da un certo gusto figurativo di derivazione documentaristica che anima le migliori pagine de film.
Il tentativo di ripetere il discorso di Cronaca di un amore (vedi) naufraga quindi penosamente. Manca tutto a questa nuova “avventura”: mancano inquadrature poetiche (con pochissime eccezioni), personaggi a tutto tondo, attori convincenti, musiche espressive (Fusco, realmente ispirato nel film di tre anni prima, è palesemente a corto di idee; per l’episodio romano rispolvera addirittura un commento popolaresco a base di chitarre e mandolini) e, in definitiva, manca un reale interesse del regista per i personaggi che mette in scena. Manca soprattutto il tono amaro e struggente della suggestiva opera prima del regista.
L’episodio londinese risulta il più riuscito proprio perché è il meno “filosofico”: poche divagazioni verbali e un’attenta ricotruzione di un personaggio schizofrenico e del suo ambiguo rapporto con un reporter (gli attori
sono in questo caso di buon livello come pure valido è il sommesso commento pianistico di Fusco) approdano all’unico momento realmente ispirato: la struggente sequenza dell’omicidio, ambientata in una fredda e disabitata
campagna inglese, nella quale si confrontano lo spietato carnefice e una sciagurata prostituta, avanti con gli anni, costretta a vendersi per necessità. Solo in queste immagini Antonioni riesce a raccontarci di nuovo la
tremenda solitudine dell’essere umano e la gratuità dei sui gesti, calati in un universo gelido e privo di amore. Riassumendo, la casa di produzione Costellazione (di ambito cattolico) cerca il film di denuncia morale;
alcuni sceneggiatori attuano il consueto attacco politico al vuoto di valori che segnerebbe (secondo loro) la media borghesia del dopoguerra (gli assassini hanno tutti amorevoli e distratti genitori); Antonioni, infine, tenta
nuovamente l’affresco nichilista secondo modalità superficiali e poco sentite. L’eclettica operazione approda al disastro. Il pubblico, giustamente, boicotta il film. I vinti viene presentato al festival di Venezia 1953 (dove passa inosservato) con grave ritardo sulla lavorazione (avvenuta nel 1952), quando nelle sale era già uscito il terzo film di Antonioni,
La signora senza camelie
(febbraio 1953; 100 min.). Quest’ultimo, sceneggiato insieme a Suso Cecchi D’Amico, Francesco Maselli e Pier Maria Pasinetti, è invece un film di notevole valore, perfino superiore all’opera prima, della quale è una sorta di continuazione e approfondimento.
Vi si narrano le disavventure di Clara, un’altra “spostata” (di nuovo Lucia Bosé), una commessa milanese scoperta da alcuni cinematografari romani e divenuta, in breve, una diva del film popolare. Il produttore Gianni
(Andrea Checchi) se ne innamora, la sposa e cerca di farne un’attrice seria. Viene girata una Giovanna d’Arco che però raccoglie solo fischi alla biennale di Venezia. Clara, donna senza qualità come pressoché tutti i protagonisti del cinema di Antonioni (nel titolo è “senza camelie” ovvero senza la possibilità di provare la passione romantica e totalizzante della Violetta verdiana; nel film del rilancio è “donna senza destino”... ), ha finora subìto un percorso esistenziale che l’ha travolta, senza coinvolgerla nel profondo. Sempre poco convinta, si abbandona a un’avventura extraconiugale con un console (Ivan Desny) che si rivela l’ennesima finzione. Senza marito, senza amante, senza contratto, Clara ripensa la propria esistenza ma in fondo non riese a comprenderla, né a prendere decisioni sentite nel profondo; vorrebbe tornare al cinema “alto” ma non ne possiede l’intima vocazione. Presa dal più totale sconforto, pur di uscire da una situazione di insopportabile vuoto, accetta, tra le lacrime, l’ennesimo insulso filmetto e sorride forzatamente ai fotografi che la festeggiano.
La signora senza camelie è una sorta di rifacimento di Cronaca di un amore, depurato dalla parentesi noir presente nell’opera d’esordio. Qui non ci sono indagini e neppure delitti progettati o reali. Antonioni
si concentra sul ritratto di una donna sradicata e senza valori, alla quale tutto appare indifferente. Il passaggio dalle umili radici milanesi al mondo frastornante e un po’ volgare di Cinecittà è il pretesto narrativo
attraverso il quale l’autore colloca il suo personaggio in un angoscioso vuoto ideale. Clara ha perso i legami familiari (sopporta a fatica i genitori), ha reciso ogni riferimento al proprio passato, senza trovare nel cinema
romano una dimensione realmente appagante. Questa sua perenne insoddisfazione dilaga in tutte le componenti filmiche, dai paesaggi costantemente desolati e piovosi (anche durante l’avventura pseudoamorosa con il console, un
altro “sradicato” che attende dal ministero una qualunque nuova destinazione, cui appare indifferente), alla musica di Fusco, tornata splendidamente scarna ed espressiva (il motivo di quattro note, affidato alla solitudine
timbrica di un quintetto di sassofoni, accompagna la protagonista e deriva in modo inequivocabile dal motivo degli amanti di Cronaca di un amore), fino alla sconcertante bellezza figurativa di ogni singola immagine.
La visionarietà dell’autore - finalizzata all’espressione di un dolore controllato e malinconico - è presente un po’ ovunque: negli scenari di una Roma notturna e popolare nei pressi del cinema Romolo, nelle
architetture di un razionalismo inflessibile che caratterizzano il nuovo palazzo del cinema veneziano, nelle panoramiche che raccontano la corsa in auto con il console in squarci periferici romana sovrastati dalla sagoma
dell’Eur, segno di una dolente (si ascolti la musica di Fusco) illusione imperiale che sembra apprtenere a un passato remoto e, infine, nella sequenza conclusiva a Cinecittà in cui l’auto elegante della protagonista si incunea
faticosamente tra centinaia di anonime comparse, sorta di minaccioso monito per Clara la quale, nella sua sconfortante apatia, rischia di tornare a far parte di quella folla oscura. L’esistenzialismo del primo film, dunque,
si perfeziona in questo ritratto gelido e scostante: assorbito l’abbaglio iniziale, il viaggio verso il nulla emotivo e ideale della neoattrice porta il regista a esporre di nuovo la propria sfiducia assoluta nei confronti del
tessuto sociale, dei suoi valori e dei suoi riti. Il dubbio travolge ogni convenzione, anche quelle più diffuse e popolari quali la ricerca del successo personale e l’esperienza dell’innamoramento; l’orizzonte della donna
appare, inoltre, totalmente estraneo a credenze religiose e a naturali inclinazioni genitoriali. Clara è insomma una vagabonda inquieta, alla disperata ricerca di un rifugio esistenziale che non riesce a trovare né in se
stessa, né nelle persone e nelle attività che la circondano. Invano cerca di alienarsi nell’altro: nella falsa luminosità della macchina-cinema, nell’insperato e peraltro non desiderato matrimonio con un ricco produttore,
nell’avventura improvvisa e falsamente spontanea con un corteggiatore casuale. Ogni volta Clara torna al punto di partenza, svuotata e annichilita, persona umana estranea a se stessa. Il suo destino, identico a quello della
protagonista di Cronaca di un amore, è un destino di amara solitudine che l’autore vorrebbe innalzare a evento esemplare, dotato di un qualche valore universale intorno al senso ultimo dell’umana esistenza. Sia chiaro
invece che il desolato mondo poetico di Antonioni - realizzato per il tramite di Clara - corrisponde a un suo specifico sentire soggettivo ed è radicalmente estraneo ai valori e alle passioni, più o meno discutibili, fondate e
veritiere, che animano il mondo reale. Tale estraneità trova ineludibile conferma nel netto rifiuto del grande pubblico (ieri come oggi) per la sua opera filmica. Il mondo poetico di Antonioni è un fatto individuale e
irripetibile, un’indagine conoscitiva disincantata, tipica di quella ridotta schiera di persone che osserva la realtà “da lontano”, con un freddo sguardo fenomenologico, senza riuscire a partecipare al caotico divenire del
reale. Anaffettivo e gelido, l’autore scruta i suoi infelici personaggi (nei quali si duplica) cui affida il compito di ricordare al mondo che la conoscenza e le umane passioni sono eventi transitori nei quali non a tutti è
concesso di alienarsi felicemente. Riassumendo, non cinema dell’alienazione bensì cinema della sofferenza generata proprio dalla impossibilità di alienarsi nell’altro. In una parola, nichilismo. Questa terza fatica di
Antonioni ottiene un netto, immeritato e comprensibile insuccesso di pubblico (e anche di critica), nonché la scontata condanna del Centro Cattolico
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