Il Brigante di Tacca del Lupo e Gelosia

La presidentessa, Il brigante di Tacca del Lupo, Gelosia e Amori di mezzo secolo: storie da dimenticare (1952-54)

          «Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio,
          prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto,
          che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante
          che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita.
          Coloro che in onta degli ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo
          di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo
          ove si trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile
          e militare autorità, verranno immediatamente fucilati ...”
          Pietro Fumiel, colonnello della Guardia Nazionale a Cosenza (1862)

          “La storia è una bugiarda... una gran mignotta che si vende a chi paga di più”
          G. Caponetti, Quando l’auto uccise la cavalleria (2011)

Pietro Germi, dopo aver firmato tre polizieschi e due film di denuncia civile - tutti animati da un’alta tensione drammatica - si prende una vacanza e gira La presidentessa (ottobre 1952; 87 min.), versione filmica dell’omonima, fortunata pochade teatrale (1912) di Maurice Hennequin e Pierre Veber.
Vi si racconta il vorticoso girotondo intorno alle grazie della disponibilissima Gobette (Silvana Pampanini), stella del Moulin Rouge la quale, per complicate circostanze, viene scambiata per la moglie (Ave Ninchi) dell’austero e burbero presidente Tricointe (Luigi Pavese) del tribunale di una cittadina della provincia francese. Se ne innamorano un po’ tutti e, in particolare, il potente ministro della giustizia (Carlo Dapporto) il quale amoreggia con la donna dapprima in casa del magistrato, poi nell’ufficio ministeriale parigino dove peraltro si avvicendano gran parte dei personaggi: la vera presidentessa in cerca di una promozione per il marito, il presidente nominato dal ministro a cariche sempre più alte, l’aiutante (Aldo Bufi-Landi) del ministro il quale viene sedotto da Gobette e, al tempo stesso, dichiara il proprio amore alla figlia stravagante (parla solo inglese; Marilyn Buferd) del presidente...
All’epoca Germi dichiarava di avere accettato l’incarico per semplice curiosità; sulla mancanza di valore del proprio apporto egli affermava infatti: “E’ come se uno mi  chiedesse: <mi porti questo pacco intanto che vai lì ?>” ed in effetti non possiamo che concordare con lui. Di fatto la regia è anonima: nulla aggiunge e nulla toglie a questo testo teatrale, tutto girato in interni. Gli attori sono brillanti e perfettamente calati nelle rispettive parti (ci sono inoltre Aroldo Tieri e Gugliemo Barnabò) anche se il film nel suo insieme appare un prodotto di routine, poco coerente con l’abituale comicità del cinema italiano. L’artificiosa ricerca di un ritmo forsennato, nel quale i colpi di scena si sovrappongano senza sosta, finisce per stancare e per rendere l’operazione stucchevole. Non si ha il tempo di gustare l’assurdità di una situazione che regia e testo passano a quella successiva e via dicendo, provocando un sovraffollamento di temi e situazioni che Germi gestisce come può. D’altronde questa era la logica delle farse francesi, le quali volevano, in tal modo, animare oltre misura l’azione che stava su un palcoscenico “lontano” dal vasto pubblico delle platee teatrali; al contrario il più variegato linguaggio filmico (differenti tipologie di inquadrature, movimenti di macchina, uso del montaggio e della musica...) possiede mezzi assai più sofisticati per affascinare lo spettatore e, dunque, queste meccaniche e un po’ ottuse trasposizioni teatrali - decisamente anticinematografiche - risultano sempre alquanto deludenti. Sono semmai strumenti didattici, utili a far conoscere a un più vasto pubblico il repertorio teatrale.
Gli incassi sono modesti. Nel 1977 Luciano Salce firmerà una nuova trasposizione filmica de La presidentessa, con Mariangela Melato nel ruolo principale.

Nello stesso mese esce anche Il brigante di Tacca del Lupo (ottobre 1952; 95 min.), pellicola di ben altra importanza, liberamente basata su un raccconto (1942) di Riccardo Bacchelli adattato allo schermo da Tullio Pinelli e Fausto Tozzi. Germi è il primo e forse anche l’unico regista ad occuparsi del brigantaggio meridionale negli anni immediatamnete successivi all’unità d’Italia ossia di un argomento tabù, accuratamente evitato da storici e letterati in quanto conflittuale con l’idea eroica di un Risorgimento unitario e frutto di una volotà nazionale unanime. Nelle campagne del sud per molti anni operarono folti gruppi di insorti i quali professavano fedeltà ai Borboni, erano ben visti dal Papato (che resistette fino al 1870) e godevano di estesi appoggi nelle popolazioni locali illetterate le quali, a stento, sapevano chi fossero i Savoia e dove si trovava il Piemonte. In tempi recenti l’argomento è stato ripreso ed approfondito da studiosi della destra cattolica più fieramente antimassonica (in buona parte vicini all’Opus Dei) nel tentativo di raccontare la cruda realtà di quegli anni, illuminando le ragioni degli insorti e le numerose nefandezze compiute dagli eserciti dei Savoia i quali venivano percepiti come truppe di occupazione di una potenza straniera.
Germi, invece, in quel lontano 1952, fu certamente colpito dagli eventi della banda Giuliano (vicende che, in qualche modo, erano già ben presenti nel controverso e problematico In nome della legge, 1949; vedi) e decise di rievocare lo scenario dei primi anni dell’Unità (siamo nel 1863 nei dintorni di Melfi, in Basilicata) in quanto sembrava una situazione molto simile a quella siciliana  del dopoguerra, con i movimenti del MIS (il Movimento indipendentista siciliano di Finocchiaro Aprile) e con le gesta di Giuliano, supportate all’inizio da potentati locali e perfino dai servizi segreti americani in funzione anticomunista.
Il film di Germi - notevole da tutti i punti di vista -  ripete gli stereotipi di In nome della legge, ma lo fa tenendo conto del suo recente capolavoro Il cammino della speranza e della capacità, maturata in quel contesto, di raccontare le classi sociali e gli individui a tutto tondo, senza incasellarli in modo manicheo. Ecco dunque il militare venuto dal nord (Amedeo Nazzari al posto di Massimo Girotti), eroico, deciso ma anche un po’ ottuso e sordo alle ragioni di una terra che non capisce il quale si scontra con il bandito Raffa Raffa (Oreste Romoli al posto di Charle Vanel) il quale, a capo di un piccolo esercito personale (come quello di Giuliano) arringa le popolazioni contro l’autoritarismo dei Savoia, incendia, impicca e uccide. Sembra un eroe degli umili, ma poi scopriamo che rapisce e stupra anche le mogli della sua gente (più avanti ci accorgeremo che anche i bersaglieri “peimontesi” non sono dei santi e alcuni di loro, mentre perquisiscono le misere abitazioni meridionali, non esitano ad appropriarsi dei pochi ori che trovano). Dunque due forze ostili si scontrano e si fanno una guerra totale, spietata da entrambe le parti (il brigante fa impiccare tre soldati rapiti e il colonnello piemonese fa fucilare tre paesani che nascondevano un brigante), che non concede al pubblico di identificarsi con gli uni o con gli altri. In mezzo c’è l’ampia zona grigia della gente comune per la quale poco cambia se a un re borbone si sostituisce un re piemontese e che cerca di sopravvivere con ogni mezzo, obbedendo ora agli uni, ora agli altri. Appare evidente che in questa sorda e sanguinosa lotta Germi introduce anche i ricordi della recente guerra partigiana con le troppe scellerateze commesse sia dai nazifascisti, sia dai partigiani, sia dalle truppe alleate sempre e solo a danno della gente comune (la stragrande maggioranza) che non avrebbe voluto entrare in guerra e che avrebbe voluto uscirne il prima possibile. In questi contesti (1863; 1943-45; 1945-48 nella Sicilia di Giuliano) minoranze fanatiche si combattono, si nascondono sui monti, mettono a soqquadro i paesi, pretendono collaborazioni patriottiche che possono costare la vita senza cambiare l’esito dello scontro mentre gli tutti altri - la gente comune -  aspettano che “passi la nottata”.
La simpatia degli autori è tutta per il commissario Siceli (un bravissimo Saro Urzi), un ex poliziotto meridionale passato coi Savoia, il quale evita ogni eccesso, comprende le ragioni delle masse (cerca anche di speigarle al “sordo” Giordani) e opera con furbizia sconfiggendo Raffa Raffa sul suo terreno. Siceli infatti utilizza il feroce risentimento di Carmine (Vincenzo Musolino), marito che si è visto sottrarre e violentare la moglie Zita Maria (Cosetta Greco) e lo convince a collaborare con l’esercito “piemontese” affinché possa, per quel tramite, ottenere giustizia. Giordani segue, non senza una profonda diffidenza, questo anomalo confidente e sconfigge i briganti grazie a una questione d’onore tutta meridionale. Insomma Siceli sa che per comandare sulla natura bisogna “obbedire” alle sue leggi e non imporre astrattamente un ordine e uno stile di vita non congruenti al contesto sociale.
Nelle battute finali il capitano Giordani rende omaggio a un tenente borbonico che ha combattuto ed è morto tra le fila dei briganti, così da nobilitare in qualche modo anche le ragioni dei vinti.
Il racconto flmico, condotto con grande senso dello spettacolo (non c’è una sequenza inutile) offre un ritmo serrato e coinvolgente, un montaggio essenziale, inquadrature ben costruite senza divenire calligrafiche, un utilizzo perfetto delle belle musiche “operistiche “ di Rustichelli (già autore del valido commento sonoro de Il cammino della speranza), organizzate in precisi Leitmotive (uno per le marce militari, uno per il dramma della fuggiasca Zita Maria ecc.) ed infine uno sguardo alla grande lezione hollywoodiana del western (senza esagerare) che finisce per modellare la grande caccia ai briganti lungo paesaggi impervi alle avventure dei pionieri e degli eserciti statunitensi perennemente alle prese con le spietate bande indiane sul piede di guerra. In quest’ultimo caso poi l’assonanza è d’obbligo visto che indiani e briganti sono genti spodestate dai propri territori a causa del sopraggiungere degli eserciti di una potenza “straniera”.
In ogni caso non esiste alcuna morale: Germi osserva con accorato scetticismo questa sorta di guerra civile, festeggia (nel finale) l’Italia unita ma appare perplesso di fronte alle estese violenze di entrambe le parti in lotta (i morti furono decine di migliaia nell’arco di oltre un decennio) e di fronte a quelle popolazioni meridionali che percepiscono il nuovo “regime” come una iattura e un’intrusione violenta da parte di una cultura settentironale differente, certamente più moderna e dinamica, ma non per questo considerata un modello da seguire. Anche la controversa riconciliazione finale di marito e moglie - quest’ultima “disonorata” per sempre da Raffa Raffa - avviene sull’onda dell’entusiasmo generale per la vittoria dei bersaglieri e senza alcuna reale felicità da parte degli interessati: è uno dei primi frutti di una Modernità settentrionale che tende a forzare i costumi di una Tradizione forse troppo cruda, ma, in ogni caso, radicata nei costumi sociali di quelle genti.
Sebbene il film possa vantare un carattere serrato e spettacolare e un soggetto decisamente insolito e originale, il grande pubblico non sembra interessarsene troppo: il successo è buono ma tutt’altro che travolgente. La critica dell’epoca - egemonizzata dalla sinistra - liquida con sufficienza la pellicola, accusandola di essere una sorta di western meridionale e di non avere approfondito il tema storico. Germi era un regista poco malleabile, generoso ma tutt’altro che schierato, e dunque non otteneva attenzioni di alcun genere dai “sacerdoti” del “neorealismo”, tanto più ora che andava a toccare un tema delicato come quello dell’Unità d’Italia, inserendovi velate critiche all’opera di Garibaldi (pur sempre un eroe dei progressisti) e cercando di comprendere le ragioni del conservatorismo meridionale ossia del nemico storico delle sinistre italiane. Il brigante di Tacca del Lupo è l’ennesimo film di valore boicottato dalla nomenclatura culturale per motivi politici.
Lo scottante argomento del brigantaggio meridionale tornerà di sfuggita solo in O’ re (Luigi Magni, 1989), affettuoso ritratto di Francesco II (Giancarlo Giannini) in esilio a Roma negli anni sessanta dell’Ottocento: nella rievocazione - di taglio televisivo e spesso viziata da un generico macchiettismo - si accenna al legame esistente tra una “resistenza” borbonica e il re esule. L’autore guarda con indulgenza a briganti e lealisti mentre accenna (con prudenza, senza insistere e approfondire... ) alle repressioni crudeli poste in atto dalle autorità piemontesi nel meridione conquistato.

Dopo La presidentessa, Germi firma una seconda trasposizione filmica con Gelosia (ottobre 1953; 90 min.) dal noto romanzo Il marchese di Roccaverdina (1902) di Luigi Capuana. Si tratta di un dramma passionale estremo incentrato intorno alla figura dell’aristocratico protagonista il quale, incapace di sposare la serva-amante Agrippina Solmo, decide di darla in moglie a Rocco Criscione, un altro suo dipendente, a patto che il matrimonio sia fittizio e che egli possa continuare a fruire dei favori della donna. In seguito il marchese, travolto dalla gelosia, ammazza Rocco; viene arrestato l’innocente Neli e il protagonista finisce prigioniero di un rimorso che diviene pazzia allorché Neli muore in carcere, lasciando una moglie e tre figli nella più desolata solitudine.
Il romanzo era stato già portato sullo schermo da Poggioli (1942; vedi) in una pregevole pellicola dal taglio elegante, teatrale e distaccato. Germi si muove in un differente contesto visivo e filmico. Innanzitutto privilegia gli esterni, al punto che il film sembra a tratti la continuazione de Il brigante di Tacca del Lupo (tra l’altro il ruolo di Rocco è affidato a Vincenzo Musolino che, nel film con Nazzari, interpretava il ruolo di Carmine), tanto più che la colonna sonora, firmata ancora dal bravo Rustichelli, utilizza anche ora temi di stampo operistico ed in particolare risalta il Leitmotive (di ispirazone wagneriana) della passione e poi del rimorso del marchese, idea musicale che attraversa il racconto in modo ossessivo. L’intero film possiede un taglio melodrammatico che lo rende - grazie all’onnipresenza della vibrante colonna sionora - una sorta di opera lirica per immagini.
Germi e i suoi sceneggiatori (Giuseppe Berto e Giuseppe Mangione) da un lato spettacolarizzano il racconto, utilizzando bene i pietrosi esterni, la magnifica residenza barocca e le stradine del paesino siciliano, dall’altro approfondiscono il lato dostoeskiano del romanzo (il rimorso che assilla il protagonista e che finirà per ucciderlo è una variante di quello che tormenta Raskolnikov in Delitto e castigo), procedendo, nella seconda parte, verso una narrazione sempre più cupa e sofferente in cui Germi si ispira, con notevole efficacia, agli stilemi visivi dell’espressionismo tedesco e del noir hollywoodiano. Certamente il rischio è quello di una saturazione un po’ programmatica che si sente nel capitolo conclusivo, nel quale, tra l’altro, si inventa un’evasione dal carcere di Neli che muore nella piazza del paese, ucciso dalle forze dell’ordine, sotto gli occhi di un marchese ormai semifolle; nel romanzo Neli muore in carcere.
Nonostante le numerose forzature narrative - innanzitutto quella abbastanza assurda di un marchese che ammazza Rocco il giorno delle nozze, anziché (come nel romanzo) dopo alcuni mesi di sua convivenza con Agrippina - forzature tese a rendere più ”cinematografico” il racconto letterario, Gelosia possiede una notevole coerenza stilistica, un’insolita potenza espressiva e una perfetta scelta dei caratteri e dei dialoghi. In particolare la schizofrenica realtà in cui vive il marchese (un ottimo Erno Crisà) - divorato dall’amore per Agrippina (Marisa Belli, brava non abbastanza bella per il ruolo) ma anche consapevole dei doveri impliciti nel proprio ruolo di aristocratico - viene resa con tremenda efficacia dal regista il quale si avvale di un’incisiva Paola Borboni nel ruolo dell’implacabile zia che ricorda al nipote l’assurda e un po’ ridicola posizione in cui è venuto a trovarsi. La pressione di quest’ultima finisce per obbligare il marchese a cacciare Agrippina e a sposare la nobile Zosima (). E’ notevole il fatto che Germi, anziché aderire al facile e ricorrente sentimentalismo da fotoromanzo (peraltro in sintonia col pubblico a prevalenza popolare delle sale cinematografiche) il quale si coniuga poi con l’astratta visione progressista (quella consueta dell’eterna aspirazione ad un universo degli uguali), osserva la situazione con obiettività e illustra la difficoltà reale - gli obblighi generali verso il casato e verso il patrimonio - in cui si dibatte il marchese il quale finisce, appunto, col cedere alle regole della Tradizione, anche se questo gli costerà la follia e la morte.
Proprio questo taglio narrativo anomalo, maturo e storicamente credibile, porta probabilmente il film verso un totale insuccesso di pubblico e critica. Al grande pubblico non piace questo eccessivo rispetto delle convenzioni nobiliari, sentite ovviamente come obsolete negli anni cinquanta; alla critica “illuminista” non piace la scelta conservatrice del marchese (osservata con una certa comprensione dal regista) che, infine, caccia la contadina e sposa la nobildonna. Ai cattolici infine non piace la passione pressoché amorale del marchese e il suo lungo concubinaggio con Agrippina. Gelosia insomma scontenta tutti ma regge nel tempo, senza essere un capolavoro.

L’anno successivo Germi si limita a collaborare al modesto film a episodi Amori di mezzo secolo (febbraio 1954; 100 min.), pellicola costituita da cinque raccontini che delineano differenti questioni amorose in sequenza cronologica. Il titolo riprende quello del fortunato Canzoni di mezzo secolo (Paolella, 1952), seguito poi da Canzoni, canzoni, canzoni (Paolella, 1953); d’altronde il produttore di quei film, Carlo Infascelli, è anche il produttore della pellicola in questione. A differenza del dittico “canoro”, il nuovo film è un solenne (non immotivato) fiasco commerciale.
Glauco Pellegrini in L’amore romantico narra l’infelice storia di una ragazza nobile (Leonora Ruffo) che ama un pianista di valore (Franco Interlenghi) ma viene obbligata dal padre (Carlo Ninchi) e dalla zia (Paola Borbone) a sposare un ricco nobile; come in Lucia di Lammermoor (Donizetti, 1835), il protagonista - a lungo assente per l’attività concertistica - irrompe sconvolto sulla scena delle nozze. L’episodio è un compitino prevedibile nel quale si apprezza soprattutto la scelta dei brani musicali, in particolare il cupo 2° movimento In modo di una marcia del Quintetto op. 44 di Schumann (in seguito magnificamente valorizzato dal Bergman di Fanny e Alexander) nei suoi due temi contrapposti, una irrigida e lugubre marcia funebre e un contrastante, ampio tema cantabile a sintetizzare speranze e delusioni della vicenda.
Il secondo tassello, Guerra 1915-18, diretto da Germi inscena la triste vicenda di una coppia di ingenui contadini abruzzesi alle soglie della Grande Guerra. Il giovane lascia la moglie incinta (Maria Pia Casilia, scoperta dal De Sica di Umberto D) e si reca inconsapevole alla guerra, scambiandola per un piacevole diversivo: morirà alla prima uscita dalle trincee negli stessi giorni in cui la moglie dà alla luce suo figlio. La vita e la morte si avvicendano senza far complimenti in questo episodio che è certamente il migliore del film; si tratta anche dell’unico racconto che gode di un’ariosa e credibile ambientazione tra le strade di un paesino del centro Italia (non immemore della moda rurale iniziata con Due soldi di speranza Castellani, 1952; va ricordato che Pane amore e fantasia esce nel dicembre 1953 e dunque non può avere influenzato Amori di mezzo secolo).
L’universo contadino viene tratteggiato come un mondo a parte, arcaico e statico, nel quale gli eventi della modernità (ossia delle metropoli) giungono attutiti e spesso incomprensibili. Perché ci sia questa carneficina al nord, perché uno Zeppelin solchi i cieli (visione improvvisa, inquietante e suggestiva) e che cosa dica realmente un “certo D’Annunzio” (così lo definisce il protagonista) non è affatto chiaro agli abitanti del paesino; ciononostante la Modernità si occupa di loro, infligge pesanti lutti e, di lì a poco, cancellerà quel tipo di universo conchiuso.
Il terzo episodio, Dopoguerra 1920, di Mario Chiari, scenografo e regista occasionale (quattro film in vent’anni), mette in scena un Alberto Sordi spaesato nei panni di un fascista della prima ora che si abbandona (senza reale convinzione) a tutti gli stereotipi dell’ardente milite mussoliniano: abbandona la fidanzata provinciale (Silvana Pampanini), amoreggia nei tabarin romani e subisce poi la vendetta della giovane che lo raggiunge nella capitale divenendo una star del cinema muto. Interamente girato in interni, il racconto appare fiacco e sconclusionato. Sordi, reduce dal grande successo de I vitelloni (Fellini, 1953) non è ancora a proprio agio in questi ruoli segnati da ipocrisia e opportunismo che lo renderanno famoso.
Il quarto racconto, Napoli 1943, firmato da Rossellini è un verboso ritrattino di due giovani - un militare (Franco Pastorino) e una “fatina” (Antonella Lualdi) - colti da amore improvviso in un rifugio antiaereo situato nelle vicinanze del Teatro San Carlo (la giovane indossa appunto un costume di scena). Usciti all’aperto i due amorosi rimangono uccisi dai bombardamenti. L’ambientazione in un ambiente chiuso, con figuranti che indossano vestiti di scena (al momento dell’allarme antiaereo era in corso una rappresentazione), raddoppia l’effetto teatrale e affonda l’episodio in un mare di parole. La presunta riflessione su amore e morte resta al palo.
Con Girandola 1910, girato da Pietrangeli, si torna agli inizi del secolo con una storiella il cui modesto humour si perde in una noiosa ripetitività. Un compiacente medico (Carlo Campanini) invita una lunga serie di persone - implicate in relazioni extraconiugali - a moderare gli ardori sessuali, diagnosticando loro inesistenti malattie. Nella girandola il medico finirà con l’incontrare la propria moglie...
I colori pastello del film, delicati, spenti e vagamente irreali, accentuano il carattere teatrale (i sipari che si alzano e abbassano sono numerosi) di un’opera girata con scarsi mezzi in scenari per lo più fittizi e certo non aiutano a far decollare questi generici episodi. Con l’eccezione di quello di Germi, gli altri partono da un’idea modesta, spesso anzi usurata, e non riescono in alcun modo a vivificarla, nonostante il notevole cast.