Inviati speciali, Gente dell’aria e I trecento della Settima: ardore bellicista e gelo kafkiano (1943)
“La cinematografia deve essere strumento in mano del Duce per la
educazione culturale e politica del popolo” A. Gravelli (1942)
“Tenere il valico ad ogni costo: sacrificare tutta la compagnia, se necessario” dialogo ne I trecento della Settima
Romolo Marcellini, originario di Macerata (n. 1910), esordisce come regista con il film “africano” Sentinelle di bronzo (1937). Qualche anno dopo firma il modesto e timido Inviati speciali
(aprile 1943; 80 min.), un contributo poco convinto al cinema di propaganda bellico. Questo soporifero filmetto, basato su un soggetto di Asvero Gravelli (direttore della rivista mensile Antieuropa e collaboratore del rosselliniano Uomo dalla croce),
sceneggiato dal regista, da Ennio Flaiano e altri, finge di parlare di vicende belliche e in realtà si concentra sulla storia d’amore tra due reporter di guerra, Riccardo Marini (Otello Toso) e Lidia Warren (Dorotea Wieck), che
appartengono a fronti opposti; insomma un aggiornamento dell’eterno schema di Romeo e Giulietta. La vicenda viene narrata in flashback quando, sul fronte libico agli inizi della guerra, i due si ritrovano in modo
rocambolesco: in Spagna nel 1938-39, mentre la guerra civile volge al termine e l’Euopa esulta per le speranze di pace insite nel patto di Monaco (il film mostra Hitler e Mussolini in alcune immagini documentarie di tale
evento), i due giornalisti si conoscono mentre sono al seguito delle truppe di Franco. La presenza di Lidia per la verità è poco verosimile, trattandosi di un’americana, e infatti la donna è sospettata di essere un’informatrice
dei repubblicani. Gli autori tuttavia poco approfondiscono tale stravagante situazione, così come lasciano in un fondale sfocato tutti gli eventi bellici che costituiscono il contorno della storia amorosa, mentre abbondano nel
mostrare i due protagonisti in occupazioni frivole (ristoranti di lusso, teatri, alberghi internazionali ecc.) o di quotidiana routine (nonostante l’argomento, la pellicola è girata prevalentemente in interni privi di ogni
interesse, mentre le poche sequenze belliche sono fiacche e poco articolate). A tratti potrebbe perfino affacciarsi l’idea di un messaggio criptopacifista, legato alla presenza di questo insolito legame amoroso tra un
italiano (che peraltro viene descritto come un patriota convinto) e un’americana (peraltro di lontane origini italiane). Seguono però alcune obbligatorie puntualizzazioni: la donna è in effetti sorella di uno spietato
commissario comunista e presto abbandona l’amante per tornare al di là delle linee. Marini, smarritosi oltre le linee, viene poi catturato dagli spietati socialcomunisti i quali, al minimo sospetto, processano e passano per le
armi chi capita. E’ questa l’unica pagina di propaganda raggelante ed esplicita, attenta a ricordare, attraverso la Spagna del 1939, che il nemico sovietico incombe spietato e che, dunque, bisogna sopportare stoicamente la
tragica, nonché stupida (considerando innanzitutto le forze in campo, oltre alle ovvie obiezioni di natura morale che rendono ripugnante qualunque guerra di invasione e colonizzazione), campagna di Russia. In tale episodio
si percepisce la preoccupazione del Gravelli rivoluzionario intransigente e dinamico, preoccupato di esportare la rivoluzione fascista in Europa (è il punto di massima vicinanza con il già citato Uomo dalla croce,
ambientato appunto sul fronte russo). D’altronde la pellicola, girata tra la fine del 1942 e gli inizi dell’anno seguente, esce allorché i fatti terribili e definitivi di Stalingrado e della confusa ritirata italiana sono
materia di cronaca quotidiana; pertanto gli atteggiamenti di fiero incitamento alla lotta (come si è detto assai circoscritti), presenti nel film, sono destinati a cadere nel vuoto. In ogni caso Inviati speciali non sembra esemplificare in modo convincente le intenzioni di Asvero Gravelli, tra l’altro rappresentante del regime presso l’Enic (Ente Nazionale Industria Cinematografica) e soprattutto uno dei fondatori, nonché presidente del consiglio di amministrazione, della Littoria Film, casa produttrice del film di Marcellini.
Sfuggito poi alla morsa delle disumane autorità socialiste grazie al decisivo aiuto di Lidia - la quale, per amore, tradisce i compagni e addirittura ne ammazza uno - Marini si ricongiunge ai suoi. Non mancano,
disseminati entro i numerosi dialoghi sentimentali della coppia, significative riflessioni che rimandano al fondamentale conflitto di Modernità e Tradizione e sfociano nella tematica della “redenzione” morale della
protagonista: non appare casuale che l’unica giornalista del film appartenga al fronte nemico, democratico- socialista (nella sequenza dell’incontro, un Marini esausto insiste per dormire nella stessa stanza e letto di un
collega che non conosce e che, il mattino seguente, scopre essere Lidia; neppure per un attimo lo sfiora l’idea che il collega possa essere di sesso femminile, poiché nell’ottica nazional-fascista, l’inviato al fronte deve per
forza essere un uomo). Solo in quell’ambito è possibile che una donna si sottragga ai propri impegni di moglie e madre, di creatrice della vita, per andare a sprecare la propria esistenza sui campi di battaglia (ovvero in un
contesto totalmente maschile); solo l’Occidente “avvelenato” dalle ideologie massonico-democratiche può giungere alle distorsioni egualitarie più estreme come quella di immergere una bella ragazza entro ambienti camerateschi e
violenti (sul fronte africano la vediamo su un mezzo corazzato inglese, in avvicinamento alle postazioni nemiche, “armata” della sua macchina fotografica, in immagini francamente ridicole). Di tanto in tanto però, a contatto
col “sano” e fascista Marini, sognando di casetta coniugale e futura prole, Lidia percepisce l’assurdità del proprio stato e si confessa stanca di quel tipo di esistenza. Nel finale tuttavia Gravelli e Marcellini la fanno
morire, vittima ovviamente dei colpi di mitragliatrice di un aereo inglese. Quell’amore è in definitiva impossibile e la ragazza risulta troppo compromessa da un passato oscuro, speso al servizio delle “forze del Male”. E’
insomma questo il sottotesto più interessante (sebbene realizzato in modo scolastico e inefficace dagli autori della sceneggiatura), quasi certamente attribuibile al pensiero di Gravelli: una riflessione sull’antitetico ruolo
della donna all’interno delle due culture antagoniste. D’altro canto va rilevato che, se una sciocchezza appariva la presenza della ardita reporter sugli scenari bellici, cosa pensare allora del passo ulteriore - in aperto
spregio alle regole della Natura - compiuto dalle moderne democrazie che hanno voluto adirittura arruolare l’altro sesso tra le forze militari attive? Lo spavaldo, dogmatico e potente ugualitarismo massonico ha veicolato la
figura femminile fino al suo radicale rovesciamento - da creatrice della vita a macchina da guerra - ottenendo peraltro “notevoli successi” come dimostra la presenza, tra gli spregevoli torturatori della prigione irachena di
Abu Graib, di almeno una donna soldato.
Ben altrimenti patriottico e fascista risulta Gente dell’aria
(marzo 1943; 80 min.), uno degli ultimi esempi di film “integralista” quanto a fede ideologica e incitamento all’impegno militare, spinto fino al sacrificio di sé. Basato su un soggetto di Bruno Mussolini (il figlio del duce, morto a Pisa nell’agosto 1941, durante un volo di collaudo di un quadrimotore), sceneggiato tra gli altri da Renato Simoni, Giorgio Pàstina ed Esodo Pratelli, nonché diretto da quest’ultimo, racconta le vicende umane di due fratellastri, (Gino Cervi e Antonio Centa), figli di un industriale che produce aerei da guerra, il primo valoroso pilota e il secondo imboscato nella ditta paterna. Tra i due non corre buon sangue; tuttavia l’esempio del primo induce alla fine il secondo ad accettare il richiamo militare appena ricevuto. Di fronte a tale evento l’altezzosa madre, rappresentante tipica di quell’alta borghesia lassista odiata dal regime e messa alla berlina in quasi tutti i film del periodo, cerca di convincere il figlio ad avvalersi delle conoscenze del padre per rimanere in ditta, laddove quest’ultimo, gran lavoratore di umili origini (esempio concreto di logica corporativa, in quanto questo “padrone” tratta in modo paritario e amichevole tutte le maestranze), loda la decisione del giovane di andare finalmente a combattere. Così i due fratellastri si ritrovano nel medesimo campo d’aviazione dove, nel “gioioso” clima cameratesco, superano ogni malinteso. Durante una missione il loro bombardiere viene colpito: l’equipaggio finisce su un canotto dove attende l’arrivo dei soccorsi. Senza cibo e senza acqua, sfiniti dal sole, dopo tre giorni circa, avvistano un convoglio di navi nemiche: nonostante gl uomini siano prossimi alla morte, decidono di non chiedere aiuto (per non finire prigionieri) e di attendere il miracolo, il quale puntualmente (trattandosi di cinema di propaganda) avviene: in extremis un idrovolante italiano li avvista e li porta in salvo.
L’aeronautica, arma fascista per eccellenza (creata e “coltivata” dal regime a differenza dell’esercito e della marina, fedeli alla corona), è l’ambiente prediletto di tanto cinema bellicista, volto ad esaltare l’ “uomo
nuovo” creato dal regime. Con la pellicola di Pratelli siamo ormai agli sgoccioli (il successivo, per certi aspetti simile Uomini e cieli di De Robertis, resterà incompiuto nel 1943 e verrà terminato solo dopo la fine della guerra): tra un profluvio di saluti romani (gesto tutto sommato quasi assente nella cinematografia del periodo), con il contributo di attori di prima grandezza come il sempre incisivo Gino Cervi, il racconto ripete gli stereotipi della esaltante vita in caserma, del coraggio indomito degli aviatori, delle fanciulle che, a casa, attendono con fede incrollabile, il ritorno dei loro fidanzati (una lunga sequenza illustra le gioie del militare in licenza, circondato da caste e devote fanciulle) e soprattutto insiste sul lugubre tema della “bella morte”. Se da un lato permane quell’ottica rassicurante, tipica di queste pellicole, riguardo alle perdite umane (pochissimi i morti, spesso solo citati e non mostrati nella loro crudezza), d’altro lato si riflette ora sulla necessità di rimanere fedeli alla causa fino al sacrifico estremo, secondo una logica quasi teutonica e nazista. In un film nel quale è completamente assente l’elemento cattolico (tanto frequentato in questi difficili anni di transizione), il punto cruciale è proprio la lunga sequenza conclusiva in mare. Per due volte il gruppo di aviatori, stretto su un piccolo canotto, decide di rifiutare di salvarsi per non finire nelle mani del nemico: dapprima allorché, in vista della costa nemica (si presuppone Malta), decide di non recarvisi, preferendo l’improbabile avventura in mare aperto; poi, allorché gli uomini, a un passo dalla more per sfinimento, avvistano il convoglio inglese e decidono, incitati dal solito Gino Cervi, di resistere ulteriormente. In tali gesti, posti in atto dopo circa tre anni di sforzo bellico, in un’Italia piegata dalla miseria e dai lutti da un nemico superiore da ogni punto di vista, affiora un fanatismo inqualificabile, che conferma il fascismo - e in generale i regimi totalitari del Novecento, governati da un simile, zelante spirito di autodistruzione - come delle terribili statolatrie. Al martire cristiano dunque si sostituisce quello fascista, volto a ribadire la fede politico-patriottica quale nuova religione.
Gente dell’aria offre un certo numero di belle sequenze aeree (sempre meramente dimostrative però; mancano scene di combattimento e anche l’ellittica sequenza chiave dell’abbattimento del bombardiere è ambientata di notte, per mascherare gli scarsi mezzi a disposizione), si avvale di buone interpretazioni e di una sceneggiatura ricca di eventi e costruita con abilità; ciononostante lo spirito che lo permea - tenuto soprattutto conto del preciso momento storico che l’Italia sta attraversando - suona irrazionale e infausto, esalta la dedizione totale a scapito di qualunque pacato ragionamento, sorretto dai naturali motivi dell’autoconservazione di sé e dei resti di una nazione che si sta avviando al disastro (mai paragonabile tuttavia ai destini di Germania e Giappone) e sigla uno degli ultimi significativi documenti del fascismo intransigente. Difficile capire in che misura gli autori e gli attori credevano in quanto venivano realizzando e in che misura semplicemente si stavano piegando alle esigenze del Potere politico. In ogni caso l’artefatta felicità che accompagna larga parte delle sequenze cameratesche e bellicose si traduce, nella visione odierna, in triste contemplazione di un artigianato filmico asservito alla nomenclatura del momento, nell’interesse della quale predica la morte dell’uomo qualunque.
Mario Baffico, nato a La Maddalena (Sassari) nel 1907, realizza negli anni trenta dapprima alcuni cortometraggi, poi esordisce con la pellicola La danza delle lancette (1936; coregista Alberto Lattuada) cui seguono altri lavori. In un momento cruciale della storia italiana il regista offre un proprio valido contributo alla riflessione sugli eventi bellici in corso, firmando
I trecento della Settima
(aprile 1943; 80 min.), pellicola che sviluppa un soggetto e una sceneggiatura dell’autore, di Cesare Vico Ludovici e del commediografo Mario Corsi, utilizzando esclusivamente attori non professionisti (ossia ufficiali e soldati del 1° e del 2° reggimento alpini, reduci dal fronte greco-albanese). Ne sortisce un film austero e solenne, a tratti perfino misterioso, che si colloca in un ambito ideale che possiamo francamente definire antifascista e in un ambito estetico di profonda innovazione stilistica, che sa coniugare sobrietà, naturalismo e documentario secondo moduli i quali, nel solco dell’opera di De Robertis e del primissimo Rossellni, anticipano in versione versione compiuta, il cosiddetto neorealismo.
La grandezza del fim di Baffico consiste nel suo “assordante” silenzio intorno al significato del conflitto in corso e nel conseguente amaro scetticismo che permea per intero il funereo racconto nel quale non solo non
compare alcun saluto fascista, ma anzi vengono impietosamente mostrate le numerose manchevolezze del sistema bellico italiano. Una compagnia di trecento uomini lascia il proprio paese, la propria realtà semplice e montana,
fatta di bimbi bisognosi di cure e di anziane donne, e si reca sul fronte greco dove lotta strenuamente, giorno dopo giorno, per tenere le posizioni relative a un costone la cui cima è saldamente controllata dal nemico. Le
perdite sono ingenti e inesorabili mentre l’occhio freddo e distaccato del regista (che evita i primi piani e privilegia i quadri d’insieme i quali riducono l’alpino a macchia nel paesaggio) sembra interrogarsi sul senso ultimo
di questa aspra e sanguinosa contesa. Per un fazzoletto di pochi chilometri quadrati, sassoso e orrendo, si soffre la fame, si vive ammassati in trincea rievocando la quiete del paese natio, si viene feriti e si muore sotto i
colpi di un nemico lontano e invisibile. Gli alpini - corpo unitario permeato da un meraviglioso afflato collettivo - fanno il proprio dovere e il loro ufficiale è il primo a preoccuparsi per non esporli a inutili pericoli;
durante la lunga campagna di cui il film offre una quotidiana, spoglia cronaca, in nessun momento gli uomini mettono in dubbio il proprio ruolo e la propria funzione e, proprio per questo incredibile, provocatorio silenzio, il
film appare radicalmente ostile a quella guerra che va descrivendo, una guerra di cui sfugge completamente il senso ultimo. Baffico evita di entrare in questa materia spinosa (non può farlo in alcun modo; il suo deve comunque
essere - considerando i tempi e i modi - un prodotto “patriottico”) eppure ogni gesto, ogni sofferenza, ogni morte vengono sottolineate negativamente, in una cornice filmica di profonda desolazione la cui motivazione ultima
consiste proprio nell’evidente smarrimento degli autori nei confronti di una guerra - quella sul fronte greco, aperta dalla faciloneria criminale del regime - di cui si avverte l’inutilità e l’insensatezza. Mai una pellicola
dell’epoca fascista è parsa tanto scettica e, a suo modo, pacifista; mai un senso di disagio e di profonda commiserazione per il destino di uomini mandati inutilmente allo sbaraglio, è emerso in modo tanto netto e coerente.
L’atteggiamento di distanza critica viene comprovato poi dalle continue critiche all’organizzazione generale della macchina bellica italiana: manca il grasso del lubrificare le armi, mancano i viveri e i piloti che finalmente
li inviano, tramite lanci, sbagliano il bersaglio e li regalano al nemico (implicita qui la critica all’aeronautica ovvero al settore più fascista dell’esercito); insomma una guerra illogica e, per giunta, gestita con
approssimazione. Raramente un fim bellico, finanziato per propagandare l’eroismo dei soldati al fronte, ha offerto una quadro altrettanto mesto e disilluso: dei trecento, solo diciannove (è morto anche il comandante, evento
luttuoso di evidente portata simbolica) riescono alla fine a conquistare il famoso costone e la pellicola termina mentre ci si chiede se sarà possibile tenerlo a lungo. Tutto è incerto e vagamente assurdo, quasi kafkiano al
punto che non sembra fuori luogo notare alcune somiglianze tra la pellicola di Baffico e il ben più celebre Orizzonti di gloria di Kubrick (1957), film che descrive una situazione in gran parte simile (la vita in trincea, il nemico potente e invisibile che facilmente massacra gli antagonisti), seppure guidandola verso esiti di differente caratura melodrammatica.
L’unico elemento certo - e positivamente valutato - consiste nella rassicurante presenza di un cappellano militare ovvero nel conforto della religione di quella Chiesa cattolica che da un paio di anni è divenuta l’unica
àncora certa cui aggrapparsi (molteplici sono - come si è detto più volte - i film che registrano questo nuovo orizzonte ideale) sebbene le sobrie cerimonie liturgiche non possono non confliggere ed apparire assurde (ricevere
la comunione e poco dopo andare a uccidere) con l’insensata cornice bellica. Tanto più che dall’altra parte del costone ci sono ancora dei cristiani, seppur prevalentemente di rito ortodosso. Anche il commento musicale evita
toni enfatici e si abbandona spesso a litanie stranamente sepolcrali, mentre la memorabile sequenza del mulo Tiratardi che affoga nel fango nonostante i disperati tentativi dell’alpino di salvarlo - uno dei rari episodi di
forte drammaticità, segnato da una serie di struggenti primi piani dell’animale sofferente - assurge a segreta valenza simbolica, finendo per alludere alla situazione complessiva di un esercito e di una nazione trascinata verso
un ineludibile destino di morte (ben evidente quando si è ormai giunti agli inizi del 1943) da una nomenclatura politica avventurista. E poco cambia se, in una sequenza successiva, Tiratardi “miracolosamente” ricompare (è
dunque riuscito, da solo, a uscire da quelle “sabbie mobili”): l’Italia nel suo complesso, alle soglie del disastroso armistizio di settembre, non sarà in grado di attuare alcun miracolo. Inutile dire che questa ammirevole
pellicola è stata completamente obliata dai successivi storici del cinema, preoccupati esclusivamente di esaltare quei prodotto filmici postbellici capaci - per il tramite di una desolazione generica e artefatta - di portare
voti al fronte unitario delle sinistre. Il pregevole documento di Baffico andava assolutamente cancellato dalla memoria storica (Lizzani lo recensisce nel 1943 e già allora lo definisce “materiale inutile, di scarto”) sia
perché mostrava un cinema critico e sinceramente problematico, senza essere però antinazionale (nelle differenti direzioni del filoamericanismo e del filocomunismo), sia perché offriva un alto esempio di arte filmica ottenuta
con i mezzi di un documentarismo (i volti comuni dei reduci, intensamente espressivi e slegati da qualunque logica “attoriale”) piegato a esigenze narrative, ossia offriva bella e conclusa la futura formula del “rivoluzionario”
neorealismo.
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