L'armata Brancaleone, L'arcidiavolo e La bisbetica domata

Una vergine per il principe, La cintura di castità, La Mandragola, L’Armata Brancaleone, Le piacevoli notti, L’arcidiavolo, La bisbetica domata e C’era una volta: avventure picaresche venate da un timido erotismo (1965-67)


          Brancaleone: Silenzio! Io vi sono duce!! E però mi dovete obbedienza e dedizione
          Lo nostro cammino sarà cosparso di sudore, lacrime e sanguine. Siete voi pronti
          a tanto? Respondete a una voce. Siete voi pronti a morire pugnando?
          Noi marceremo per giorni, settimane et mesi, ma infine averemo castella,
          ricchezze et bianche femmine dalle grandi puppe. Taccone: 'nnalza le insegne! 
          Taccone: No le tengo! 
          Brancaleone: Bene! E tu levale in alto! E voi, bifolchi, ponetevi all'ombra di esse
          escite dalla fanga, che io farò di voi cinque un'armata... 
          Abacuc: Duce, semo quattro. 
          Brancaleone: Be' io farò di voi quattro!, un'armata veloce et ardita che sia veltro
          e lione al tempo istesso!
          Brancaleone arringa la sua armata

          “Ora lo tuo duce ti dice, per tuo ammaestramento: sai tu qual sia in questa
          mera valle la risultanza e il premio di ogni sacrifizio umano?
          Calci nel deretano! D'ora innanzi verrò nomato, il cavaliere amaro.
          .. almeno credo.
          riflessioni di Brancaleone da Norcia

Pasquale Festa Campanile prende spunto da alcuni insoliti fatti storici nel mettere in scena il mortalmente noioso Una vergine per il principe (ott. 1965; 105 min.). Intorno al 1584 il futuro duca di Mantova Vincenzo Gonzaga (Vittorio Gassman), in seguito principe delle arti (durante il suo regno, nel 1607, a Mantova andrà in scena l’Orfeo di Monteverdi), in attesa di poter sposare Eleonora de Medici, deve dar prova della propria virilità di fronte ad una commissione mandata dai signori di Firenze. Gli capita in sorte la giovinetta Giulia Albizi (una monocorde Virna Lisi) con la quale passerà una lunghissima notte dove si faranno molte chiacchiere e poco amore. Supererà il cimento in extremis.
Un notevolissimo cast (Tino Buazzelli, Vittorio Caprioli, Philippe Leroy, Paola Borboni, Maria Grazia Buccella, Francesco Mulé... ) viene sprecato in questa assurda sceneggiatura in cui non accade nulla: tutto si riudce all’attesa per il famoso “test” il quale, poi, si svolge tra interminabili bamboccesche movenze, le uniche che poteva concedere la censura dell’epoca. Impostare un intero film intorno ad un solo atto sessuale (quasi mancato) è già una bella sfida; farlo poi a metà degli anni sessanta, quando non si poteva mostrare alcuna nudità e tanto meno alludere in modo esplicito alle differenti pratiche sessuali era, in partenza, un suicidio. La pellicola che ne risulta è infatti fiacca da ogni punto di vista, compreso quello erotico su cui il regista aveva puntato tutte le carte. Anche l’umorismo, di cui si incaricano Buazzelli e Caprioli, coadiuvati da un logorroico Gassman, si basa su episodi stereotipati mentre l’ambientazione tradisce il carattere complessivamente mediocre dell’operazione: basti notare che si spacciano i palazzi di Urbino per quelli di Mantova. Anche se mancano ancora oltre due decenni allo scoppio della moda del turismo culturale, tuttavia nel 1965 qualunque persona di cultura media sa distinguere perfettamente le due città storiche...
Ciononostante gli incassi furono notevoli.

Altrettanto scadente è il successivo La cintura di castità (ott. 1967; 100 min.), sceneggiato da Ugo Liberatore e Luigi Magni, in cui, sempre in un Medioevo oltremodo baracconesco (alcune sequenze vengono girate a Viterbo e Tuscania) si narra nuovamente l’impossibilità di consumare un atto sessuale più volte rimandato. Protagonisti sono questa volta il cavaliere perplesso Tony Curtis, inviato a combattere in Terra Santa e sua moglie Monica Vitti, “protetta” da una cintura di castità di cui si perde continuamente la chiave...
Dialoghi banali, musiche generiche, situazioni ripetitive e puerili, con tanto di inutili accenni femministi (secondo la moda dell’epoca) nella figura anacronistica della ribelle e determinata Monica Vitti, affossano il racconto nonostante il consueto spreco di ottimi attori: ci sono anche Ivo Garrani, Gabriella Giorgelli, Nino Castelnuovo e il simpatico Hugh Griffith, l’unico in grado di accendere, per qualche minuto, la soporifera pellicola. Monica Vitti in particolare appare singolarmente fuori contesto: la “problematica” musa di Antonioni propone una figura femminile “moderna” e volitiva in omaggio al clima politico di quegli anni (siamo alle soglie del ’68), figura del tutto dissonante con il contesto arcaico, “leggero” e circense del racconto, contribuendo a renderlo incoerente e pasticciato.
L’argomento è evidentemente boccaccesco e il regista vorrebbe osare di più, ma appare evidente che la censura dell’epoca non concede grandi spazi di manovra e che quindi impostare l’intero racconto su questi pochi argomenti significa votarsi al fallimento. Ben altrimenti andranno le cose, pochi anni dopo, nel periodo d’oro dei Decameroni (1971-74), inaugurato da Pasolini: il livello artistico sarà sempre modestissimo (con l’eccezione della trilogia pasoliniana e di poche altre pellicole), ma questa volta gli autori potranno realmente sbizzarrirsi nel trattare questa materia erotica.
Il film riscosse un successo alquanto modesto.

Lattuada mette in immagini la commedia boccaccesca di Machiavelli La mandragola (1520 circa) in una pellicola (nov. 1965; 105 min.) di scarso interesse, nonostante la validità del testo letterario e il notevole cast.
A Firenze Callimaco (Philippe Leroy) si invaghisce della bella Lucrezia (Rosanna Schiaffino), sposata con messer Nicia (Romolo Valli); dopo avere tentato invano di avvicinarla per strada, si affida all’amico Ligurio (Jean-Claude Brialy), consigliere ipocrita di Nicia, per potere accedere alle sue grazie. Con un complicato stratagemma, inerente le presunte qualità dell’erba mandragola, Callimaco riesce a sedurre Lucrezia e a divenirne l’amante.
La scrittura di Lattuada è quanto mai sciatta: utilizza una fotografia in bianco e nero inespressiva e di sapore televisivo e allinea sequenze, statiche e quasi tutte ambientate in interni abbastanza generici. Anche gli attori si limitano a una recitazione corretta ma priva di reale partecipazione. Di fatto l’operazione, voluta dal produttore Alfredo Bini, era inizialmente partita come un progetto di trascrizione di classici letterari per la Rai. Ciò spiegherebbe il carattere pedestre e scolastico dell’insieme, non lontano dall’estetica dei futuri Promessi sposi (Bolchi, gen 1967). Rifiutato il progetto dalla Rai, si può immaginare anche per l’argomento scabroso e per la presenza di una figura clericale molto negativa - il corrotto fra’ Timoteo (Totò) che, per denaro, si presta ad aiutare i “congiurati” a danno di Nicia - Lattuada tentò di rendere la pellicola più “cinematografica” inserendo qualche fuggevole nudo femminile che valse al film il divieto ai minori di diciotto anni e la classifica di “escluso” delle autorità ecclesiastiche. D’altronde La mandragola, come tutte le opere di Machiavelli, era stata messe all’Indice dalla chiesa, un Indice (dei libri proibiti) che verrà abolito proprio l’anno dopo l’uscita del lavoro (una delle tante aperture alla modernità del Concilio Vaticano II).
Questa noiosa trascrizione si anima quindi solo alla presenza della bellezza statuaria di Rosanna Schiaffino intorno alla quale si muove tutto il prolisso girotondo: come una dea pagana, non dissimile dalla Ekberg de La dolce vita, la Lucrezia di Lattuada conferma che la commedia italiana, soprattutto questa di sapore medievale e rinascimentale, vive in adorazione della bellezza femminile e spesso esiste solo per poterla mostrare in tutte le sue fogge. Il suo culmine sarà infatti il Decameron (1971) pasoliniano e le sue innumerevoli imitazioni.

Monicelli firma con L’armata Brancaleone (apr. 1966; 120 min,), pellicola sceneggiata con Age e Scarpelli, uno dei suoi film più significativi, in larga parte memore del precedente I soliti ignoti (1956) nel suo concentrarsi su una comitiva straccionesca in cui, tra l’altro, comparivano già Vittorio Gassman e Carlo Pisacane.
Nel Medioevo delle crociate un variegato manipolo di sfaccendati, senza casa e senza mezzi di sostentamento, guidati dallo scalcinato cavaliere  Brancaleone da Norcia (un eccellente Vittorio Gassman) si impossessa in modo criminoso di una pergamena nella quale si assegna il feudo di Aurocastro nelle Puglie. La piccola armata, dove svettano il cavaliere bizantino Teofilatto (Gian Maria Volontè) e l’ebreo Abacuc (Carlo Pisacane), attraversa un’Italia povera e superstiziosa, violenta e cinica cercando di procurarsi vitto e alloggio in qualunque modo, per lo più con metodi truffaldini. La compagine si imbatte in un villaggio decimato dalla peste, in una vergine (Catherine Spaak) in cerca di protezione e in un regno di bizantini spiritati e crudeli (parenti di Teofilatto). Quando, infine, giungono ad Aurocastro, dapprima vengono catturati da crudeli pirati saraceni intenzionati ad impalarli, poi dal cavaliere proprietario della pergamena. Entrambe le volte sfuggono a morte certa in modo rocambolesco. Finiscono con l’unirsi a un predicatore sornione (un indimenticabile Enrico Maria Salerno) che, più di una volta, li salva per condurli con sè a far la guerra agli infedeli in Terra Santa.
La pellicola è, innanzitutto, ritmata dalla celebre, umoristica colonna sonora di Rustichelli la quale, oltre a intonare il beffardo inno dell’armata, non esita a prendersi gioco di Wagner allorchè, nei momenti di presunta solennità, utilizza una caricatura del tema della marcia funebre di Sigfrido (Götterdämmerung 1876). Questa favolosa cornice sonora si miscela con gli altrettanto ricchi e imprevedibili colori di un paesaggio medievale popolato di figure felliniane e oniriche (basti pensare ad Aquilante, l’assurdo cavallo giallo del protagonista) e con uno stravagante, eccezionale linguaggio che sovrappone latino maccheronico, ostrogoto, italiano moderno e perfino citazioni di sapore mussoliniano generando, da solo, una inarrestabile ilarità. In questo contesto grottesco - al quale si ispirerà certamente anche il Fellini di Satyricon (soprattutto il variopinto incubo della reggia bizantina anticipa le maschere funeree del film ispirato a Petronio) -  la carta vincente è l’estro di Gassman, qui forse nella sua interpretazione più memorabile, il cui talento per i personaggi sovraccarichi, teatrali e un po’ barocchi genera un protagonista a tutto tondo, fanfaronesco ma anche dotato di coraggio, scaltro e opportunista ma anche dotato di una propria incorruttibile dignità. Le circostanze - a cominciare dal “favoloso” Aquilante - gli remano contro e, cononostante, egli non si perde mai d’animo e lotta contro il destino avverso con caparbietà e tenacia, circondato dalla sua comitiva cialtrona, fatta di gente paurosa e cinica. D’altro canto lo stesso Brancaleone, simpatico e coraggioso furfante, non esita a depredare, ricattare ed ammazzare (si vedano gli episodi del villaggio appestato, del ducato bizantino e dell’irruzione nel convento al fine di liberare Matelda) gente innocente ed ignara, finendo con il contribuire a creare un panorama umano senza speranza, radicalmente nichilista, caratterizzato da una tinta fosca ed oscura, estranea perfino al coevo western italico i cui eroi, spesso spregiudicati bounty killers, evitavano (non sempre) di fare inutili stragi e di ammazzare gente inerme.
In particolare la figura di Teofilatto, uomo svogliato e senza qualità, sorta di “hippy medievale”, costituisce la netta antitesi al tragieroico protagonista e rieccheggia in modo speciale quegli anni sessanta in cui i figli stanno per ribellarsi ai padri ed alla loro Tradizione. Non a caso Teofilatto disprezza la propria famiglia, contesta le sue abitudini e cerca di estorcere ai genitori una forte somma, fingendosi sequestrato. Alla spregudicatezza dell’uno corrisponde, però, il pari cinismo di familiari che lo cacciano in malo modo.
Raramente l’euforica energia degli italici anni sessanta ha trovato una rappresentazione più felice e indovinata. Monicelli raccoglie lo spirito del western nostrano, inventato da Leone due anni prima, anch’esso sintomatico di un’Italia “risorta” e in buona salute, riutilizza il suo unico protagonista italiano (Gian Maria Volontè), trasforma i pistoleri senza terra in avventurieri senza meta, i duelli in giostre di cavalieri, le fanciulle indifese in vergini da condurre sane e salve nel feudo dello sposo; sostituisce infine l’onirico ed esotico paesaggio americano con quello più noto e familiare (sebbene altrettanto fantastico e stravagante) di un’Italia medievale popolata di mercanti, predicatori, monaci e corsari ed ottiene il miracolo ovvero un ammirevole affresco dell’italica gente di allora e di adesso. Se le creazioni di Leone erano melodrammi seri e ragici, a loro modo solenni, la comitiva di Monicelli dà vita ad un’inattesa “opera buffa”, ricca di “duetti” umoristici (indimenticabile l’iniziale duello di Brancaleone e Teofilatto) e scene d’insieme esilaranti (si pensi alla lunga sequenza della “consegna” della non più illibata Matelda ed agli innumerevoli equivoci che la situazione crea). La tradizione del melodramma si riconferma la base d’appoggio essenziale per tutte le migliori creazioni del cinema italiano. Inoltre l’andamento episodico del film, generato dal suo percorso geografico, anticipa lo schema del roadmovie che diverrà una delle formule vincenti della cinematografia dei “problematici” anni settanta.
Brancaleone e i suoi sodali sono gente senza idee precise e senza fede, pronti ad abbracciarne una qualunque pur di ottenere benessere e protezione. Per ben due volte il folle predicatore Zenone li salva dalla morte e loro si professano di colpo ferventi cattolici, pronti a sacrificare la vita per la causa cristiana. Nessuo ci crede, a cominciare dal “santo” che li guida, ma la rappresentazione è efficace ed incute una certa soggezione al potente di turno: al riparo da questa messa in scena l’armata del cavaliere di Norcia trova la propria dimensione più consona così come gli Italiani, scottati dalla tragica farsa mussoliniana, si sono difesi dalle avverse congiunture (la guerra fredda, il comunismo incombente) seguendo le insegne del papato di Pio XII e di Paolo VI, affidando il governo della repubblica, nata sotto le insegne dell’anticlericale Massoneria e di casa Savoia, ai chierici di Roma (la DC), sperando che almeno i preti, con la loro prestigiosa storia millenaria, possano garantire benessere e tranquillità ad un popolo troppo “antico” e intelligente per credere in modo fideistico in alcunchè. L’armata Brancaleone diviene allora un’esplicita allegoria dell’Italia del dopoguerra, nonchè dell’Italia di sempre, amante del benessere e timorosa delle distruzioni causate da differenti tipologie di barbari che, da secoli, imperversano nella penisola.
Il film colse un successo commerciale straordinario che porterà ad una seconda puntata (Brancaleone alle crociate), girata però solo quattro anni dopo.

Mario Cecchi Gori, dopo aver prodotto il film di Monicelli, batte il ferro finchè è caldo e incarica Luciano Lucignani e Armando Crispino, entrambi esordienti alla regia, di dirigere il modesto Le piacevoli notti (set. 1966; 110 min.) pellicola boccaccesca, ispirata all’omonima raccolta di novelle (1550) di Giovanni Francesco Straparola. Il film, ambientato nel Cinquecento, è diviso in tre distinti episodi.
Nel primo Tognazzi, travestito da furfante spagnolo, cerca di sedurre la bella moglie (Magda Konopka) del solito marito fesso con un trucco non troppo dissimile dallo stratagemma utilizzato da Callimaco ne La mandragola. Nel secondo la moglie frustrata (Gina Lollobrigida) di un marito (Adolfo Celi) che dedica intere nottate allo studio delle stelle, finisce con l’amoreggiare con  un intero manipolo di soldati. Nel terzo Vittorio Gassman si diverte a giocare atroci scherzi ai suoi amici i quali gli rendono la pariglia con gli interessi allorchè gli fanno credere di essere finito nelle carceri della perfida Lucrezia Borgia (Maria Grazia Buccella), dove si decreta la sua condanna a morte. Si salverà in extremis.
Le ambientazione (si intravede la piazza di Pienza) e i testi (ripetitivi e scontati) appaiono poca cosa, mentre gli interpreti stanno al gioco senza troppa convinzione. Il motivo che regge l’insieme, un certo diffuso erotismo, viene trattato senza estro e bisognerà attendere la fioritura dei Decameron (1971-74) per avere qualche prova più interessante su questo argomento. La regia è impacciata e non riesce a rendere accattivanti queste storielle stereotipate, pur avvalendosi di un notevolissimo cast (ci sono anche Luigi Vannucchi, Paolo Bonacelli e Gigi Ballista). L’originalità dell’armata monicelliana, tutta incentrata sull’istinto di sopravvivenza in un medioevo miserabile e crudele, è del tutto perduta in queste innocue e addomesticate novelle amorose in cui appare, in filigrana, tutto il carattere artificiosamente letterario di personaggi ed eventi.

L’arcidiavolo (ott. 1966; 110 min.), seconda fatica di Ettore Scola, si inserisce nel ridotto filone generato dal grande successo del Brancaleone di Monicelli. Ritroviamo Gassman nel consueto ruolo di mattatore, il quale ora impersona un brillante diavolo generato dalla penna di Machiavelli (la novella Belfagor arcidiavolo o Il diavolo che prese moglie) intorno al 1520. Il testo dello scrittore fiorentino, che aveva già ispirato la piacevole opera lirica di Respighi Belfagor (1923), viene radicalmente modificato da Scola, aiutato da Maccari, in sede di sceneggiatura. Nella novella, di taglio fortemente misogino, si parlava di un diavolo mandato sulla terra per sperimentare se il matrimonio costituisca un’esperienza peggiore dello stare agli inferi. Nell’epoca del modernismo laico e progressista, che ha reso la donna una sorta di divinità neopagana, non stupisce il vedere completamente rovesciato il senso originale della novella (che peraltro non viene neppure citata nei titoli di testa).
Così il nostro eroe, tronfio e spavaldo come conviene a un vero satanasso, giunge sulla terra con due principali desideri: mangiare e giacere con donne. Lo accompagna il fido Adramelek (Mickey Rooney), sorta di Leporello dispettoso che non esita a prendersi gioco del suo padrone. Quest’ultimo prima rovina un gentiluomo romano (Luigi Vannucchi) costringendolo al suicidio, poi ne prende il posto e si reca a Firenze, alla corte di Lorenzo il magnifico (siamo nel 1478) con l’intento di sposare sua figlia (Claudine Auger). Suo segreto disegno è provocare uno scandalo e costringere Lorenzo a dichiarare guerra al Papato. Agli inferi vogliono che i morti abbondino sulla Terra e soprattutto che il Papato sia coinvolto in vicende penose e spiacevoli. In realtà il buon diavolo, gradualmente, si innamora della sua preda e, nel finale, rimane addirittura sulla terra per condividere la sua esistenza con la bella fanciulla.
Come si vede Scola ha rovesciato l’assunto originario, realizzando una pellicola piacevole e briosa, in cui non poche sono le trasgressioni narrative che spingono il racconto verso la farsa surreale, abbastanza insolita nell’ambito della commedia italica degli anni sessanta (era invece frequente nelle pellicole con Totò dei primi anni cinquanta). Spassosa, in tal senso, la digressione sull’invenzione del gioco del pallone: di fronte a dame di corte stupefatte, gli uomini, guidati da Belfagor, si lasciano rapire da una partita di football decisamente in anticipo sui tempi. Sorprendono anche le belle musiche di Trovajoli che inseriscono sonorità e moderati ritmi rock in uno scenario che si vorrebbe aulico. D’altronde, gran parte della comicità deriva appunto dal linguaggio arcaizzante dell’arcidiavolo (ripreso da quello di Brancaleone) che peraltro confligge apertamente con i suoi gesti, spesso cinici e volgari. I dialoghi sono realmente ben scritti e ricchi di umorismo così come incisivo appare il portamento spavaldo e altezzoso del protagonista, non lontano da un certo superomismo bondiano che tanto irritava la critica militante di quegli anni. Non è un caso che la pellicola, la quale ottenne uno straripante e inatteso enorme successo (dal quale derivò addirittura un fumetto per adulti intitolato Belfagor), venne invece liquidata con sufficienza in recensioni prossime all’insulto.
Di fatto se formalmente il racconto rivalutava, nelle scelte finali di Belfagor, l’amore e il rispetto per l’universo femminile, era anche vero che l’intera esibizione di Gassman risultava efficace proprio nel suo trattare con sufficienza le proprie amanti le quali venivano indotte a cedergli attraverso sortilegi “infernali”. Il giovane Scola, con alle spalle una lunga carriera di sceneggiatore, non è ancora un autore “impegnato” ad indagare gli svariati “malesseri” del contesto sociale italiano (si pensi, fra tutti, al moralistico e peraltro ammirevole La più bella serata della mia vita) e cerca di intrattenere un pubblico popolare mettendo in scena le gesta di un Don Giovanni sprezzante e sicuro di sè. Non poteva certo aspettarsi le lodi di una critica che riteneva validi ed interessanti solo quelle pellicole che mostravano una realtà problematica, tragica o desolata.
Nell’insieme il film possiede tuttavia pochi pregi (quelli sopra menzionati); accanto al brillante demonio Scola allinea, però, una lunga sequenza di personaggi sfocati e noiosi, compresi quelli femminili ed organizza la narrazione in una serie di episodi alquanto ripetitivi e prevedibili in quanto sempre gestiti dal sapiente e quasi invincibile Belfagor.

Nel solco di Brancaleone, nasce anche il secondo lungometraggio di Franco Zeffirelli, La bisbetica domata (mar. 1967; 120 min.). L’autore, ottimo regista teatrale (memorabile, tra le altre, la sua regia de La Bohème, 1963), torna al film dieci anni dopo la sua opera prima (Camping) e sceglie un testo minore (1590ca) del poeta inglese - già messo in scena in modo deludente da Poggioli (1942; vedi) - che offre l’occasione per una magnifica performance della coppia Taylor-Burton, interpretazione che costituisce il punto di forza della pellicola.
A Padova la bisbetica e irascibile Caterina (Elisabeth Taylor), fa disperare il padre, la sorella minore e chiunque abbia rapporti con lei. Quando si presenta l’avventuriero Petrucchio (Richard Burton), deciso a sposarla solo per arraffare la ricca dote, a familiari ed amici non sembra vero di potersela togliere di torno. Dopo un burrascoso matrimonio ed un ancor più tempestoso menage familiare, la coppia trova un proprio equilibrio: la bisbetica è finalmente domata. Nel celebre monologo finale Caterina invita tutte le donne del mondo a riconoscere la propria inferiorità nei confronti dei propri consorti e a tributare loro una cieca obbedienza.
La pellicola possiede pregi e difetti. Tra i primi va annoverata innanzitutto l’audacia politica della propria schietta inattualità. L’aver dato grande rilevanza al discorso conclusivo di Caterina, sul quale termina il film (come pure il testo shakespeariano), in un’Europa ossessionata dalla parità dei sessi e dalle “rivoluzioni” giovanili, più o meno sessuali, segnala il grande coraggio del regista e la sua capacità di schierarsi contro corrente senza infingimenti e paure. Certo il mondo patriarcale che evoca il discorso di Caterina non esiste più (l’uomo che procura cibo e protezione alla propria compagna è uno scenario decisamente arcaico); tuttavia l’essenza del ragionamento – che risulta articolato  e convincente – appare tuttora incisivo e fedele alla realtà più intima delle cose, realtà che gli eccessi sguaiati del modernismo non riescono a scalfire. In tal senso il lavoro di Zeffirelli appare assai lontano rispetto al viaggio picaresco e scettico del Brancaleone monicelliano. Il punto di contatto più evidente tra le due pellicole si trova all’inizio del “secondo atto” filmico, quando Caterina giunge nella dimora-spelonca di Petrucchio, popolata da una vera e propria brigata di balordi tra i quali, compare di sfuggita anche Carlo Pisacane (l’Abacuc di Monicelli). In generale poi la figura dello spavaldo e sbruffone protagonista deve più di una movenza al nobile sfaccendato di Norcia: se lo eguaglòia in bravura attoriale, non riesce certo a superarlo in simpatia e originalità. Anche la colonna sonora di Rota - elegante e decorativa, capace di evocare il mondo rinascimentale in questione e ciononostante assai poco incisiva - tenta, proprio in questo quadro, di inserire un motivo popolareggiante (intonato perfino da Petrucchio) che vorrebbe imitare quello roboante del cavaliere di Norcia. L’esito è però poco significativo: la musica di Rota, molto spesso vero e proprio personaggio aggiunto” all’intreccio filmico (si pensi all’universo onirico felliniano o ai grandi melodrammi viscontiani di Rocco e del Gattopardo), in Zeffirelli rimane prigioniera nel fondale.
Si giunge così ai difetti del film il quale unisce ad una morale antica ed antimodernista anche un taglio filmico antiquato e poco seducente. Zeffirelli filma la Bisbetica come se si trovasse tra le quinte di un grande teratro d’opera: ammassa personaggi (perfettamente vestiti), parole e gesti in piccoli spazi (molto ben arredati) ottenendo un effetto di saturazione che stanca presto lo spettatore cinematografico il quale osserva tutto ciò da molto vicino (e non da un lontano palco teatrale). La tipologia di scrittura, così pesantemente teatrale, rimanda a certo cinema di uno o due decenni prima, cinema spesso hollywoodiano che non possedeva già allora grandi qualità. Se i due seducenti mattattori tengono sempre desta l’attenzione, intorno a loro i comprimari risultano spesso opachi e tediosi mentre l’affastellarsi di gesti e vicende secondarie (poco spiegate a causa della necessità di sintesi del racconto filmico) appare stucchevole. Certo qualche colpa la possiede anche Shakespeare il quale ha sviluppato questa commedia su poche, reiterate situazioni.
La pellicola ottiene un trionfale successo internazionale e rimane tra le cose migliori del suo autore.

Dopo avere realizzato film di grande importanza, Francesco Rosi dirige, inspiegabilmente, il pessimo C’era una volta (set. 1967; 110 min.), tentativo maldestro di costruire una fiaba amorosa nel solco del grande successo di Brancaleone e soprattutto delle Bisbetica. Come nel capolavoro monicelliano, ritroviamo anche qui giostre di cavalieri, una prolungata “lite” tra il protagonista e un magnifico cavallo bianco (ma ben altro divertimento provocava l’indimenticabile Aquilante) ed, infine, la presenza di Carlo Pisacane (travestito da vecchia) in un ruolo secondario.
Il racconto si riduce al ritratto del principe Rodrigo (Omar Sharif) che, insensibile alle numerose principesse che la madre gli procura quali possibili spose, si innamora della popolana Isabella (Sophia Loren), la quale, ovviamente, risulta più simpatica ed intelligente di tutte le aristocratiche di Spagna e, perciò, finirà con l’averla vinta.
La pellicola dunque replica quella zeffirelliana nel suo concentrarsi sull’interminabile, stucchevole “duello amoroso” tra il prode cavaliere e la bella “sguattera” in cui si rispettano i canoni del cinema populista, già tipici dell’era mussoliniana: acritica esaltazione del popolo e aprioristico disprezzo per l’aristocrazia, il tutto espresso dall’ottiva di un principe ribelle, sorta di baldo contestatore del sistema alla James Dean. Niente si salva nella pellicola: l’ambientazione è ordinaria, la musica zuccherosa, gli interpreti stereotipati, le situazioni prevedibili ed inutilmente prolisse. 
Il film riscosse, comunque, un buon successo commerciale.

testo scritto nel mar.2016