L’avventura, La notte, L’eclisse e Deserto rosso: la modernità come malattia (1960-64)
“Chissà se c’è, nel mondo, un posto in cui si va
a stare meglio. Forse no”.
Giuliana in Deserto rosso
“Nei film di Antonioni le parole non sono che
un commento alle immagini... “
Tonino Guerra
“Antonioni è simile a certi uccelli solitari che
hanno un verso solo da cantare e lo provano giorno e notte”
Alberto Moravia
Antonioni perviene al suo primo indiscutibile capolavoro ne L’avventura
(giugno 1960; 140 min.), la cui sceneggiatura, firmata dall’autore con Elio Bartolini e Tonino Guerra, rimodula le componenti migliori de Le amiche (1955) e de Il grido(1957), unite a reminiscenze del racconto Tra donne sole (1949) di Pavese.
Anna (Lea Massari) parte da Roma con un gruppo di amici per una crociera alle Eolie. Nelle prime immagini scorgiamo assai lontana la cupola di S. Pietro (una lontananza simbolica che traduce in immagini l’estraneità della
Tradizione al mondo poetico dell’autore) mentre nelle vicinanze dei protagonisti sorgono mediocri condomini. La giovane appare scostante e irritabile: è turbata. Reincontra Sandro (Gabriele Ferzetti), il suo fidanzato, dopo un
mese e il fatto le è quanto meno indifferente. Ci va subito a letto, alla ricerca di un’emozione che non arriva; poi, sulla barca, finge di essere stata aggredita da un pescecane. Giunti sulla scabra isoletta di Lisca Bianca,
di fronte a Panarea, Anna semplicemente scompare. Invano la cercano tutti - soprattutto Sandro e la sua amica Claudia (Monica Vitti) - senza esito. Dopo una lunga permanenza su questo arido e brutto scoglio, emblema materiale
della dissonanza interiore che affligge i personaggi di questa annoiata alta borghesia romana, il gruppo si scioglie. Sui personaggi incombe ora il gesto funereo di Anna la quale, certamente, si è suicidata gettandosi dall’alto
degli scogli. Nel frattempo nasce un forte legame tra Claudio e Sandro, innamorata la prima, attratto dalla esuberanza e dalla bellezza della ragazza, il secondo. Come in passato, nel meditativo cinema di Antonioni gli uomini
vengono ridotti a figure ottuse, incapaci di percepire sentimenti profondi. Dunque Anna è la ripresa della figura di Rosetta, ora più fedele al testo di Pavese: la donna si uccide per un malessere generale, per una noia
evidente mentre nella superficiale versione de Le amiche lo faceva per semplice delusione amorosa. Ferzetti reinterpreta il personaggio del pittore Lorenzo - personaggio ora sviluppato con maggiore ampiezza e convinzione - delineando comunque, di nuovo, la figura di un essere mediocre e frustrato. Claudia è la trasformazione d Clelia (perfino il nome è somigliante), entrambe ragazze di umili origini (lo si intuisce anche di Claudia quando afferma - alludendo ai propri trascorsi - che “un’infanzia giudiziosa significa senza quattrini”), la quale, con fatica, si è inserita in un universo alto borghese. Nuovamente un triangolo amoroso come ne Le
amiche e come ne Il grido. Nel breve interludio brillante, successivo all’episodio dell’isola, il gruppo è riunito nella residenza di un nobile siciliano e Claudia assiste al libero amoreggiare di un’amica
(regolarmente sposata) con il diciassettenne pittore Goffredo (Giovanni Petrucci) figlio del padrone di casa. Rispetto al troppo casto Le amiche, L’avventura riprende il tono audace e libero del racconto di Pavese il quale descriveva le sue donne come moralmente indifferenti ai valori tradizionali. Anche questo aspetto del dramma esistenziale dello scrittore piemontese - il vivere ai limiti, dopo avere scoperto la convenzionalità di ogni regola di comportamento - viene ora accolto dal regista di Ferrara.
La seconda parte si struttura invece come viaggio-ricerca, in modo simile al Grido. Sandro e Claudia si ostinano a cercare Anna, di cui tutti ormai hanno intuito il gesto autolesionista: dopo Messina, girano alcuni
piccoli centri e approdano nella bellezza atemporale di Noto. Questo ampio episodio controbilancia quello di Lisca Bianca come il suo necessario opposto: al vuoto di valori, alla bruttezza dell’isolotto, alla tragica solitudine
dei personaggi perfettamente amplificata dalle linee frammentate dei clarinetti di Giovanni Fusco e dai rumori del vento e del mare, ora fa da contrappeso il mondo pieno ed equilibrato della Tradizione. La comunità di Noto,
stretta intorno alle sue monumentali chiese barocche, racconta di un’antica bellezza e di un universo in cui le domande estreme sul significato dell’esistenza non hanno cittadinanza poiché il tutto vive dotato di precisi e
radicati significati. L’imponente bellezza dei monumenti, l’assenza delle donne dalle vie (chiuse nelle case a occupasi delle faccende domestiche), la sfilata dei bambini in uscita dalla chiesa, la curiosità degli uomini
(descritta con accenti caricaturali e scostanti, come in una brutta commedia di costume) per la bellezza della solitaria Claudia, segnano l’abissale distanza tra due mondi. Di questo si rendono immediatamente conto Sandro e
Giulia: il primo pare profondamente irritato da quel microcosmo chiuso fino al punto di vendicarsi, rovinando il disegno di un giovane architetto che sta copiando un ornamento dalla facciata della cattedrale. E’ un sentimento
di malessere radicale quello che invade il protagonista: obbligato dalla sua mediocrità a un lavoro di mera routine (fa l’ingegnere calcolatore) prova invidia per quella bellezza, per la goventù del rivale, per la sua libertà e
si sfoga rovinandogli il disegno. E’ un gesto clamoroso, uno dei pochi di un racconto fatto di evanescenti sensazioni, e una presa di distanza definitiva da quel mondo rispetto al quale gli sradicati personaggi di Antonioni
sono esiliati. Poco dopo la situazione precipita: Sandro racconta la propria insoddisfazione professionale a Claudia, diviene aggressivo con lei, pretende un rapporto sessuale segnato da una certa brutalità e, così, anche il
tenue filo che legava la coppia si spezza. Nell’ultima parte i due rientrano precipitosamente nell’universo astratto e internazionale nel quale possono meglio perdersi. Vanno quindi nella città meno siciliana della Sicilia
- Taormina - in uno di quei grandi alberghi che si ritrovano identici un po’ ovunque sul pianeta. Al riparo dalle “incomprensibili” certezze delle piccole comunità locali, definitivamente archiviata la questione di Anna, la
coppia vive l’ultimo scacco: Sandro lascia Claudia in stanza e si intrattiene nella hall dell’albergo con una prostituta di lusso fino al mattino quando viene scoperto da Claudia. I due escono all’aria aperta e, senza parlarsi,
vanno su un’ampia terazza: nel campo lungo finale lui piange, lei perplessa finisce per perdonarlo con un gesto evidente; la metà a destra dell’immagine - quella di Sandro - restituisce un muro pieno e soffocante; la metà a
sinistra - quella di Claudia - mostra un panorama aperto sul mare. In questa seconda parte - come ne Il grido - Antonioni ritrae con abilità di documentarista la realtà siciliana (ma non riesce a non ridurla, nella sequenza di Claudia circondata dagli uomini di Noto, a caricatura piena di supponenza per un mondo che, con tutta evidenza, l’autore considera arretrato) e mette in scena un viaggio-ricerca nel quale appare sempre palpabile la distanza tra la coppia - straniera in quella terra ed estranea alla mentalità in essa egemone - e i siciliani assorbiti in differenti attività, in ogni caso lontani dalle preoccupazioni esistenzialiste dei ricchi protagonisti. Anche in questo senso Antonioni migliora Il grido,
film in cui attribuiva a un operaio un inverosimile malessere, calandolo poi in mezzo a gente della sua classe sociale che, come tale, non comprendeva le sue scelte. Inoltre lo stile cronachistico con cui ritrae il “mondo
normale” serve a far risaltare la solitaria angoscia dei protagonisti i quali, giunti da tempo a un evidente benessere, privi di quotidiane concrete preoccupazioni, finiscono con l’osservare se stessi e il proprio agire come
svuotato di senso. Anche le relazioni sentimentali divengono allora stratagemmi di breve durata posti in essere contro la noia dell’esistere. Il sorgere e rapido declinare del rapporto tra Claudia e Sandro risolve il mistero de L’avventura (la scomparsa di Anna) mostrandoci nel finale il punto di partenza. All’inizio Anna sembrava avere già bruciato il proprio diversivo sentimentale, averne già esplorato il carattere finzionale: verificatane l’inutilità Anna scompariva, togliendosi la vita. Su quella terrazza Claudia, ora disincantata, si ritrova al punto di partenza di Anna.
Come nei primi film (Cronaca di un amore e La signora senza camelie) Antonioni ritrova la più completa ispirazione stilistica ne L’avventura e piega tutte le componenti del film a un aspro e freddo lirismo, volto a esprimere l’infinito disagio dei tre protagonisti. Inquadrature di superba bellezza, campi lunghi, indolenti movimenti di macchina, sonorità frammentate e sommesse (per l’interludio del pittore, Fusco compone un piccolo concertino barocco per fiati del tutto autonomo che si muove in parallelo ai gesti gratuiti dei personaggi), rumori che divengono emanazioni dell’anima (il soffiare dei venti, il rumore della folla, la presenza del mare, una canzonetta trasmessa dalla radio), primissimi piani bergmaniani sugli amanti, quadri totali sulla bellezza trascurata di Noto: ogni momento dell’opera è trasfigurato in solenne e austera ricerca audiovisiva.
L’avventura è un vasto affresco (in fatto di durata è il film più lungo di Antonioni) nel quale l’autore riassume per intero il proprio mondo poetico, utilizzando un titolo alquanto fuorviante poiché, secondo i canoni dello spettacolo, di avventure qui non se ne raccontano proprio (a meno che non ci si voglia riferire all’avventura sentimentale...). E si può, dunque, facilmente comprendere la nota contrarietà dei produttori (il film conobbe incredibili peripezie durante le riprese) di fronte a questa storia unica nel suo genere in quanto priva di scioglimento finale (dove è finita Anna?). Se però inseriamo la pellicola nella tradizione noventesca del romanzo interiore (da Svevo a Proust a Joyce) allora ci accorgiamo che di avventure “dell’anima” Antonioni ce ne raccontano fin troppe: la scomparsa della desolata Anna, il tentativo di Sandro e Claudia di eludere la tragedia rifugiandosi all’interno di una relazione di comodo, lo scontro di questo fragile sentimento con la bellezza forte e antica della comunità di Noto e infine l’avventura dentro l’avventura con la quale si torna al punto iniziale ovvero l’esplicita scelta distruttiva di Sandro che amoreggia con una prostituta nell’aperto di una hall dove verrà puntualmente scoperto da Claudia. Su quella terrazza di Taormina, nel silenzio dell’alba, i personaggi di Antonioni si ritrovano soli, deboli, feriti e senza valori definiti e condivisi, capaci cioé di guidarli nel prosieguo della loro “avventura” esistenziale. Manca loro la forza di accettare l’esistenza per quello che offre: un percorso a tempo, senza certezze, reso magnifico però dalla creatività umana e dalla capacità degli individui (della famiglia) di ricreare la vita, fattore quest’ultimo estraneo all’universo del regista.
Antonioni si propone come il più acuto poeta cinematografico della modernità percepita come dirompente scoperta del relativismo dei valori cui consegue una sorta di tragico sradicamento interiore e una totale, apatica
incertezza nella condotta morale. La modernità illuminista diviene insomma una sorta di malattia dalla quale sembra impossibile risollevarsi.
Il successivo La notte (gennaio 1961; 122 min.) rielabora le situazioni, le atmosfere e la filosofia de L’avventura. La pellicola - sceneggiata
dall’autore con Ennio Flaiano e Tonino Guerra - apre in modo netto sulla presenza della morte: lo scrittore Tommaso (Bernard Vicki), bloccato in un letto d’ospedale, ha le ore contate. La coppia di amici, Giovanni Pontano (un
Mastroianni perfetto) e Lidia (Jeanne Moreau) lo va a trovare: si discute di libri (si parla di Adorno) e si cerca di rimuovere l’idea della fine incombente. Tornati a Milano dove Pontano si reca alla presentazione del suo
nuovo romanzo, la crisi della coppia esplode. Sotto la maschera di una semplice morte dei sentimenti si annida in realtà uno smarrimento complessivo e ideale che il contatto diretto con il morente Tommaso ha accentuato. I
personaggi di Antonioni si confermano isole desolate: nessun valore tradizionale appare presente nei loro discorsi, il matrimonio di Giovanni e Lidia appare una convivenza qualunque (non esiste la tematica dei figli, neppure
adombrata di sfuggita) mentre la primaria preoccupazione sembra essere quella di una creatività artistico-ideale in un universo privo di orizzonti certi. Così Lidia inizia un lungo vagabondaggio che la porta a Sesto San
Giovanni, dalle parti della Breda e di viale Fulvio Testi dove cerca di confondersi con l’umile gente di quella periferia, tra rumorosi lanci di razzi (fuochi d’artificio) e piccole risse di giovanotti vagamente imparentati con
i ribelli della beat generation. La pura, semplice e aproblematica vitalità di queste persone (la cui fnzione di “contrappunto” è simile a quella rivestita dalla comunità di Noto ne L’avventura) non si comunica alla
donna che rimane prigioniera delle proprie angosce. Giunge la simbolica notte nella quale i contorni delle idee sembrano farsi ancora più incerti. Dapprima la coppia si reca a un night dove assiste alle contorsioni di una
ballerina di colore che, accompagnata dalle note meste di un blues, riesce a tenere in ostinato equilibrio un bicchiere pieno di vino sulla propria fronte. Giovanni che la guarda con evidente ammirazione probabilmente intuisce,
in quel bizzaro spettacolo, un’allegoria dell’esistenza, percorso difficile e accidentato, mesto e forse inutile come le prodezze di questa sorta di moderno clown. Poi la coppia si reca a una festa notturna in Brianza: sempre
un blues, suonato dal quartetto di Gaslini, accompagna l’ingresso dei protagonisti in questo universo fatuo e rumoroso (ma, nel silente giardino della villa, Pontano afferma, in modo allusivo, “qui sono tutti morti...”). Il
tormentato scrittore si scontra con l’universo solido e aproblematico dell’industriale Gherardini, orgoglioso della propria azienda (ma anch’egli perseguitato dalla solitudine e desideroso di approfondire i “rapporti umani”,
quanto meno nel suo universo di lavoro) e amoreggia con Valentina (Monica Vitti), figlia del padrone di casa, una depressa spiritosa che inventa giochi di società e legge I sonnambuli mentre Lidia riceve la notizia della morte di Tommaso e sprofonda nella più nera insofferenza.
All’alba la coppia esce all’aperto, confessa il proprio smarrimento e cerca conforto in una generica accensione erotica. Come si nota le coordinate sono le stesse de L’avventura con, in più, la presenza esplicita della morte la quale, in un contesto di convinto nichilismo valoriale, rende illusoria ogni azione dei personaggi i quali, coscientemente, si trascinano da un luogo a un altro. Lidia è la nuova incarnazione della fuggitiva dell’Avventura,
Giovanni riprende i tratti di Sandro (come quest’ultimo cerca in numerose relazioni sessuali con ragazze molto giovani la cura per la propria noia esistenziale e, probabimente, il ricordo di una precedente età più emozionante e
inconsapevole; nell’episodio iniziale, nella clinica, si apparta con una ninfomane) mentre Valentina si colloca nella posizione di Claudia, anche se questa volta anche il personaggio di Monica Vitti appare roso dal tarlo di un
cinico scetticismo. Vengono citati Adorno la cui filosofia negativa appare solo in parte (la pars destruens) aderente alla visione di Antonioni mentre più preciso appare i riferimento ai Sonnambuli (1931-32. appena tradotto in italiano per i tipi della Einaudi, 1960), trilogia di Hermann Broch sul crollo dei valori della borghesia tedesca, vasto affesco nel quale i protagonisti - parenti stretti dei personaggi del regista ferrarese - si aggirano appunto come sonnabuli e come maschere apatiche dietro le quali si celano incertezze ideali e vertiginose paure.
Il regista riprende poi lo schema narrativo che dominava La dolce vita (il paragone nasce spontaneo anche a causa della presenza di Mastroianni in entrambi i film): la seconda parte del racconto inizia di sera (al night, come negli episodi felliniani della prostituta e del padre) e si conclude alle prime luci dell’alba; ma laddove nel film dell’artista riminese si alludeva alla tematica della rinascita di un’intera società (anche se spaventata dalla dimensione del nuovo inteso come ignoto), nella pellicola di Antonioni lo scorrere del tempo non muta, semmai accentua lo stato di crisi dei personaggi. Perciò l’alba giunge livida e disvela nella sua nuda essenza una crisi esistenziale che appariva confusa e, in fondo, sopportabile nel variopinto scenario collettivo della baraonda notturna.
La musica riveste, questa volta, una funzione più secondaria (manca l’importante contributo di Fusco), anche se la presenza del blues e del jazz - ossia di una musica giunta da oltreoceano - allude (come ne La dolce vita)
all’invasione culturale americana posteriore al 1945 come a un forte elemento propulsivo nel processo di estremizzazione del modernismo scettico e nichilista. In ogni caso lo strumento più sorprendente dell’autore è sempre
la qualità artistica delle immagini: sono ora soprattutto i paesaggi urbani a dipingere l’angoscia dei personaggi. In quell’estate 1960 Antonioni ritrae due differenti caratteri di Milano: innanzitutto i modernissimi
grattacieli (Pirelli e Galfa) insieme ai nuovi palazzi razionalisti della Montecatini e di viale Europa i quali indicano una modernità sfavillante e asettica le cui linee geometriche imprigionano e, in qualche modo, soffocano,
le figure umane. Accanto ad essi c’è l’altra Milano, quella popolare, degli improvvisi squarci su cortili fatiscenti e su edifici lesionati (i segni dei recenti bombardamenti) che fa da antitesi e in fondo evidenzia la
duplicità dei protagonisti, sereni, colti e sicuri di sé in superficie ma feriti e confusi nel proprio intimo, dietro quella fragile maschera di geometrica modernità. Le immagini, sempre di altissimo livello figurativo
(molto più dei dialoghi a volte incerti e delle sonorità ora meno determinanti), costituiscono il cuore espressivo dell’opera: soprattutto grazie ad esse l’autore esprime la propria quieta disperazione innervata di un radicale
e inconsolabile nichilismo. E’ doveroso aggiungere una breve noterella storica. Invano la critica dell’epoca cercò di strumentalizzare le angosce di Antonioni in una direzione rivoluzionaria. Aristarco su tutti, scrivendo
de L’avventura e de La notte su “Cinema nuovo” (n.149, gennaio1961) si interroga (in modo retorico) intorno alla natura della crisi esistenziale che permea ogni immagine di questo cinema, cercando di inserire tali tematiche in un contesto di critica a una borghesia inautentica che attende la propria rigenerazione e salvezza dalla rivoluzione proletaria e parlando addirittura di un cinema nemico del Potere. In modo estremamente onesto il critico chiarisce che di simpatie comuniste non c’è traccia in questi film ma che si tratta di una sua personale lettura. Va rilevato, di coneguenza, che l’enorme favore critico di cui Antonioni può avvalersi in quegli anni è, in parte, frutto di questo equivoco: il “cinema dell’alienazione” considerato come la cronaca di una realtà dolente e contradditoria, che vive in attesa di svolgersi dialetticamente nel proprio opposto, per approdare a un differente sistema sociale (il comunismo) nel quale quelle problematiche potranno trovare facile risoluzione. Il tempo - ossia il 1989 - ha dissolto queste messianiche sciocchezze.
L’eclisse (aprile 1962; 125 min.), film basato su una sceneggiatura scritta dal regista con Tonino Guerra
(e altri), si divide in tre parti distinte, incorniciate da un prologo e da un epilogo. Nel prologo, di un’imbarazzante mediocrità, Antonioni ripete l’incipit de L’avventura e de Il grido: e, in un certo senso,
riprende il discorso laddove era rimasto interrotto nel finale aperto de La notte Vittoria (una Monica Vitti poco convinta) lascia lo scrittore Riccardo (Francisco Rabal), perché non lo ama più. In una stanza soffocante, chiusa da pesanti tendaggi, tra pigne di libri, silenzi e goffi balbettamenti, si consuma la rottura di una relazione. Questo prologo si prolunga in una passeggiata tra le razionalistiche architetture dell’Eur: come per L’avventura si intravede in lonananza la cupola di San Pietro (di nuovo appare evidente il disinteresse, quasi il fastidio dell’autore, per la storia secolare della città, per le sue radici) mentre, per il resto del film, la Roma di Antonioni sarà questa dell’Eur ovvero di un quartiere moderno e anonimo, una elegante periferia come se ne possono trovare in qualunque grande metropoli europea. La sagoma (anch’essa ripresa in lontananza) della torre fascista costruita per i festeggiamenti del ventennale (già presente ne La
signora senza camelie) ci ricorda l’altra Roma, quella (tramontata nel sangue) delle illusioni imperiali e colonialiste del fascismo. Liquidato il fidanzato ottuso (come quasi tutti i personaggi maschili di Antonioni),
si passa al primo atto, tutto femminile: Vittoria e due amiche passano un’allegra serata chiacchierando nell’appartamento di una giovane inglese che rimpiange il Kenya. L’incontro sfocia in un inatteso siparietto con Vittoria
truccata da negra che inscena balli sensuali tra le risate delle compagne. Antonioni descrive nuovamente un gruppo di donne assorbite da preoccupazioni esistenziali che tendono a coincidere, almeno in superficie, con le loro
relazioni amorose: le immagini tutte giocate su un compiaciuto e suggestivo formalismo non bastano a cancellare il senso di vuoto e di noia che la situazione trasmette. Il secondo atto invece è volto a illustrare l’universo
maschile in un modo inedito per l’autore: abituato a ritrarre l’uomo sempre e solo nella limitante relazione con l’altro sesso, questa volta Antonioni cerca di ritrarre un universo puramente maschile e sceglie il mondo della
Borsa. Con la consueta abilità documentaristica, l’autore ci racconta la lotta quotidiana che assorbe una massa di uomini urlanti, intenti a vendere e comprare titoli. Un crack improvviso getta il panico in quell’ambiente e
rischia di mandare in rovina alcuni di quei protagonisti. Il parallelo suona evidente e quasi didascalico: la perdita sentimentale di Giuliana si riflette nella perdita finanziaria di Piero (Alain Delon), il protagonsita
maschile. Il breve “documentario” sulla logica dell’universo borsistico appare chirissimo: gli uomini lottano con mezzi simbolici (denaro, titoli) poiché quando vendono e quando comprano sono certi di stare infliggendo un danno
ai loro partner (si vende quando si è certi che un titolo scenderà e viceversa, cercando quindi di arricchirsi e al tempo stesso di causare un danno al proprio partner commerciale). Questa seconda pare, pur tra lungaggini, è
certamente migliore in quanto si avvale di un Delon che non si lascia completamente imprigionare dalle tormentate intenzioni del regista e rimane un personaggio a tutto tondo, vivace e simpatico. All’agente di borsa rubano
anche la bella auto (ulteriore “perdita”) senza peraltro causargli gravi angosce. Illustrati i due differenti universi ovvero la tendenza all’accoppiamento e quello alla distruzione, eros e thanatos, Antonioni riunisce le
due figure emblematiche nel terzo atto: tra Vittoria e Piero “scoppia” l’amore o qualcosa di simile. Per lui è certamente forte l’attrazione sessuale (tra gli oggetti dell’uomo Antonioni inserisce vari gadget erotici con
l’evidente intento di sminuire il personaggio e chiarirne la presunta pochezza) mentre per lei si tratterebbe di un sincero turbamento amoroso. In ogni caso questa terza parte - duante la quale sparisce tutto il resto
(personaggi secondari, questioni borsistiche, amiche “africane”) - è la migliore, quella dove finalmente le intenzioni poetiche, dopo tante immagini calligrafiche e un po’ stucchevoli, si fanno realtà grazie alla fredda
ambientazione tra suggestive architetture, a dettagli insoliti, a commenti musicali (è tornato all’opera Fusco) sommessi e insinuanti, alle precise caratterizzazioni familiari (le abitazioni di Vittoria e Piero, l’una misera,
l’altra ricca: ritroviamo il consueto abbinamento di un uomo appartenente all’alta borghesia e di una donna proveniente da classi sociali più umili come ne Le amiche e ne L’avventura) e soprattutto alla ritrovata
umanità dei personaggi (Giuliana vive proprio in via dell’umanesimo... ) che si traduce in un’intensità interpretativa coinvolgente. Giunto a questo punto del suo strano saggio antropologico, dopo avere spiegato le differenti
realtà della femmina e del maschio, le differenti spinte che muovono i due personaggi (nonostante le evidenti differenze di classe sociale che rimangono, per l’autore, un fatto poco rilevante) e dopo averli riuniti in un atto
d’amore lungamente atteso (soprattutto - si può immaginare -
dai produttori del film, sempre preoccupati dall’esito del loro investimento finanziario) Antonioni, a sorpresa, li abbandona e firma un sorpendente epilogo astratto (circa 7 min.) nel quale rivediamo una serie di paesaggi, di figure secondarie e di dettagli che avevano popolato il film, unitamente ad altre immigini del tutto originali. Questo caleidoscopio di inquadrature - ritraenti oggetti e figure collocate prevalentemente nel quartiere Eur - cementate da intermittenti interventi sonori, all’insegna della consueta, gelida modernità quasi inespressiva, costituisce una formidabile conclusione, intrisa di abbandono poetico. L’eclisse di sole (con cui sembra iniziare la sequenza) allude a un’eclisse più generale, al buio che cala su personaggi e su cose, su atteggiamenti e su tendenze: scoperto il fatuo gioco dei personaggi, i meccanismi sempre identici e necessari che guidano inesorabilmente il loro agire, l’autore, come stanco del proprio soggetto finzionale, lo abbadona senza uno scioglimento chiaro (forse i due non si ritroveranno al solito angolo di strada che rimane ostinatamente deserto in queste immagini finali) e ritrae una serie di oggetti e figure la cui realtà appare in fondo più misteriosa di quella dei personaggi. Una bambinaia con carrozzina, gente che scende da un autobus in periferia, una tinozza piena d’acqua e sagome geometriche di edifici, cumuli di mattoni e un fantino, edifici in costruzione e muri fatiscenti si mischiano in una vertigine di stampo fenomenologico, in una disperata ricerca di senso indirizzata verso valori certi di cui si è tragicamente perso ogni orizzonte. L’eclisse racconta l’oscuramento di qualuque speranza: dopo il soffocante prologo con Vittoria chiusa in una stanza-prigione, questo antitetico epilogo “nell’aperto” di un universo dove ogni senso appare eclissato, conclude su una nota di quieta e compiaciuta disperazione la ricerca metafisica dell’autore. Cose e persone sono ridotte a vuote sagome silenti, giovani (la carrozzina) o vecchie (le figure sull’autobus), in costruzione (un edificio) o solidamente presenti, tutte in attesa della propria fine. Nel buio che avvolge le cose, una luce artificiale (un lampione) si sforza di illuminare il mondo: su essa termina il discorso de L’eclisse. Questo finale astratto - unico nella storia
del cinema (almeno a quella fino ad allora nota) - sperimentale e provocatorio, ricorda una pratica dei produttori discografici i quali lasciavano ai propri cantanti e gruppi rock una spazio completamente libero nella parte
finale delle loro creazioni discografiche. E’ come se il produttore - ottenuto da Antonioni ciò che più gli premeva (la presunta storia d’almore tra Vittoria e Piero) - avesse poi lasciato carta bianca al regista negli ultimi
sette minuti. D’altronde le premesse di questo desolato finale erano presenti fin dall’insolito svolgimento musicale che animava i titoli di testa dove un’allegra e spensierata canzonetta (Eclisse Twist, cantata da Mina)
veniva di colpo oscurata da terribili, aspre sonorità, in una sorta di dissolvenza incrociata sonora. L’intenzione di “eclissare” i contenuti abituali dello spettacolo e di racchiuderli dapprima in un contesto saggistico (la
trattazione dei due distinti universi) per poi eliminarli completamente nel finale astratto - con un gesto non esente da intimo disgusto - era anticipata in quel traumatico percorso sonoro. Nel sorprendente finale
“inanimato”, la costante presenza della morte si fa più precisa. Nel corso del film per ben due volte essa irrompeva improvvisa: nel ripescamento del ladro d’auto dal laghetto dell’Eur (un episodio, questo, finalizzato proprio
a ricordare ai personaggi la fine ineluttabile della loro esistenza; come sempre Vittoria appare più sensibile al problema mentre Piero si preoccupa solo dei danni della sua auto) e nel minuto di silenzio (fatto durato
realmente un minuto, con effetti di evidente sottolineatura) che interrompe le contrattazioni borsistiche in omaggio alla memoria di un collega recentemente scomparso. Questa presenza insinuante della morte - che fa il paio con
la totale assenza degli elementi della Tradizione (la famiglia, la discendenza, la fede cristiana) tutti, in fondo, volti ad esorcizzare la fine della vita - contribuisce a gettare nella perenne disperazione i personaggi di
Antonioni. Sradicati, senza valori certi, in perenne movimento materiale o sentimentale, essi finiscono col percepire il proprio percorso umano come inutile soprattutto in quanto transitorio. La sequenza astratta conclusiva
ribadisce questo concetto: le cose attendono quietamente la propria fine, bambini e vecchi, edifici in costruzione e solidamente presenti, così come il giorno finisce e da un autobus scende un uomo che legge notizie terribili
intorno a una possibile terza guerra mondiale (sono gli anni dei missili sovietici a Cuba), metafora lugubre di una morte più universale. Nel naturale crepuscolo un lampione si sforza di tenere accesa la luce sulle umane cose.
Il quarto e ultimo capitolo della tetralogia, Deserto rosso (settembre 1964; 120 min.) è il secondo capolavoro dell’autore (dopo L’avventura). In esso
Antonioni porta nuovamente all’apice la disperazione esistenziale della nuova protagonista, Giuliana (Monica Vitti, più convincente rispetto a L’eclisse). Il film - il primo a colori del regista - è come sempre
scomponibile in blocchi narrativi. Nella prima parte si raccontano gli inquieti vagabondaggi della donna, moglie poco convinta di Ugo (Carlo Chionetti), padrone di un’industria collocata nei dintorni di Ravenna. Giuliana è
l’ultima trasformazione di Anna, la fidanzata che scompare a Lisca Bianca. Giuliana, invece, non è scomparsa (ma ha già tentato di suicidarsi), si è inserita in una normalità che non sente, si è sposata e ha generato un
(povero) figlio di cui si cura assai poco. Vive assorbita dalle proprie lacerazioni esistenziali, non riuscendo ad accorgersi compiutamente dei problemi di coloro che la circondano. Si aggira quindi, col suo bambino al quale
praticamente non parla mai, nei dintorni della fabbrica, un enorme mostro moderno che Antonioni erige a immagine simbolica della crisi di Giuliana (un po’ come gli aspri paesaggi di Lisca Bianca per il dramma di Anna e le
geometrie urbane milanesi per lo sconforto di Giovanni e Lidia). Con inquadrature di magnifica composizione (questo è probabilmente il film più pittorico e seducente del regista, sequenza abbagliante di “quadri” dalla potente
presenza visiva), spesso segnate da un colore vivo in primo piano (quasi sempre il rosso del titolo), Antonioni esprime la disperata confusione interiore di Giuliana. Il paesaggio invernale e nebbioso, lungi dal riferirsi a
problematiche industriali o sociali o relative all’inquinamento, semplicemente esprime il disadattamento della protagonista. Si succedono pertanto immagini belle e desolate, spesso accompagante da invadenti rumori o (il che è
lo stesso) dalle fasce sonore elettroniche di Gelmetti. Come al solito, la protagonista di tanto dolore cerca in una nuova relazione sentimentale una via d’uscita (come già Giovanni ne La notte e Vittoria ne L’eclisse):
Corrado (Richard Harris), un amico del marito, la corteggia per le claustrofobiche strade di Ravenna (in particolare una via antica, di un grigio omogeneo, senza apparente uscita) e nello spoglio negozio in allestimento della
donna (un giocattolo con cui Giuliana cerca altre vie di fuga). Nella seconda parte un gruppo di amici della coppia (o triangolo) si riunisce in un capanno situato nel lungo canale del porto (siamo a Marina di Ravenna),
tinteggiato di un accecante rosso, per pranzare e scherzare con una certa amorale libertà, tipica dei personaggi altoborghesi che Antonioni mette in scena (memore di Tra donne sole di Pavese). Questo gruppo di figure attua schermaglie erotiche che indicano la disperata (l’onnipresente rosso) vitalità di personaggi privi di un orizzonte di valori certi nonché al sicuro dalle banali preoccupazioni del bisogno quotidiano. Dapprima essi vengono disturbato da un operaio con la sua fidanzata: la coppia, di una differente estrazione sociale, timida e stupita nel trovare il gruppo di “signori” in atteggiamenti poco convenzionali, è uno di quei segni della Tradizione (come, in seguito, un gruppo di marinai che dialoga con Corrado su questioni di lavoro; si vedano, al riguardo, il popolo di Noto ne L’avventura e gli abitanti della periferia milanese ne La
notte) che appare in piena dissonanza rispetto ai protagonisti altoborghesi; infatti i nuovi arrivati sono persone modeste ma, in qualche modo, certe della propria posizione sociale e dei proprio ruolo, insomma estranee a
qualunque atteggiamento nichlista. Poco dopo la morte irrompe per due volte in questo agitato contesto (come già accadeva ne La notte e ne L’eclisse): una nave con bandiera gialla si ferma di fronte al capanno; il
gruppo di amici, turbato, decide di andarsene e Giuliana scappa con l’auto rischiando di finire in acqua (come il ladro d’auto di L’eclisse). Nella terza parte Giuliana resta sola col figlio il quale, desideroso di
maggiori attenzioni, simula una grave malattia; a lui Giuliana racconta la favola di un’isola paradisiaca dalla sabbia rosa (è l’isola di Budelli, in Sardegna) dove una ragazza vive felice fino a quando non percepisce un canto
splendido (unico contributo di Fusco a un film particolarmente “silenzioso”), affascinante e ossessivo, di cui dopo lunghe ricerche scopre la triste provenienza: figure umane incastonate nelle rocce cercano di attrarre la sua
attenzione (come il bambino con la madre) e si lamentano eternamente. Anche quel luogo apparentemente felice, è pervaso di sofferenza. Nella quarta e ultima parte Giuliana, scoperto lo stratagemma del figlio che, in
sostanza, la incolpa, fugge da Corrado e cerca sollievo nella nuova relazione amorosa. Come nelle altre opere del regista, la figura maschile appare inadeguata al compito e vagamente ottusa; dalla finestra dell’albergo Giuliana
vede alcuni anziani uscire da una chiesa (la lontananza-estraneità della Tradizione), fugge dall’amante e vorrebbe forse imbarcarsi su una nave qualunque ma il dialogo con un marinaio turco approda alla più totale e goffa
incomunicabilità (ne L’avventura, Anna era stata segnalata, dopo la scomparsa, al porto mentre parlava con marinai stranieri... ). “Ci sarà un posto dove star meglio” dice, in modo non molto convinto, Giuliana, guardando
una carta geografica; eppure la favola “paradisiaca” e la diversità dei linguaggi suggerisce che ogni fuga spaziale è vana e che le singole parti della totalità si assomigliano. Non resta che adattarsi alla propria
situazione e continuare a sopravvivere dentro la propria quieta disperazione. Le ultime immagini chiudono il film in circolo, riproponendo Giuliana, col suo cappotto verde, girare senza meta nei dintorni della fabbrica del
marito. Questo magnifico dramma nichilista, (ovviamente) “sconsigliato” dalle gerarchie cattoliche e premiato dal leone d’oro a Venezia, conclude momentaneamente il viaggio di Antonioni dentro i meandri di una modernità,
generata dalle presunzioni razionalistiche dell’illuminismo (lo sprezzante abbandono dei temi e delle consuetudini della Tradizione) e percepita come incerta, malata e in bilico verso un angosciante vuoto di valori.
testo scritto nel mar. 2010
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