La coda dello scorpione, La tarantola dal ventre nero

Lo strano vizio della signora Wardh, La coda dello scorpione, Una lucertola con la pelle di donna, La bestia uccide a sangue freddo, La tarantola dal ventre nero, L’iguana dalla lingua di fuoco, Giornata nera per l’ariete, Reazione a catena, Una farfalla con le ali insanguinate, La morte cammina con i tacchi e La corta notte delle bambole di vetro: gli altri animali (1971)

                “Dovevamo imitare i film di Dario Argento senza possedere il talento di Dario Argento... il mio è proprio un film cialtrone: una clinica di pazzi con le armi appese ai muri”.
                F. Di Leo parla di La bestia uccide a sangue freddo

Sergio Martino, nato a Roma nel 1938, nipote del regista Gennaro Righelli, inizia a lavorare nel mondo del cinema negli anni sessanta. Dopo aver svolto differenti mansioni (tra cui aiuto regista di Brunello Rondi per Il demonio, 1962), esordisce alla regia nel 1969. Martino è il primo dei numerosi autori italiani a imitare lo stile di Argento con Lo strano vizio della signora Wardh (gennaio 1971; 98 min.), pellicola che risulta tra le pochissime a cimentarsi nel nuovo genere del giallo italiano con venature sadiche prima dell’estate 1971 ovvero prima del successo del Gatto a nove code (febbraio 1971) e della conseguente nascita del filone. Anche il titolo, privo di riferimenti ad animali, lo conferma in quanto il solo Uccello dalle piume di cristallo non aveva ancora scatenato una sequenza di imitazioni, né la moda dei titoli “zoologici”.
Martino, servendosi di una sceneggiatura di Ernesto Gastaldi, Eduardo Maria Brochero e altri, innesta lo stile sanguinario di Argento nel solco del thriller erotico di fine anni sessanta (si pensi ai film di Lenzi e di Fulci) creando un prodotto discreto sebbene molto lontano dalle qualità del modello. A Vienna (notevoli gli scorci della zona monumentale della città austriaca; si possono vedere tra l’altro Kärntnerstrasse e piazza Santo Stefano non ancora trasformate in isole pedonali) uno psicopatico nerovestito uccide belle donne a rasoiate, esattamente come ne L’uccello dalle piume di cristallo. Anche i delitti ripetono situazioni note: uccisione sotto la doccia, in una stanza da letto, in un parcheggio per auto in cui viene a mancare la luce e infine nel parco di Schönbrunn all’imbrunire (quest’ultimo tipo di delitto verrà ripreso da Argento, con migliore esito, nelle 4 mosche) e il significato complessivo resta quello già discusso: donne sole, emancipate, provocanti vanno incontro a morti efferate per la gioia di un pubblico maschile che le vive come una morbosa miscela di erotismo e violenza nei confronti di un universo femminile ormai sfuggente. Nel film di Martino poi tutte le donne sposate hanno amanti, frequentano festini erotici e per finire la protagonista Julie Wardh (una Edwige Fenech ai primi successi) possiede tendenze masochiste (è appunto il vizio del titolo).
Dunque la pellicola ripecorre - più o meno consapevolmente - le ossessioni lanciate da Argento nell’arena mediatica, ma vi aggiunge un aspetto poliziesco di tipo razionalistico. Lasciata da parte ogni tipo di schizofrenia, il balletto intorno alla bella protagonista, più volte sul punto di morire ad opera del misterioso assassino, si conclude con un inatteso e riuscito colpo di scena: i tre uomini che la circondano ovvero il marito (Alberto De Mendoza), l’antico amante sadico (Ivan Rassimov) e il nuovo amante George (George Hilton), tutti piuttosto ambigui, sono in realtà un’associazione a delinquere: sfruttano la presenza del maniaco (un signor nessuno che, alla fine, si rivelerà estraneo alla storia) per affibbiargli una serie di delitti che fanno loro comodo per questioni di eredità o di assicurazioni sulla vita. La svolta finale quindi riprende il giallo tradizionale, con tanto di riferimenti alla classica situazione del delitto in stanza chiusa (dall’interno) della letteratura mystery di tradizione anglosassone allorché Ivan Rassimov cerca di simulare il suicidio della Wardh per asfissia.
La sorpresa conclusiva - con questa alleanza tutta maschile ai danni delle giovani e belle vittime - non fa che ribadire la forte corrente misogina che pervade questo cinema di matrice argentiana. Non manca nella soluzione basata su uno scambio di delitti tra il marito e l’amante della Fenech il riferimento a L’altro uomo (1951), il  classico di Hitchcock, dal romanzo Sconosciuti in treno (1950) di Patricia Highsmith.
Quello che invece manca alla pellicola è un marchio stilistico che la renda memorabile. Mancano innanzitutto gli originali impasto sonori di Morricone sostituiti da un tema-carillon assolutamente ordinario e da motivi dolciastri di tipo sentimentale (commentano la lunga love story Hilton-Fenech) che deviano il racconto verso lidi impropri, facendone franare la tensione. Manca un’impostazione visiva nervosa e personale nel taglio delle inquadrature e manca infine il personaggio del detective a tirare le fila del racconto, a renderlo teso ed enigmatico, sostituito invece dalla inefficace centralità del personaggio femminile, una bella Fenech, anche discreta come attrice, ma inadatta a tener desta l’attenzione sul versante del mystery; né il suo ruolo di vittima designata desta alcuna preoccupazione poiché trattandosi dell’unica protagonista, appare evidente che nessuno riuscirà ad ammazzarla prima della fine del racconto, mentre i suoi traumi giovanili e le sue indecisioni sentimentali (tra l’antico amante sadico e l’insignificante ricco marito) suscitano scarso interesse.
Insomma la pellicola scorre senza mai coinvolgere realmente, anche se in più momenti incuriosisce e, a tratti, riesce anche ad essere permeata da una buona suspense (in tal senso la sequenza del parcheggio è certamente la migliore, ma anche quella ambientata a Schönbrunn è valida).
In ogni caso il fim ottiene un buon esito commerciale.
Sergio Martino, gli sceneggiatori Brochero (autore del soggetto), Gastaldi (e altri) e gli attori Hilton e De Mendoza perfezionano la formula con La coda dello scorpione (agosto 1971; 90 min.;
locandina), una delle migliori pellicole del regista. Questa volta il balletto è intorno a un milione di dollari ovvero l’assicurazione sulla vita riscossa da Lisa Baumer (Ida Galli alias Evelyn Stewart), moglie di un ricco uomo d’affari morto in un incidente aereo. La donna è la principale sospettata ma, a sorpresa, esce di scena, in un lago di sangue, a un terzo del racconto (come in Psycho). Un commissario (Luigi Pistilli), un agente delle assicurazioni (George Hilton) e un poliziotto dell’Interpol (De Mendoza) indagano mentre i cadaveri di belle donne si accumulano, deturpati dal solito sadico nerovestito e armato di coltelli. Le situazioni sono sempre quelle di Argento - donna sola aggredita e uccisa in casa, il detective che non ricorda un dettaglio, la soluzione nei polsini del morto a forma di scorpione scoperta attraverso un ingrandimento fotografico, una vicenda amorosa tra Hilton e una giornalista (Anita Strindberg, somigliante alla Spaak del Gatto a nove code) - e anche la musica, ora affidata al valido Bruno Nicolai, imita i caos sonori di Morricone con buon esito. C’è perfino la corsa sui tetti di hitchcockiana memoria (per la verità realizzata in maniera assai goffa, almeno in riferimento al momento culminante, con la vittima più “affacciata” che appesa a un cornicione), già utilizzata da Argento nel finale del suo secondo film Il prodotto complessivo però funziona, senza possedere il fascino morboso e intenso degli originali.
L’ambientazione conferma i gusti internazionali di Martino e ci mostra dapprima il centro di Londra, poi ampi scorci di Atene e del Pireo per finire in un’isoletta greca. L’organizzazione logica del racconto ribadisce il gusto per il giallo classico del regista e dei suoi sceneggiatori: niente maniaci o psicopatici (sebbene le modalità omicide siano più truculente di quelle dei film di Argento) bensì fredde motivazioni legate al calcolo e al tentativo di accaparrarsi l’enorme somma in gioco. Ancora tre uomini al centro del racconto i quali, questa volta, non sono uniti da oscure cospirazioni anche se uno di loro, il più insospettabile, è l’assassino. La soluzione è avvincente e abbastanza logica: essa rovescia totalmente il percorso del racconto e chiarisce come il complotto sia stato ideato da un personaggio - il detective delle assicurazioni fornito del solito complice per sviare i sospetti del pubblico (come nella Signora Wardh) - del tutto estraneo ai Baumer.
Insomma ottima fattura, attori bravi, buon senso del ritmo e perfino una sana ironia intorno alla macchina dei sogni hollywoodiana: l’omicidio più cruento, quello del complice di Hilton, accecato con una bottiglia rotta, avviene mentre alla televisione uno zuccheroso  documentario esalta le aspiranti attrici della mecca del cinema. Appare evidente che la violenza esasperata e compiaciuta del cinema italiano si colloca in un ambito assai distante a quello dei rassicuranti blockbuster americani, tutt’ora egemoni a Los Angeles anche nell’epoca dei capolavori di Penn, Peckinpah, Coppola e Pollack. Tale violenza permane nel solco del discorso argentiano: donne disinibite, sicure di sé, sole nelle loro abitazioni, professionalmente emancipate (un’ereditiera con amante, una spregiudicata e solitaria ricattatrice, un’insolita giornalista di cronaca nera che si lamenta di essere mal vista in quel ruolo tutto maschile) vengono fatte a pezzi per l’inconfessabile e oscuro piacere di un pubblico (maschile) che mal digerisce la svolta paritaria della società italiana post ‘68.
Il successo è anche questa volta buono (circa 100 milioni) anche se si tratta di meno di un decimo di quanto incassato da Il gatto a nove code (oltre un miliardo).

Il secondo film apertamente ispirato all’opera prima di Argento è Una lucertola dalla pelle di donna (febbraio 1971; 95 min.) di Lucio Fulci che esce sugli schermi una settimana dopo il Gatto a nove code con un titolo praticamente imposto dalla produzione (modificando quello provvisorio de La gabbia) per cavalcare il felice momento del giovane regista romano. In realtà la somiglianza è piuttosto esteriore (titolo a parte) in quanto Fulci ripete qui la formula del lesbo-thriller di Una sull’altra (1969; vedi) che gli aveva fruttato un grosso successo e vi inserisce solo alcuni tratti ripresi dal cinema di Argento. Infatti il cast è grosso modo quello del precedente film ambientato a san Francisco: stesso sceneggiatore (Roberto Gianviti), ancora Jean Sorel nel ruolo principale e Alberto De Mendoza in quello di un sergente di polizia. Se Argento aveva pescato Musante sul set di Metti una sera a cena (Griffi, 1969), da quel contesto Fulci invece riprende l’enigmatica Florinda Bolkan (destinata in quello scorcio di tempo a divenire estremamente popolare in Italia, con Indagine di Petri e Anonimo veneziano di Enrco Maria Salerno) e la rende il centro assoluto del nuovo film.
Carol (la Bolkan) è perseguitata da ossessioni erotiche e sogni deliranti (con citazioni da quelli di Io ti salverò; Hitchcock, 1945). Vive nella ex Swinging London di Blow Up (1966), ritratta in squarci urbani piovosi e tristi, ha una spregiudicata e vistosa vicina di nome Julie (Anita Strindberg; un po’ come l’audace Sandra Milo in Giulietta degli spiriti di Fellini) che tiene rumorosi festini hippy con droga, sesso e rock’n’roll. Poi qualcuno ammazza a coltellate Julie, Carol precipita in una depressione maniacale, viene sospettata, aggredita da un pazzo omicida, nonché da uno stormo di pipistrelli (nello stile de Gli uccelli hitchcockiani) e infine si scopre che era effettivamente lei l’assassina (scioglimento assai scontato): la vicina di casa la ricattava, minacciando di rivelare a tutti le sue tendenze lesbiche. Nel frattempo il disperato marito (Jean Sorel) di Carol, si suicida per coprire le malefatte della moglie, fornendo così un primo, fittizio finale (al quale non crede nessuno) nel solco de L’uccello dalle piume di cristallo.
Il film di Fulci è fiacco, colmo di tempi morti e di sequenze tirate per le lunghe, guarda in troppe direzioni (il film d’autore, il noir onirico alla Fritz Lang, il giallo sanguinario alla Argento) e si perde in un collage di situazioni che a fatica vengono tenute insieme dalla centralità di una spiritata, ma anche terribilmente monocorde, Florinda Bolkan. Le musiche sono assai buone in quanto affidate a Ennio Morricone il quale fornisce un soundtrack rumoristico, pulsante, ripetitivo e inquieto, molto simile a quello del coevo Gatto a nove code. Ma la sceneggiatura è disastrosa, gli attori appaiono sconcertati e smarriti (viene sprecato anche Stanley Baker, icona del free cinema inglese, nel ruolo del commissario) e il film risulta un notevole passo indietro anche nei confronti di Una sull’altra, pellicola che era ritmata da una migliore sceneggiatura e da uno stile meno pretenzioso.
Per poter reclutare a tutti gli effetti la Lucertola tra gli “animali” realmente argentiani mancano, in definitiva, un sadismo diffuso, omicidi rituali e compiaciuti, un vitalismo selvaggio e aggressivo, una chiara vena misogina e un’atmosfera ossessivamente lugubre. Al contrario Fulci ripiega verso estenuanti contemplazioni delle divagazioni (oniriche ed esistenziali) della sua protagonista, spostando il film verso le atmosfere assorte e crepuscolari del cinema dell’alienazione di Antonioni.

Al contrario Fernando Di Leo, dopo i fortunati esiti di Brucia ragazzo brucia (1969; vedi) e I ragazzi del massacro (1969, da Scerbanenco; vedi), sembra avere perfettamente compreso le componenti essenziali del cinema di Argento nel suo La bestia uccide a sangue freddo (agosto 1971; 92 min.), peraltro uno dei peggiori film del filone (lo stesso autore lo giudica assai negativamente). In una clinica per signore matte, depresse o ninfomani (Margaret Lee, Rosalba Neri, Monica Strebel) un pazzo nerovestito attua una vera e propria carneficina senza però riuscire a uccidere l’unica che costituiva il vero bersaglio di tutta la messa in scena.
La sceneggiatura, scritta da Di Leo, ripete il solito canovaccio della sequenza pretestuosa di delitti (utilizzata anche da Bazzoni in Giornata nera per l’ariete; vedi), ma lo fa in modo oltremodo svogliato.
In realtà il film è innanzitutto una pellicola erotica che anticipa movenze e stereotipi dei softcore che invaderanno la penisola a partire dalla metà degli anni settanta. Il primo omicidio avviene solo a metà film, dopo di che il lavoro precipita in una carneficina piuttosto efferata che ripete meccanicamente gli schemi argentiani: donne sole (isolate nelle loro stanze), seminude, vengono aggredite e fatte a pezzi dal presunto maniaco. Il sadismo misogino, con tutte le sue evidenti simbologie, diviene da quel momento il vero protagonista di questa pellicola sgangherata e insopportabile, dove dialoghi, persone e situazioni sono una semplice, generica cornice cui nessuno spettatore presta alcun interesse. Al contrario le scene erotiche nella prima parte e quelle sadiche nella seconda costituiscono l’unica ragion d’essere di questo modesto spettacolo.
Con i suoi interminabili tempi morti, i suoi dialoghi dilettanteschi, il commento sonoro sinfonico e la sua ambientazione nella consueta casa maledetta il film di Fernando Di Leo, che pretende di imitare le pellicole di Argento, in realtà si muove dentro le vecchie coordinate del film gotico tipico di Mario Bava.
Dunque anche a Di Leo viene commissionato un film nello stile dell’Uccello dalle piume di cristallo e il regista pugliese inventa questo castello in cui numerose belle donne, quasi tutte con turbe sessuali, vivono come in una prigione, dando sfogo a tutte le forme della loro ricca sensualità, per finire trucidate. Insomma Di Leo crea un universo fantastico di sapore medioevale (le armi appese alle pareti, alcune delle quali utilizzate dall’assassino, risalgono a quel periodo storico) nel quale proietta il naturale e ora problematico desiderio di dominio presente nell’animo maschile, turbato dalle repentine trasformazioni dei ruoli sociali. Pellicole come La bestia uccide a sangue freddo esistono in questa precisa fase storica poiché una consistente parte del pubblico vuole “celebrare” il sinistro rito di una propria rivalsa - inscenata secondo simbologie oniriche -  nei confronti di un pianeta femminile in rivolta.

Anche l’abile imitazione di Paolo Cavara La tarantola dal ventre nero (agosto 1971; 94 min.; locandina) sembra aver colto perfettamente la sostanza stilistica e ideologica del film d’esordio di Argento. Promotore del film è il produttore Marcello Danon il quale decide di inserirsi nel fortunato genere del nuovo giallo italiano; schizza allora un soggetto assai simile a quello dell’Uccello dalle piume di cristallo, interpella Tonino Guerra per la sceneggiatura il quale lo rimanda a Lucille Laks, con la promessa di attuare una supervisione del lavoro. Al posto di Tony Musante c’è un insolito Giancarlo Giannini nel ruolo di un indeciso e poco capace commissario il quale dà la caccia a uno psicopatico (Ezio Marano) che squarta belle donne (Barbara Bouchet, Barbara Bach, Claudien Auger, Rossella Falk) dopo averle immobilizzate, inserendo loro un spillone nel collo (dello spillone si ricorderà Argento nel suo sogno “arabo” nelle 4 mosche di velluto grigio, dicembre 1971). Gli omicidi, girati con notevole abilità seguendo lo schema argentiano (donne sole, emancipate, ninfomani, pellicciaie che trafficano in droga o signore che si accompagnano a giovinetti, sempre rigorosamente sole in appartamenti eleganti), si spingono verso un teatro della crudeltà perfino maggiore di quello presente nel modello. Viene così sottolineato l’elemento di sadismo misogino che finisce con l’essere il motivo egemone della pellicola, tanto più che l’assassino - un massaggiatore che si finge cieco in un centro estetico per ricche e annoiate signore - è un impotente che sfoga in questo modo il proprio odio per l’altro sesso. Il suo è un vero e proprio atto sessuale trasfigurato nel sangue poiché, dopo aver immobilizzato le vittime, pretende che lo guardino mentre le fa a pezzi. Al di là del carattere morboso e malato dell’insieme, appare facilissima (giunti a questo punto) la lettura simbolica del film quale ennesimo prodotto che offre a turbate platee maschili una serie di omicidi rituali consumati intorno a un corpo femminile - amato e odiato - che, nel suo moderno emanciparsi, ha oltrepassato gli antichi confini della Tradizione.
La conduzione del giallo è discreta - si tratta di uno dei migliori prodotti del filone - anche perché evita svolte troppo artificiose e prepara con calma il colpo di scena conclusivo (unico, senza doppi finali) che risulta abbastanza imprevedibile e compatibile con le modalità sanguinarie delle pratiche omicide. Punto debole è la detection affidata a un Giannini poco convinto il quale passa metà del tempo a lamentarsi con la fidanzata (Stefania Sandrelli), affermando che vuole dimettersi e che quel lavoro non fa per lui: il suo confuso indagare, infatti, non fa alcun progresso, rendendo monotone tutte le sequenze “poliziesche“ del racconto mentre la soluzione giunge improvvisa, per colpa di una disattenzione del maniaco. Ne risulta un film che vive soprattutto nelle fantasiose e sinistre sequenze in cui è presente il killer, con esiti indubbiamente squilibrati e ripetitivi.
La colonna sonora, affidata al solito Morricone, ripete senza troppo estro le stratificazioni sonore atonali composte per i film di Argento - anche ora inquiete fasce sonore, tipiche della musica delle cosiddette avanguardie, accompagnano gli efferati crimini - stratificazioni alle quali si affianca, come sempre, un discreto tema melodico cui manca però l’ambiguità infantile di quelli argentiani. E’ abbastanza bizzarro che i vocaboli delle avanguardie musicali europee - inascoltati dal grande pubblico delle sale concertistiche - abbiano trovato il loro momento di maggior fortuna commerciale al servizio di pellicole tanto “reazionarie” e per commentare scene tanto terribili. In realtà è la riprova che quel discorso musicale diviene efficace solo come elemento complementare di un racconto visivo sostanzialmente autonomo e che la sua “negatività”, del tutto inutile in ambito politico ossia come elemento antisistema, funziona invece in simbiosi con altre “negatività” come quelle della paura e del sangue.
L’ambientazione romana della Tarantola è mediocre: come nel caso di Giornata nera per l’ariete (vedi) si punta su squarci urbani modernissimi e periferici (anche in funzione del carattere internazionale del prodotto, concepito da Marcello Danon), ma senza fantasia: gli autori così finiscono con l’immergere il racconto in una grigia realtà metropolitana che non offre alcun elemento aggiuntivo di fascinazione visiva.

Al contrario quella di Riccardo Freda è una imitazione assai scadente. Prendendo spunto da un racconto di uno scrittore poco noto (Richard Mann), il regista gira a Dublino L’iguana dalla lingua di fuoco (agosto 1971; 98 min.) in cui si immaginano una serie di scombinati delitti ad opera del solito maniaco nerovestito il cui centro sembra essere un’ambasciata. Si scoprirà che l’assassino è il figliastro dell’ambasciatore, un frustrato di brutto aspetto che uccide spinto dal risentimento nei confronti dei normali. Il primo delitto però, tanto per render le cose ancora più confuse e gratuite, viene attribuito (senza troppe spiegazioni) all’ambasciatore stesso. Insomma un disastro narrativo senza capo né coda che funziona da pretesto per sciorinare, come al solito, una serie di sequenze di bassa macelleria (tra l’altro gli effetti speciali lasciano alquanto a desiderare). Nel generale caos (le vittime vengono scelte in modo piuttosto casuale) manca perfino quel sottofondo misogino che caratterizza i film del filone mentre l’aggiunta di una sedicente Miss marple (la madre del detective) - cui peraltro il maniaco spacca la testa - è del tutto fuori luogo visto il carattere illogico dell’intreccio ovvero quanto di più lontano dagli schemi geometrici presenti nei romanzi della Christie.
Nel ruolo del detective c’è uno spaesato Luigi Pistilli mentre la sua amante (Dagmar Lassander) è la figlia dell’ambasciatore (Anton Diffring). Condisce il tutto la colonna sonora morriconiana di Stelvio Cipriani.
Mosso forse da un certo pudore nei confronti di un lavoro tanto mediocre, il regista, autore in passato di pellicole di ben altro valore, preferisce firmare con lo
pseudonimo di Willy Pareto.
Va notato infine che nel disegno psicologico del detective - un ex poliziotto che si è dimesso dopo che un suo inquisito, pestato senza troppi complimenti, si è suicidato - rieccheggia la questione Calabresi-Pinelli (dicembre 1969), ampiamente discussa (fino alla morte del commissario avvenuta nel marzo 1972) dai media dell’epoca.

Luigi Bazzoni, giunto al suo terzo film, si inserisce nel solco di Argento con Giornata nera per l’ariete (agosto 1971; 90 min.), evidente imitazione che tuttavia parte dal romanzo The Fifth Cord (tit. it. Il segno dell’assassino, Giallo Mondadori, 1968) dello scrittore inglese Dominic M. Devine. La sceneggiatura, stesa dal regista con Mario Di Nardo e Mario Fenelli, si attiene in modo abbastanza libero al testo originario nel raccontare le indagini di un giornalista (Franco Nero) alle prese con un presunto maniaco omicida nerovestito e mascherato che uccide di martedì (il giorno di marte e quindi dell’ariete) scegliendo preferibilmente tra handicappati (Rossella Falk su sedia a rotelle), bambini e anziani. La soluzione è assai prevedibile: come nell’Uccello dalle piume di cristallo la prima vittima (Maurizio Bonuglia), sopravvissuta miracolosamente a un’aggressione, è in realtà l’assassino mentre lo schema dei delitti ripete l’antico canovaccio del mystery inglese (si pensi a The ABC Murders, Christie, 1936), in cui una serie di delitti inspiegabili e pretestuosi serve solo a mascherare l’unico delitto per il quale l’omicida possiede un vero movente. In questo caso l’assassino, un omosessuale, uccide tra gli altri l’amante (donna) del suo ex compagno.
Tutto insomma è già visto in questo modesto e fiacco film di Bazzoni dove le principali componenti filmiche derivano dai recenti successi di Argento: il primo ad apparire è l’assassino; c’è poi un’importante istituzione universitaria (al posto dell’istituto di ricerche genetiche del Gatto) in cui si aggirano tutti i sospetti, c’è inoltre un giornalista che indaga, un omicida nerovestito che minaccia con sinistre telefonate, ci sono infine le sonorità magmatiche di Morricone ad avvolgere le immagini (ma il soundtrack è di scarso valore). Se i singoli elementi sono già noti, l’intreccio complessivo è altrettanto deludente in quanto procede in modo confuso e ripetitivo, senza creare alcuna progressione drammatica, assommando eventi sempre identici, con esiti di palese monotonia.
Gli aspetti interessanti si riducono a due: la calda fotografia di Storaro legata a eleganti inquadrature panoramiche che ritraggono quasi sempre edifici moderni, caratterizzati da fredde geometrie (la pellicola, ambientata a Roma, mostra anonimi quartieri moderni che potrebbero appartenere a qualunque metropoli europea) e la derivazione letteraria che ricorda al pubblico italiano la sostanziale dipendenza del filone argentiano dal mystery inglese ovvero dal whodonit o romanzo con enigma (sotto tale aspetto assai distante dalla tradizione hollywoodiana di Hitchcock).
Nel film di Bazzoni manca invece la tipica componente sadico-misogina di matrice antimodernista, unico elemento di sostanziale differenziazione nei confronti dei modelli argentiani. D’altronde non poteva essere altrimenti poiché l’intreccio del racconto nasce in Inghilterra, ad opera di un sofisticato autore di polizieschi di ambientazione universitaria (The Fifth Cord si svolge nella fredda Glasgow), dunque lontano dalle atmosfere incandescenti che segnano la penisola alla fine degli anni sessanta.

Al contrario l’unico argomento che può far da collante al delirio astratto e violentissimo di Reazione a catena (anche noto come Ecologia del delitto; settembre 1971; 85 min.) è proprio il conflitto tra visione conservatrice e modernismo. Mario Bava filma un inverosimile balletto di morte ambientato in una baia tranquilla e isolata dal resto del mondo in cui una vecchia signora (Isa Miranda) si ostina a negare la sua vasta proprietà a una serie di avvoltoi che vogliono trasformarla in un lunapark turistico. La donna (bloccata su una sedia a rotelle come la Rossella Falk dell’Ariete) finisce impiccata, il suo assassino viene ucciso; poi è la volta di quattro mezzi hippy che vengono massacrati due a colpi di macete, due con una lancia mentre fanno l’amore; poi l’ecatombe continua tra teste mozzate, ambiziose fanciulle strangolate e l’ultima coppia uccisa per gioco a fucilate dai loro figli bambini. Non resta vivo nessuno.
Il film, in quanto film, è brutto: Bava, abile direttore della fotografia, ricco di idee visionarie, non sa raccontare; quindi si basa su sceneggiature altrui (in questo caso di Dardano Sacchetti, Franco Barberi e altri), spesso appena abbozzate, che manipola con fatica. Il film, assai breve, è in fondo un mediometraggio ampliato dall’uso smodato dei tempi morti, con personaggi che vagano entro sfondi di notevole bellezza, accompagnati da sonorità per lo più tardoromantiche (la valida colonna sonora è di Cipriani). L’interesse dell’autore è concentrato sulle scenografie complessive e sulle modalità degli efferati delitti; tutto il resto è teatro di marionette, inverosimile, recitato in modo appena decente (con l’eccezione di una bravissima Laura Betti) e tirato per le lunghe. Motivazioni e snodi narrativi sono approssimativi mentre manca una qualunque autorità esterna (polizia, detective ecc), apportatrice di ordine razionale. Insomma un delirio onirico che ha fatto parlate i soliti critici progressisti - facili all’entusiasmo ogni volta che si trovano di fronte a oggetti mal definiti e caotici, che loro etichettano regorlarmente come “trasgressivi” dei codici - di cinema sperimentale. Al contrario l’essenza del film è tra le più reazionarie del panorama italiano, superando in questa direzione perfino gli esiti (largamente inconsapevoli) di Argento.
Come si è detto il nocciolo del film riguarda la conservazione e la testarda difesa di uno stato di natura nei confronti di chi vuole stravolgere in direzione modernista il magico equilibrio della baia (una sorta di parco naturale). Non è un caso che sia proprio un’anziana contessa, dunque aristocratica e portatrice di un sapere antico, a tentare di difendere quello stato di cose; morta lei interviene suo figlio (Claudio Volonté) il quale uccide selvaggiamente la coppia di hippy (tra loro c’è Brigitte Skay, già Isabella nel film di Bruno Corbucci) proprio perché rappresentano la minaccia incombente sulla baia. E la baia, in definitiva, è il mondo. Dunque Bava, con la sua sgangherata sceneggiatura, le sue “antiquate” musiche ottocentesche e i suoi compiacimenti visivi barocchi poco tollerabili, racconta cose importanti e fondamentali seppur in modo generico e primitivo, per contrapposizioni manichee ed esasperate. Nello scontro totale tra conservatori e modernisti (gli assassini sono molti, potenzialmente tutti), non vince nessuno, ma il finale con i due bambini (la bambina è Nicoletta Elmi) che - senza rendersene conto - uccidono i genitori, allude a un futuro nerissimo ovvero a una nuova generazione abbandonata a se stessa, cresciuta nell’indifferenza e nella brutalità. Le responsabilità sono tutte del modernismo ovvero dell’avidità consumistica che deturpa ogni cosa e impedisce al padre (Luigi Pistilli) di restare coi figli (come vorrebbe; lo dice in un dialogo) in quanto soggiogato da una moglie folle (Claudine Auger), che lo spinge all’omicidio per motivi biecamente materialistici.
Il diffuso sadismo dunque allude al rifiuto totale del regista nei confronti di un mondo che sta trasformandosi in un perverso lunapark popolato da individui isolati, anaffettivi e schiavi della propria avidità. 
Reazione a catena si appropria più della sostanza ideale del cinema di Argento che dello stile in quanto i lenti barocchismi baviani, i suoi tempi morti, gli estenuanti compiacimenti visivi e le sue sonorità gonfie si trovano agli antipodi del gelido e nervoso cinema del regista del Gatto a nove code. In ogni caso un racconto tanto cruento e lacerante era impensabile prima dell’Uccello dalle piume di cristallo. Se per alcuni aspetti (secondari) Argento può essere considerato un allievo del cinema dell’orrore iniziato da Bava con La maschera del demonio (1961), ora l’allievo si è trasformato in maestro.

Anche l’esperto Duccio Tessari si cimenta nel nuovo genere con Una farfalla con le ali insanguinate (settembre 1971; 105 min.; locandina) basandosi su una sceneggiatura scritta con Gianfranco Clerici. Vi si racconta di un giornalista televisivo (Giancarlo Sbragia) accusato dell’omicidio di una ragazza francese che viene condannato in primo grado; intanto però uno pseudo maniaco uccide altre due ragazze (l’immancabile prostituta e una bambinaia) con le stesse modalità (ossia a pugnalate) e avvisa il commissario (Silvano Tranquilli) di essere l’autore di tutti e tre i delitti. Il giornalista viene scarcerato e prontamente ucciso dall’assassino (Helmut Berger) che ha eliminato le altre ragazze solo per farlo scagionare e poterlo ammazzare a revolverate. La giovane francese, realmente uccisa dal giornalista, era la sua fidanzata.
Come si deduce dall’intreccio, questa Farfalla non ha niente a che fare con gli altri “animali”, trattandosi piuttosto di un giallo tradizionale, addirittura con movente passionale (ampiamente sottolineato dall’uso del celebre incipit del Primo concerto per pianoforte e orchestra di Ciaikovski) ovvero con motivazioni agli antipodi di quelle abituali degli psicopatici che popolano gli altri film. Dopo il pregevole La morte risale a ieri sera (1970, da Scerbanenco; vedi), Tessari è evidentemente a disagio con questa materia narrativa, non è in grado di imitare Argento, né di creare situazioni di reale terrore e realizza svogliatamente, tra Bergamo alta e Milano (Brera e San Babila), questo raccontino totalmente inverosimile, basato su una galleria di personaggi privi di spessore (la critica progressista, tuttavia, vi scova una critica della medioalta borghesia produttiva e pertanto si dichiara abbastanza soddisfatta...). Anche gli attori appaiono abbastanza disinteressati ai personaggi che interpretano.
L’esito è fiacco anche se l’intreccio complessivo non era da buttare e avrebbe potuto essere meglio utilizzato. All’attivo restano solamente la piacevole colonna sonora di Gianni Ferrio (nello stile di Morricone) e gli insoliti scorci di Bergamo alta, una città poco presente nel cinema italiano.

Sul finire dell’anno l’ultimo giallo all’italiana a comparire nelle sale è La morte cammina con i tacchi alti (novembre 1971; 108 min.; locandina) di Luciano Ercoli, regista al suo secondo film, su sceneggiatura dell’abile Ernesto Gastaldi, già assiduo collaboratore di Sergio Martino. Così, come nel Vizio della signora Wardh e nella Coda dello scorpione, siamo di fronte a un poliziesco complicato, ben scritto (superiore ai due scopracitati) e di evidente derivazione dagli schemi narrativi di Agatha Christie. Il riferimento allo stile sadico-orrorifico di Argento si fa più tenue in questa pellicola che, peraltro, non cita animali nel titolo.
La vicenda ruota intorno al solito tesoro perduto (centinaia di diamanti rubati) per impadronirsi del quale c’è chi non esita a fare strage. Un chirurgo inglese (Frank Wolff), dopo aver ammazzato l’autore del furto, finge di invaghirsi di una spogliarellista parigina (Susan Scott), figlia del ladro, convinto che sia lei ad avere il bottino. L’azione si sposta nella campagna inglese (in realtà spagnola), i morti aumentano di numero in modo spropositato, Scotland Yard ci capisce poco mentre il solito detective occasionale - un francese (Simon Andreu), ex compagno della spogliarellista - va più vicino alla verità. Il medico assassino viene scoperto solo nelle ultime immagini dopo che il complicato intreccio si è chiarito (per i pochi sopravvissuti). Quasi tutti i personaggi di contorno, comunque, avevano qualche crimine (piccolo o grande) da nascondere, come nei romanzi della celeberrima scrittrice inglese.
Sebbene non manchi il sadico nerovestito, fornito di rasoio, il suo agire è tutto inscritto dentro la logica tradizionale del poliziesco e la narrazione, dopo una prima parte apertamente erotica (numerosi sono i numero di striptease filmati a Parigi) si immerge nel complicato intrigo che si svolge quasi interamente in un cottage isolato nella campagna (come nei classici della Christie): nella nottata del delitto chiave (l’eliminazione della protagonista che finisce in fondo al mare) in quell’abitazione c’è un incredibile andirivieni di personaggi che rende tutti sospettabili.
Ercoli gira con buon senso del ritmo, dirige bene gli attori e utilizza al meglio la modesta colonna sonora di Cipriani. Senza possedere qualità memorabili, La morte cammina sui tacchi alti rimane uno dei migliori gialli dell’anno e ottiene infatti un notevole successo commerciale, tanto da indurre gli autori a tentare una replica con il successivo, più modesto La morte accarezza a mezzanotte (1972).

Un discorso a parte merita La corta notte delle bambole di vetro (ottobre 1971; 95 min.; locandina), opera prima di Aldo Lado (nato a Fiume nel 1936), prodotta da Enzo Doria (I pugni in tasca, Bellocchio, 1965; Grazie zia, Samperi, 1967). La pellicola, scritta e diretta da Lado (neoregista con al proprio attivo importanti aiutoregie come quella per Il conformista di Bertolucci, 1970), doveva intitolarsi La corta notte delle farfalle, ma, a manifesti già stampati, la distribuzione preme per un titolo differente per evitare confusioni con Una farfalla con le ali insanguinate; così si approda alle “bambole di vetro” (nelle fotobuste dell’epoca, oggi reperibili, si nota il rappezzo sovrapposto alla seconda parte del titolo).
Dunque anche Lado voleva inserirsi nel solco argentiano, sebbene avesse firmato una pellicola che aveva solo lontane parentele con i film “degli animali”. Dal punto di vista ideologico poi, il lavoro di Lado si colloca all’estrema sinistra (e non può stupire, avvalendosi della produzione di Enzo Doria) e quindi in una posizione lontanissima da quella del nuovo giallo italiano.
Il film è probabilmente l’unico lavoro italiano del dopoguerra ad essere stato girato nella Praga comunista e la cosa risulta ancor più eccentrica se si nota che La corta notte, pur collocandosi in un ambito genericamente rivoluzionario e libertario, critica aspramente il sistema sovietico e descrive la città ceca come un luogo infernale e kafkiano, dominato da un’oscura e “lontana” nomenclatura. Come sia stato possibile ottenere i permessi per un’opera sostanzialmente anticomunista (ma non antimarxista) dalle occhiute autorità cecoslovacche (tanto più dopo gli storici disordini del ‘68 e la conseguente, feroce repressione sovietica) è un mistero perfino più intrigante di quello raccontato nel film.
In ogni caso il soggetto di Lado è decisamente originale e di grande spessore. Rifacendosi al celebre Rosemary’s Baby (Roman Polanski-Ira Levin, 1967-68), l’autore immagina una setta satanica internazionale (così da evitare un troppo diretto riferimento alla nomenclatura comunista), dedita a misteriose orge, composta da persone anziane e potentissime. Essa si nasconde dietro l’anonima facciata di un elegante club culturale, rapisce giovani donne bellissime e le pone al centro di riti di magia nera durante i quali i vecchi possono attingere alle energie liberate dall’estasi (e forse dalla morte) della giovane, provocata ad arte da un sacerdote nero. E’ evidente che un curioso filo si dipana dal film hollywoodiano di Polanski, passa per questo misconosciuto lavoro di Lado e va a confluire nella grande scena orgiastica della villa americana, posta al centro del ben noto Eyes Wide Shut (Kubrick, 1999).
Lado racconta una società rigidamente classista, governata col terrore da una potente e autoritaria classe dirigente, in cui i giovani più belli e prestanti divengono strumenti inerti nelle mani di una cerchia ristretta che se ne serve per mantenere la propria posizione dominante. Gli eletti e gli schiavi dunque: questo nientemeno che nella Praga comunista.
Se il contesto generale non ha nulla a che vedere con la sadica misoginia che informa il giallo all’italiana, la struttura narrativa invece riprende alcuni aspetti dell’Uccello dalle piume di cristallo. In una Praga desolata e piovosa, appena ingentilita da una dolce melodia scritta da Morricone, un giornalista (Jean Sorel come Tony Musante) indaga sulla sparizione della sua bella compagna (Barbara bach al posto di Suzy Kendall). La polizia cerca di dissuaderlo ma lui insiste e si scontra con il mistero di numerose giovani donne scomparse, di cui le famiglie non osano neppure parlare per timore di fare la stessa fine (incredibile critica alla realtà “sovietica” fatta da un regista di sinistra - che peraltro non farà una carriera memorabile - e da una troupe slava). Presto l’improvvisato detective giunge al Club 99, gestito da persone che aveva avuto modo di conoscere in precedenza, in quanto figure molto in vista della capitale ceca, scopre la kafkiana realtà, assiste a un’orgia, viene catturato, ipnotizzato e ucciso in un macabro rito finale (il corpo dell’uomo, creduto morto, viene sezionato in un’aula universitaria sotto gli occhi compiaciuti degli uomini della setta).
L’atmosfera gelida e sinistra della città, l’omicidio spettacolare di un testimone pronto a parlare (gettato sotto un treno come nel Gatto a nove code), la notevole tensione che accompagna le perlustrazioni del protagonista nel covo satanico (sostenuta da un lacerato magma sonoro atematico-espressionista in cui Morricone compone in maniera non troppo dissimile rispetto alle partiture argentiane) sono elementi di evidente somiglianza con i primi due film di Argento.
Per il resto queste Bambole di vetro si collocano a distanza dalle altre imitazioni sia per la differente visione ideologica, sia per la notevole, superiore qualità dell’insieme. Certamente anche a Praga fanciulle vengono fatte sparire, ma non si tratta del delirio di un maniaco in cerca di macabre soddisfazioni bensì del disegno preordinato e simbolico della cerchia che dirige il mondo e che detiene potere di vita e di morte sugli esseri delle classi inferiori. D’altronde non c’è alcun accanimento sul corpo delle vittime le quali anzi partecipano a estese orge con il compito di trasmettere ad altri la propria energia in un legame di osmosi “simpatica”.
Il desolato finale - anch’esso un elemento di differenza rispetto al giallo italiano dove, con poche eccezioni, la ragione finisce col prevalere - appartiene alla più tipica tradizione del cinema di sinistra: il giornalista soccombe mentre il demoniaco potere è destinato a perpetuarsi senza trovare reali oppositori in grado di fermarlo. Su questa nota di acuto pessimismo, che incita lo spettatore a collocarsi “contro” il sistema, qualunque esso sia, si conclude un’opera modernista che solo per un bizzarro caso si è trovata a far pare dell’ondata “reazionaria” degli animali argentiani.