La famiglia Passaguai, La famiglia Passaguai fa fortuna, Papà diventa mamma, Marito e moglie, Ragazze da marito, I morti non pagano le tasse e Non è vero... ma ci credo: vecchi e nuovi equilibri familiari
(1951-52)
“Solo i morti vivono bene
in questo paese...
”Tino Scotti in I
morti non pagano le tasse
Dopo due pellicole (Emigrantes; Benvenuto, reverendo!) relativamente impegnate su tematiche sociali, Aldo Fabrizi opta per la farsa chiassosa con La famiglia Passaguai
(dicembre 1951; 95 min.), pellicola fortunata, accolta da uno spropositato successo che convince gli autori (oltre a Fabrizi, tra gli sceneggiatori figurano Ruggero Maccari, Mario Amendola ed Ettore Scola) a proseguire l’esperienza con due successivi film. In realtà le peripezie di questa famiglia piccolo borghese durante una domenica passata al mare, sono poco divertenti e, a causa dell’esagerato macchiettismo, prive di qualunque rilevanza nell’ambito del documento sociale.
Fabrizi punta al divertimento sempliciotto, infarcendo la cronaca di questa scampagnata fuori porta di ogni genere di gag. Purtroppo il comico romano non è in forma, le battute sono prevedibili e i numerosi comprimari
(Peppino De Filippo, Ave Ninchi, Luigi Pavese, una giovanissima Giovanna Ralli, il piccolo Carlo Delle Piane, un tedioso Tino Scotti) appaiono incapaci di vivacizzare il quadro. L’impianto generale del racconto - una narrazione
corale sostanzialmente racchiusa lungo una giornata estiva - appare, tra l’altro, ripresa dai recenti film di Luciano Emmer: Una domenica d’agosto (1950) è l’evidente modello, cui bisogna aggiungere il recente Parigi è sempre Parigi (novembre 1951), anch’esso organizzato lungo una giornata di vacanza, film nel quale Fabrizi è appunto uno degli interpreti.
Dopo un lungo e ripetitivo episodio dedicato ai malintesi intorno a un cocomero, malintesi che provocano una guerra senza quartiere tra Fabrizi e Luigi Pavesi, alla famiglia di pasticcioni si uniscono l’amico ficcanaso
(Peppino De Filippo), la bella segretaria (Giovanna Ralli) e il suo ricco amante (Tino Scotti) per dar vita a una girandola di equivoci intorno a una cabina, in uno stile derivato dallo spettacolo di rivista.
Pellicola natalizia senza pretese, La famiglia Passaguai appare nient’altro che un un piccolo scherzo tra attori di avanspettacolo. Lo stesso si può dire del successivo La famiglia Passaguai fa fortuna
(febbraio 1952, 95 min.), dove l’inserimento di Macario quale coprotagonista non aiuta il film a decollare. La vicenda è pretestuosa: Fabrizi e Macario sono due poveracci, si fingono milionari e alla fine lo divengono realmente
attraverso una fantasiosa speculazione edilizia. Il logoro repertorio di moine e mossette non diverte e la pellicola si snoda stancamente attraverso gag ripetitive, in quello che va definito più che cinema,
“avanspettacolo fotografato” (tra l’altro la vicenda si svolge tutta in interni, accentuando l’atmosfera teatrale). L’unico elemento di interesse è il riferimento sarcastico al recente Miracolo a Milano (febbraio 1951): tra sfollati, baracche e costruttori senza scrupoli, Fabrizi e Macario - appena si offre loro una fortunata occasione - non mostrano alcuna esitazione ad abbandonare gli originari panni proletari per assumere quelli dei gran signori, mostrandosi così - al contrario dei protagonisti della favola desichiana - una coppia di cinici opportunisti, privi di “coscienza di classe”.
Il pubblico risponde con minore entusiasmo alla seconda avventura dei Passaguai. La terza puntata, Papà diventa mamma
(settembre 1952, 82 min.), risulta invece, di gran lunga, la più divertente (gli incassi, infatti, tornano a salire) anche perché questa volta gli autori non fanno mistero della provenienza dalla rivista di questo genere di divertimenti cinematografici. Accantonata ogni pretesa realistica, si immagina che la famiglia Passaguai si rechi appunto al farsesco spettacolo teatrale di un mago: Fabrizi, ipnotizzato, ne esce convinto di essere la donna di casa e, dal giorno seguente, si comporta di conseguenza. Nonostante il carattere ripetitivo delle gag (l’intero film si riduce al comico romano intento a fare la caricatura della casalinga), numerose scenette sono realmente esilaranti per merito dell’indubbia bravura del protagonista, perfettamente sostenuto da una serie di comprimari tra i quali spiccano la moglie Ave Ninchi e l’aiutante Virgilio Riento; bravissimo anche il mago Luigi Pavese. Sebbene si tratti di un tipo di cinema “teatrale” e dal fiato corto, almeno questa volta Fabrizi non nasconde, anzi sottolinea con clamore, il carattere di “avanspettacolo filmato” del ciclo Passaguai e può pertanto scatenarsi oltre ogni limite, mettendo tra parentesi il sottinteso realismo del racconto fotografato.
Inoltre il film, giocando l’intera comicità sui ruoli uomo-donna nel nucleo familiare, sostiene ed evidenzia la realtà di una famiglia ancora patriarcale nella quale i compiti sono rigidamente divisi, pena il ridicolo. Il
marito vive nel mondo esterno degli affari e delle relazioni sociali (gestisce un negozio di stoffe) mentre la moglie (anzi le mogli, poiché la pellicola ritrae le numerose vicine di Ave Ninchi, tutte dedite agli stessi lavori
di casa) - obbediente e ossessivamente gelosa - si occupa di tutte le incombenze domestiche (senza delegarle a lavatrici o istituti scolastici di varia natura). Questa visione tranquillamente conservatrice della realtà
familiare appare il fondamento dell’intero racconto e offre (a distanza di decenni) un interessante documento sulle abitudini quotidiane nei primi anni cinquanta.
Il tema della famiglia appare centrale anche nel modesto Marito e moglie (marzo 1952; 90 min.) con il quale Eduardo, dopo il pregevole affresco sociale di Napoli milionaria (1950; vedi) torna dietro la mdp. Il famoso commediografo mette in pellicola il racconto Tonio (1885) di Guy de Maupassant e il proprio atto unico Gennareniello (1932), con l’evidente proposito di raccontare due situazioni antitetiche.
Nel primo - in un contesto rurale (l’episodio è ambientato in un paesino alle falde del Vesuvio) - un marito, paralizzato nel letto, subisce le angherie di una moglie avida (Tina Pica) che lo costringe a covare le uova
delle sue galline, dopo che la chioccia è morta. Nel secondo l’inventore di cose effimere Gennarino maltratta la moglie brontolona (Titina De Filippo) e corteggia apertamente la bella e giovane dirimpettaia (Luciana Vedovelli)
che si dichiara apertamente innamorata di lui. La realtà familiare viene pertanto illustrata come un luogo di reciproca sopraffazione, dove - immancabilmente - il più forte dei conugi prende il sopravvento e schiavizza il
partner. L’assunto - abbastanza scontato (sarà in seguito il tema, pressoché costante, del cinema di Fassbinder) - viene sviluppato in modo meccanico, con personaggi che, una volta impostati, ripetono fino alla noia, i
propri gesti e le proprie idiosincrasie, dando luogo a uno spettacolo tedioso, di evidente stampo teatrale (anche quando, come nel primo episodio, abbondano gli esterni). Inoltre le due interpretazioni di Eduardo appaiono
abbastanza prevedibili. Del primo episodio, il più fiacco, va però detto che, nel ritrarre il marito succube della virago (Tina Pica), sofferente e imprigionato in una stanzetta dalla quale non può uscire, anticipa, in modo
suggestivo, la tematica e soprattutto il beffardo finale de L’ape regina (Ferreri, 1963; vedi). D’altronde anche nel secondo il dongiovannismo di Gennariello è reso possibile e anzi sollecitato dalla intraprendente,
giovanissima vicina di casa, emblema di una nuova generazione capace di usare la propria avvenenza con astuta spregiudicatezza. Così, mentre il romano Fabrizi ribadisce la visione patriarcale della famiglia, il napoletano
Eduardo sembra intuire l’ormai imminente rovesciamento dei ruoli. Durante gli anni sessanta e settanta la donna acquisirà infatti spazi d’azione, di influenza e di libertà, inconcepibili agli inizi degli anni cinquanta e
capaci, in molti casi, di mettere in ginocchio partner poco decisi. La pellicola passa completamente inosservata. Il successivo e certamente migliore Ragazze da marito
(novembre 1952, 90 min.) ci mostra un Eduardo che si limita sostanzialmente a dirigere la pellicola, interpretandone il ruolo principale mentre soggetto e sceneggiatura portano le firme di Steno, Age e Scarpelli. E’ vero che il nome di De Filippo compare insieme a quello dei tre autori in sede di sceneggiatura, ma appare evidente che il contributo del commediografo napoletano è poca cosa.
La vicenda infatti ricalca un canovaccio ricorrente nella commedia del dopoguerra: come ne Le miserie del signor Travet (Soldati, 1945) e ne Il mondo vuole così (Bianchi, 1945), un semplice e onesto impiegato comunale, Oreste Mazzillo (E. De Filippo), viene travolto dalle pretese materialistiche della moglie (Titina De Filippo) e delle tre figlie (Delia Scala, Anna Maria Ferrero e Lianella Carell), giovani, belle e in cerca di marito. Lo stipendio appare insufficiente, soprattutto in relazione alle ambizioni delle donne di casa e, così, per quieto vivere, il pover’uomo cede alle lusinghe del trafficone di turno (Peppino De Filippo) e inizia a falsificare numerose pratiche, al fine di arricchirsi e di potere pagare lussuose villeggiature delle ragazze nella esclusiva isola di Capri.
Una delle figlie riesce ad adescare e a sposare un ricco industriale lombardo, un’altra si ravvede e preferisce un giovane di belle speranze, la terza resta incinta (colpevole un uomo sposato). Nel frattempo, in municipio
le cose naufragano: all’attento capufficio (Carlo Campanini, sempre perfetto) non sfuggono gli illegali pasticci di Oreste, un tempo impiegato irreprensibile, che così viene costretto al licenziamento. Commedia amara, a
tratti perfino desolata, sorretta da interpretazioni tutte convincenti, Ragazze da marito sembra arenarsi all’inizio nelle tipiche contraddizioni di certa commedia italiana: essa depreca le condizioni modeste in cui permane il ceto impiegatizio e congiuntamente critica - con toni nettamente misogini - l’ansia tutta femminile di apparire e di accasarsi con il classico buon partito; civetta con le desolazioni neorealistiche (la figura dell’anziano e disilluso impiegato può ricordare quella del desichiano Umberto D)
e al tempo stesso ritrae con compiaciuta indulgenza l’Italia fanfarona di Peppino De Filippo e del suo sodale Carlo Croccolo, venditori ambulanti pronti a qualunque sotterfugio pur di arricchirsi. Non sembra, insomma, decidersi
tra la visione austera del capofamiglia e quella pragmatica e avventurista delle donne e degli affaristi. Il quadro tuttavia si chiarisce dopo che le pratiche illecite di Oreste lo hanno portato alla rovina innanzitutto
morale (il personaggio esce dalla vicenda avvilito e spossato) e dopo che il buon cuore e la saggezza tutta italiana del capufficio Campanini lo hanno salvato da un’umiliante processo, invitandolo semplicemente a dimettersi.
Solo allora appare chiaro che l’ansia di arricchimento è fonte di sciagure mentre per la ragazza (Delia Scala) che sposa l’industriale, al fine di entrare nell’universo del lusso, si intuisce un futuro infelice. La
vicenda di questa giovane che abbandona Roma e la famiglia per la Milano degli affari è, in fondo, la storia giovanile della Lucia Bosè di Cronaca di un amore (Antonioni, 1950), sposa insoddisfatta che intreccia con l’amante trame assassine ai danni di un marito che sente estraneo.
Al contrario Anna Maria Ferrero e la sua limpida storia d’amore con un giovane qualunque costituisce la svolta morale del film e indica alle altre donne della famiglia - così come ai trafficoni senza morale - la possibilità
di un percorso esistenziale non condizionato dalla rincorsa al benessere più estremo. Grazie a questo elemento positivo, la pellicola acquisisce una luminosa grazia, evita la facile desolazione di chi vuole sempre dipingere
tutto “al nero” (per portare consensi in casa comunista) e finisce col ritrarre in modo favorevole quel semplice mondo impiegatizio che, sebbene percepisca modesti introiti, può cionondimeno vivere dignitosamente nell’ottica
matura di chi non misura la felicità sulla base dei beni materiali in proprio possesso. Insomma approda a una sorta di racconto morale. Il film di De Filippo, Steno, Age e Scarpelli, girato secondo lo stile sobrio ed
essenziale del commediografo napoletano e musicato (come al solito) dall’amico Rota con perizia, ma senza particolare estro, viene salutato da un discreto successo commerciale; esso, in definitiva, offre un affresco
equilibrato, ricco di luci e di ombre, di momenti umoristici e di pagine tristi, affresco nel quale si rispecchiano le differenti Italie, da quella modesta dei travet a quella degli affaristi senza scrupoli, da quella del nord
industriale a quella dei villeggianti spensierati, in un quadro corale che ci racconta un paese in netta ripresa economica, ottimista e vitale, ancora povero ma certo di avere lasciato alle spalle le pagine più buie della
propria storia. In tal senso il lavoro si colloca agli antipodi di quella stagione neorealista - ipercritica e sempre insoddisfatta di tutto - che appare anch’essa ormai un fatto del passato. Nè appare casuale che la critica
più “impegnata” abbia totalmente snobbato la pellicola. A sua volta, sul fronte avverso, il Centro cattolico bolla Ragazze da marito con “sconsigliabile” - si può immaginare a causa di qualche compiaciuta nudità - senza tuttavia accorgersi dell’impostazione sostanzialmente conservatrice e, a tratti, perfino austera e antimodernista della pellicola.
Ne I morti non pagano le tasse (ottobre 1952, 85 min.) Tino Scotti è un travet maltrattato dai familiari come il protagonista di Ragazze da marito e viene relegato in uno sgabuzzino come il personaggio di Marito e moglie.
Sergio Grieco, dopo la mediocre prova de Il sentiero dell’odio (1951), firma l’anno seguente alcune pellicole di netta derivazione teatrale (con evidenti riferimenti allo stile farsesco del mondo della rivista), nelle quali si limita al lavoro di regia. Il primo è appunto questa discreta favoletta pirandelliana che si basa sulla commedia omonima di Nicola Manzari e si avvale di un ottimo cast.
Vi si narra del solerte impiegato Marco Vecchietti (Tino Scotti) il quale, tartassato da tutti (suocera, moglie, capufficio e colleghi di lavoro) scopre, un giorno, di risultare morto all’anagrafe del paesello natio.
Comprende allora che gli si offre un’occasione unica e decide di farla propria. Trasferitosi nel paesello in questione vi trova una cricca di abili affaristi - il sindaco (Carlo Campanini), il suo aiutante (Tino Buazzelli), il
proprietario di un albergo (Aroldo Tieri) e la sua bella moglie (Franca Marzi) - la quale ha simulato la morte del Vecchietti (sotto un bombardamento del 1944) per poter vantare un eroe nella passata guerra ed acquisire meriti,
così da ottenere i finanziamenti per una stazione che porterà benessere soprattutto alla cricca medesima che sta attuando ogni genere di speculazione fondiaria. Il Vecchietti comprende tutto e, anziché ristabilire l’ordine,
sfrutta la situazione, ricatta il gruppetto, fa mettere la moglie (Titina De Filippo) in manicomio e scompare con un bel gruzzolo e una nuova identità. Il racconto, piuttosto fiacco nella prima parte, si anima allorché
entra in campo l’intera combriccola degli affaristi, un team di attori bravissimi e molto affiatati che offrono uno spettacolo brioso e ricco di un umorismo tutto particolare. Il tono è quello sarcastico e un po’ cinico di chi
non nasconde che la nuova Italia, così vitale e indaffarata, ha creato una nuova classe dirigente formata da politici e imprenditori spregiudicati, corrotti e pronti a tutto, anche a inventarsi i morti. Il tartassato
protagonista ha ormai compreso la lezione e, accantonata ogni riserva morale, decide di partecipare alla ruberia generale, nonché di liberarsi di una moglie e di una suocera insopportabili e inutili. Nonostante i modesti
incassi, la pellicola
appare sintomatica del nuovo corso: uno scocciante matriarcato è alle porte (lo sgabuzzino incombe) mentre nel lavoro solo gli sciocchi rispettano le regole, laddove i politici locali speculano, sfruttano il prossimo e sono da tutti considerati delle “carogne”; l’unica via di fuga è allora quella di risultare morti e iniziare una “nuova” esistenza, forti dell’esperienza di quella “precedente”. Anche questa, dunque; è, a suo modo, una commedia morale, però ben altrimenti cinica e desolata, perfino anarcoide, rispetto a quella di De Filippo: l’umanità vi appare come inguaribilmente avida, antisolidale e individualista mentre la furbizia più dissennata e amorale viene proposta quale unica soluzione. Si tenga presente che nessuno punisce la cricca di affaristi locali la quale, dopo aver subìto il ricatto, potrà poi continuare a coltivare i propri redditizi affari.
Dai tempi del pirandelliano Mattia Pascal (1904), il tema della fuga (da realtà divenute insopportabili) mediante l’acquisizione di nuove identità affascina l’universo culturale italiano; tornerà - coi toni del poema esistenzialista - nel capolavoro assoluto di Antonioni, Professione reporter (1974).
Un paio di mesi dopo esce nelle sale un nuova pellicola “teatrale” di Grieco, Non è vero... ma ci credo (dicembre 1952; 107 min.), tratta dalla commedia omonima (1942) di Peppino De Filippo (nota anche col titolo di Gobba
a ponente). Vi si narra la paranoia superstiziosa del commendatore Gervasio Savastano (Peppino de Filippo), imprenditore abile ma ossessionato da fissazioni scaramantiche e paure iettatorie. L’esistenza quotidiana viene
riletta come un pericolo costante, in relazione al possibile incontro con figure capaci di portare il malaugurio e la disgrazia. Pertanto il nostro protagonista non esita a licenziare un impiegato iettatore e ad assumerne uno
dotato di “provvidenziale” gobba, tale Alberto Sammaria (Carlo Croccolo) che, in breve tempo, diviene il compagno prediletto del protagonista in quanto considerato una sorta di portafortuna ambulante. Il commendatore non esita
poi a concedere la mano della figlia al Sammaria, sebbene questi sia di estrazione modesta, per poi scoprire di essere stato imbrogliato: la gobba (finta) era solo un espediente degli amorosi per far entrare il giovane nelle
grazie del burbero Savastano e per ottenere il consenso alle nozze. La commedia - come la pellicola che ne deriva - è alquanto monocorde: le fissazioni superstiziose del protagonista sono in fondo l’unico agomento del film;
tuttavia l’indubbia bravura dei due protagonisti rende piacevole questo prodotto medio che annovera alcune pagine da antologia come l’intera sequenza in tribunale quando da imputato (accusato di diffamazione dall’impiegato
iettatore), il Savastano riesce a trasformarsi in accusatore, contagiando il giudice con le proprie ansie, fino al punto di riuscire a far assegnare al malcapitato querelante, ora senza lavoro, il foglio di via. Da notare
che il pretore è interpretato da Nicola Manzari, autore (come si è detto) del testo teatrale I morti non pagano le tasse. Come nei precedenti film, la famiglia appare un luogo di tribolazioni e litigi, nel quale
l’indiscutibile (per ora) autorità del capofamiglia appare ormai prossima a vacillare, sia perché il debole Savastano è troppo assorbito dalle proprie manie, sia perché moglie (Titina De Filippo) e figlia hanno capito come
prendersi gioco di lui. Dunque anche questa famiglia, certamente tradizionale nei suoi lineamenti generali, appare inquieta e in via di trasformazione. Al di là dei meriti e dei demeriti del lavoro, si deduce dai modesti
incassi che il pubblico dell’epoca non apprezzò il film.
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