Gli ultimi cinque minuti, La bella mugnaia, Racconti romani, Le signorine dello 04, Il bigamo, I giorni più belli, Tempo di villeggiatura, Noi siamo le colonne,
Donatella, Padri e figli, Amore e chiacchiere, Vacanze a Ischia, La finestra sul Luna Park, Mariti in città: in difesa del matrimonio (1955-57)
Giuseppe Amato, importante produttore e regista discontinuo, firma Gli ultimi cinque minuti
(mag 1955; 90 min.), pellicola che mette in scena l’omonimo testo teatrale (1951) di Aldo De Benedetti. Vi si racconta il matrimonio bizzarro tra Carlo, uomo ricco e sfaccendato (Vittorio De Sica) e Renata, una donna
brillante e piena di progetti lavorativi (Linda Darnell). La coppia fa conoscenza in occasione della visita ad un magnifico appartamento romano: entrambi sono intenzionato ad affittarlo e così... decidono anche di sposarsi. La
donna però chiede la possibilità di recedere nel momento in cui troverà il grande amore. Dopo una fiacca parte centrale che illustra l’esistenza ricca di eventi mondani dell’insolita coppia, si giunge al prevedibile finale in
cui compare il terzo incomodo (Rossano Brazzi): la donna dapprima crede di essersi innamorata e sta per lasciare il marito; ma all’ultimo momento (negli “ultimi cinque minuti”) capisce il proprio errore e resta nel suo amato
appartamento. Il film, quasi interamente girato in interni, racconta un soggetto eccentrico e sciocco come se ne scrivevano nell’epoca fascista (De Benedetti era stato infatti uno specialista di quel cinema) con l’unica
differenza che allora si voleva dimostrare alla piccola borghesia mussoliniana la vacuità dell’aristocrazia e delle classi agiate. Ora questa finalità manca, i protagonisti risultano simpatici mentre la loro quotidianità sembra
noiosissima (nonostante gli ambienti lussuosi); ne risulta una pellicola anacronistica e inutile, il cui unico motivo d’interesse è la buona prova dei due attori protagonisti. Vi è però un episodio gustoso e perfettamente
calato nella realtà degli anni cinquanta: la coppia riceve un altezzoso pianista (Gianrico Tedeschi) che ammorba il padrone di casa e il suo inseparabile amico (Peppino De Filippo) con esecuzioni di pezzi di stampo
espressionistico-atonale (molto moderati, peraltro); gli ascoltatori soffrono, non vedono l’ora di liquidare lo scocciatore che definisce, con orgoglio, tetra e angoscita la propria musica. Questa piccola satira ai danni di un
discorso musicale in auge in quegli anni presso la cultura progressista (si pensi al diluvio di musica seriale e postweberniana che teneva banco, soprattutto sulle pubblicazioni specializzate e nei testi pubblicati da Einaudi)
è l’unico momemnto di vera e “coraggiosa” attualità della pellicola: in esso gli autori prendono le distanze dal pessimismo programmatico delle sinistre (tipico, peraltro, del neorealismo che lo stesso De Sica cercherà di
resuscitare con Il tetto, 1956), dalle fumose mode dell’esistenzialismo e del loro sottinteso marxismo. L’arcaica pellicola fu un prevedibile fiasco commerciale.
Con lo scialbo La bella mugnaia (set. 1955; 90 min.) Camerini propone un rifacimento del suo precedente Il cappello a tre punte (1934), pellicola che si basava sul romanzo di Pedro A. de Alarcón, El sombrero de tres picos (1874). Tale celebre testo, prima di trasformarsi in pellicola di successo, aveva ispirato l’omonimo balletto (1919) di Manuel de Falla.
Il film degli anni trenta, anch’esso di scarso valore, racconta la storia del governatore locale (Eduado de Filippo) che, non contento della bella moglie, insidia in varie occasioni, un’affascinante mugnaia e fa arrestare
il marito Luca (Peppino de Filippo), così da potere avere campo libero, almeno per una notte. Luca però riesce a fuggire e si introduce nel palazzo padronale dove cerca di insidiare la moglie del rivale. Nel roseo finale tutto
si aggiusta e ogni marito torna con la propria consorte. La vicenda, ambientata nella Campania di fine Seicento e interpretata dai fratelli De Filippo, si inseriva nella consueta vena populista e antiaristocratica del cinema
fascista: la famiglia onesta e attiva dei mugnai insidiata dal nullafacente governatore borbonico. L’idea di riproporre il polveroso intreccio a metà degli anni cinquanta non è un’idea felice: situazioni e dialoghi rimangono
gli stessi anche se animati da un cast migliore: Vittorio De Sica è il governatore, Paolo Stoppa il suo perfido consigliere, Yvonne Sanson è la moglie del governatore, Marcello Mastroianni è Luca e Sophia Loren la mugnaia.
L’intreccio si sviluppa in modo scolastico e grigio ed invano gli attori cercano di conferire una qualche umana verità a queste povere marionette. L’ambientazione è dilettantesca. La polemica antinobiliare non ha più ragion
d’essere ed infatti non traspare in questo remake. Rimane soltanto uno scontato inno alla fedeltà coniugale. Il film, grazie al suo notevole cast, riscosse un grande successo.
Prendendo spunto dagli omonimi testi (1954) di Moravia, Franciolini gira Racconti romani
(ott. 1955; 100 min.), una serie di episodi abilmente giustapposti (sceneggiati da Amidei, Age e Scarpelli) che ha per protagonisti un quartetto di vitelloni romani. Alvaro (un monocorde Franco Fabrizi), sposato con la
paziente Maria (Silvana Pampanini), esce di galera e raduna nuovamente il gruppo di amici abituali i quali, senza di lui, si erano abituati a sopportare la routine di modeste attività lavorative. Otello (Antonio Cifariello)
aiuta la fidanzata Marcella (Giovanna Ralli) al mercato del pesce; Mario (Maurizio Arena), fidanzato con Annita (Maria Pia Casilio), fa il cameriere presso il ristorante del futuro suocero (Nando Bruno) e Spartaco (Giancarlo
Costa) aiuta il cognato parrucchiere. Il lestofante Alvaro, una fotocopia sbiadita del personaggio interpretato nei mesi precedenti ne Il bidone felliniano (e già figura centrale del capolavoro de I vitelloni,
1953), coinvolge gli amici in una serie di piccole truffe che finiscono tutte regolarmente in un fiasco, spesso con fermo presso la polizia. Tentano di fare i bagarini, di spacciare banconote da diecimila false (anticipando il
grande successo de La banda degli onesti, Mastrocinque, 1956), di elevare contravvenzione per oltraggio alla decenza (spacciandosi per poliziotti), ma le iniziative falliscono e, ogni volta, le fidanzate, simbolo della
normalità e della dura quotidianità, riescono ad aggiustare la situazione, reincanalando i fantasiosi partner nell’universo lavorativo. Il finale è lieto. La pellicola, modesta e ripetitiva, ricalcata senza fantasia e senza
la dovuta cattiveria sui lavori felliniani, conosce un unico momento di interesse nell’episodio affidato a Totò e Vittorio De Sica: due napoletani irrompono nei racconti romani e vi portano un elemento di ineguagliabile brio
allorchè il primo, ovvero il prof. Semprini, cerca di imbrogliare il secondo, l’avvocato Mazzoni, ottenendone una forte elemosina in relazione ad una situazione familiare tragica, ma totalmente inventata. Il siparietto parte
sugli usuali toni patetici e chiude su un delirio paranoico del ricco avvocato che rivela al questuante di non riuscire a sopportare il suono di una serie di parole; il secondo subito si adegua e accontenta l’eccentrico
riccone... Il film complessivamente delude poichè i quattro protagonsiti sono figurine sciocche e inverosimili di fronte alle quali hanno buon gioco le loro consorti ad esibire un’insolita, ponderata ragionevolezza.
Franciolini, Moravia e gli sceneggiatori Age, Scarpelli, Rosi e Amidei optano er la solita visione matriarcale, mettendo in scena figure maschili di semideficienti. In tal senso più che un’indagine credibile sulla Roma di metà
decennio - città peraltro restituita in modo magnifico in ogni suo angolo turistico, perfino con ottime vedute aeree (manca solo la fontana di Trevi) - Racconti romani rivela l’abituale cieco femminismo di una certa cinematografia progressista che arriva, ora, ad elogiare il conformismo più banale pur di esaltare il gentil sesso. L’universo complicato e tragico dei vitelloni felliniani non abita qui.
Il successo commerciale fu notevole, certamente dovuto anche al notevolissimo cast (in piccole parti ci sono anche Mario Carotenuto, Aldo Giuffrè e Turi Pandolfini). Un paio di mesi dopo esce nelle sale
Le signorine dello 04 (dic.1955; 100 min.), versione al femminile di Racconti romani, sempre diretto da Franciolini e sceneggiato da Amidei, Age e Scarpelli. Questa volta il quartetto di protagonisti è tutto
femminile, medesima è l’ambientazione nella Roma popolare mentre le vicende sentimentali, relativamente secondarie nel film precedente, divengono centrali. Ci sono quindi quattro centraliniste (lo 04 era il numero per le
chiamate in teleselezione) alla prese con vicende amorose: tre sono in cerca di marito mentre una (Marisa Merlini) cerca di recuperare il proprio consorte (Aldo Giuffrè), invaghitosi di una camiciaia. Bruna (Giovanna Ralli)
cambia numerosi pretendenti prima di fidanzarsi con Amleto (Antonio Cifariello), Gabriella (Giulia Rubini) si innamora dello studente Carlo (Roberto Risso) mentre Maria Teresa (Antonella Lualdi), ragazza madre, si lega a
Fernando (Sergio Raimondi), fratello di Bruna. Sono quattro storie a lieto fine, abilmente intrecciate e condotte con vena leggera e piacevole. La quinta storia invece, quella in cui Carla (Franca Valeri) cerca di prendere il
posto della moglie defunta del ragioniere Dellisanti (Peppino De Filippo), finisce malamente con l’uomo che si libera dalla asfissiante corteggiatrice, quasi insultandola. In una tela così bonaria e tranquillizzante, la vicenda
mesta e noiosa della coppia matura (come pure quella di Marisa Merlini) funziona da contraltare e finisce col gettare un’ombra minacciosa sulla felicità nascente nelle tre giovani coppie.
La pellicola è ben orchestrata, decisamente migliore di Racconti romani, anche grazie a un cast più valido ed a situazioni più varie. Quello che emerge è un’Italia ancora saldamente divisa in classi (la popolana
Gabriella fatica ad armonizzarsi con i genitori borghesi del fidanzato mentre la bella Bruna è circondata da spasimanti ricchi che, tuttavia, si guardano bene dal volersi fidanzare), nella quale l’unica vera aspirazione
femminile è quella della famiglia e dei figli. Anche il lavoro, l’attività di centraliniste che unisce le cinque protagoniste, appare solo un ripiego e una situazione transitoria (Bruna ha già cambiato molti lavori), che
potrebbe scomparire in presenza di un matrimonio importante. Le figure femminili posseggono tutte una propria grazia: la loro ricerca di un compagno le pone in una situazione di evidente sottomissione al volere del futuro
consorte, attente ad ogni suo desiderio e desiderose di non volerlo deludere. Anche Carla, pur sbagliando ogni cosa, tenta di compiacere in ogni modo il suo ragioniere, senza rendersi conto che quello che gli propone (pranzi
luculliani e gite faticose) è proprio ciò da cui egli sta fuggendo, dopo la morte della prima moglie. In tal senso il film, pur ponendosi in un’ottica progressista (le figure femminile sono tutte emancipate, autonome e
oltremodo attive), non riesce a rovesciare le regole della tradizione ancora vigente e mostra un universo sociale governato da una logica patriarcale. Il successo fu buono, ma notevolmente inferiore a quello di Racconti romani.
Il tema del matrimonio è centrale anche ne Il bigamo
(dic. 1955; 100 min.) di Luciano Emmer, basato su un soggetto di Sergio Amidei, sceneggiato, tra gli altri, da Age, Scarpelli e Francesco Rosi. Vi si raccontano le peripezie dell’ingenuo piazzista romano Mario De Santis (M.
Mastroiani), sposato con la bella Valeria (Giovanna Ralli) che, di colpo, si trova accusato di bigamia da Isolina (Franca Valeri) la quale irrompe nella sua vita e lo accusa di abbandono del tetto coniugale (evento consumatosi
a Forlimpopoli, sei anni prima). La bravura di Emmer consiste nel lasciare sulla corda lo spettatore, per tutto il tempo di questa brillante commedia, riguardo alla presunta colpevolezza del protagonista. In maniera un po’
troppo meccanica tutti voltano subito le spalle a Mario (autorità, avvocati e famiglia), non credendogli mentre allo spettatore resta il dubbio che Isolina sia una mitomane. Certo la sceneggiatura è alquanto superficiale nella
costruzione dell’intreccio poichè affida a un simpatico amico di Mario, l’ex compagno di cella Quirino (Memmo Carotenuto), l’iniziativa ovvia di verificare tutti gli omonimi dell’accusato al fine di scovare il vero bigamo.
Nonostante questa ed altre debolezze che fanno spesso scivolare il racconto nella farsa surreale - si veda la figura dell’impagabile avvocato fanfarone disegnato da uno strepitoso Vittorio De Sica - la pellicola corre piacevole
e perfetta nei dialoghi, nelle caratterizzazioni (in ruoli minori ci sono anche Marisa Merlini, Carlo Mazzarella, Salvo Randone e Ave Ninchi) e nelle sorprendenti svolte narrative fino al finale semilieto (Mario viene assolto e
contemporaneamente accusato di autocalunnia, in quanto, seguendo le indicazioni assurde dell’avvocato, si era dichiarato colpevole...). Una commedia quasi perfetta, questa di Emmer, che ribadisce la centralità dell’istituto
matrimoniale nell’Italia degli anni cinquanta. L’accusa di bigamia viene percepita, soprattutto dall’universo femminile, come una tragedia immane ed un tradimento inaccettabile. Di colpo l’intera rispettabilità di una famiglia
crolla, un matrimonio viene annullato, il figlio nato da esso perde il nome del padre e diviene figlio illegittimo... Se i personaggi maschili tendono a minimizzare (il cognato del protagonista), a ironizzare (i compagni di
cella) o a scusare il presunto colpevole con esilaranti tirate dannunziane intorno alla debolezza dei sensi (l’avvocato), l’intera popolazione femminile insorge compatta, dai parenti alle portinaie, insultando il presunto
colpevole nel modo peggiore e rifiutandogli udienza. E’ sempre una società solidamente patriarcale quella in cui il bigamo viene accusato, soprattutto dalle donne - il sesso ancora debole - di averle raggirate sull’istituto per
loro più importante, quello matrimoniale, l’unico che dia loro la certezza di avere raggiunto una solida posizione sociale. Non a caso in molti dialoghi si accusa lo stato di avere legiferato sempre e solo a vantaggio degli
uomini mentre a partire dagli anni ottanta (dopo le “conquiste” di divorzio e aborto) si potrà dire esattamente l’opposto. Il successo commerciale fu buono ma non esaltante.
Vent’anni dopo La damigella di Bard (1936; vedi), Mattoli ritrova Emma Gramatica ne I giorni più belli (ago 1956; 90 min.), pellicola basata su un
soggetto di Laura Pedrosi (sceneggiato da Scola, Maccari, Mattoli ed altri) che, per numerosi aspetti, sembra un remake di quel film di epoca fascista. La gentile ed anziana maestra Marini (Emma Gramatica) vive in una
vecchia scuola privata che il costruttore Valentini (Mario Carotenuto) vuole fare abbattere per poter terminare il proprio nuovo, adiacente condominio. La maestra, ovviamente, rifiuta ogni offerta venale del costruttore il
quale è ai ferri corti con la banca che non concede altri prestiti se la situazione non si risolve. Intanto il figlio (Franco Interlenghi) di Valentini e la nipote (Antonella Lualdi) della Marini si innamorano secondo il solito
schema dei Capuleti e Montecchi. Tutto si risolverà al meglio, con un enfatico finale alla Frank Capra: a sostegno della maestra in pericolo (contro di lei è stata costruita una perfida macchinazione che vorrebbe screditarla)
intervengono tutti i suoi vecchi allievi tra i quali c’è perfino il direttore (Vittorio De Sica) della banca che deve erogare il mutuo. Ricompaiono brevemente, in questo commosso omaggio alla maestra che è anche omaggio alla
grande attrice, attori del ventennio quali Carlo Campanini, Carlo Ninchi e Andrea Checchi. La pellicola è assai modesta quanto a sceneggiatura (non si capisce bene neppure a cosa serva l’abbattimento della scuola...) e
l’aggiunta dell’intreccio amoroso segue usurati stereotipi. All’attivo del film rimane però la strepitosa interpretazione di Emma Gramatica che, da sola, riempie il film e lo rende degno di grande attenzione. Sebbene lo schema
sia ancora quello della Damigella decaduta del film del 1936 - come allora una donna nobile (allora per lignaggio, ora nell’animo) subisce l’aggressione di persone avide e insensibili con le quali ella stabilisce,
comunque, un rapporto di civile dialogo - la pellicola risulta interessante poichè il tutto viene aggiornato ai tempi nuovi in modo stimolante. Ora ad aggredire una scuola - luogo ove si tramanda il sapere - ci sono i
palazzinari della nuova Italia, vivaci, simpatici ma poco attenti alle esigenze della cultura. E’ interessante notare che mentre il Mattoli di vent’anni prima mostrava un’aristocrazia venale e pronta ad ogni crimine pur di
spogliare l’inerme damigella di Bard, in ossequio alle direttive della cultura fascista che attaccava costantemente aristocrazia e alta borghesia, ora il regista dipinge gli aggressori (i fratelli Carotenuto) con ben
altra simpatia: si tratta certo di zoticoni, dotati però di buon cuore e, soprattutto, si tratta di gran lavoratori. E’ vero che il braccio destro (Memmo Carotenuto) di Valentini medita anche di usare un paio di ladri per
spaventare la maestra, ma in seguito, egli rinuncia a questa pericolosa iniziativa. Insomma le forze vitali dell’Italia del dopoguerra magari sbagliano, ma senza accorgersene, travolti dalla positiva esigenza di creare una
realtà moderna e confortevole (i nuovi edifici) ed, in ogni caso, alla fine sanno riconoscere i propri errori, correggerli, mostrando di comprendere il valore di istituzioni scolastiche meritorie nelle quali, in fondo, sono
cresciuti. Impresa e cultura, privato e pubblico finiscono col darsi la mano nella luminosa conclusione del racconto. Il film riscosse un buon successo.
Nel fortunato filone dei “film vacanzieri” si inserisce anche il felice esordio di Antonio Racioppi, Tempo di villeggiatura
(set 1956; 100 min.) nel quale, basandosi su una sceneggiatura di Age e Scarpelli, l’autore illustra quattro vicende parallele che si snodano durante un soggiorno estivo nel piccolo paesino di Corniolo (nome di fantasia che nasconde il borgo di Nemi, situato sui Colli Albani), poco distante da Roma.
La vicenda principale ha per protagonista l’estroversa Abbe Lane, ballerina brasiliana ospite dell’albergo la quale, terribilmente annoiata, cerca di sedurre un inserviente (Maurizio Arena) dell’hotel, “guardato a vista”
dalla gelosissima fidanzata (Giovanna Ralli). C’è poi la vicenda amorosa del figlio (Gabriele Tinti) di un cameriere (Memmo Carotenuto) il quale, studente in medicina, annoda una tormentata relazione con una diciannovenne
(Bella Visconti), fidanzata ad un uomo di quasi quarant’anni. Per completare il vivace quadro ci sono una coppia di scapoli di mezza età (Vittorio De Sica e Marisa Merlini) che, afflitti da una incredibile quantità di fisime,
si comprendono a vicenda e cercano di trovare una precaria intesa affettiva e un attore spiantato (Nino Manfredi) che si accompagna con addirittura cinque cameriere alle quali spilla soldi di continuo. La pellicola, segnata
da un tono sempre garbato ed elegante, si avvale di attori convincenti che riescono a dar vita a queste vicende estremamente quotidiane, rendendole interessanti sebbene si tratti di situazioni abbastanza risapute. Ne fuoriesce
confermato il quadro di un’Italia in cui la scelta matrimoniale (è questo l’argomento di tre storie su quattro) è ancora un fatto decisivo al quale si pone la massima attenzione poichè da esso dipende la qualità dell’intera,
futura esistenza. Nella descrizione dei due personaggi attempati è presente l’amarezza di chi non è riuscito a realizzare quell’unione così importante, anche per poter contare su una discendenza e che cerca, invano, di porre
rimedio in tarda età. Le tentazioni erotiche (la figura della spregiudicata ballerina) sono diversivi stuzzicanti che però rischiano di far fallire i progetti matrimoniali di una vita e come tali vengono vissute dal
protagonista ovvero come un baratro attraente ma pericolosissimo. La pellicola ebbe un ottimo successo, ancor più sorprendente se si pensa che non poteva contare su divi di prima grandezza (Manfredi era ancora solo un
caratterista).
Dopo la pregevole opera d’esordio (Bravissimo, 1955; vedi), Luigi Filippo d’Amico firma una scadente opera seconda, Noi siamo le colonne
(dic. 1956; 100 min.), nella quale si raccontano per l’ennesima volta e senza alcun estro, le vicende sentimentali e comiche di un terzetto di studenti. Alla sceneggiatura ha lavorato inutilmente un esercito di letterati (Metz, Marchesi, Continenza ecc.)
A Pisa tre universitari (il candido Antonio Cifariello, il perfido Franco Fabrizi e l’insignificante Ottavio Alessi) si contendono la bella Lea (Mireille Granelli) ai danni del fidanzato ufficiale (il solito Aroldo Tieri).
Ovviamente trionferà il più simpatico (Cifariello). Intorno a questa stereotipata vicenda amorosa si dipanano scherzi a ripetizione di marca goliardica, anch’essi scontati e fiacchi. Manca completamente il sapore della realtà
in questa commediola, prigioniera di un ambiente universitario descritto come un luogo di festa perenne e popolato da inverosimili tipi umani. Anche Pisa, la città in cui si svolge la vicenda, è pressoché assente. L’unico
elemento di interesse del film consiste nella breve apparizione di Vittorio De Sica nel ruolo di un simpatico attore di rivista che si presta a fingersi padre del protagonista di fronte a Lea. In una piccola parte c’è anche una
giovanissima Laura Betti. La pellicola fu un mezzo fiasco.
Monicelli gira una versione moderna di Cenerentola con Donatella
(mag 1956; 100 min.), piacevole racconto romano in cui alla perfezione degli interpreti si unisce un’implicita, interessante riflessione sulla storia del cinema italiano. Donatella (Elsa Martinelli) vive in un ambiente
popolare col padre (Aldo Fabrizi) e uno zio (Virgilio Riento), dalle parti dell’Arco di Giano a Roma. Il caso vuole che, per un mese, la giovane possa prendere il posto di una miliardaria americana e, confusasi in
quell’ambiente alto borghese, viene corteggiata da Maurizio (Gabriele Ferzetti). La ragazza si innamora del suo “principe azzurro” il quale però, scoperta la sua umile origine, crede che sia una cacciatrice di dote. Dopo
numerosi equivoci, in cui una parte rilevante ha il proprio fidnazato, il benzinaio Guido (Walter Chiari), l’inevitabile lieto fine chiude la vicenda. Monicelli racconta due storie e due ambienti: da un lato quello della
Roma popolare e schietta, luogo privilegiato del cinema italiano del dopoguerra, e dall’altro quello di un’alta borghesia stupida e snobistica che vive in un universo separato, fatto di feste, locali eleganti e scampagnate. E’
insomma l’eterna divisione del cinema italiano - prima fascista, poi neorealista - nel quale si nobilita costantemente il piccolo borghese (che è poi lo spettatore tipico) e ci si accanisce contro la minoranza agiata, spesso
ritratta come appartenente ad una sfera cosmopolita e distante (la villa in cui Donatella recita il suo show, appartiene infatti ad un’americana). Monicelli è esplicito nel delineare questi due mondi caratteristici del racconto
filmico italiano, fino al punto di far dire a Donatella, allorché entra nella sontuosa residenza miliardaria, che le sembra “di essere in un film”. La commedia dunque evidenzia il carattere simpaticamente populista che, dal
1930 in poi - senza differenze tra periodo fascista ed epoca segnata da simpatie socialcomuniste - caratterizza il nostro cinema. Con una differenza: in omaggio al mito di Cenerentola, i due mondi trovano alla fine un accordo e
le nozze, dunque, si faranno, segno della minore intransigenza ideologica che caratterizza il socialismo libertario di Monicelli rispetto alle direttive rigide del Minculpop fascista. Favola simpatica, che si avvale anche di
una strepitosa Abbe Lane, la celebre cantante cubana per la quale stravede Guido, ha inoltre il merito di illustrare una Roma parzialmente insolita, soprattutto in riferimento alle sequenze ambientate nel qurtiere dell’arco di
Giano e della piazza della Bocca della Verità. Non solo il film incassò molto denaro, ma l’interpretazione di Elsa Martinelli fu anche premiata con l‘Orso d’argento al festival di Berlino.
Monicelli firma con il successivo Padri e figli (gen.1957; 100 min.) una sorta di manifesto morale di un’Italia sul punto di scomparire. Il film, sceneggiato con Age, Scarpelli e Leo Benvenuti, narra le vicende
variamente intrecciate di cinque famiglie di stampo patriarcale nelle quali l’attenzione primaria dei genitori è verso i figli che hanno o che non hanno e verso le loro variegate problematiche. La famiglia Santarelli (Memmo
Carotenuto e Marisa Merlini) non naviga nell’oro (il capofamiglia è impiegato allo zoo) ma hanno ben cinque figli (e un sesto in arrivo) che illuminano la quotidianità della coppia mentre i Marchetti (Marcello Mastroianni e
Fiorella Mari), imparentati con i Santarelli, non riescono ad averne e ne soffrono. Quando un ragazzino dei Santarelli è obbligato a passare presso di loro un lungo periodo, la vita dei coniugi diviene più ricca ed animata:
appena torneranno ad essere soli, i coniugi decideranno di adottare un bambino. Mastroianni, serio e cupo, interpreta un personaggio agli esatti antipodi del celebre cronista de La dolce vita (la cui fidanzata cerca invano di convincerlo a sposarsi), film quest’ultimo che appare, in qualche modo, l’antitesi di Padri e figli in un’epoca nuova ed ormai avviata verso la Modernità. In una sequenza significativa del film di Monicelli, De Sica esce di sera con gli amici e si lamenta (con qualche esagerazione) che a Roma non ci siano locali notturni (come si sa malvisti dalla Santa Sede allora ferreamente guidata da Pio XII) mentre solo tre anni dopo, nella ben differente epoca di Giovanni XXIII che prelude al Concilio, Fellini potrà imbastire il suo massimo capolavoro proprio sulla vita notturna a Roma.
Vi sono poi due famiglie benestanti: i Corallo (Vittorio De Sica, vedovo e la figlia Lorella De Luca) e i Bacci (Ruggero Marchi con i figli Gabriele Antonini e Raffele Pisu), sarti di fama i primi, medico di prestiglio il
capofamiglia
Bacci. La figlia dei Corallo si è segretamente fidanzata con il figlio dei Bacci (Gabriele Antonini) e i giovani (poco più che sedicenni) debbono lottare per far accettare la loro decisione. Anche in questo caso la tutela dei figli è la prima preoccupazione sia del medico, sia del sarto; entrambi giudicano prematura quella scelta, di probabile ostacolo al loro percorso di studi (sono ancora al liceo... ). Alla fine però i ragazzi riescono ad averla vinta: in fondo la formazione di una nuova famiglia, su basi serie, appare ai genitori perfino più importante degli studi e della carriera, secondo una visione del tutto abbandonata nei decenni successivi.
Lo sfaccettato personaggio di Corallo viene disegnato con eccezionale bravura da De Sica: si tratta di un padre attento, comprensivo ma anche di un eterno farfallone, poco scrupoloso negli impegni lavorativi e sempre pronto
a tentare di sedurre le clienti il quale, poi, si scontra quotidianamente con la rigidità seriosa del figlio (Riccardo Garrone) che è poi colui che fa realmente andare avanti la sartoria. Si può notare che quel dissidio
sistematico anticipa in maniera sorprendente quello che caratterizzerà la coppia Philippe Noiret/Maurizio Scattorin (Perozzi padre e figlio) di Amici miei (Monicelli, 1975). C’è infine una quinta coppia, i Blasi
(Franco Interlenghi e Antonella Lualdi) in cui la moglie, incinta e capricciosa, ossessiona il marito con le richieste più insolite fino a fargli perdere il lavoro; lo ricompenserà però mettendo al mondo una coppia di gemelli.
Padri e figli è una stupenda pellicola corale in cui, forse per l’ultima volta, si eleva un inno alla famiglia chiusa e patriarcale dell’Italia della prima metà del secolo; non che manchino le tentazioni e le tendenze centripete (si vedano le figure di De Sica e del figlio adulto dei Bacci, che rischia quasi la prigione), ma si tratta di elementi marginali e tollerati da un sistema solido. Di lì a poco un altro film corale, La dolce vita,
anch’esso interamente ambientato a Roma (e con un importante interprete quale Mastroianni in comune), racconterà l’inizio di un’altra storia, quella in cui la tentazione sarà perennemente presente e il serpeggiante
scetticismo intorno ai valori antichi darà sostegno ad una visione dolcemente disgregativa del tessuto sociale. Padri e figli riscosse un notevole successo.
Blasetti gira l’originale e grazioso Amore e chiacchiere
(giu. 1957; 100 min.) basandosi su un soggetto di Zavattini. Il primo porta con sè il proprio attore preferito, Gino Cervi, mentre il secondo affida il ruolo principale del racconto all’amico Vittorio De Sica. In un paesino
immaginario (in realtà Civita Castellana, Vt) della provincia romana, l’avvocato socialista Benelli (Vittorio De Sica) incanta tutti con la propria fluente parlantina di cui va fiero; anzi si può dire che egli ami innanzitutto
esibirsi in questa veste di oratore e che assai poco gli importa dei contenuti nobili ed altamente umanitari di cui va riempiendo la testa di tutti, sia dei colleghi politici, sia dei familiari, sia soprattutto dei poveri
anziani che attendono da anni la ricostruzione del loro ospizio che versa in pessime condizioni. Benelli, per una serie di circostanze sindaco pro tempore del paese, si fa paladino di quest’opera pubblica, senonchè il potente industriale Paseroni (Gino Cervi), che frequenta ministri e dirigenti della Rai, lo convince a bloccare i lavori perchè il nuovo edificio deturpa il magnifico panorama che si gode dalla sua lussuosa villa. Benelli dichiara a tutti che non si farà corrompere ed invece basta la promessa di un discorso alla televisione per “comprare” il modesto avvocato socialista. A questa vicenda fa da contrappunto quella dell’amore giovanile tra il figlio (Geronimo Meynier) del protagonista e la figlia (Carla Gravina) dello spazzino comunale; inutile dire che il padre a parole non trova nulla da ridire intorno a questo amore “interclassista” ma, nei fatti, rende la vita impossibile alla coppia che finisce con lo scappare a Roma con l’intenzione, addirittura, di farla finita. Tutto finisce lietamente: il sindaco sembra tornare sulla retta via (i lavori dell’ospizio vengono ripresi) ma nelle ultime immagini lo vediamo arringare folle inesistenti...
L’argomento centrale del racconto non è tanto negli eventi sopra descritti, bensì nell’analisi acuta e premonitrice dell’importanza delle chiacchiere politiche nella formazione del consenso popolare, soprattutto nell’era,
appena iniziata, della televisione di fronte alla quale tutti recitano una commedia pirandelliana. In tal senso la sequenza dell’inaugurazione della villa, alla presenza delle telecamere Rai, costituisce il climax dell’intero
racconto ed il momento in cui la falsità delle chiacchiere “pubbliche” viene sottolineata in modo magistrale dalla regia di Blasetti. Il tribuno socialista promette tutto a tutti, sembra il più coraggioso ed onesto uomo
politico del paese ma basta l’intervento di un potente capitalista per far sì che egli utilizzi la propria arte oratoria per mettere nel sacco i propri elettori. Non tutti ci cascano: in particolare il leader degli anziani ha
compreso da tempo il carattere inaffidabile e doppio del loro presunto difensore, ma si tratta di un’eccezione. Dietro l’aria scanzonata e leggera, il film di Blasetti possiede una sottile amarezza nell’illuminare la debolezza
della natura umana e il carattere risibile delle utopie ugualitarie, utili soprattutto a un manipolo di politici che costruiscono su di esse la propria fortuna personale. E’ vero che nel finale il gesto estremo dei giovani
ribelli, evidentemente influenzati dal nuovo corso americano (il ragazzo ha un bel ciuffo alla Elvis Presley e certamente conosce Gioventù bruciata, Ray 1954... ), sembra rimettere le cose a posto, ma l’ultima parola è ancora del farfallone socialista e, dunque, quello cui assistiamo è una sorta di finale aperto in cui l’unica cosa certa è che l’amore dei giovani ha trionfato sulle disuguaglianze sociali (il benessere della famiglia, ovvero dell’unico figliolo, è pur sempre il primario interesse anche dell’avvocato socialista), anticipando in tal modo il nuovo stile di quel pensiero libertario che sarà egemone negli anni sessanta.
Zavattini e Blasetti espongono coraggiosi dubbi intorno alla sincerità delle intenzioni delle politiche socialiste in Italia e lanciano il sospetto che esse siano fasulle e parolaie, soprattutto ora che, dopo i fatti di
Ungheria (autunno 1956), il partito socialista si sta timidamente avvicinando alla Dc e si comincia a parlare di una futura collaborazione nell’area di governo In fondo la figura del conservatore Gino Cervi risulta più
schietta ed accettabile: almeno nell’uomo di potere e nei suoi sodali non c’è incoerenza tra il dire e il fare.
Camerini dirige Vacanze a Ischia
(nov 1957; 90 min.) basandosi su una sceneggiatura di Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile ed altri. Si tratta di un film corale, ambientato sulla bella isola campana, in cui si intersecano vicende molto differenti. Il nocciolo centrale è costituito dalle disavventure di quattro giovanotti (tra cui Antonio Cifariello) che combinano guai a non finire. Fanno credere ad un povero ingegnere (Vittorio De Sica) che la moglie Carla (Nadia Gray), finalmente incinta dopo anni di tentativi, sia stata ingravidata da un giovanotto compiacente all’interno di una struttura sanitaria truffaldina. Uno di loro (Antonio Cifariello) poi corteggia senza sosta l’infermiera (Susanne Cramer) di un elegante impianto termale e riesce a fidanzarsi; un altro invece perde tutti i soldi e il gruppo mette in scena un impianto di falsi fanghi per turisti creduloni, prima che i carabinieri li dissuadano. Accanto a queste storielle abbastanza inconsistenti, c’è la vicenda di una bagnante (Isabelle Corey) che si sospetta abbia fatto la nudista di notte sulla spiaggia: denunciata dal solito benpensante (spinto dalla moglie), la giovane si ritrova implicata in un farraginoso processo per oltraggio al pudore dalla quale uscirà assolta (pur essendo colpevole). Peppino de Filippo e Paolo Stoppa sono implicati in questo episodio che è il meno scontato del film.
La pellicola è complessivamente piacevole e briosa, ma anche superficiale e priva di fantasia. Vi si percepisce un certo gusto per la trasgressione, anche crudele (si veda lo scherzo fatto all’ingegnere), nonché la
stanchezza per una serie di tabù di marca strettamente cattolica nell’episodio gustoso della bagnante. In ogni caso la centralità della famiglia patriarcale rimane l’argomento chiave come dimostra il sentimento di enorme
felicità dell’ingegnere alla notizia che la moglie è finalmente incinta. Anche le altre storie hanno sempre per tema la famiglia ovvero la ricerca di una consorte (la vicenda di Cifariello) o la difesa di quella che si ha (la
storia della coppia francese il cui matrimonio è in crisi). Vacanze a Ischia è inoltre un interessante documento d’epoca nel quale rivedere gli Italiani in vacanza, nella seconda metà degli anni cinquanta.
Il film ottenne un ottimo successo commerciale.
Dopo Proibito rubare (1948), Luigi Comencini torna sulla tematica dei bambini trascurati e degli affetti familiari con La finestra sul Luna Park
(mar. 1957; 90 min.), probabilmente il suo capolavoro. Vi si narra la difficile esistenza del bambino Mario (Giancarlo Damiani) il quale vive in una Roma periferica dove si alternano nuovi anonimi caseggiati e misere
baraccopoli. Il padre Aldo (Gastone Renzelli) lavora da anni in Kenya e il giovane lo vede solo a Natale e a Pasqua; la madre Ada (Giulia Rubini) soffre in silenzio l’assenza del marito e si appoggia a Righetto (Pierre
Trabaud), un giovane ingenuo, povero e sentimentale che si lega alla sfortunata coppia, attratto dalla madre ed ancor più dal bambino. Il bisogno d’affetto di Mario trova nel giovane amico una figura essenziale al proprio
equilibrio psichico e quasi un nuovo padre. Quando Ada, improvvisamente, muore in un incidente stradale, Aldo rientra dall’Africa e troca una situazione compromessa: il figlio non lo ama e gli preferisce la compagnia di
Righetto; la cose peggiorano quando il padre decide di mettere il figliolo in un orfanotrofio, per poter tornare in Africa a lavorare. Mario si ribella, Righetto ne sostiene le ragioni ed alla fine il padre comprende il proprio
errore: rimarra a Roma con Mario. Raramente il cinema ha raccontato i drammi dei bambini con tanta sensibilità e verosimiglianza. Sui temi melodiosi e intrisi di malinconia di Cicognini, si snoda una difficile storia di
affetti familiari e necessità economiche: Aldo pensa al futuro benessere del figlio, un futuro al quale ha totalmente sacrificato il presente. A Roma non riesce a trovare un lavoro pagato quanto quello “africano” e le
problematiche di Mario gli paiono effimere e superabili. Gradualmente però egli prende coscienza del fatto che il piccolo non riesce a vivere senza avere accanto uan figura paterna che funga da modello e che gli consenta di
vivere un’esistenza ricca di senso. Aldo scopre che, per certi aspetti, Righetto ha svolto la sua funzione paterna e dopo un primo accesso di gelosia, lo ringrazia. A qual punto gli appare chiaro che la ricerca di un
equilibrato benessere non deve andare a scapito dell’armonia familiare e delle esigenze affettive del figlio. Il racconto esprime pertanto una lodevole difesa dell’integrità familiare e critica quell’ansia consumistica che sta
iniziando a diffondersi anche in queste periferie romane. L’acquisto di un’automobile o di un apparecchio televisivo appaiono a questi personaggi degli anni cinquanta come la più alta forma di realizzazione di un certa
agiatezza e sembra già che in nome di tali feticci si debbano trascurare gli obblighi ed i piaceri della quotidianità più spicciola, quella tradizionale e semplice che nel racconto prende le forma di uno spettacolo circense, di
una gita al mare (su un vecchio motocarro) e del luna park, presenza costante del film; piaceri semplici ed ingenui durante i quali, però, si rinsaldano i legami familiari. Comencini prende posizione per l’antico, per gli
equilibri tradizionali e denuncia la ricerca ossessiva di un benessere fasullo che finisce col rovinare l’esistenza, reale, quotidiana, dei personaggi. Questa ottica piaceva alle sinistre ma anche al ceto democristiano, tanto è
vero che Andreotti, da sempre sensibile alle questioni del mondo dello spettacolo, avvicinò Comencini per proponendogli di collaborare ad un tipo di cinematografa di matrice cattolica. I contatti si risolsero in un nulla di
fatto in quanto il regista preferì non legarsi al partito di governo e rimanere in nell’area di quegli autori che simpatizzavano col mondo della sinistra, un mondo che dal primo dopoguerra aveva, a suo modo, egemonizzato
l’universo dello spettacolo. La finestra sul luna park, pur mostrando caratteri di assoluta originalità, appare influenzato da due capolavori del recente passato: Ladri di biciclette (De Sica, 1948) e La strada (Fellini, 1954). Dal primo Comencini riprende la centralità del rapporto padre-figlio (Gastone Renzelli assomiglia fisicamente a Lamberto Maggiorana) e la precisione per la descrizione ambientale, perfetta nella sua capacità di evocare un mondo povere e vitale, situato agli estremi confini periferici del centro di Roma (centro che non si vede mai) e del benessere che rappresenta. Dal film felliniano Comencini riprende la triagolazione affettiva che legava Zampanò,Gelsomina e il matto: il dolcissimo Righetto, la cui ingenua generosità dona al film un commovente calore, appare una vera e propria reincarnazione della figura disegnata da Richard Basehart. Anche le sequenze del circo e della spiaggia appaiono, a loro modo, precisi riferimenti alle atmosfere spaesate e poetiche del cinema del grande autore de La dolce vita.
Il film, male distribuito, ottenne incassi miserevoli. Per reagire a questo disastro economico Comencini torna a girare una commedia più tradizionale quale Mariti in città
(dic.1957; 95 min.) che, per molti aspetti, sembra porsi agli antipodi del film precedente, non solo per l’atmosfera brillante e vagamente superficiale, ma anche per la tesi di fondo che sepreggia nel racconto ovvero la noia obbligatoria conseguente al rapporto matrimoniale e la tendenza naturale del maschio a cercare distrazioni sessuali poco impegnative. Non a caso la frase ricorrente è quella del protagonista che afferma, senza eccessiva ironia e certo ricordandosi delle usanze arabe, che “l’uomo necessita di un harem”.
Un gruppo di mariti, soli in città, cerca differenti svaghi. Mario (Renato Salvatori) si innamora seriamente della pittrice francese Lionella (Giorgia Moll), l’attempato professor Giacinto (Nino Taranto) cerca di sedurre
una cameriera veneta (Yvette Masson), il commerciante romano Fernando (Memmo Carotenuto) ci prova con una cliente mentre Ciccio (Richard McNamara) si toglie lo sfizio di adottare un cagnolino, che dovrà affidare ad una
prostituta (Marisa Merlini) al ritorno della consorte. Su tutti svetta lo scapolo Alberto (Franco Fabrizi) il quale ripropone la propria felliniana maschera di cinico seduttore, fa lezione un po’ a tutti ma alla fine cede alla
propria convivente (che minaccia il suicidio) e si sposa. Comencini firma un perfetto film corale, brioso, piacevole, ben scritto, ben interpretato e perfettamente orchestrato. Tutte le figure ricorrenti di questo genere di
commedie d’intrattenimento sono presenti: oltre ai già citati mariti “in festa” c’è l’eterna zitella (Franca Valeri), la prostituta di buon cuore, l’amante trascurata ecc.. Il quadro complessivo è quello di un’Italia benestante
anche se non ricca (pochi hanno l’auto), serena anche se sui giornali si continua a parlare della minaccia atomica e piena di vitalità, come dimostrano questi giovani che lavorano, si sposano presto, mettono al mondo nuove
creature, considerano la famiglia il baricentro essenziale della propria esistenza e ciononostante non disdegnano l’avventura estiva, considerandola però un fatto marginale e secondario. Certo il film mostra una realtà
abissalmente diversa rispetto a quella de La finestra sul luna park; non a caso in quesa nuova pellicola l’ambiente è tendenzialmente il centro di Roma e le spiaggie di Ostia, mentre i personaggi fanno parte della classe media, impiegatizia, della capitale. I bambini sono assenti dalla narrazione (sono al mare con le mogli, anch’esse sostanizalemtne poco visibili) e con loro tutte le problematiche affettive connesse alla stabilità ed alla completezza della famiglia; anzi i mariti, tra loro, ne parlano quasi con fastidio anche se si tratta del fastidio conseguente ad una situazione di tranquilla armonia familiare di cui nessuno osa mettere in dubbio l’architettura complessiva. Quando, nel finale, Romana (Hélène Remy), la moglie di Mario, scoperto il mezzo tradimento del marito sta per lasciarlo, il film volge brevemente verso il dramma per ritrovare, poco dopo, il sorriso allorchè la donna, convinta dagli amici, perdona il marito ed accantona le proprie intenzioni bellicose.
Mariti in città riconferma la centralità della famiglia senza nascondere una certa stanchezza connessa all’abitudine della convivenza, nonchè la naturale ed umana tendenza alla poligamia, tendenza che diviene più faticoso controllare allorchè la moglie è in vacanza. La rinuncia alla libertà sessuale è il prezzo necessario che ognuno paga per mantenere la stabilità del contesto familiare: Comencini ribadisce le ovvie tesi de Il disagio della civiltà (Freud, 1929) intorno alla repressione degli istinti quale componente essenziale nel mantenimento dell’ordine sociale.
Il film ottenne un enorme successo.
testo scritto nel feb.2015
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