La moglie del prete, L'udienza e Nel nome del padre

Io e Dio, Contestazione generale, Don Franco e don Ciccio nell’anno della contestazione, Il prete sposato, La moglie del prete, La ragazza del prete, Quel giorno Dio non c’era, Don Camillo e i giovani d’oggi , Bianco rosso e... , L’udienza, Nel nome del padre e Un apprezzato professionista di sicuro avvenire: tra anticlericalismo militante e compromesso storico (1970-72)
 

            “Il discorso Ci porta per obbligante associazione di idee al recente
            episodio parlamentare italiano, di questi giorni, circa la dichiarazione
            che vuol sostenere non essere contraria alla costituzione una proposta
            di legge per l’introduzione del divorzio nella legge italiana. Non vogliamo
             ora entrare nella discussione circa tale pronunciamento, anche se esso
            Ci ha recato sorpresa e dispiacere, ed esige da Noi le dovute riserve.
            Non vogliamo invece tacere la triste impressione che sempre Ci ha
            fatto la bramosia di coloro che aspirano a introdurre il divorzio
            nella legislazione e nel costume di Nazioni, che hanno la fortuna
            d’esserne immuni, quasi fosse disdoro non avere oggi tale istituzione,
             indice di perniciosa decadenza morale, e quasi che il divorzio sia
            rimedio a quei malanni, che invece esso più largamente estende ed
            aggrava, favorendo l’egoismo, l’infedeltà, la discordia, dove dovrebbe
             regnare l’amore, la pazienza, la concordia, e sacrificando con spietata
             freddezza gli interessi e i diritti dei figli, deboli vittime di domestici
             disordini legalizzati.
            Noi pensiamo che sia un vantaggio morale e sociale e sia un segno di
            civiltà superiore per un Popolo l’avere saldo, intatto e sacro l’istituto
             familiare...”
            Paolo VI, discorso alla Sacra Rota, 23 gen. 1967

Pasquale Squitieri esordisce alla regia con Io e Dio (feb. 1970, 80 min.), pellicola d’autore di tono austero e fortemente polemico che contiene reminiscenze di Bunuel (Nazarin, Simon del desierto) e perfino del primo Pasolini (nello stile visivo e nella scelta degli ambienti). Nel solco dello spirito rivoluzionario che anima il ’68 numerose sono le pellicole che prendono di petto la questione cattolica, aggredendo la funzione conservatrice di quella ideologia/religione, i suoi rituali spesso a un passo dalla superstizione (soprattutto nella regioni meridionali del mondo) e la connivenza delle alte sfere ecclesiastiche con l’universo affaristico del neocapitalismo. Trovare tutto ciò in un’opera del futuro autore del contestatissimo Claretta (1984) fa comprendere quale fosse e quale forza possedesse lo Zeitgeist prevalente di quegli anni. Perfino la sinistra tradizionale prese le distanze da questa pellicola estremistica poiché Pci e Psi giudicavano essenziale mantenere, in ogni caso, un buon rapporto con il mondo cattolico: governare l’Italia era (ed è) quasi impossibile senza un qualche appoggio del Vaticano.
In un paese rurale poverissimo (siamo in Puglia) il volonteroso parroco don Paolo (Josè Torres) fa quello che può per aiutare la gente del posto. Cerca inutilmente di convincere un pastore, spogliato di tutto, a non vendicarsi sul signorotto locale che lo ha obbligato a lasciare le sue terre; cerca di evitare che una ragazza venga spedita a prostituirsi in città e soprattutto cerca di resistere alla tentazione che si manifesta nella forma della bella Anna (Sandra Palladino) che si è innamorata di lui. Don Paolo si reca dal vescovo e invano chiede di essere ricevuto: il potente uomo di chiesa vive nel lusso, riceve ambigui affaristi e non degna di uno sguardo il sacerdote in crisi. La visita sconvolge il protagonista e lo getta nella più completa costernazione: è come una sorta di conversione al contrario, di radicale rinnegamento della propria fede. Tornato al paese cede all’amore di Anna, viene attaccato dalla popolazione locale che, scoperta la sua trasgressione, vuole linciarlo, tenta di salvare Anna da una rozza santona che dovrebbe esorcizzarla (e invece la ferisce a morte) e infine, esasperato, come gli studenti del college di If (Lindsay Anderson), dalla cima di una collina imbraccia un mitra e spara sulla folla accecata dalle superstizioni cattoliche.
Pur non trattandosi, come è evidente, di una pellicola del tutto originale, Io e Dio possiede numerosi punti di forza: l’ottima interpretazione di Torres, la forza espressiva dei paesaggi rurali, le musiche solenni e sinistre di Manuel De Sica (la pellicola fu addirittura prodotta da Vittorio De Sica), lo sguardo anticlericale, rabbioso e irriverente, dotato di una intransigenza insolita nel cinema italiano, quasi sempre ben disposto o comunque indulgente nei confronti delle autorità ecclesiastiche. Certo la pellicola, girata con mezzi poverissimi, soffre degli estremismi irreali e artificiosi tipici dell’epoca fino al punto di trasformare un coraggioso apologo antireligioso - monito contro rituali ottusi e implicito elogio del libero pensiero - in un film di mostri della Hammer Film (tutta la parte finale del linciaggio sembra ripresa dalle pellicole inglesi su Frankenstein e Dracula). Inutile dire che il carattere radicale del film gli alienò i possibili consensi critici (fondamentali per sostenere questo genere di pellicole) e pertanto ne causò il totale insuccesso commerciale. Non a caso i due successivi film del regista saranno due “normali”  western, cui seguirà un giallo di ambientazione napoletana (Camorra; vedi) con il quale otterrà un notevole riscontro commerciale.

Luigi Zampa è tra i primi registi ad affrontare le problematiche dello scontro generazionale in corso in Contestazione generale (marzo 1970; 131 min.), film composto da tre episodi, ciascuno dei quali affidato a uno dei nostri principali comici (del solito quartetto manca solo Tognazzi). Tra i numerosi sceneggiatori spiccano Rodolfo Sonego e Piero De Bernardi.
In La bomba alla televisione (sceneggiatura di Silvano Ambrogi e Luigi Zampa) uno scatenato Gassman – nel ruolo di un bizzarro regista televisivo – mette a punto un esplosivo servizio sulla contestazione ed obbliga i dirigenti Rai a sorbirselo fino alla fine. In questo film nel film Zampa – evidentemente allineato sulle posizioni più ortodosse del Pci - rivela tutta la propria modesta considerazione della “rivoluzione” in atto, ridicolizza la moda del Living Theater e soprattutto rivela il proprio sospetto che questa sollevazione studentesca abbia in fondo come bersaglio ultimo il ridimensionamento di un Pci, colto alla sprovvista e poco incline a far proprie le velleitarie richieste dei contestatori “borghesi”.
Inoltre appare chiaro che il tutto servirà da giustificazione per interventi autoritari da parte del Potere. Insomma Zampa non sembra lontano dalle posizioni del Pasolini più “reazionario” anche se tutto ciò emerge tra le righe dell’assurdo filmetto di Gassman, filmetto che, tuttavia, non verrà mai trasmesso mentre il suo autore verrà messo all’indice tra i collaboratori della Rai (ossia del Potere). L’idea del dirigente che aveva commissionato il documentario era di avere qualcosa di “graffiante” (ossia che sostenesse i contestatori) mentre il risultato era realmente “esplosivo”, ridicolizzando la contestazione e svelandone i suoi occulti complici. Infatti nelle interviste a gente ignara della provincia, gli eventi del ’68 appaiono privi di senso mentre nel brillante “climax” un signore anzianotto porta la moglie in discoteca, la fa eccitare da un giovinastro “contestatore” e poi se la porta a casa per godersela in santa pace. L’allegoria – condita da accoppiamenti di cavalli - è realmente suggestiva (le generazioni più anziane non solo non temono i sommovimenti in atto ma anzi si servono strumentalmente dei giovani “ribelli”) e ovviamente manda in bestia i dirigenti Rai.
Va aggiunto che questo efficace episodio – il più interessante nei contenuti (si noti che la sceneggiatura è firmata da Zampa) – diviene presto invisibile (un po’ come il folle documentario del regista, censurato dalla committenza) e, per motivi ignoti, oggi Contestazione generale circola in versione monca (il dvd del 2006 conta circa 100 min.), senza questo primo episodio.
In Concerto a tre pifferi (sceneggiatura di Leo Benvenuti e Piero De Bernardi) Nino Manfredi – servile factotum di un industriale rozzo e cafone (Michel Simon) - è aspramente contestato dal figlio studente di architettura che sostiene provocatori esami di gruppo all’università (anziché esporre la materia, suona il piffero e ottiene il voto di 30/30 da una spaurita commissione d’esame). Quando finalmente decide di seguire le orme del figlio, ne ricava solo il licenziamento. L’episodio è assai brutto: i giovani contestatori sono macchiette da salotto, Manfredi ripete l’eterna maschera dell’uomo deluso e rassegnato mentre Simon è un capitalista pedante e scemo che stanca dopo pochi minuti. All’attivo del mediometraggio ci sono gli insoliti esterni in una New York gelida e invernale.
Ne Il prete (sceneggiatura di Rodolfo Sonego), Alberto Sordi indossa la sua maschera più patetica per mostrarci don Giuseppe, un parroco di campagna (a Civita, vicino Viterbo), sfruttato da tutti (a partire dai suoi parrocchiani), amareggiato da un’esistenza di disagi e di solitudine che si trova anche ad essere bersaglio di lettere anonime. Gli rimproverano una relazione con la bella Marina Vlady, cassiera al bar della stazione dove il parroco passa spesso a bere un caffè. Si scoprirà che si tratta di un terribile trucco escogitato dalla donna che invece ha una relazione con l’elegante parroco di Bagnoregio (Enrico Maria Salerno) e che usa il povero Don Giuseppe come capro espiatorio. Inoltre all’uomo capita anche di trascorrere una serata con un pastore protestante che dispone di una bella moglie e tre figli. Insomma tutti intorno a don Giuseppe sembrano felici e allora lui – alla fine – contesta. Interrogato sui suoi desideri da un fin troppo comprensivo vescovo (Sergio Tofano) che cerca di metterlo a suo agio in vista di un prossimo trasferimento, il parroco di provincia gli chiede una moglie.
L’episodio è certamente interessante per la bravura di Sordi e per gli esterni di Civita e di Bagnoregio. Tutto il resto appare artificioso, irreale e poco divertente: tutti se la passano meglio di don Giuseppe che diviene allora il simbolo di una chiesa pauperista e generosa che sembra non esistere più. Il benessere è giunto ovunque meno che a Civita e al povero sacerdote, sorta di francescano senza vocazione, non resta che contestare l’attuale ordine ecclesiastico e i suoi favoritismi.
Per dirla con Pasolini, in ogni campo ci sono uccellacci e uccellini e per questi ultimi è venuta l’ora di alzare la cresta anche se gli esiti della ribellione appaiono oscuri e probabilmente nefasti.
La presenza della tematica clericale si riallaccia in qualche modo ai racconti di Guareschi (anche don Camillo è un prete all’antica che ha passato alcuni periodi di “esilio” in piccoli paesini dimenticati) anche se la visione è politicamente agli antipodi: Zampa, coerentemente col suo cinema, reclama un maggiore egualitarismo, ma lo fa (nel secondo e terzo episodio) con personaggi macchiettistici e creando dinamiche sociali fasulle (l’assurdo capitalista idiota ritratto da Michel Simon; i contestatori canterini, la cassiera innamorata del sacerdote sofisticato... ). Pertanto il monito dell’autore si perde insieme ai suoi personaggi fittizi ed anzi la superficialità di questi ultimi in definitiva depone a sfavore di quel velleitario e utopico ugualitarismo marxista che si vorrebbe perorare.
Dopo il brillante inizio con il cinico Gassman, il tono serioso dei mediometraggi con Manfredi e Sordi rischia di affonda la commedia tra ripetitività e melensaggine.
Va notato che da questo film parte un piccolo filone che prende di mira la realtà clericale secondo un taglio che potremmo definire antitetico a quello che animava la serie di Don Camillo, serie che approda proprio in questi anni – forse per contrastare il suddetto provocatorio filone – alla sua sesta ed ultima puntata (il film di Terence Hill del 1983 è un anacronistico remake).

Negli stessi mesi esce anche Don Franco e don Ciccio nell’anno della contestazione (aprile 1970; 90 min.), pellicola firmata dal veterano Marino Girolami (probabilmente girata con l’aiuto del figlio Enzo Castellari) basandosi su una sceneggiatura firmata anche da Andrea Sollazzo e girata nel bel paesino di Soriano nel Cimino (a pochi chilometri da Viterbo). Sebbene nel titolo il riferimento più diretto è al film di Zampa, in realtà la pellicola è una sorta di parodia del primo Don Camillo (Duvivier, 1952), allude al grande successo di Magni Nell’anno del Signore (1969) ed infine, sapendo della coeva preparazione del film di Zampa, gioca anche la carta dei “capelloni”.
La pellicola è superiore alla media delle farse interpretate da Franco e Ciccio i quali si calano con insolito verismo nei due ruoli principali e limitano le usuali “smorfie”. Il racconto possiede il tipico andamento episodico dei film ispirati ai personaggi di Guareschi; in particolare don Ciccio, prete conservatore, appare più vicino a don Camillo mentre don Franco, prete “cattocomunista” (coadiuvato da un giovane e già notevole Lino Banfi), fa un po’ le veci di Peppone.
Due episodi appaiono letteralmente ricopiati dal film di Duvivier: la questione del battesimo del figlio del capocomunista locale (Umberto d’Orsi) il quale pretende di chiamare il pargolo Karl Vladimir Mao e la partita di calcio tra le squadre avverse delle due parrocchie. Entrambi gli episodi sono risolti con un umorismo a tratti efficace (merito di dialoghi spesso scoppiettanti e ricchi di riferimenti storici) e grazie anche ad una brillante sequenza relativa a un rigore, sequenza girata come si trattasse di un duello in un western di Sergio Leone.
In generale l’intera prima parte – giocata su schermaglie a tutto campo tra preti conservatori, preti progressisti, comunisti ortodossi, contestatrici extraparlamentari (una giovanissima Edvige Fenech), carabinieri cauti e nonnetti fascisti (Renato Malavasi) - ha una simpatica andatura. Nell’ultima mezz’ora invece irrompono gli hippy (tratteggiati in sciatte e prevedibili caricature) e scompaiono i due protagonisti (probabilmente la svolta era calcolata per mettere il film in sintonia con quello di Zampa): il film affonda allora nella più completa banalità.
Il lavoto nel suo complesso sembra condividere l’ottica conservatrice dei film su don Camillo: gli autori guardano agli eventi da un’ottica di cauto centrismo, impersonata tra l’altro dal comandante dei carabinieri il quale cerca invano di riportare a più miti consigli la bella Fenech. Ai comunisti e agli hippy è riservato invece un tratteggio irridente seppur bonario come si fa con amici che hanno indossato la maschera sbagliata ma che, prima o poi, torneranno a valori ed atteggiamenti più realistici e maturi. Rispetto al film di Zampa la pellicola si pone quindi su posizioni antitetiche: identico appare solo il taglio satirico con cui entrambi i lavori guardano al fenomeno hippy come a una moda passeggera e irrilevante. Non a caso mentre Contestazione generale viene condannato in sede di giudizio morale dal Centro Cattolico, il film con Franco e Ciccio ottiene un giudizio positivo.

Un anno dopo avere interpretato il ruolo di un monaco nella farsa Puro siccome un angelo papà mi fece monaco... di Monza (Grimaldi, 1969; vedi), Lando Buzzanca ritorna in scena nei panni di un sacerdote ne Il prete sposato (novembre 1970, 98 min,), grande successo commerciale di Marco Vicario (autore anche della sceneggiatura) che solleva le vibrate proteste del Centro Cattolico. In effetti la pellicola contiene elementi decisamente provocatori nel suo accentuare ad ogni costo la componente sessuale in relazione alla consueta tematica del celibato dei preti.
Il film sostanzialmente riprende l’episodio di Zampa con Alberto Sordi e lo sviluppa in una direzione caustica: don Salvatore (un bravissimo Lando Buzzanca) giunge a Roma (nella parrocchia di Santa Maria in Cosmedin) dalla siciliana Petralia, animato di ottimi propositi. E’ un sacerdote colto, severo e conservatore, una sorta di don Camillo, il quale però deve confrontarsi con un ambiente sociale degradato ad arte dal regista. Intorno al povero sacerdote inizia infatti un ossessivo balletto a sfondo sessuale: le ragazzine della Roma bene lo tormentano con confessioni provocatorie; Silvia (Rossana Podestà), una prostituta di buon cuore, gli racconta tutto quello che deve fare con i numerosi clienti; i genitori delle ragazzine sono peggiori delle loro figliole (una di loro - Magalì Noel- tenta di sedurlo e perfino il padre adottivo di un’altra, evidentemente gay, cerca di intraprendere commerci sessuali con il sacerdote). La fede di don Salvatore vacilla: chiede allora aiuto a un monsignore (Luciano Salce, fotocopia del parroco sofisticato di Contestazione generale) per scoprire che anche quest’ultimo ha la sua brava amante. Nel frattempo il sacerdote pensa di essersi innamorato di Silvia: la donna fa pressione affinché don Salvatore getti la tonaca ma questi, alla fine, resiste e rimane nella sua parrocchia.
La pellicola – come altre del periodo – fingendo di voler affrontare problemi sociali e di voler dare uno spaccato realistico della società postsessantottina, in realtà fa semplicemente propaganda affinché venga superato il celibato dei sacerdoti, secondo il modello luterano. Il momento pare propizio: l’intera società è in fermento, è in corso una vera e propria rivoluzione sessuale che implica profonde mutazioni del costume (è la rivoluzione antropologica tanto discussa dal Pasolini degli Scritti corsari) e al laicismo più spinto sembra giunto il momento di dare questa importante spallata per mettere in difficoltà le gerarchie vaticane. Queste ultime reagiscono indignate, esprimendo giudizi singolarmente astiosi nei confronti di questo e di altri simili film del periodo. La questione è delicata, il Papato teme probabilmente questa campagna propagandistica e si muove con durezza.
D’altro canto il film in questione – eliminata la parte coloristica e ripetitiva inerente le smanie sessuali che sembrerebbero imperversare ad ogni angolo della capitale – può contare su un bel ritratto di sacerdote, umanissimo e simpatico il quale, peraltro, approda nel finale a una decisione coraggiosa: nonostante tutto egli decide di mantenere fede ai voti fatti e di evitare il salto nel buio ossia evita di abbandonare il lavoro di un’esistenza per sposare una prostituta (anche se di buon carattere). Inoltre anche il personaggio di Silvia – tutt’altro che originale – è però disegnato con una certa eleganza dalla Podestà. Efficaci anche Salvo Randone nel ruolo di un anziano ed esperto parroco e Luciano Salce nel ruolo del monsignore. In una piccola parte si nota anche una giovanissima Mariangela Melato. Insomma un film complessivamente ordinario e, al tempo stesso, piacevole.
Un anno dopo Vicario sfrutterà lo stesso espediente (ovvero Buzzanca, ingenuo paesano, assediato da belle e disponibili signore) per mettere a segno il suo più grande successo: Homo eroticus (1971).

Negli stessi giorni esce anche l’attesissimo La moglie del prete (novembre 1970; 107 min), pellicola diretta da Dino Risi su una sceneggiatura di Ruggero Maccari e Bernardino Zapponi; la vicenda narrata è sostanzialmente simile a quella del film di Vicario.
Valeria (Sofia Loren), popolana semplice e diretta, ex canzonettista in possesso della quinta elementare, tenta di suicidarsi per una delusione d’amore (è stata ingannata per quattro anni da un uomo sposato); scampata alle pillole, si innamora di un prete colto e riservato, don Mario (Marcello Mastroianni), che le è stato vicino nei giorni difficili. Inizia a perseguitarlo fino a convincerlo ad ottenere il placet vaticano al suo abbandono dello stato sacerdotale. Intanto – secondo la folle sceneggiatura di Maccari e Zapponi – ovunque imperversano dibattiti sul celibato dei sacerdoti (in tv, per le strade) e ad essi ovviamente contribuisce il caso di don Mario e Valeria (i quali figurano come innamorati nel racconto filmico sebbene nulla nei loro gesti lo confermi, trattandosi di figure appartenenti ad ambiti radicalmente differenti) la cui situazione è diventata un fatto di interesse nazionale, ha suscitato scandalo e conseguenti fastidi alla Curia. Tutto sembra essere sul punto di risolversi: la coppia ha comprato casa (don Mario, imperterrito, continua a presentarsi ovunque con la tonaca... ), Valeria è addirittura incinta e il sacerdote viene convocato in Vaticano per le ultime pratiche. A sorpresa però le gerarchie romane lo addomesticano, offrendogli la carica di monsignore, un ufficio elegante ed un appartamentino con annessa dependance per Valeria. Quest’ultima resta delusa e attonita.
Il film appare studiato a tavolino per aggredire il Vaticano; niente appare credibile, né l’opera piega verso l’esplicito farsesco, né possiede altre qualità specifiche: gli interpreti sono poco convinti, l’ambientazione padovana è generica, i singoli episodi sono prevedibili e tesi a ricercare sempre l’effetto più banale (don Mario si presenta ai genitori di Valeria con l’immancabile tonaca...) mentre tutte le figure relative all’universo clericale vengono descritte con evidente disprezzo. Se il film significa poco o nulla, è invece assai interessante cercare di capire perché – sul finire degli anni sessanta, nei giorni caldi delle contestazioni di ogni genere (studentesche, operaie, di costume) e della prossima approvazione della legge sul divorzio (nel film se ne accenna) un certo settore laicista del cinema voglia sferrare un attacco tanto diretto alla tradizione papale.
Con importuna spavalderia, nel film si sprecano le previsioni funeste sul futuro del cattolicesimo e delle gerarchie romane come si trattasse di un universo giunto al suo naturale crepuscolo. La Storia successiva non farà che negare questa congerie di sciocchezze con le quali si voleva influenzare l’opinione pubblica a premere sul Papato per la questione del celibato ecclesiastico o addirittura a prenderne le distanze in generale. Probabilmente si calcolava che una decisione inerente il celibato avrebbe potuto aprire una fase assai problematica della vita della Chiesa e causare un suo indebolimento. Al contrario il Vaticano sopravvive alla burrasca e le tesi del film appaiono oggi imbarazzanti innanzitutto per i suoi superficiali autori ed interpreti, tanto più che il lavoro appare incredibile nei sui artificiosi personaggi (una donna che, dopo aver aspettato invano quattro anni un fidanzato, vuole ora sposare un sacerdote in quattro giorni; un sacerdote, sempre trincerato dietro un totale autocontrollo, di colpo decide di sposare una popolana insistente e un po’ volgare...). Non parliamo poi dell’orribile sequenza d’apertura con una furibonda Valeria che, in auto, insegue l’ex fidanzato in auto cercando di ammazzarlo: l’inseguimento automobilistico, girato in goffe sequenze accelerate, costituisce un incipit farsesco, privo di relazione con quanto segue. In definitiva, in ambito filmico, è certamente da preferirsi la commedia brillante di Vicario che, almeno, poteva contare su interpreti tutti all’altezza, su uno strepitoso Buzzanca e su una certa coerenza stilistica.
L’aggressione mediatica al Vaticano appare innanzitutto una risposta all’atteggiamento intransigente di Paolo VI nei confronti della legge sul divorzio (Basilio – Fortuna) introdotta, dopo un lungo iter di tre anni, alla fine del 1970. Fin dal discorso alla Sacra Rota del gennaio 1967 (vedi citazione iniziale) il Papa si esprime con inusitata durezza nei confronti dell’iniziativa laico-“progressista” e, in qualche modo, apre le ostilità verso il fronte anticattolico. La lunga serie di film che prendono di mira la Santa Sede nel periodo 1970–72 vanno intesi anche come una risposta a quel tipo di posizione politica, considerata dai laici un’indebita interferenza di uno stato estero (posizione ovviamente ridicola, essendo il Papato una guida morale per centinaia di milioni di individui). Come per una beffarda legge del contrappasso i cineasti e i loro sceneggiatori non discutono del divorzio in questi film (tale argomento si troverà invece in Alfredo Alfredo, Germi, 1972; vedi) bensì dell’estensione del matrimonio (e quindi anche della possibilità del divorzio... ) alla categoria dei sacerdoti.
Tornando al quadro politico, non va dimenticato che nel 1967-70 la DC è dilaniata dalle correnti interne: alcune guardano con decisione a sinistra, al dialogo con il Pci (si pensi a quella di Moro e Fanfani) mentre altre sono decise a tornare al centrismo (quella prevalente dei dorotei di Rumor, in quel periodo capo di un governo DC-Psi). Questo cinema anticlericale – da Contestazione generale a La moglie del prete – suona come un monito preciso ad opera delle sinistre le quali avvisano le correnti egemoni della DC (quelle anticomuniste) che se non si troveranno accordi soddisfacenti (ampliando le forme di collaborazione nel centro sinistra, fino ad includere in qualche modo anche il Pci nell’area di governo) si andrà incontro ad una vera e propria guerra culturale contro il Vaticano e contro gli aspetti più conservatori del cattolicesimo. Appare in definitiva questo il principale motivo stringente per realizzare film assurdi come La moglie del prete, assurdi e tuttavia sostenuti da enormi campagne pubblicitarie che ne facevano – per forza – eventi con cui era obbligatorio confrontarsi. Lo scenario paragolpista che appare dopo la tragedia di piazza Fontana (dicembre 1969; ampiamente anticipata da altri attentati, solo dimostrativi, di quell’anno), acuisce lo scontro e convince i partiti di sinistra ad utilizzare come arma di minaccia la propria potente macchina culturale. Iniziano gli anni del cinema politico e di denuncia che annovera capolavori e film mediocri, opere destinate a vita longeva e pellicole sommarie e sciocche, la cui funzione era semplicemente quella di tenere il “nemico” sulla corda.
In quei mesi esce in Francia La faute de l’abbé Mouret (1970), opera mediocre di Georges Franju. Il lavoro è tratto dall’omonimo romanzo di Zola (edito nel 1875) e racconta la stereotipata vicenda di un ecclesiastico il cui esasperato  misticismo lo porta in fin di vita; viene allora curato attraverso un “ritorno alla natura” che sfocia in una lunga relazione amorosa con una bella fanciulla. Ripresosi completamente, l’abate rientra nella sua parrocchia lasciando nella più completa disperazione la giovane (addirittura incinta). Quest’ultima ne morirà.
L’intreccio di Zola è, in fondo, il modello de La moglie del prete.
La realizzazione filmica è inadeguata in ogni direzione: attori modesti, lungaggini tediose, dialoghi prevedibili, schematismo ideologico, ambientazione cartolinesca. In Italia, anziché utilizzare il titolo italiano del romanzo (La colpa dell’abate Mouret) lo rinomina L’amante del prete (gennaio 1971) così da inserirlo nel fortunato filone anticlericale. Il successo sarà comunque modesto.

Nel solco del clamore mediatico che porta con sé la lavorazione del film di Dino Risi viene girato La ragazza del prete (nov. 1970; 95 min.), pellicola pasticciata e frettolosa di Domenico Paolella la cui unica intenzione è quella di replicare, a suo modo, il racconto con Mastroiannie la Loren.
Don Michele, un giovane prete pugliese (Nicola di Bari), nipote di un potente e simpatico cardinale (Mario Carotenuto), giunge a Roma dove deve gestire una borgata periferica e povera. In un contesto che sembra una caricatura del cinema pasoliniano dei sottoproletari romani, il protagonista deve fronteggiare quotidianamente una piccola banda di modesti malavitosi che trafficano in macchine rubate, cui capita tra le mani, per caso, un ingente quantitativo di cocaina. Su questo fondale macchiettistico e irrilevante si svolge una stereotipata vicenda sentimentale che porterà il protagonista ad abbandonare la tonaca (spinto, con vigore, dallo zio cardinale) dopo che ha confessato, in maniera plateale (attraverso una canzone intonata da suo fratello gemello, cantante di fama), il proprio amore per Erika (Susanna Martinkova), una turista luterana di origini tedesche.
Il tono del racconto è lontano dalle polemiche astiose del film di Risi: il potente cardinale è figura briosa e misurata (la cui capacità di influire, a tutti i livelli, sulle cose italiane è oggetto di una bonaria satira), la vicenda sentimentale è tratteggiata con tratti lievi e la svolta finale del tutto comprensibile e ragionevole. E’ la stessa autorità ecclesiastica a pregare don Michele di abbandonare una carriera sacerdotale per la quale non pare tagliato. Dunque il film si colloca sul versante conservatore, opposto a quello della maggioranza dei film anticlericali del periodo, ribadendo l’incompatibilità tra matrimonio e vita religiosa, senza tuttavia criminalizzare coloro che scoprono di non riuscire a sostenere il sacrificio del celibato. In ogni caso anche a questa pellicola il Centro Cattolico Cinematografico assegnò un giudizio nettamente negativo.
Sebbene il tono generale del racconto sia apprezzabile, l’insieme narrativo appare mediocre e senza interesse, ripetitivo e tedioso.
Al botteghino il film fu un totale fiasco.

Anche l’insolito film Quel giorno Dio non c’era (Il caso Defregger) (agosto 1970; 90 min.), sceneggiato e diretto da Osvaldo Civirani, va sostanzialmente iscritto nell’ondata di film anticlericali di quell’anno. La pellicola è inusuale per numerosi motivi.
Innanzitutto ci troviamo di fronte a un film a basso costo, diretto da un regista abitualmente impegnato in un cinema ultrapopolare (e pertanto estraneo alla blasonata cultura del cinema di denuncia civile e resistenziale) e interpretato da attori anch’essi abitualmente impegnati in un cinema di semplice intrattenimento. Tutti costoro si “insinuano” in una zona impervia ovvero quella del cinema resistenziale e di rievocazione del tremendo periodo della guerra civile. Il taglio del racconto è infatti assai originale per l’epoca e come tale spiazzante.
Nel rievocare gli orribili fatti del 7-8 giugno 1944, avvenuti a Filetto (in Abruzzo), Civirani evita completamente la retorica partigiana, mette in scena un paese rurale del tutto estraneo alle vicende belliche i cui abitanti hanno, in definitiva, stretto amicizia con gli occupanti tedeschi e, giunto il momento della partenza di questi ultimi (Roma è ora nelle mani degli Alleati), li salutano in certi casi perfino con calore (ci sono anche dei fidanzamenti che si rompono). Intanto gli stessi si preparano ad accogliere altri soldati – americani questa volta – come un’ulteriore sciagura necessaria, alla quale non sono in grado di opporsi. Anche i tedeschi di stanza a Filetto vengono descritti con una certa simpatia. L’irruzione dei partigiani – percepiti come totalmente estranei al tessuto paesano (ma nella realtà storica sembra che alcuni abitanti della cittadina chiamarono le bande partigiane, temendo che i tedeschi in partenza rubassero animali e cibarie) – e descritti come intrusi che uccidono, colpendo a sorpresa (alias a tradimento) e causando tutta la tragedia successiva (la ritorsione era un fatto stabilito dalle leggi militari tedesche e noto a tutti, partigiani compresi), una tragedia orribile e soprattutto inutile poiché appare evidente che la morte di due soldati tedeschi in fuga non cambia di una virgola l’esito del conflitto mondiale, ma causa invece una dolorosa strage di civili inermi e, in ultima istanza, indebolisce il tessuto sociale italiano nella sua fattiva realtà.
Tutta la prima parte del film è interessante, inusuale e godibile; la seconda, con l’arrivo delle truppe militari tedesche dall’Aquila per attuare la brutale ritorsione è invece estremamente monotona e tirata per le lunghe.
In ogni caso il taglio narrativo è talmente differente (anticipando, in relazione alla popolazione civile, quel concetto di prevalente “zona grigia” neutrale – in seguito messo a fuoco dai testi dell’ultimo De Felice - estranea alle motivazioni e alle ideologie sia dei nazifascisti, sia dei partigiani) dai modelli correnti della cinematografia di sinistra da determinare il totale boicottaggio del film sia alla sua uscita, sia in seguito (il film è pressoché invisibile anche oggi). Va detto che Quel giorno Dio non c’era è complessivamente un’opera modesta e anche assai noiosa nella seconda parte; ciononostante meritava più attenzione proprio per i contenuti che andava trattando e per il modo inconsueto di farlo.
D’altro canto appare chiaro che i motivi che hanno portato alla realizzazione di questo film sono in buona parte estranei alla rievocazione storica in se stessa e prendono di mira invece la figura di Matthias Defregger, ex capitano della Wehrmacht, in seguito vescovo ausiliario di Monaco di Baviera, in quei mesi “agli onori” della cronaca europea proprio in relazione alla messa in rilievo delle sue gesta nella Wehrmacht. La scoperta del terribile passato di questo uomo di chiesa, giunto a una carica di altissimo prestigio, scatena un vasto dibattito italo-tedesco e mette in serio imbarazzo il Vaticano che si trova a dover difendere un suo importante personaggio dal passato decisamente poco cristiano. Certamente la difesa d’ufficio in ambito militare è quella di sempre: Defregger ha applicato il codice militare ed ha obbedito a ordini che venivano dall’alto (anzi il vescovo afferma che si rifiutò di obbedire ad ordini iniziali ben più categorici e sanguinari quali la distruzione dell’intero paese e che l’entità relativamente modesta dell’eccidio è in fondo un suo merito). In ogni caso se tutto ciò può scusare l’uomo in quel difficile contesto bellico, appare però del tutto incoerente con l’uomo di chiesa giunto in una posizione tanto importante (assai vicino al numero uno della chiesa tedesca, considerando la centralità di Monaco nella cultura cristiana in Germania). Tutto verrà presto archiviato: le autorità militari tedesche assolvono l’attuale vescovo e quelle italiane definiscono prescritto il reato. D’altronde la stretta alleanza in funzione antisovietica di Italia e Germania Federale non consentono di indugiare oltre in queste laceranti ferite del passato, la cui trattazione secondo logiche più coerenti e realistiche avrebbe indebolito l’importante alleanza italotedesca all’interno del contesto Nato.
Nell’agosto 1969, in una lunga intervista alla tv tedesca, Defregger si difende a tutto campo. Afferma: “Sarebbe troppo facile se io dicessi, oggi, che agirei in modo del tutto differente. Solo colui che, come ufficiale responsabile ... della vita degli uomini che gli sono affidati, si è trovato in una situazione così critica, in un contesto di guerra – praticamente con due fronti – solo costui può permettersi di dare un giudizio valido su questa situazione”. E ancora, entrando nel merito dell’implicito accanimento nei confronti della Chiesa, insito nell’intera operazione giornalistica, dice: “Non si potrà certo pensare che lo Spiegel che ha lanciato il mio caso e tutta la stampa che con tanto ardore lo ha seguito, siano stati indotti da una fame di giustizia... Non ci si sarebbe mai preoccupati di Filetto se non ci fosse stato implicato un vescovo ausiliare... Si è colpito il vescovo ausiliare per raggiungere la Chiesa e soprattutto uno dei suoi rappresentanti che mettono più soggezione, l’arcivescovo di Monaco, cardinale Dopfner... ”. Insomma il carattere politico di queste tardive polemiche storiche, risalta immediatamente.
Civirani, autore estraneo alle battaglie di rivalutazione della Resistenza, gira un film che vuole da un lato cavalcare l’attualità e dall’altro inserirsi nel generale attacco al Vaticano (il titolo parla chiaro: cita Dio e Defregger), anche se da una posizione sostanzialmente laicista e conservatrice. L’autore infatti è bene attento a non calcare troppo la mano ed inserisce quindi la figura di un encomiabile parroco che fa di tutto per evitare la strage e placare l’animo dei furiosi tedeschi. Anche nella descrizione di questi ultimi l’autore è attento a non fare di ogni erba un fascio, arrivando a descrivere la ferma opposizione di alcuni germanici alla barbarie di altri, fino al punto di inventare uno scontro a fuoco assai improbabile tra tedeschi di idee differenti che costerà la vita ad uno di questi. In definitiva appare evidente l’esigenza di non condannare la Germania tutta intera (ora nostra alleata nel fronte della guerra fredda), ma solo alcune sue frange più fanaticamente naziste.
L’universo laicista dunque si unisce a quello di sinistra in questa generale aggressione mediatica al Papato che caratterizza numerose pellicole del 1970. In fondo divorzio e libertà sessuali interessano anche alle classi dirigenti capitaliste, non tutte disposte a genuflettersi di fronte alle ferme posizioni di Paolo VI.

Dopo avere interrotto e sospeso nel 1970 la lavorazione del sesto episodio della serie Don Camillo con Fernandel e Gino Cervi (a causa dello stato di salute dell’attore francese), la produzione decide di ripartire da zero con un nuovo cast e un nuovo regista: nasce così Don Camillo e i giovani d’oggi (marzo 1972; 105 min.) girato da Mario Camerini (è il suo ultimo film) con un bravo Gastone Moschin nel ruolo principale e con un accettabile Lionel Stander nel ruolo di Peppone. Anche il paesino è cambiato: al posto di Brescello c’è ora San Secondo Parmense.
Il film – come sempre una collana di episodi autonomi – deriva dall’ultimo romanzo di Guareschi, pubblicato postumo nel 1969 e rielaborato in sceneggiatura da Camerini con Lucio De Caro e altri, romanzo che esamina i nuovi sviluppi della società italiana. Don Camillo viene contestato da sinistra a causa delle novità introdotte dal Concilio Vaticano II (1962-65) e, allo stesso modo, Peppone viene superato a sinistra sia da una cellula scissionista locale che si ispira al maoismo, sia dai giovani “capelloni” e contestatori che, peraltro, non sembrano avere (nel film) idee politiche precise. La pellicola approfondisce appena lo scontro tra vecchi e nuovi preti sotto il segno della svolta ecumenica di Giovanni XXIII: un sacerdote giovane e pauperista di nome ovviamente don Francesco (Daniele Dublino; Francesco è – come noto – il santo più amato dai socialcomunisti) viene affiancato a don Camillo, scontenta tutti, straparla in un linguaggio cattocomunista, si innamora della bella nipote (Carole André) del parroco e si rifugia in un paesino in montagna. Don Camillo la spunta, continua a dire messa in latino e trova conforto nell’ala conservatrice del paese.
Le vicende inerenti Peppone sono invece più macchiettistiche e noiose: gli pseudomaoisti interni al suo partito sono caricature senza interesse come in generale l’intera descrizione dei giovani contestatori. In definitiva i giovani di Camerini sono degli ingenui che fingono di essere contro il sistema per capriccio e che - in conclusione – si confessano e si sposano in chiesa come i loro padri (il finale con le nozze tra il figlio di Peppone e la nipote di Don Camillo). Questa sconclusionata messa in scena è certamente all’origine del totale insuccesso che salutò la pellicola e che di fatto chiuse il ciclo (l’insignificante Don Camillo di Terence Hill del 1983 è un remake) sebbene Moschin avesse le carte in regola per ottenere un successo non inferiore a quello ottenuto da Fernandel.
I giovani degli anni settanta - animati da sentimenti più complessi e pericolosi – rimangono sostanzialmente estranei a questa pellicola che li dovrebbe ritrarre. Peraltro il film si attiene al testo di Guareschi molto fedelmente: episodi e dialoghi vengono riproposti senza alcun cambiamento. Va però notato che, anche in questo caso, l’episodio più scottante viene tralasciato. Si tratta di quello in cui Cat – la nipote del parroco – subito dopo aver posato per Miss Unità alla festa dei comunisti locali (un’atroce beffa orchestrata dal Peppone ai danni dell’eterno rivale) viene a sapere che suo padre (cognato del sacerdote) era stato ucciso nel 1946 dai comunisti all’interno di uno dei tanti criminali regolamenti di conti che si tennero nell’Emilia rossa e che l’assassino è stato poi graziato. Lo sviluppo del raccontino è poi molto convenzionale (Cat cerca di vendicarsi tendendo un agguato al colpevole ma viene fermata da don Camillo e da Veleno, il figlio di Peppone); ciononostante appare chiaro che le sezioni più aspre e anticomuniste degli scritti di Guareschi non vengono mai accolte nelle versioni cinematografiche (le quali, come è ovvio, posseggono una capacità di influenzare le masse infinitamente più grande). L’universo cinematografico “festeggia” da due decenni il simpatico reverendo emiliano ma – costantemente - gli “taglia le unghie”, anche se qualche graffiante frecciata resta, come quella del ritrattino di un comunista “ortodosso” che nega i voti a Peppone per allinearsi con le fazioni più estremiste mentre da giovane era stato un picchiatore fascista: glielo ricorda don Camillo, obbligandolo (a suo modo) a tornare nella corrente dei comunisti moderati.
Come nei capitoli precedenti, l’anima del film rimane “concordataria” e sostiene un ragionevole accordo di collaborazione tra parrocchia e dirigenza illuminata del PCI: ognuna delle due chiese deve pertanto emarginare i propri fanatici (la destra democristiana, la sinistra ultra marxista, filosovietica o perfino maoista) per cercare un inedito e coraggioso accordo per il bene della nazione.
Nelle immagini finali impostate sul prete e il comunista che si allontanano su un viottolo di campagna, affettuosamente litigando sul futuro referendum sul divorzio, si esplicita il pieno appoggio del film alla prospettiva del cosiddetto compromesso storico. Il grandioso affresco di Novecento (Bertolucci, 1976) – il più esplicito e solenne sostegno artistico creato in favore di quella svolta politica - si chiuderà nello stesso modo (il padrone e il contadino – invecchiati – che continuano bonariamente a polemizzare su tutto mentre si incamminano verso l’orizzonte).

L’idea dell’accordo tra democristiani e comunisti attraversa anche Bianco rosso e... (marzo 1972; 100 min.), pellicola di Alberto Lattuada uscita nello stesso mese di quella di Camerini. L’astuta operazione del regista si ispira a fortunati melodrammi filmici del passato (in particolare Anna, il grande successo sempre di Lattuada del 1951 come anche L’angelo bianco, Matarazzo 1955; ma il titolo richiama evidentemente la trilogia iniziata con Pane amore e fantasia, 1953, il cui terzo titolo era Pane amore e... , Risi, 1955, pellicola in cui recitava proprio la Loren) per raccontare l’insolito rapporto prima conflittuale, poi affettuoso ed infine quasi amoroso tra il comunista Annibale Pezzi (Adriano Celentano) e suor Germana (Sofia Loren).
Il racconto inizia in Libia (sequenze girate in Andalusia) e illustra un tema poco presente nella cinematografia nazionale: la brutale espulsione degli Italiani dallo stato africano nel 1970. Suor Germana è tra questi: ricorda la propria giovinezza (la bambina sullo schermo è Alessandra Mussolini) e l‘amore con un operaio impiegato ai pozzi petroliferi, morto in un incidente. Poi l’arrivo a Lodi dove è incaricata di dirigere le infermiere dell’ospedale. Qui si incontra e scontra con Annibale, un comunista insolito, simpaticissimo e nullafacente il quale campa a sbafo nella struttura sebbene non abbia bisogno di cure precise (è zoppo) e si intromette in tutte le vicende dell’istituto. Insomma un comunista molto “italiano” e assai tranquillizzante, poco propenso a rivoluzioni marxiste e preoccupato delle tante ingiusitzie presenti nel mondo. Su questo terreno trova una perfetta sintonia con suor Germana anche se poi l’uomo finisce con l’innamorarsi della bella suora, a dichiarare il suo amore, perfino a farsi trovare nel suo letto. Non resta quindi che forzarne l’espulsione.
Annibale – questo “barbaro” inoffensivo - torna nel mondo e immediatamente si trova a guidare uno sciopero durante il quale viene bloccata la statale. Un gruppo di rapinatori in fuga forza il blocco e investe l’ingenuo capocomunista il quale finisce morente in un letto d’ospedale, amorevolmente accudito da suor Germana. Sul letto di morte l’uomo – con il crocifisso in mano -  dichiara che andrà a protestare dal padreterno per tutte le ingiustizie terrene e la donna lo tranquillizza, baciandolo.
Come si nota un perfetto melodramma – ben recitato da entrambi gli interpreti – che caldeggia il compromesso storico come soluzione di tutti i mali italiani e che – soprattutto – si sforza di descrivere i comunisti come gente inoffensiva e quieta, quasi dei santi (Annibale muore per la causa degli oppressi). Tra gli sceneggiatori, oltre a Tonino Guerra e Jaia Fiastri, c’è proprio quel Ruggero Maccari che aveva firmato La moglie del prete e che – in qualche modo – sembra voler fare “penitenza” con questo film. Il tema è ancora quello, a parti rovesciate: ora è la Loren ad avere preso i voti ed è un uomo a tentarla; tuttavia la storia è raccontata con molta delicatezza, la suora non ha quasi cedimenti e l’unione dei due personaggi avviene soprattutto a un livello ideale (che è poi politico): quello dell’altruismo sociale e dell’idea di servire gli umili e gli offesi (Annibale, fuori dall’ospedale, si prodiga con tutti, mettendo a frutto le capacità mediche acquisite all’interno della struttura ospedaliera).
Anche il Centro Cattolico approva sostanzialmente il film e gli riserva un buon trattamento.

In quel mese di marzo esce pure L’udienza (1972; 105 min.), scritto e diretto da Marco Ferreri (con Rafael Azcona e Dante Matelli), basato su una riformulazione dell’idea centrale de Il castello (1926) di Kafka e interpretato da un cast realmente notevole, convinto e affiatato. A partire da questo film, Ferreri avrà a disposizione una squadra di attori prestigiosi (più o meno sempre quella) per mettere a punto i propri beffardi racconti.
Amedeo (il milanese Enzo Jannacci) ha un messaggio importantissimo e misterioso da comunicare a Paolo VI e crede sia semplice avvicinare il pontefice. Ingenuamente cerca di parlargli durante una udienza di gruppo ma viene subito bloccato dal funzionario di polizia Aureliano Diaz (Ugo Tognazzi) il quale, dapprima lo maltratta; poi, scoperto che si tratta di un ufficiale in congedo, lo rilascia e lo invita ad andare a trovare Aiche (Claudia Cardinale), prostituta d’alto bordo e di buon cuore. Diaz spera da un lato di sviare il bizzarro personaggio, dall’altro di venire a sapere qualcosa di più su di lui grazie alle confidenze di Aiche. Inizia però una lunga trafila durante la quale Amedeo – grazie alla mediazione di Aiche, ben introdotta nell’universo vaticano – avvicina personaggi influenti della Curia. Dapprima il principe Donati (Vittorio Gassman), amante della donna e animatore di gruppuscoli paramilitari pronti a intervenire per eventuali necessità golpiste; in seguito l’influente e “illuminato” monsignor Amerain (Nichel Piccoli), amico di un prestigioso teologo olandese (Alain Cuny), l’unico a cui Amedeo svela il suo segreto.
I percorsi si rivelano però tutti a fondo cieco. Amedeo tenta nuovamente di infrangere la sorveglianza vaticana e viene allora internato in un convento–carcere nel quale vengono dirottati tutti gli ecclesiastici con idee progressiste o trasgressive. Qui fa amicizia con Giovanni (Sigelfrido Rossi) – un sosia di Giovanni XXIII – col quale si intrattiene in lunghe discussioni. Quest’ultimo – a tempo perso – fa lo scultore e realizza oggetti in miniatura come una piazza San Pietro devastata o una Pietà con la Madonna decapitata.
Giovanni XXIII è – in effetti – il punto di riferimento di Amedeo e appare chiaro che il suo messaggio tanto urgente riguarda la modernizzazione della Chiesa, in linea con il Concilio voluto da Roncalli; al tempo stesso emerge che quel cammino di cambiamento si è in qualche modo interrotto, è stato tradito dalla cerchia di Paolo VI la quale si divide ancora tra conservatori e modernisti, ma secondo vuoti schematismi poiché nessuno (si veda il finto progressista Amerain che alla fine si dichiarerà pentito di certe sue aperture ideali) sembra realmente intenzionato a rinnovare le gerarchie vaticane e i loro dogmi. L’idea di porre un finto Giovanni XXIII (ma l’attore somiglia molto anche a Kruscev e sintetizza bene la considerazione ferreriana per cui “Giovanni XXIII è stato un po’ il Kruscev della Chiesa”) in una sorta di manicomio ecclesiasatico è un’idea forte e originale, che da sola vale l’intero film il quale procede comunque con ritmi serrati, di trovata in trovata, mettendo a fuoco una serie di personaggi tutti interessanti e ricchi di riferimenti alla realtà italiana ed europea del periodo.
Si noti che la pittura dell’universo clericale ritrova tematiche ferreriane già ampiamente sviluppate ne L’ape regina (1963; un film in cui la beffarda condanna del clericalismo era invece totale e senza appello; vedi): come in quel caso, sacerdoti e frati si circondano ossessivamente di immagini di morte (scheletri e clessidre) dalle quali sembrano trarre il proprio Potere su un popolo spaventato e credulone. Il carattere transitorio dell’esistenza diviene il predellino sul quale erigere la forza delle proprie argomentazioni ultramondane. Pertanto immagini lugubri e cadaveriche popolano a maggioranza degli ambienti religiosi de L’udienza (in particolare il convento–carcere) mentre anche quelli che appaiono più asettici sono comunque segnati da un carattere austero e grigio, privo di qualunque bellezza. La sensualità è invece relegata fuori dalle mura vaticane, nel caldo appartamento della prostituta, considerata una serva e un semplice strumento del Potere. 
I reazionari dunque dominano l’entourage papale: Diaz è un poliziotto autoritario e subdolo; il principe addirittura un fautore del golpe militare per arginare la violenza marxista; Amerain un finto progressista mentre il teologo realmente “illuminato” – un eccellente Alain Cuny – esce rapidamente di scena. In definitiva l’abbraccio universale del colonnato berniniano – immagine ricorrente del film (quasi l’unico esterno del racconto) – diviene l’anticamera massiccia, labirintica e dolorosa di un castello possente e inaccessibile. Tra quelle colonne, infatti, dopo anni di inutili tentativi (il film si snoda lungo un periodo abbastanza esteso al punto che il protagonista ha tempo anche di divenire padre di un bambino che Aiche però non gli fa neppure vedere) il povero Amedeo, minato nel fisico, morirà solo come un cane.
L’udienza è dunque uno dei tanti attacchi all’universo vaticano organizzato da fantasiosi e geniali cineasti (Ferreri dichiarava nel 1972 che il film “è l’analisi di un potere che è in disfacimento ma che è ancora pericoloso”; previsioni generiche e incaute, tipiche di saggisti e teatranti, ampiamente negate dalla storia dei decenni successivi). La polemica – non a caso – non riguarda il Vaticano tout court (del quale, in fondo, si tratteggia con un certo rispetto la grandiosa solennità) bensì il suo indirizzo ideale. Pertanto si commemora il “buono” e “giusto” Giovanni XXIII e si aggredisce l’attuale Paolo VI e soprattutto la sua cerchia, colpevoli entrambi di essersi arroccati nella propria fortezza e di non avere orecchie per le sofferenze del mondo reale. Anzi, in quel covo di “traditori” del Concilio si annidano perfino golpisti pronti ad agire contro le forze del progresso. Amedeo cerca invano di scalfire la corazza che separa la presunta realtà da Potere ecclesiastico; attraverso di lui la sinistra culturale ripete le abituali accuse a un certo mondo cattolico ostile al rinnovamento, alla modernizzazione della Chiesa secondo le direttive del recente Concilio e, soprattutto, al cosiddetto compromesso storico. Di nuovo i cineasti laici e progressisti, grazie al brillante racconto messo in piedi da un Ferreri in piena forma, avvisano il Papato che deve piegarsi a qualche concessione politica (si intende che il referente ultimo della richiesta è la DC, braccio politico della Curia) per poter vedere cessare questa campagna di aggressione mediatica.
Lo stile ferreriano è sempre il solito: immagini semplici, volte a enfatizzare personaggi e situazioni fortemente caricaturali, grotteschi e taglienti nello stile di Bunuel. L’attenzione è dunque tutta per i personaggi, per i dialoghi e per le variegate sfumature caratteriali che rendono ogni sequenza interessante e ricca di rimandi ora politici, ora ideologici, ora cronachistici.
La bella colonna sonora di Teo Usuelli – fatta di grandiose sonorità morriconiane – sottolinea l’importanza degli eventi ovvero l’epica e ostinata sfida posta in essere dal povero Amedeo nei confronti di una realtà incomprensibile nella sua arcaica e immutabile fedeltà a se stessa, ai propri dogmi e ai propri rituali fatti di obbedienza e di umiliazione. “La Chiesa non è una repubblica costituzionale ma un Santo Corpo organizzato gerarchicamente con un Capo infallibile per dogma” è la frase ricorrente nel film contro la quale sembra volersi ribellare appunto l’auspicio democratico di Amedeo: un uomo semplice che vuole solo avere un’udienza dal suo Papa.

Nel solco del cinema di “aggressione” al Vaticano si inserisce anche l’insolito Un apprezzato professionista di sicuro avvenire (aprile 1972; 120 min.), pellicola che segna il ritorno di Giuseppe De Santis dietro la macchina da presa dopo un silenzio di otto anni. Il film – sceneggiato dall’autore con Giorgio Salvioni - è talmente scandaloso da suggerire ai suoi molti nemici la tecnica del silenzioso boicottaggio, al punto che il film è tuttora quasi invisibile e sconosciuto ai più. Il suo totale insuccesso convince il regista ciociaro a concludere qui la propria carriera cinematografica.
La vicenda è quanto mai singolare: Vincenzo (Lino Capolicchio) e don Marco (Robert Hoffman, un attore all’epoca famoso quasi quanto Dustin Hoffman), amici inseparabili fin dall’infanzia nonché entrambi di estrazione popolare, hanno scelto vie differenti. Il primo, ambizioso e cinico, sposa Lucetta (Femi Benussi), la bella figlia di un ricchissimo affarista locale (Ivo Garrani; siamo in un’imprecisata cittadina di provincia) e - dopo le nozze- le svela di essere impotente. La donna supera l’ostacolo ma il suocero si ostina a volere dei nipoti; così Vincenzo, temendo il divorzio, prega l’amico, che nel frattempo si è fatto sacerdote ed è amico di famiglia, di intervenire al suo posto mentre Lucetta – consenziente - dorme in preda a un forte sonnifero. L’uomo - dopo molte titubanze - accetta; poi però comincia a ricredersi, di colpo vuole spretarsi e divenire padre. Vincenzo, sconvolto, lo ammazza e cerca di far cadere i sospetti su Nicola (Riccardo Cucciolla), un poveraccio disoccupato e con ricca prole, da lui più volte aiutato. Quest’ultimo comprende l’inganno e anziché denunciare l’assassino, lo ricatta in maniera surreale: lui accetta di farsi carico del delitto se Vincenzo riempirà di soldi moglie e figli (nuova casa, studi pagati per i figli ecc.). Vincenzo accetta.
Come si nota questo bizzarro soggetto – che potrebbe intitolarsi La figlia del prete – sarebbe stato impensabile senza le premesse di Contestazione generale, Il prete sposato e La moglie del prete. Peraltro il film è organizzato come un poliziesco americano (genere per il quale De Santis aveva mostrato grande interesse fin dai tempi di Caccia tragica e Riso amaro), scandito da un ritmo serrato e organizzato secondo uno schema a flashback (un vero e proprio puzzle temporale) che vivacizza ulteriormente la materia narrata. In questa cornice narrativa si inseriscono le suggestioni parallele del cinema di denuncia civile (risuona qualche evidente eco – fin dal titolo - di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri, un tempo “allievo” di De Santis) e di quello erotico (suscitate dal corpo seducente della Benussi, valorizzato in audaci scene di nudo).
Un’aura di lieve malinconia – generata anche dalla musica melodiosa e quieta di Maurizio Vandelli – si stende uniforme su personaggi ed eventi; su tutto domina l’avidità senza scrupoli del piccolo arrivista e quella presuntuosa del suocero tirannico. In questo sistema governato innanzitutto dalla ricerca del benessere ad ogni costo, le altre figure rimangono come schiacciate e succubi: la bella moglie disposta a tutto, il sacerdote che si lascia travolgere, il disoccupato pronto a sacrificarsi per procurare l’identico benessere alla propria discendenza. E’ una sorda lotta senza quartiere, cinica e crudele, di tutti contro tutti, dove origini di classe, vocazione sacerdotale, scrupoli morali si dissolvono in un orizzonte nichilista, non dissimile da quello che anima la visione grottesca dei racconti di Elio Petri. L’universo delle rivolte giovanili è altrove, forse nelle grandi città; qui in provincia (il film è girato a Latina) è del tutto assente. Al contrario poveri, piccolo borghesi e ricchi inseguono tutti il medesimo sogno di benessere a scapito di ogni coerenza morale e psicologica. La figura del sacerdote, abbastanza generica per la verità in tutta la prima parte, non fa eccezione: la conturbante bellezza di Lucetta sconvolge ogni precedente scelta di stampo altruistico e precipita don Vincenzo in un cocente desiderio di genitorialità e di “vita normale”. 
De Santis dunque non sembra credere ai nuovi valori del ‘68: il suo universo provinciale è identico a quello degli anni cinquanta. In questo senso il film suona profondamente inattuale e tremendamente provocatorio per la situazione scabrosa posta nel cuore del racconto. Un po’ come accadeva nel sulfureo Rosemary’s Baby (Polanski, 1968), una moglie viene ingravidata nel sonno da un personaggio chiamato all’opera dal marito stesso. Anziché il “diavolo” si presenta all’appuntamento un sacerdote: l’effetto anticlericale, quasi satanista, appare molto simile tanto più che questo cedere alla (demoniaca) tentazione non risulta privo di conseguenze, porta alla decisione del prete di tornare allo stato laicale e scatena una violenta bufera che travolgerà un po’ tutti.
Di fronte alle notturne immagini di Lucetta, offerta nella sua totale nudità a don Vincenzo (immagini peraltro già sforbiciate dalla censura preventiva), le gerarchie cattoliche perdono le staffe e condannano il film con parole veementi, raramente pronunciate per altre pellicole. Anche l’apparato critico progressista preferisce tacere, parlando di film poco riuscito e non all’altezza della fama dell’autore.
In quella primavera 1972 l’Italia è in piena campagna elettorale e il PCI – che ha da poco cambiato guida (da Longo a Berlinguer) e strategia complessiva, ha trovato una sponda nella corrente morotea ed anche nell’emergente figura di De Mita. Attardarsi in poco produttive polemiche anticlericali (tipiche del mondo radicale) è inutile, tanto più che l’autore di questa pellicola opera ormai in solitudine, dopo essere caduto in disgrazia (la rottura con il partito era avvenuta alla luce del sole) in occasione delle riprese di Italiani brava gente (1964). La parabola di De Santis è significativa dell’universo comunista e delle sue ferree regole (non dissimili da quelle inerenti le gerarchie vaticane): da “santo” padre fondatore del neorealismo ad autore marginale e provocatorio, cui si guarda con sufficienza e perfino fastidio. In effetti la visione del cineasta è divenuta – nel corso del tempo – assai poco marxista: tutti i protagonisti dell’intreccio sono di umili origini, eppure nessuno di loro crede alla lotta di classe, al partito e all’ideale rivoluzionario; ognuno invece cerca un sentiero stretto e oscuro con il quale giungere alla vetta, rappresentata dai più ovvi valori del benessere individuale. Un nichilismo estremista e irriverente attraversa cose e persone, senza fare sconti a nessuno: le due chiese italiane (Papato e PCI) e i loro potenti sacerdoti (parroci ed intellettuali progressisti) scomunicano il film, condannandolo all’emarginazione.
Ciononostante Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è complessivamente ben fatto e originale: gli attori sono accettabili, le sequenze chiave sono girate con perfetto senso dello spettacolo e il poliziesco aggancia lo spettatore non tanto in riferimento all’identità dell’assassino (subito svelata), bensì quanto al movente, che si concretizza dai flashback gradualmente in tutta la sua enormità. Il cinismo che pervade il racconto ha centrato il bersaglio al punto che oggi l’opera appare molto più moderna di tanti altri film del periodo anche perché essa ha saputo evitare tutti gli sciocchi luoghi comuni intorno all’inevitabile declino del Vaticano, alle presunte rivoluzioni giovanili e all’universo dei cosiddetti figli dei fiori. In definitiva il film è uno dei  migliori di De Santis, autore peraltro sopravvalutato, e merita di essere maggiormente conosciuto.

Giunto al suo terzo film, Marco Bellocchio firma l’ambizioso Nel nome del padre (settembre 1972; 105 min.), pellicola nella quale si racconta la vita quotidiana in un collegio dei Gesuiti nell’anno scolastico 1957-58.  Attraverso un affresco corale e grottesco, nel quale molteplici sono i riferimenti al cinema di Bunuel e di Fellini, il regista vorrebbe raccontare per simboli la storia dell’Italia dell’ultimo decennio. Se gli eventi sono quasi tutti racchiusi dentro le mura dell’istituto, nei numerosi squarci esterni, Bellocchio non maschera la realtà urbana degli anni settanta poiché il suo racconto pretende di tracciare una sorta di affresco della struttura politico-sociale del periodo.
Gli studenti sono un gruppo di semideficienti, appartenenti alla medio-alta borghesia italiana, ai quali vengono impartite lezioni di assoluta inutilità da parte di una classe di docenti (tutti sacerdoti) del tutto incapace. Il vicerettore Corazza (un ottimo Renato Scarpa) non nasconde il fatto che la funzione della Chiesa (e delle sue istituzioni come questo collegio) è semplicemente quella di mantenere l’esistente, senza migliorarlo in alcun modo (in fondo la Chiesa teme il progresso, l’originalità, l’iniziativa del singolo, tutte cose destinate ad affievolire la sua presa sulle masse). Dunque questi giovani della futura classe dirigente si abituano a convivere con i dogmi della tradizione cattolica così come i dirigenti della scuola (simbolici della DC) tollerano sia la mediocrità dei loro alunni, sia le loro perversioni sessuali, sia le loro piccole ribellioni. Gli inservienti, capitanati da Salvatore (Lou Castel) rappresentano una classe operaia sottomessa e gestita secondo metodi paternalistici.
A rompere questo equilibrio giunge Angelo Transeunti (il magnetico attore francese Yves Beneyton) il quale vorrebbe traghettare (come dice il suo cognome; il nome Angelo è invece ironico) questo gruppo di ragazzi insulsi verso un differente regime di vita di stampo tecnologico ed efficientista. Nella sequenza di apertura egli prende a schiaffi il proprio padre ed appare in effetti un vero e proprio antesignano dei contestatori (di sinistra e di destra); più avanti nel film il principale seguace di Angelo, Franc (Aldo Sassi), sparerà un intero caricatore alla propria madre (Laura Betti), senza colpirla. Inizia dunque un lungo duello tra Angelo e padre Corazza che è poi il complesso antagonismo che segna il conflitto tra DC e MSI (o meglio alcune sue segrete e scissioniste correnti golpiste, legate ai servizi segreti italiani e americani) nel difficile periodo che segue la strage di piazza Fontana mentre ha poco a che fare con il contesto sociopolitico del 1958, un’epoca in cui il pericolo comunista era meno vivo e non suscitava strategie golpiste (ne è conferma anche il film successivo del regista, Sbatti il mostro in prima pagina, nel quale si affrontano apertamente queste problematiche).
Bellocchio pretende di raccontare troppe cose, anche se lo fa con un testo di notevole suggestione visiva e musicale (ottima la partitura del giovane Nicola Piovani, al suo secondo incarico). Pertanto da un lato egli illumina la fine di un’epoca – quella di Pio XII (nel film si parla a lungo della sua morte e si vedono i suoi funerali) – fatta di rigida applicazione dei precetti cattolici; dall’altro egli parla di differenti spinte ribellistiche (degli studenti come pure dei servi) che fremono sotto l’apparenza quieta del collegio. In particolare Bellocchio descrive i giovani del collegio come delle caricature dei vitelloni felliniani: in una sequenza iniziale il regista piacentino cita – deformandola – la magnifica sequenza dei vitelloni in riva al mare allorché questi vantano di essere pronti a fare le cose più assurde per “diecimila lire”; ora, per una cifra simile, a uno di questi convittori tocca di appendersi agli anelli per un’ora (dopo che Angelo ha preso sul serio una sua vanteria). C’è nei confronti del cinema cinico, rilassato e scettico del primo Fellini un atteggiamento evidentemente derisorio: il giovane Bellocchio si muove entro una logica ben altrimenti rabbiosa ed energica nei confronti del sistema, rappresentato principalmente dall’universo religioso (d’altronde in un’Italia cattolica, governata dalla DC... ).
Così la colonna sonora – fin dai titoli di testa – mischia in modo beffardo splendidi accenti impetuosi (di stampo morriconiano) con inserti di cori religiosi; in chiesa un convittore, durante una predica contro la masturbazione, immagina una statua della Madonna “vivente” che gli si avvicina complice mentre egli si tocca; un inserviente cerca di violentare una suora (e il padre superiore lascia fare). Il tutto, infine, sfocia nella grande sequenza centrale della recita blasfema.
Transeunti mette in scena una serie di situazioni antireligiose, prendendo spunto dalla grande tradizione culturale di stampo massonico–nichilista. I convittori, travestiti con teste di animale (divenuti cioè uomini-bestie), rappresentano scene surreali ed estreme: dapprima vengono tagliati i genitali a un paziente (riferimento al carattere repressivo e antivitale della cultura cattolica); poi assistiamo al grande Credo nichilista di Jago (dall’Otello verdiano, 1887) cui segue una versione lasciva della scena di Lucia e dell’Innominato (da I promessi sposi) ed infine il protagonista, dopo avere venduto l’anima al diavolo come Faust, veste i panni di Don Giovanni il quale – fino all’ultimo (rispettando per filo e per segno il testo mozartiano) - rifiuta di pentirsi. Di fronte a questa sequenza di pagine proibite e blasfeme, propinate ad un uditorio di ragazzini, suore e famigliari, i superiori fingono noncuranza ed applaudono come niente fosse. In fondo essi conoscono bene tutta quella cultura ateo–massonica alla quale sono perfettamente sopravissuti.
Il cuore della rappresentazione doveva essere “la paura” come strumento di dominio. Angelo ha capito che qualunque Potere si regge sul terrore che sa incutere: per questo motivo egli disprezza il sistema paternalistico e caritatevole dei cattolici (del collegio) e cerca invece di terrorizzare gli spettatori della rappresentazione. Vuole – in questo modo – suscitare stupore, spavento, ossequio ed acquisire potere, a scapito della direzione dell’istituto. L’esito è però fallimentare: gli insegnanti – intuito il senso dell’operazione -  alla fine applaudono, minimizzando il carattere offensivo e lugubre della messa in scena mentre Salvatore guarda con sufficienza al tentativo del reazionario di Angelo, provocando in quest’ultimo un evidente irritazione. Volendo cercare paralleli ad ogni costo si potrebbe dire che la composta reazione dei Gesuiti alla provocatoria rappresentazione è simile a quella della DC (e del Vaticano) nei confronti della strage di piazza Fontana: minimizzare (evitare l’introduzione dello stato di emergenza) per non perdere il controllo della situazione a scapito di altre forze politiche (per lo più militari e tecnocratiche).
A quel punto la rabbia del rivoluzionario fascista cresce, spingendo all’estremo la lotta contro il vicerettore (si veda la lunga sequenza in cui – travestito da cane satanico – trafuga il cadavere del prete Mathematicus), senza peraltro riuscire a mutare i rapporti di forza. L’ordine torna ad essere quello di sempre e il nostro eroe, a bordo di una lussuosa Jaguar, si toglie il capriccio di abbattere un albero nei pressi del quale una ragazzina – con il suo codazzo di fedeli - millanta visioni della Vergine (si tratta di un’altra situazione felliniana, presente in uno degli episodi de La dolce vita). Con questo ultimo gesto sacrilego Transeunti conferma la totale incompatibilità (evidente fin dagli anni del regime fascista) esistente tra destra fascista e universo cattolico.
Bellocchio dunque unisce le due grandi tematiche di cui ci stiamo occupando: la contestazione del sistema (da destra più che da sinistra) e l’aggressione alla tradizione cattolica percepita – secondo la linea nietszchana - come antivitale e funerea (i riferimenti alla morte, tra sacerdoti che dormono in casse da morto e finti spettatori della recita dall’aspetto cadaverico, si sprecano). Appare curioso – in definitiva – che l’eroe rivoluzionario di Nel nome del padre, colui che vuole cambiare tutto, sia un rappresentante di una destra efficientista e massonica laddove gli umili vestano i panni di un gruppo di grigi inservienti, incapaci di formulare progetti di rinnovamento e di catturare la simpatia del pubblico. Il film così, nel suo feroce odio anticattolico, finisce con l’approdare – in parte contro il volere dell’autore - a una deriva nietzschana, certamente rivoluzionaria ma tutt’altro che marxista.
A un contesto di maggiore “ortodossia” marxista appartiene invece la solita superficiale derisione nei confronti della propaganda cattolica antimaoista e antisovietica (si veda la grottesca sequenza del missionario – rappresentante della Chiesa del silenzio - cui i Cinesi hanno tagliato la lingua), derisione che appare stereotipata e poco consapevole della realtà comunista di cui va parlando. A distanza di decenni, crollata con ignominia quella realtà totalitaria, tutti questi atteggiamenti di sufficienza intellettuale nei confronti di quel pensiero occidentale (liberale o cattolico) che prendeva giustamente le distanze da quegli orrori, appaiono patetici.

testo scritto nell’apr. 2011; ultimo aggiornamento: ago. 2019