La peccatrice e Il peccato di Rogelia Sanchez

La peccatrice e Il peccato di Rogelia Sanchez: due infelici odissee (1940)

            “Nello stato fascista l’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione educatrice. Essa deve tradurre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte così tornerà ad essere quello che fu nei suoi perodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale”.
            M. Campigli, C. Carrà, A. Funi, M. Sironi, Manifesto della pittura murale, in “La colonna”, 1933.

Il regista siciliano Amleto Palermi firma con La peccatrice (settembre 1940; 88 min) una pellicola relativamente inconsueta per i canoni della cinematografia fascista. Basandosi su un soggetto proprio, sceneggiato con l’aiuto di Luigi Chiarini, Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti, egli racconta l’interminabile, infelice odissea di Maria (Paola Barbara) la quale, sebbene incinta, viene abbandonata al suo destino dal fidanzato Alberto (Gino Cervi). Il bimbo nasce e muore poco dopo. La giovane, fuggita di casa, dapprima viene accolta da una famiglia di contadini dove sembra ritrovare un certo equilibrio; tuttavia le insidie di un componente della famiglia la costringono a ripartire. Giunta in città si innamora di Pietro Bandelli, un giovane brillante e pieno di debiti (Vittorio De Sica) e, quando questi finisce in prigione, al colmo della disperazione si adatta a fare la prostituta in una casa chiusa gestita da un infido amico. Giunta al punto più basso della propria tragedia personale la donna trova la forza di risalire la china; ripercorre allora a ritroso le tappe del proprio cammino (la struttura circolare del racconto è la stessa che ritroveremo nel celebre Arancia meccanica, 1971, di Stanley Kubrick derivato dal romanzo omonimo, 1962, di Anthony Burgess). Dapprima ritrova Pietro che cerca di aiutarla impiegandola nella ditta del padre; però la famiglia, scoperto il passato della donna, la licenzia. In seguito la giovane reincontra la famiglia di contadini e riceve le scuse del giovane che l’aveva tormentata; ritorna nella propria città dove incrocia Alberto ed infine rientra nella casa materna dalla quale era scappata all’inizio.
Gli elementi di originalità ed audacia nella pellicola sono molteplici seppure uniti ad evidenti omaggi alla politica del regime, volti a mitigare l’eccessiva negatività del racconto e del connesso affresco sociale. Raramente la cinematografia italiana pre “neorealista” ha raccontato in modo tanto crudo le disgrazie di un personaggio la cui evidente debolezza è però incentivata da una realtà complessivamente meschina e popolata da profittatori e da figure opache. Insomma se Maria ha qualche colpa, molte di più se ne trovano nel tessuto sociale circostante e questo suona come un’implicita accusa al regime politico che in fondo non è stato capace di debellare una serie di atteggiamenti e di miserrime realtà individuali e colletttive. In tal senso il film otterrà il prevedibile  plauso della critica postbellica (un po’ come accadrà al blasettiano 4 passi tra le nuvole, 1942), pronta a cercare ovunque presunte anticipazioni “neorealiste” e lavori volti a descrivere realtà degradate e problematiche.
Palermi adotta un realismo duro ed essenziale con cui tratteggia alcune perfide figure maschili che sono all’origine del dramma di Maria: il primo ipocrita fidanzato (un ottimo Cervi) che rassicura la ragazza incinta, la invita a raggiungerlo, le promette le nozze e subito dopo fugge senza addurre spiegazioni ragionevoli; nella casa dei contadini il nuovo corteggiatore, venuto a conoscenza del passato della donna, non esita a pretendere immediate prestazioni sessuali da una donna che al quel punto considera disonorata e indegna di qualunque rispetto. Infine una sorta di malavitoso irretisce la giovane e la manda a lavorare in una casa chiusa, facendone sostanzialmente una schiava. Questo quadro assai fosco è tuttavia riequilibrato mediante due squarci rasserenanti, allineati alla politica demografica e ruralista di Mussolini: la lunga parentesi nella clinica, ritratta con una fotografia luminosa e riposante all’interno di un contesto quasi documentaristico, mostra un universo sociale che si occupa in modo amorevole delle madri e dei bimbi, qualunque sia la loro origine e le traversie personali che hanno portato a quelle nascite (sull’argomento si vedano i successivi La fuggitiva ed E’ caduta una donna, 1941). Gli sceneggiatori si attengono quindi alle direttive fasciste circondando di un’aura sacrale questo mondo di madri e di neonati, unica oasi felice attraversata da Maria nella sua inesorabile discesa agli inferi. Sempre in linea con l’ideologia mussoliniana l’altro ambiente solare e positivo è quello del mondo rurale illustrato nella seconda tappa del percorso della protagonista: una pace senza tempo abita tra le mura della casa agricola mentre i contadini sono descritti con immagini anch’esse di taglio documentaristico (limitatamente al contenuto delle inquadrature, poiché il quadro complessivo è apologetico ed irreale) mentre mietono il grano, cantando. Laddove le realtà borghesi appaiono scure (immagini prevalentemente notturne), miserabili e corrotte (la realtà della casa chiusa allude ad un’alta borghesia parassitaria ed inutile), l’universo rurale, tanto lodato dal duce per la sua semplicità fattiva e per la sua fedeltà al regime, è rievocato con toni quasi fiabeschi che si ritroveranno simili nel già citato 4 passi tra le nuvole (1942, vedi). In definitiva gli autori raccontano un fosco melodramma in cui ombre e luci, egoistiche colpe e generosi slanci cercano di equilibrarsi ed infine di supportare l’ideologia prevalente che esalta la purezza di una donna-madre ed accusa l’insensibilità di una borghesia ottenebrata dall’avidità.
La pellicola, girata da Palermi con buona sensibilità e con un gusto per la recitazione incisiva e misurata, contiene una grave reticenza narrativa ed una pagina di grande bravura. La prima si situa nella comoda ellisse che evita di spiegarci perché la giovane, perso temporaneamente il secondo fidanzato (Pietro), non si spenda per seguirne le sorti (in fondo è stato arrestato per debiti, ma ha alle spalle una famiglia facoltosa; una situazione facilmente risolvibile) e non trovi di meglio che affidarsi alle attenzioni dello sciagurato malvivente che la imprigiona nella casa di tolleranza. Tanto più che Maria aveva lasciato un impiego di commessa prima di andare a vivere con Pietro e non si capisce per quale motivo non riprenda quel tipo di vita semplice, regolata da un’attività “normale”; la caduta nell’abisso appare fasulla ed immotivata, necessaria al percorso drammatico del racconto ma artificiosa quanto a realismo ed anche in riferimento alla psicologia della protagonista quale ci è stata mostrata fino a quel momento. Gli sceneggiatori sono stati incapaci di motivare quel fondamentale momento di scelta, la qual cosa mina in modo definitivo la credibilità ed il valore dell’intera pellicola. In questo senso La peccatrice è davvero un film anticipatore del “neorealismo” poiché in modo simile De Sica e Visconti costruiranno i contesti drammatici delle loro celebri pellicole su svolte narrative altrettanto forzate ed inverosimili (si veda quanto scritto a proposito di Sciuscià, Ladri di biciclette e La terra trema).
La pagina di virtuosismo cinematografico consiste invece nella lunga sequenza, girata secondo lo stile del muto, durante la quale Maria osserva, non vista, Alberto che mangia avidamente le portate del proprio pasto serale, seduto in un ristorante. Da questa lunga “soggettiva” esce un ritratto assai espressivo in cui, dalle semplici sfumature della mimica e della gestualità, si intuisce in modo inequivocabile, un carattere gretto ed egoistico (non a caso l’uomo siede solo al tavolo). Nei confronti di questo tranquillo borghese, incapace di far fronte alle proprie responsabilità, traspare il massimo disprezzo: in tal senso lo sguardo attonito ed anche disgustato di Maria si identifica con quello di Palermi ed in ultima analisi con i valori familiari e nazionali dell’ideologia fascista.

 Carlo Borghesio nasce a Torino (1905). Negli anni trenta, dopo aver scritto alcune sceneggiature e aver collaborato come aiuto regista, esordisce con Due milioni per un sorriso (1939; coregia di Mario Soldati). Il peccato di Rogelia Sanchez (gennaio 1940; 90 min.) è il suo secondo film e, come La peccatrice, racconta una drammatica odissea tutta femminile. Il regista si ispira al romanzo Santa Rogelia (1926) dello scrittore spagnolo Armando Palacio Valdés (1853-1938), sceneggiato da Mario Soldati, Edgar Neville e Roberto De Ribon.
In un centro minerario nelle Asturie (luogo di nascita di Valdés) la bella Rogelia (Germana Montero) è al centro delle attenzioni di numerosi popolani. La spunta l’ostinato Massimo (Juan De Landa), un uomo manesco e semialcolizzato che finisce presto per trascurarla. Ferito da un rivale, l’uomo viene curato da Don Fernando (Rafael Rivelles), un distinto medico che si innamora della donna, senza peraltro mancarle di rispetto. L’ottuso marito, invece, montato dalle dicerie del borgo, spara al dottore e quasi lo ammazza. L’uomo viene condannato a vent’anni di lavori forzati e Rogelia cede al nuovo venuto. La coppia si trasferisce a Madrid, ha un bambino e, per evitare complicazioni, si fa passare per legalmente sposata. I nodi vengono presto al pettine e Rogelia, subito emarginata quale amante illegittima di Don Fernando, decide di abbandonare tutto. Si reca allora nella colonia penale dove Massimo sconta la sua pena, gli resta vicino e, poco alla volta, riesce a redimerlo e a farne un uomo equilibrato. Nel finale consolatorio l’uomo muore in un incidente sul lavoro (nell’eroico tentativo di salvare alcuni compagni) e Rogelia può, senza rimorsi, ritornare a Madrid da suo figlio.
La vicenda, per quanto abbastanza convenzionale, viene raccontata con accenti sicuri, tratti essenziali e buon senso dell’ambientazione da Borghesio e dai suoi collaboratori. Gli attori sono perfettamente calati nei loro ruoli, la bella colonna sonora di stampo operistico di Giovanni Fusco conferisce un alone importante e quasi solenne agli eventi mentre il taglio delle inquadrature (numerosi i primi piani capaci di indagare il tormento della protagonista) offre spesso immagini molto espressive e tutt’altro che scontate. Il tutto riesce a far dimenticare l’andamento un po’ generico e forzatamente lacrimoso degli eventi.
Analizzando invece il senso ideale del racconto, si nota come esso provenga da una realtà distante rispetto all’universo fascista, di cui condivide ben pochi valori. In tal senso la Rogelia di Borghesio è “fuori registro” almeno quanto la peccatrice di Palermi. Innanzitutto lo sguardo sulla realtà popolare delle Asturie è decisamente negativa, denunciando un mondo sociale arretrato, nonché pervaso da invidie e pregiudizi. I minatori e le donne del villaggio offrono un quadro disperante di violenze e facili brutalità, spesso innescate dall’alcolismo mentre semplici pettegolezzi si trasformano in nefaste certezze a causa della stupidità dei personaggi. Di contro il medico che viene dalla capitale, un signore distinto e colto, viene descritto come persona sensibile e capace di aiutare la misera popolazione. Sarà lui a porre in salvo Rogelia, a portarla lontano da quella terra arretrata e infine a renderla madre felice. Le realtà cittadine appaiono dunque certamente migliori di quelle degli umili borghi minerari. In seguito però la donna non riesce a sostenere le critiche e il conformismo sociale che regolano comunque anche la vita di una metropoli come Madrid e preferirà sacrificarsi per cercare di migliorare l’infelice esistenza del brutale Massimo.
Come si nota siamo quasi agli antipodi del populismo fascista che, in genere, tende a santificare i piccoli villaggi rurali (o minerari) e a criticare aspramente l’ “imbelle” e colta borghesia media (per la verità, come si é detto, anche Valdés critica la borghesia madrilena che condanna, senza appello, Rogelia). In ogni caso il regime poteva ben tollerare un film come questo in quanto, innanzitutto, parlava di una realtà “estera” (spagnola) e inoltre salvava il valore supremo della maternità nell’artificioso finale (il ritorno della madre nella casa del figlio che la attende da lungo tempo).
Insomma Il peccato di Rogelia Sanchez, con la propria evidente estraneità al contesto italiano, rivela, senza saperlo, l’artefatto populismo che attraversa in modo abbastanza omogeneo il cinema di regime; non a caso il primo titolo doveva essere l’esplicito Donne di Spagna, come a dire che il racconto era privo di relazione con l’Italia di Mussolini; anche il titolo definitivo conferma comunque il carattere “esotico” della pellicola - girata tra l’altro in due versioni, una per la nostra penisola e l’altra per la penisola iberica - e la sottintesa lontananza dell’odissea di Rogelia dalle “consuetudini filmiche” del mondo italiano. In quest’ultimo abitualmente accadeva il contrario ossia una brava fanciulla veniva “rovinata” da un borghese senza scrupoli e salvata dal buon cuore di un operaio o, meglio ancora, di un modesto impiegato.
Il cinema fascista doveva soprattutto elogiare e consolare gli strati più umili e la piccola borghesia cittadina - ovvero la sua base di consenso - tanto più che erano soprattutto queste categorie sociali ad affollare le sale cinematografiche.