La prima notte di quiete e Ultimo tango a Parigi

La prima notte di quiete e Ultimo tango a Parigi: due “viaggi straordinari”(1972)


              “... un reietto in un mondo da quattro soldi, un uomo nobile
              in un mondo di cialtroni, un aristocratico in un mondo
              di stupratori di puttane, un professore di storia dell’arte
              in un liceo di cretini, un uomo fine in mezzo alla volgarità,
              talmente fragile da essere sempre vinto dagli altri...”
              Zurlini parla del suo film

              Anche se un marito vivesse duecento maledetti anni,
              non scoprirebbe mai la vera natura di sua moglie. Potrei
              anche... potrei anche arrivare a capire l'universo, ma
               non riuscirò mai a scoprire la verità su di te, mai.”
              Paul parla della moglie morta

Valerio Zurlini firma con La prima notte di quiete (ott 1972; 130 min.) la sua opera più importante, intensa e sofferta. Il lavoro, incentrato sulla misteriosa figura del prof. Daniele Dominici (Alain Delon), offre al pubblico degli anni settanta (i futuri anni di piombo) l’opzione per una visione sociale nichilista e pacificata, in cui “rossi o neri sono tutti uguali” e in cui prevale l’idea di una tolleranza totale per tutto e per tutti in maniera indifferenziata. Insomma un film “fuori dal coro” che, tuttavia, riscosse un enorme successo commerciale dando voce a quella vasta area grigia che non si riconosceva negli estremismi politici e nelle ideologie salvifiche.
Quando il professore giunge a Rimini, su un molo spazzato dal vento invernale, incontra una barca australiana che si è smarrita e il cui equipaggio chiede di sapere dove si trova. E’ un incipit quasi didascalico che ci introduce alla psicologia anomala del protagonista, viaggiatore disilluso alla ricerca di un qualunque senso da dare alla propria esistenza. Le immagini gelide e solcate dai titoli di testa di un nero funereo, accompagnate da uno straziante tema sonoro di Mario Nascimbene, affidato alla tromba di Ferguson, generano l’impressione intensa di un inverno dei sentimenti e di uno spaesamento esistenzialista. Questa Rimini fredda e deserta, vero personaggio a se stante, è l’esternazione del sentire di Zurlini il quale, d’altronde, si identifica totalmente con il protagonista con la sua camminata stanca, il suo cappotto fuori moda e la sua Citroen d’altri tempi; quei magistrali paesaggi urbani ricordano come nel racconto filmico gli sfondi possono divenire elemento espressivo fondamentale. Il carattere estremo delle prime sequenze, come di gran parte di quello che seguirà, confermano di essere in presenza di un grande melodramma cinematografico il quale riconferma che il cinema italiano più alto non fa che riprendere la grande tradizione dell‘opera lirica ottocentesca di Verdi e Puccini.
Giunto a scuola il professore nega le proprie origini (il padre aristocratico, medaglia d’oro a El Alamein di cui parla il preside), insegna in maniera svogliata e concentra la propria attenzione su Vanina (Sonia Petrovna), una ragazza la cui aria sofferente è in fondo l’ennesimo specchio del suo dramma interiore. Il professore - verremo gradualmente a sapere - traumatizzato in gioventù dal suicidio di una cugina sedicenne, pubblicò un libretto di poesie intitolato La prima notte di quiete (ovvero la morte), abbandonò la famiglia e iniziò un’esistenza raminga e avventurosa che lo trascinò in differenti contesti nazionali, africani e perfino in prigione (per assegni falsi). L’uomo vive un proprio eterno rimorso, è indifferente ad ogni forma di conformismo, da quello perbenista a quello borderline dei suoi amici “vitelloni”, soffre e si sente vicino solo a chi è sofferente come lui. Le tensioni sociopolitiche (i ragazzi del liceo), quelle erotiche (il giro di amici che organizzano orgette serali) come pure gli scontri fisici e al tavolo da gioco lo lasciano indifferente: si tratta di commedie umane senza reale importanza. L’unica cosa che coinvolge e consola il protagonista è la bellezza, l’evento artistico generato spesso dal dolore più intimo: i versi poetici di qualche scrittore, la Madonna del parto di Piero a Monterchi e Vanina Vanini di Stendhal; nella contemplazione artistica Dominici trova l’unico rimedio alla propria intima desolazione. Anche l’infatuazione per la bella studentessa dal passato terribile (prostituzione giovanile, un aborto a quindici anni, una madre complice e ricattatrice...), insieme di purezza e peccato (come nel titolo del tema manzoniano svolto in classe dalla ragazza) è solo una proiezione del proprio malessere che, in definitiva, affascina Vanina, legata a un fidanzato ricco e manesco (un bravissimo Adalberto Maria Merli), come un piacevole e intrigante diversivo, probabilmente transitorio. D’altronde, in linea con la stendhaliana Vanina Vanini, che nel suo amore possessivo per il bel carbonaro aveva mandato a morte i suoi compagni di lotta politica, le figure femminili vengono descritte da Zurlini in maniera negativa: la compagna di Dominici, Monica (Lea Massari) teme di essere abbandonata e ricatta Daniele fingendo manie suicide e causandone alla fine la morte; Elvira (Nicoletta Rizzi), come l’amante tradita di Don Giovanni, insegue invano il professore; Vanina, pur tra molte ambiguità, sembra partecipe ma anche lei come tutti non sarà presente al funerale del protagonista.
Solo Spider (un eccezionale Giancarlo Giannini) si è realmente messo sulla lunghezza d’onda del professore: probabilmente con inclinazioni gay, il giovane è travolto dal fascino di Dominici, indaga sul suo passato, scopre le sue origini nobili, lo accompagna nei suoi pellegrinaggi autobiografici (la casa in rovina dei suoi avi) ed è l’unico ad essere presente al funerale.
La prima notte di quiete è un film in cui Zurlini, accantonate in maniera aristocratica le passioni del suo tempo, coniuga Wagner e Dostoevski: il professore, figura dalla bontà trascendentale come quella del principe Myskin de L’idiota (1867), vive un tremendo calvario in un universo dominato dalla grettezza (inarrivabile la sequenza dello scontro con la madre di Vanina, una feroce Alida Valli, che prima finge rispetto per il visitatore, poi lo caccia di casa insultandolo) e dalla violenza alla fine del quale c’è solo la morte liberatrice (Tristan), momento di quiete finalmente riconquistata.

E’ curioso che due registi abbastanza differenti come Zurlini e Bernardo Bertolucci abbiano deciso, negli stessi mesi, di raccontare due storie molto simili. Nel celeberrimo Ultimo tango a Parigi (dic. 1972; 125 min.) il protagonista, un Marlon Brando perfetto, indossa addirittura lo stesso cappotto colore cammello che segna la figura di Alain Delon nel film sopracitato.
Paul, come Dominici, proviene da una storia personale tormentata e avventurosa in cui, di fatto, Bertolucci sintetizza fantasie romanzesche e riferimenti a personaggi filmici interpretati da Brando ovvero da un simbolo della beat generation e del suo ribellismo antisistema. Le origini di Paul sono molto più modeste di quelle di Dominici, addirittura rurali (il Nebraska) e la sua gioventù altrettanto segnata da differenti traumi di cui il protagonista accenna nel lungo, solitario monologo situato al centro del film. Come per il professore zurliniano, il coevo universo politico, le sue tensioni e le sue promesse rivoluzioni viene accantonato e lasciato fuori dalla porta mentre è un’altra la dimensione che si offre al protagonista ovvero quella di un “viaggio straordinario” in una rue Verne inventata (in realtà rue de Alboni; la vera rue Verne, a Parigi, è una strada molto più banale), in un appartamento situato sulla Senna, non lontano dalla torre Eiffel (che tuttavia Bertolucci non ci mostra mai, nel tentativo di porre la vicenda in una dimensione fiabesca ed astratta). Sulle note struggenti della meravigliosa colonna sonora di Gato Barbieri, meno urlata di quella di Nascimbene ma altrettanto intensa e malinconica, Paul e Jeanne (Maria Schneider), due perfetti sconosciuti, si ritrovano al di là dei vetri smerigliati dell’edificio di rue Verne, dopo aver varcato il controllo di una dispettosa portiera di colore, capace di offrire perle di saggezza sulla vita e la morte e, immediatamente, instaurano un rapporto basato esclusivamente sull’attrazione sessuale più animalesca. La coppia avvia un rapporto libero e selvaggio che funge da compensazione alle frustrazioni che la vita ordinaria offre a entrambi i personaggi una volta che essi, abbandonato il luogo oscuro di una felicità utopica e alquanto letteraria, rientrano nella quotidianità.
Per entrambi (come per i personaggi del film di Zurlini) il problema centrale dell’esistenza è il rapporto con l’altro sesso, rapporto vitale nel quale ricercano soddisfazioni profonde e definitive mentre tutto intorno a loro si moltiplicano i segni del lutto e della morte. Topi morti e mogli suicide, genitori eroici caduti in guerra e realtà domestiche trasformate in sacrari funebri: tutto intorno alla coppia incombono minacciosi i segni di un nulla opprimente. Paul ha passato cinque anni con una moglie che non conosce veramente e che si è appena suicidata, una donna enigmatica che gestiva un albergo modesto e forse malfamato, probabilmente una ex prostituta che si è legata all’americano alla ricerca di una nuova vita, ma che poi lo ha tradito più volte. In particolare risalta la figura di Marcel (Massimo Girotti), l’ultimo amante della donna: in un incisivo e lungo “duetto”, Paul scopre che la moglie li ha usati e modellati secondo una sua visione personale, addirittura regalando loro vestiti identici. Paul intuisce che un definitivo baratro separa uomini e donne: queste ultime, completamente assorbite dalla loro sessualità, cercano sempre e soltanto un compagno soddisfacente a questo loro bisogno essenziale e lo sostituiscono ogni volta che la routine spegne il desiderio trasformandolo in abitudine, in una prassi cinica in cui il sostituto o il nuovo prescelto è solo una variante della stessa cosa.
D’altronde una situazione speculare è quella vissuta da Jeanne. Il suo fidanzato Tom (Jeanne Pierre Leaud, icona del cinema di Truffaut) è un regista esaltato della nouvelle vague che inserisce la fidanzata in un proprio mondo di sogni artistici, la manipola per farne un’immagine di autentica bellezza e di fatto non ha alcun vero rapporto (soprattutto sessuale) con lei. Jeanne infatti, del tutto estranea alle ambizioni artistiche tipicamente maschili di Tom, protesta, litiga, cerca di farsi valere e soprattutto si vendica vivendo il suo “viaggio straordinario” altrove, in una dimensione fisica del tutto ignota al suo partner il quale, quando nel finale entra nell’appartamento di rue Verne, lo giudica un antro sporco e ripugnante. La visione intellettuale di Tom è di fatto estranea alle esigenze più profonde di Jeanne: mostra un personaggio talmente innamorato della bellezza artistica fino al punto di dimenticare la dimensione corporea e l’estasi derivante dal rapporto sessuale. La scelta di Jean Pierre Lead, oltre che un omaggio all’universo del cinema francese al quale (soprattutto nella figura di Godard) Bertolucci deve molto, si ispira al recente Le due inglesi (1971), film molto amato da Truffaut che lo considerò, fino al termine della sua vita, il proprio capolavoro e che, invece, incontrò un infausto destino commerciale (fu un fiasco sia in Francia, sia in Italia). Questo film meraviglioso è certamente tra le fonti di ispirazione di Ultimo tango: in una situazione rovesciata il critico d’arte Claude (Jean Pierre Leaud) vive due passioni antitetiche con le inglesi Muriel e Ann (anche in questo caso il bilinguismo rimane un aspetto rilevante del racconto; la copia di Ultimo tango andrebbe sempre visionata in originale, per potere ascoltare la significativa presenza delle due lingue e culture che si intersecano continuamente nei lunghi dialoghi di Paul e Jeanne); investe la prima del suo sapere artistico e la inserisce in un suo universo letterario mentre vive con la seconda un’intensa storia sessuale, anche in questo caso attraverso l’isolamento materiale (in uno chalet svizzero, lontano da Parigi).
Paul e Jeanne vivono dunque, nella dimensione astratta di rue Verne, un rapporto squisitamente fisico e appagante, un rapporto arcaico e brutale in cui i ruoli tradizionali (secolari) dell’uomo dominatore e della donna soccombente vengono pienamente rispettati e rimessi in funzione (alla faccia del femminismo imperante nelle strade della vera Parigi) mentre il vero assente è il tradizionale linguaggio amoroso, affettivo e preconiugale. Il disgusto per tutte le convenzioni e le sovrastrutture sentimentali, clerico-perbeniste e borghesi, è da un lato perfettamente riassunto nella odiosa e patetica figura della madre della donna suicida (figura molto simile a quella disegnata da Alida Valli quale madre di Vanina nel film di Zurlini), mentre dall’altro esso assume il tono dello scetticismo verso le coeve illusioni progressiste, di cui Tom è un emblema insipido e noioso; quel disgusto si concretizza, quindi, nei rapporti sessuali sempre più accesi e violenti della coppia, che culminano nella celebre scena della sodomia durante la quale Paul inveisce contro le abitudini castranti del contesto familiare e rifiuta il “disagio della civiltà” in una sorta di totale immersione nel principio del piacere freudiano. Va detto che il progetto originario, assai più audace, prevedeva la presenza di un personaggio maschile al posto di Jeanne: in omaggio alle tendenze omosessuali di Bertolucci, il film avrebbe dovuto rappresentare una ribellione al sistema ancor più radicale: la dimensione fantastica di rue Verne sarebbe stata ancora più separata dal reale e una serie di sequenze erotiche come quella della sodomia (verso di lei come pure verso Paul nel finale), avrebbero acquistato un senso ancora più compiuto. Tuttavia il regista non osò tanto: giù in questo modo il film, decisamente esplicito nelle lunghe sequenze erotiche come mai era accaduto nel cinema italiano, andò infatti incontro ad una storia travagliata e ben nota (che infatti qui non rievocheremo), anch’essa unica nella storia della penisola. Basti ricordare che, in seguito alla condanna della Cassazione, gli Italiani non poterono più vedere Ultimo tango sul suolo nazionale dal 1976 al 1987 mentre in quegli anni a Parigi una piccola sala programmava costantemente la pellicola (cosa di cui personalmente approfittai). Inoltre la scelta di rappresentare un rapporto omosessuale (si noti che nella prima parte del film la Schneider adotta una pettinatura vagamente “maschile”) avrebbe ridotto drasticamente il pubblico e avrebbe fatto di Ultimo tango un film adatto solo ai circuiti d’essai.
Nell’ultima parte la figura di Paul cede alla tentazione della normalità: per la prima volta la coppia si rivede alla luce del giorno e l’uomo ora vuole chiarire tutto e vorrebbe portare la sua “preda” quale nuova compagna nel suo hotel malfamato; ma tutto ciò allarma Jeanne fino a provocare in lei un atteggiamento di rifiuto totale e di fuga. Paul non comprende che, fuori da rue Verne, dall’antro dai colori dolcemente spenti, l’incantesimo è rotto e l’interesse della donna diviene nullo. L’avventura sessuale nell’appartamentino abbandonato donava un soddisfacimento compiuto e integrale, rivoluzionario, all’animo femminile e al suo viscerale identificarsi con l’esigenza sessuale; fuori da quella dimensione Paul come marito è privo di interesse, è un uomo qualunque ed è anzi un mezzo fallito, un debole; meglio allora l’esuberanza creativa di Tom. Nella lunga sequenza del tango le coppie sulla pista rappresentano la tradizione compiuta, il dominio dell’uomo sulla donna la quale viene condotta e guidata nei passi figurati; Paul e Jeanne vi si introducono in maniera dissonante, sembrano volere contestare quell’equilibrio che però era anche quello di rue Verne, equilibrio puro e perfetto che ora Paul ha perduto, esigendo da Jeanne un impegno totale che funzioni anche da aiuto e completamento per la sua situazione umana desolata. Jeanne percepisce la trappola, rifiuta l’uomo, lo sfugge e alla fine, quando diviene pericoloso varcando la soglia della sua casa, un’abitazione densa di ricordi tradizionali (il padre della ragazza era un eroico colonnello morto in Algeria nel fatidico 1958, l’anno chiave della quinta repubblica di De Gaulle), lo uccide. Paul è divenuto un estraneo in quel contesto nazionalista, una minaccia e nel poetico finale Jeanne convince se stessa di non averlo mai conosciuto. Di fatto, fuori dall’incantesimo di rue Verne, luogo in cui i nomi e i fatti biografici erano simbolicamente vietati, Paul rimaneva per la donna un estraneo e un essere inutile alle sue reali necessità quotidiane. Meglio un Tom qualunque come marito inoffensivo nel mondo della luce e del giorno e, in quello notturno, una lunga serie di “viaggi straordinari”.

testo scritto nell’ott. 2021