Foreign Correspondent, Saboteur e Lifeboat

Foreign Correspondent, Saboteur e Lifeboat: Hitchcock in guerra (1940-44)

                                                                                                                 “America, tieni accese le tue luci,
                                                                                                                   sono le uniche luci del mondo”
                                                                                                                   Foreign Correspondent, appello finale

Hollywood scende in guerra con la Germania nazista fin dalla fine degli anni trenta. Non si tratta, evidentemente, di una difesa delle democrazie in quanto l’industria cinematografica americana ebbe buoni rapporti con l’Italia fascista (almeno fino al 1936-37) e guardò sempre con una sfacciata indulgenza alla Russia sovietica ossia al peggiore totalitarismo del secolo (si vedano al riguardo Ninotchka, Lubitsch 1938 e Reds Beatty, 1980). Il problema è, invece, differente: nell’industria della comunicazione americana prevalgono i capitali ebraici e, quindi, appare normale che tale industria denunci la terrificante e quotidiana persecuzione degli israeliti nella Germania di Hitler, fin dalla fatidica notte dei cristalli (novembre 1938). In secondo luogo le dittature fasciste europee avevano assunto, alla fine degli anni trenta, un marcato carattere autarchico che finiva col danneggiare pesantemente la circolazione delle merci americane, rischiando di fare precipitare gli Usa in una seconda depressione (dopo quella causata dal crollo del 1929). In ogni caso non si poteva lasciare il continente europeo in mano ai tedeschi, soprattutto ora che erano guidati da una classe dirigente criminale. Al contrario coi sovietici l’occidente (gli Usa pre primi) ha sempre fatto affari e, quindi, ha evitato di evidenziare il carattere altrettanto sanguinario del sistema politico comunista.
Scoppiata la guerra in Europa (settembre 1939) gli Usa cercano, nel loro complesso, di mantenere una qualche equidistanza (Roosevelt si fa rieleggere promettendo agli americani che non si sarebbe lasciato coinvolgere nel conflitto europeo) mentre l’industria di Hollywood preme apertamente per un intervento delle potenti forze armate statunitensi al fianco della martoriata Inghilterra.
Hitchcock, inglese in terra americana, è quindi il regista ideale per questo tipo di propaganda politica e a lui viene affidato, già nella prima metà del 1940, la direzione di Foreign Correspondent (Il prigioniero di Amsterdam, agosto 1940;120 min.), una pellicola che incita apertamente gli americani a entrare in guerra in difesa delle democrazie in pericolo (il fronte russo non esiste ancora mentre la Finlandia aggredita, come pure la Polonia orientale, non riscuotono l’interesse dei cineasti di Los Angeles... ). Sebbene si tratti di un thriller privo di esplicite ambizioni artistiche, al film vengono assegnati fondi consistenti (costa una volta e mezza Rebecca), così da rendere il lavoro spettacolare e quindi appetibile per il grande pubblico.
In effetti la pellicola - complessivamente gradevole e riuscita (certamente superiore al drammone della du Murier) - mostra tutti i generosi mezzi di cui è stata dotata nelle belle sequenze olandesi (i mulini a vento e l’uccisione del falso diplomatico in una grande piazza di Amsterdam), inglesi (la morte del sicario che cade dalla torre della cattolica Westminster Cathedral, da non confondersi con l’anglicana Cathedral Abbey) e nella efficace sequenza del finale abbattimento dell’aereo, su cui viaggiano i protagonisti, il quale precipita in mare aperto. Oltre a questi momenti culminanti, girati con evidente maestria, il film si avvale di una sceneggiatura (firmata da Charles Bennett e Joan Harrison) ricca di colpi di scena, sempre intrecciati con dialoghi vivavi e ironici (quell’ironia tipicamente hitchcockiana, purtroppo assente in Rebecca).
L’improbabile vicenda racconta di un reporter americano (Joel McCrea) il quale, inviato in Europa per rendersi conto della situazione (siamo negli ultimi giorni dell’agosto 1939), assiste all’omicidio di un diplomatico olandese (ma si tratta di un sosia), scopre che, in realtà, il medesimo politico (Albert Basserman) è tenuto prigioniero in un mulino a vento, ne insegue i rapitori a Londra, denuncia il fatto al dirigente (Herbert Marshall) di un’associazione pacifista che si scoprirà essere una spia nazista e il vero mandante dell’operazione, riesce a sfuggire a differenti tentativi di omicidio, si innamora della figlia (Laraine Day) del criminale e, dopo essere miracolosamente scampato al
l’abbattimento dell’aereo (sempre per mano tedesca) che doveva riportarlo in America, lancia dalla radio inglese - durante un bombardamento tedesco - un accorato appello alla politica americana affinché si armi e intervenga in aiuto della Gran Bretagna.
La storia, per quanto inverosimile, viene sviluppata in modo coinvolgente e serrato: dipinge con toni cupi e disumani i nemici dell’Inghilterra, crea un’elegante figura di ambiguo criminale nel rispettato dirigente della falsa organizzazione pacifista nonché mandante del rapimento e mette in fila una serie di atrocità (gelidi sicari, diplomatici uccisi o torturati, aerei abbattuti, città martoriate dalle bombe), tutte imputabili, in ultima analisi, alla Germania nazista. Hitchcock e Bennett mettono in scena anche l’altra America, quella isolazionista, nella antipatica figura del capitano della nave dei soccorsi che ha raccolto i naufraghi dopo l’abbattimento dell’aereo, capitano che impedisce qualunque comunicazione antitedesca dalla sua nave (divieto brillantemente aggirato, come ovvio, dal nostro eroe). Così Foreign Correspondent ci racconta anche un’America spaccata in due, in cui la voce neutralista dei conservatori possiede ancora una notevole forza.
Il conclusivo monito appare il cedimento più diretto alla retorica e al ricatto sentimentale, con la coppia protagonista che, pur di lanciare il proprio appello verso gli Stati Uniti attraverso una trasmissione radiofonica, rischia di finire sotto le bombe. Il testo finale, che tra l’altro utilizza un linguaggio di sapore massonico, ricorda che “le luci sono tutte spente tranne in America” e invita espressamente alla guerra: “Tenete accese quelle luci, copritele di acciaio, incorporatele nei cannoni, costruite intorno ad esse un ombrello di corazzate e di aerei da bombardamento...” poiché quelle “luci sono le uniche luci del mondo”.
Al di là delle esigenze imposte dal contesto storico e dagli interessi delle forze in campo, il film rimane un’opera piacevole anche oggi per le ragioni suddette: attori tutti bravi, ottime scenografie, colpi di scena a ripetizione, una figura negativa camaleontica, dialoghi sempre centrati e ricchi di humour.

Un anno dopo Hitchcock gira il secondo film “patriottico” di questa ideale trilogia ovvero Saboteur (I sabotatori, aprile 1942, 108 min.; uscita italiana: novembre 1946) nel quale, basandosi su una sceneggiatura di Paul Viertel e altri, immagina la presenza di un potente gruppo di cospiratori filonazisti all’interno dell’alta borghesia americana il quale, dotato di potenti mezzi, organizza il sabotaggio di una fabbrica bellica a Los Angeles, progetta di far saltare una diga nelle vicinanze della metropoli californiana e tenta di far saltare una nave nel porto di New York. Sulla propria strada incotra però l’operaio Barry Kane (Robert Cummings) il quale, ingiustamente accusato del primo sabotaggio, fugge per gli Usa, accompagnato dalla modella pubblicitaria Patricia (Priscilla Lane), riesce a scoprire tutti i piani criminali dei nazisti, a renderli innocui e, infine, a farli acciuffare dalla solita inetta polizia.
Siamo di fronte al consueto film-fuga hitchcockiano, incentrato sulla figura dell’innocente braccato al quale non resta che dare la caccia ai veri colpevoli per potersi discolpare e per potere tornare alla sua tranquilla quotidianità. Il film possiede alti e bassi, si snoda lungo troppi episodi solo schizzati e sostanzialmente mal definiti, la qual cosa accentua l’inverosimiglianza del tutto. Dopo l’inizio in stile asciutto e quasi documentaristico a Los Angeles, si passa all’episodio del cieco comprensivo e saggio che aiuta il fuggiasco (in stile favola alla Capra, senza dimenticare l’incontro col cieco del mostro di Frankenstein, Whale, 1931), poi all’incontro con una carovana circense dove gli stravaganti personaggi (ispirati al celebre Freaks, Browning, 1932, qui in versione semicomica) aiutano prontamente i fuggitivi e, quindi, al complotto della diga raccontato sommariamente (come sia possibile a Kane farsi credere, in questo episodio, uno della setta e infiltrarsi così facilmente nel gruppo di cospiratori, è cosa che andrebbe chiesta ai superficiali sceneggiatori). Si giunge così al gran finale newyorchese con la suggestiva sequenza della festa indetta proprio da una gelida filantropa che guida i filonazisti e, in conclusione, al duello decisivo tra Kane e Fry (Norman Lloyd), il vero colpevole del sabotaggio californiano, nientemeno che in cima alla
statua della libertà.
Se la pellicola lascia a desiderare in termini di compattezza stilistica, verosimiglianza, qualità dei dialoghi, recitazione e organizzazione generale del racconto, d’altro lato vi sono numerose questioni che rendono Saboteur un film estremamente interessante.
Innanzitutto appare evidente che il film contiene in nuce il futuro North by Northwest (la sequenza della festa, poi risolta in un’asta benefica, dove Kane appare intrappolato, verrà ripresa in quella dell’asta nel film del 1959 mentre il finale sulla statua della licbertà anticipa quella sul monte Rushmore); lo stesso Hitchcock, nella sua chiacchierata con Truffaut, definisce quest’ultimo un remake di Saboteur. In tal senso la pellicola del 1942 si inserisce nella ricca serie di racconti del maestro inglese basati sul sentimento di un’angoscia diffusa e kafkiana, connessa alla figura di un fuggiasco ingiustamente accusato e ricercato da tutti, forze dell’ordine e criminalità. Si noti che proprio le due uniche sequenze di rilievo artistico - quella della festa che si trasforma in una trappola mortale e quella della statua della libertà, entrambe girate in modo magistrale - anticipano i due momenti apicali di North by Northwest, versione elegante e rifinita di Saboteur nella quale tutto funziona alla perfezione (dagli attori alle musiche alle scenografie; vedi). In particolare la sequenza sulla statua della libertà, una volta espletata la necessaria introduzione politico-propagandistica relativa al monumento (1886), dono dei francesi in ricordo di una fede comune nei valori della democrazia e della libertà (francesi che, come è noto, languono ora sotto il giogo nazista), si trasforma in una magnifica sequenza memore del cinema muto: la colonna sonora (assai mediocre) finalmente tace e lascia campo libero a immagini silenti, essenziali nei dialoghi e impostate su primi piani molto espressivi dei due protagonisti.
Vi sono però altre e più suggestive osservazioni da fare, in ordine all’argomento principale del film ovvero al suo contenuto propagandistico. Hitchcock, che amava definire i suoi spettatori “masse idiote”, confeziona un prodotto ideologico nel quale non sembra credere molto neppure lui visto il numero di allusioni metafilmiche inserite nel testo. Innanzitutto la protagonista feminile compare prima sui cartelloni pubblicitari e poi in carne ed ossa; inoltre, nel corso del racconto, altri cartelloni commerciali, impostati su di lei, irrompono sullo schermo, quasi a volerci ricordare che non solo la ragazza ma l’intero marchingegno di Saboteur è poco più di uno spot pubblicitario, destinato a convincere le “masse” della necessità di riportare la democrazia in Europa. D’altronde un’altra fondamentale sequenza ci avverte del carattere illusorio del film ossia quella che si svolge al Radio City Hall di New York, durante una proiezione cinematografica: in essa Fry fugge, la polizia gli spara e lui risponde al fuoco mentre i colpi si confondono con quelli che provengono dalo schermo (dove scorrono le immagini di un film di gangster). Il cinema, strepitosa macchine delle illusioni e del sogno, raddoppia se stesso e non teme di mostrare i propri meccanismi, tanto è forte la propria influenza sulla parte più ingenua del pubblico, americano e non.
Il contenuto politico è poi quello già descritto in Foreign Correspondent, assia prossimo alla logica del populismo fascista italiano: i personaggi positivi appartengono tutti al popolo minuto, sono operai, modelle pubblicitarie, gruppi marginali impiegati nel circo, anziani ciechi e saggi che vivono in eremitaggio; di contro i filonazisti vivono in case eleganti, appartengono alla medio-alta borghesia, sono stimati dalle forze dell’ordine e dalle cariche istituzionali. Il mondo verrà salvato dagli umili, insomma, e non certo dalle pretenziose classi dirigenti; e se tocca agli umili salvare il pianeta, allora è tempo che corrano ad arruolarsi per riportare la libertà laddove essa è gravemente minacciata.
Questo dunque il messaggio di Hollywood, preciso nei contenuti e soprattutto nei destinatari, a riprova dell’eterna regola secondo la quale chi enuncia un discorso, introietta nel medesimo il destinatario con le sue caratteristiche, i suoi ideali e le sue aspettative. Quando si parla, si parla sempre verso qualcuno in un dato tempo storico e per ottenere qualcosa: questo non va mai dimenticato per evitare ingenuità e astoriche esegesi di testi i quali nascono comunque dentro un contesto che ne determina la natura ultima. Tutto ciò vale ancor più nei confronti di un’arte complessa, collettiva e industriale quale il cinema dove, in ultima analisi, a decidere intorno ai contenuti da veicolare, sono i produttori e le grande case distributrici, in una parola il Potere.
Ai registi restano le loro piccole libertà stilistiche per la gioia di critici semiologi e studenti universitari.

Certamente il migliore film della trilogia è Lifeboat (I prigionieri dell’oeano, gennaio 1944; 97 min.; il più appropriato titolo letterale è “scialuppa di salvataggio”) poiché Hitchcock vi appare determinato a costruire, innanzitutto, un’opera che funzioni come racconto e spettacolo, anche a costo di rendere meno efficace il messaggio ideologico. Va ricordato che nel 1942 viene creato l’OWI (Office of War Information), istituzione del governo volta a controllare minuziosamente la propaganda politica relativa alla guerra in corso. Il direttore Elmer Davies dichiara tranquillamente che “la via più efficace per instillare un’idea propagandistica nelle menti di molte persone è di contrabbandarla attraverso film di intrattenimento...”; pertanto il suo ufficio controlla in modo pignolo ogni gesto e ogni linea di dialogo di Lifeboat. Il film viene progettato come un’opera importante poiché il soggetto è stato commissionato allo scrittore John Steinbeck.
Vi si immagina la strenua lotta per la vita posta in essere da un gruppo di naufraghi, prigionieri in una scialuppa di salvataggio (in un certo senso il fim inizia dove finiva Foreign Correspondent). La loro nave mercantile è stata affondata da un sottomarino tedesco (a sua volta affondato) e sulla barca c’è anche uno sopravvissuto dell’u-boot. Per animare l’insolito film, tutto svolto in uno spazio chiuso, lo scrittore ha inserito personaggi radicalmente differenti: un giovane socialista, un noto capitalista, una giornalista famosa, un’infermiera con problemi sentimentali, una madre cui muore il neonato e che presto si suicida, un uomo di colore che anima la compagnia con il suo flauto e, ovviamente, il tedesco. Nella prima parte si discute di molte argomenti e, soprattutto, su cosa si dovrà fare con la Germania, una volta terminata la guerra (su un quotidiano compare il titolo “What shall we do with Germany?”); la vittoria (dopo Stalingrado e El Alamein) è ormai solo questione di tempo. Tuttavia gli alleati posseggono idee contrastanti al riguardo e, per ora, si parla del progetto punitivo di Henry Morgenthau che prevede di frazionare lo stato germanico in differenti repubbliche da lasciare in uno stato preindustriale.
Intanto i giorni passano, le risorse alimentari diminuiscono (anzi vanno in gran parte perdute dopo una tempesta) e il manipolo è allo stremo, con l’eccezione di
Willy, il tedesco. Gradualmente quest’ultimo (ottimamente interpretato da Walter Slezak) - che si rivela essere il capitano del sommergibile e che tiene nascosta una bussola, grazie alla quale sta indirizzando gli inconsapevoli compagni di sventura verso una nave di rifornimento tedesca - diviene di gran lunga il personaggio principale: sempre preparato su tutto, dapprima salva la vita di Gus (William Bendix), amputandogli una gamba in cancrena; poi salva la comitiva da una furiosa tempesta, dando a ciascuno precisi ordini su da farsi e infine, quando i compagni sono stremati e le vele squarciate, continua imperterrito a remare, cantando. Insomma Willy, una semplice comparsa nel testo di Steinbeck, diventa grazie alla sceneggiatura di Jo Swerling e di Hitchcock, il mefistofelico protagonista della vicenda le cui gesta tengono col fiato sospeso gli spettatori. Questa figura diviene presto grandiosa e terribile (mentre tutti dormono, non esita ad ammazzare il mutilato Gus quando quest’ultimo, scoperta la riserva d’acqua nascosta dal tedesco, minaccia di comprometterne la posizione): Willy si trasforma, gradualmente, in un vero e proprio “superuomo” nazista, freddo, determinato, disumano e, tuttavia, vincente rispetto ai rimanenti personaggi angloamericani, tutti alquanto deboli, confusi e in definitiva prigionieri di quello che, all’inizio, era il loro prigioniero (Willy è un personaggio che può aver affascinato il Kubrick di Orizzonti di gloria e Full Metal Jacket).
Hitchcock e Swerling, insomma, tradiscono lo spirito del racconto di Steinbeck e creano una pellicola in cui risalta la grandezza del male e la dura lotta per sconfiggerlo. Solo nelle ultime sequenze, scoperto il vero carattere del tedesco, gli angloamericani si riscattano, riprendono finalmente l’iniziativa e lo uccidono; anche in quel terribile frangente però sembrano agire come “in trance”, in base cioé a un semplice riflesso condizionato.
Lifeboat è in definitiva un pregevole film drammatico con venature espressioniste e misteriose, ma è anche uno scadente film di propaganda. L’OWI aveva già espresso pesanti riserve sulla sceneggiatura e Hitchcock aveva promesso di correggerla durante le riprese. Così non fu e la stragrande maggioranza dei critici, allineati a Steinbeck il quale - furioso nei confronti del film - aveva, invano, richiesto di cancellare il proprio nomi dai titoli di testa, si scatenò contro la pellicola, decretandone l’insuccesso. Addirittura vi fu chi chiese i ritirarla dalle sale in quanto politicamente ambigua e, perfino, filonazista. Si stava ovviamente esagerando; tuttavia appare evidente che gli autori sono come affascinati dalla cinica potenza di Willy e fanno ruotare tutta la seconda parte del film intorno alle sue gesta. Al confronto i personaggi angloamericani appaiono una massa debole, pastiocciona, incapace e destinata a morte certa. In fondo è Willy che, per salvare se stesso, salva i suoi compagni meditando di farli finire prigionieri in un lager nazista.
Insomma chi protestava aveva le sue ragioni anche se il film finiva col tracciare un quadro complessivamente detestabile del nazista (certamente assai simpatico fino a quando non uccide Gus a sangue freddo) e a poco valgono le imbarazzate giustificazioni del regista (prodotte durante il celebre dialogo-intervista con Truffaut) secondo cui “le democrazie erano in uno stato di completa disorganizzazione mentre i tedeschi sapevano perfettamente dove volevano arrivare. Si trattava dunque di dire ai democratici che era assolutamente necessario che prendessero la decisione di unirsi... per concentrarsi su un solo nemico”. Tutto ciò suona generico e soprattutto contradditorio in quanto il film appare nel gennaio 1944, quando la guerra - come si è detto - appare sostanzialmente decisa e ci si sta invece interrogando già sul dopoguerra e su quale destino assegnare alla futura Germania e al suo popolo.
In Francia, dove il film esce dodici anni dopo, Rohmer, sui Cahiers du Cinéma (giugno 1956), difende la pellicola in quanto dura, priva di ipocrisie, aspra, coraggiosa, credibile nei caratteri fondamentali e, come tale, meritevole di lode. Va anche aggiunto però che giunti a metà degli anni cinquanta le preoccupazioni propagandistiche sono del tutto tramontate e ci si può permettere di guardare il film senza un’ottica strumentale.
Lifeboat rimane insomma un buon lavoro del regista inglese il quale vince la propria difficile scommessa: girare un intero film in uno spazio angusto e delimitato (con un certo orgoglio Hitchcock ricorda a Truffaut di non avere “mai fatto uscire la macchina da presa dalla scialuppa”) e, ciononostante, dotato di una costante tensione narrativa.