Mio caro assassino, Tutti i colori del buio, Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, I corpi presentano tracce di violenza carnale, L’etrusco uccide ancora, Sette orchidee macchiate di
sangue, Il coltello di ghiaccio, Lisa e il diavolo, Ragazza tutta nuda assassinata nel parco, AAA massaggiatrice bella presenza offresi, Delirio caldo, Perché quelle strane gocce di sangue sul
corpo di Jennifer?, 7 scialli di seta gialla, La dama rossa uccide sette volte, Rivelazioni di un maniaco sessuale..., La morte accarezza a mezzanotte, Estratto dagli archivi segreti... e La morte negli occhi del gatto: incubi
senza animali (1972-73)
Nel 1972 non cessano le imitazioni argentiani. Tuttavia i nomi degli animali vengono accantonati (4 mosche, dicembre 1971, è l’ultima pellicola con un simile titolo) e anche le trame tendono a tornare
a strutture poliziesche più tradizionali (in ogni modo sempre legate allo schema del whodonit): la figura del serial killer paranoico e spesso maniaco sessuale ha prodotto ormai una sorta di saturazione e quindi ci si muove in
altre direzioni. Ciononostante l’atmosfera generale sinistra e ultraviolenta che permea tali racconti, con assassini misteriosi (fino all’ultima sequenza) che operano secondo pratiche devastanti e sanguinarie, rimane prevalente
e costituisce spesso l’unico motivo di interesse di vicende palesemente inverosimili. Tra i primi prodotti di quell’anno figura il notevole Mio caro assassino (febbraio 1972; 100 min.; locandina) del valido Tonino Valerii il quale, basandosi su una stringente sceneggiatura scritta con Franco Bucceri, Roberto Leoni e altri, offre
un limpido esempio del nuovo corso del giallo italiano. Un enigmatico e feroce assassino - già autore di un crudele sequestro di una bambina, lasciata morire in un isolato casolare - ammazza a ripetizione chiunque abbia
trovato il minimo indizio intorno a quei passati eventi. Il commissario Peretti (un bravo George Hilton), aiutato da Marò (l’ottimo Salvo Randone), indaga con intelligenza e, poco a poco, ricostruisce l’ingarbugliata matassa: i
sospettati appartengono tutti alla estesa e lacerata famiglia della piccola vittima e - come nei classici della Christie - nel finale Peretti convoca tutti i personaggi della vicenda e svela il colpevole. Girato con uno
stile essenziale, freddo e nervoso, ben ritmato e privo di tempi morti, aiutato da un’eccezionale colonna sonora di Morricone (la migliore dai tempi dell’Uccello dalle piume di cristallo, come quella suddivisa tra
innocenti motivi infantili e assordanti, inquiete fasce sonore), Mio caro assassino è una pellicola degna di stare al fianco della trilogia degli animali argentiani e inaugura quel nuovo corso del giallo italiano in cui intrecci polizieschi e pericolosi psicopatici convivono al fine di rendere la lotta tra il Bene e il Male più estrema e avvincente.
Va ricordato che per oltre tre anni Dario Argento, autore di rivoluzionari thriller, non offre nuovi contributi al genere filmico che ha fondato (fino all’uscita del celebre Profondo rosso, marzo 1975) mentre negli
intrecci del periodo la centralità della polizia si fa sempre più evidente, fino a sfociare nel filone del cosiddetto poliziesco all’italiana (inaugurato da La polizia ringrazia di Vanzina, che esce proprio in quel febbraio 1972).
Il film di Valerii - nel quale, come nel cinema di Argento, giovani donne che vivono sole vengono seguite di notte in quartieri deserti e uccise nella loro abitazioni - non è esente da evidenti facilonerie come quella del
commissario che lascia nelle mani della maestra (Patty Shepard) i quaderni coi disegni della piccola vittima, evitando di indagare su un materiale prezioso e, al tempo stesso, condannando a morte la poveretta in una sequenza
che dimostra come il regista sappia riutilizzare in modo abile la cosiddetta soggettiva dell’assassino. Tuttavia l’intreccio globale è abbastanza solido, nonché costruito su eventi criminali di tipo classico (un sequestro, un
riscatto pagato ecc;); ne consegue che le vittime del girotondo sono le più differenti (un detective delle assicurazioni, un rigattiere che raccoglie rifiuti ecc.). Si viene pertanto a perdere l’atmosfera morbosa - legata alla
sfera erotica - presente nei gialli di Argento e i macabri rituali di morte risultano semplici pugni nello stomaco dello spettatore, privi di valenze simboliche relative alla trasformazione del ruolo sociale della donna (vedi
quanto detto nei capitoli precedenti). Vi si respira comunque un orgoglioso spirito conservatore, soprattutto nel tratteggiare questa sciagurata famiglia, divisa su tutto, prigioniera di una rapace avidità e poco attenta al
benessere della bambina che anche la madre utilizzava per ricattare il ricco marito, col quale era in via di separazione; cosicché, in definitiva, lo sguardo scettico e disincantato del commissario è anche quello degli autori e
finisce con l’essere quello del pubblico. Il film, evitata la tematica erotica, assume dunque un carattere più neutro, freddo e distante: nella sua spropositata violenza esso riflette semmai le tensioni crescenti che
animano il quadro sociopolitico di un’Italia alle soglie di una seconda guerra civile non dichiarata, tra schiere comuniste e manipoli fascisti, stragi e servizi segreti più o meno deviati.
In quel 1972 dal cinema di Argento si dipana un secondo filone che tende invece a estremizzare gli elementi onirici presenti nella trilogia degli animali, coniugandoli con aspetti ripresi dal genere horror
declinato nei suoi numerosi filoni (gotico, esoterico e satanista). Ecco pertanto comparire Tutti i colori del buio
(febbraio 1972; 94 min.), nuova fatica di Sergio Martino che utilizza i consueti attori (George Hilton, Edwige Fenech; ma ci sono anche Marina Malfatti e la spagnola Susan Scott de La morte cammina con i tacchi alti).
In realtà la sceneggiatura di Ernesto Gastaldi e Sauro Scavolini (abituali collaboratori di Martino) che, per l’intero racconto, cerca di spaventare, descrivendo scenari apertamente satanisti, nel finale devia rapidamente verso
il poliziesco tradizionale e offre, per tutti gli eventi, una spiegazione assai razionale: incubi e visioni sono quasi tutti reali, facendo parte di una messa in scena creata dalla invidiosa Susan Scott per far impazzire e,
infine, liquidare la sorella (Edwige Fenech). I moventi sono addirittura due: un’eredità che non si vuole spartire e il bel George Hilton che la sorella cattiva vuole soffiare a quella buona.
Martino si inserisce nel filone satanista divenuto celebre con Rosemary’s Baby (Polanski, 1968) e rinverdito dalla recente Corta notte delle bambole di vetro (Lado, 1971; vedi), un filone che conoscerà, di lì a poco, il clamoroso successo di The Exorcist (Friedkin, 1973) e che sfocerà nel capolavoro di Argento, Suspiria (1977). Come nei film di Polanski e Argento, la sprovveduta protagonista (Fenech) è in balia di una pericolosa setta, viene perseguitata da figure minacciose, irretita e coinvolta in una messa nera, posseduta dal “gran sacerdote” di fronte ai suoi “fedeli” e sta per perdere la ragione quando il suo compagno (Hilton) riesce a scoprire la vera responsabile di tutta la macchinazione.
La pellicola, girata attraverso eleganti inquadrature in una Londra autunnale e triste, nonché commentata da una pertinente, sinistra e morriconiana colonna sonora di Bruno Nicolai, prende ispirazione nel suo complesso sia
dallo Strano vizio della signora Wardh (sempre Martino, Fenech, Hilton, Gastaldi 1971; vedi), sia dagli scenari onirici della Lucertola (1971; vedi) di Fulci nel porre come centro assoluto del film una sconvolta Edwige Fenech. Se l’attrice è superiore alla Bolkan di Fulci, tuttavia la continua alternanza di sogni, incubi, presenze ambigue, minacce e tentativi di omicidio diventa presto stucchevole e la ripetitività delle situazioni rischia di far naufragare una pellicola girata, come si è detto, in modo efficace e suggestivo. Le singole sequenze spesso funzionano ma è l’intreccio complessivo ad essere estenuante e mal organizzato, anche se il colpo di scena finale - quello che annulla quasi per intero l’apparato demoniaco del racconto - è abbastanza bello e del tutto imprevedibile.
All’attivo del film ci sono certamente le location londinesi (nella capitale inglese era ambientata anche La lucertola dalla pelle di donna) scelte con cura: il sinistro condominio dove abitano i protagonisti (degno
compagno del palazzo newyorchese di Rosemary), parchi autunnali deserti, “fiabeschi” palazzi di inizio Novecento, castelli gotici (o meglio in stile eclettico) e cottage isolati nella campagna; ci sono inoltre le valide
atmosfere sonore di Nicolai, le solenni scene del sabba infernale, la figura dell’ambiguo psicanalista che ricopia quella del dottore Sapirstein che ha in cura Mia Farrow nel film di Polanski, il grande finale sui tetti del
noto condominio con la coppia che si salva in extremis dall’ultimo agguato e guarda nel vuoto, come smarrita. Se il sadismo misogino sembra momentaneamente accantonato, la grande scena dell’orgia ne fa le veci: la bella
Fenech viene obbligata a subire violenza di fronte a un pubblico di “devoti” che, in fondo, duplica il pubblico degli spettatori in sala. Il desiderio di ribadire il dominio maschile sull’altro sesso viene dunque esplicitato
per questa differente modalità la cui natura di incubo nero, di fantasia rovesciata è evidente a tutti. Nel successivo Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (agosto 1972; 96 min.; locandina) Martino riprende alla lettera una frase presente ne Lo strano vizio della signora Wardh (1971; vedi), recluta nuovamente la Fenech, Ivan Rassimov, gli sceneggiatori Gastaldi e Scavolini e decide di girare una pellicola “gotica” in quanto liberamente ispirata al breve racconto di Poe The Black Cat (1843). Ad esso si era già ispirato il Corman dei Tales of Terror (1962) e vi tornerà, molti anni dopo, il Fulci di Black Cat (1981) e l’Argento “americano” di Due occhi diabolici (1990). Martino, in questa sua penultima pellicola girata nel solco di Argento, opta nuovamente per la cornice horror e ritorna alla tematica del serial killer che uccide donne sole ed emancipate, devastandone il corpo. Il simbolismo misogino torna alla propria rappresentazione più consueta, dopo le recenti fantasie sataniste.
La pellicola ambientata a Montagnana nel Veneto, riprende dalla tradizione gotica l’abitudine a restringere il racconto in un “maniero” isolato e relativamente irraggiungibile. Nella grande villa di Oliviero Ruevigny (Luigi
Pistilli), il padrone di casa perseguita e umilia costantemente la moglie Irene (Anita Strindberg). Intorno a questa coppia c’è un complicato girotondo che comprende una studentessa che pretende appuntamenti sessuali notturni
(Daniela Giordano), una disponibile serva di colore, un’allegra prostituta (Enrica Bonaccorti) e soprattutto la bella e disinibita cuginetta Floriana (Edvige Fenech). Finiscono tutte ammazzate secondo modalità sadiche. Gli
sceneggiatori operano una brillante operazione di rovesciamento del testo di Poe: il carnefice è in realtà la vittima e la vittima (la moglie) ha architettato un diabolico piano per eliminare tutti e rimanere padrona assoluta
del maniero. Il gatto nero perseguita lei e dietro al celebre muro, insieme al gatto, finiscono Oliviero e la serva di colore. La presenza nei dintorni di un serial killer intorbida le acque e risulta alla fine estranea alle
macchinazioni della donna la quale, in realtà, decide appunto di approfittare del caos creato dalla serie di delitti per agire (un po’ come accadeva nello Strano vizio della signora Wardh; anche allora il maniaco era
estraneo alle trame dei protagonisti). Insomma Gastaldi e Scavolini sovrappongono due storie relativamente autonome, con una certa abilità. Il contesto è quello modernista dei primi anni settanta: libertà sessuali
conclamate, giovani spostati che utilizzano la grande villa per feste libertarie, una cugina che, per noia, si offre sessualmente un po’ a tutti (compresa la Strindberg), dichiarandosi disinteressata a qualunque legame
affettivo. E’ nel quadro di questa “rivoluzione sessuale” che, per contrasto, agisce il serial killer (un libraio), colpendo le figure femminili più sfrontatamente disinibite (la studentessa che obbliga l’ex professore a un
incontro notturno e la prostituta). Complessivamente il film è solo discreto: lo spunto da Poe, il luogo fisso per l’azione, gli inutili e un po’ goffi inserti del gatto nero, la colonna sonora di Nicolai che imita i toni
epico-romantici del recente Morricone de La califfa (Bevilacqua, 1970) ovvero sonorità poco attinenti al sanguinario racconto, raffreddano il film e lo rendono poco “graffiante” e piuttosto monocorde. Anche gli interpreti creano personaggi alquanto stereotipati (con l’eccezione della duttile e brillante Fenech, qui nell’insolito ruolo di una ragazzina ventenne) che finiscono con l’annoiare. Martino insomma coniuga lo stile moderno e irrequieto di Argento (al quale si è in genere attenuto) con i barocchismi romantici di Bava e il risultato non entusiasma.
Va però ricordato un particolare di grande importanza. Ruevigny è uno scrittore in piena crisi, vive in una villa isolata dove perseguita la moglie e anzi si propone di ucciderla; la Strindberg lo sente spesso battere a
macchina ma quando, per caso, va a curiosare gli scritti scopre con terrore che l’uomo ribatte ossessivamente un’unica frase relativa ai suoi sinistri propositi. La situazione è dunque la stessa del romanzo The Shining (Stephen King, 1977), poi reso celebre dalla versione filmica di Kubrick (1980) in cui la scena della scoperta da parte di Shelley Duvall delle pagine tutte identiche, battute a macchina da un Nicholson disturbato, è uno dei grandi momenti di una pellicola fondamentale nella storia del cinema. Il germe ispiratore di quella memorabile sequenza è dunque in questo “piccolo” film di Sergio Martino.
La crisi creativa dell’artista diviene il simbolo di una situazione di stallo, propria della cultura maschile all’interno del procedimento di progressiva parificazione e relativa confusione dei ruoli uomo-donna. L’uomo -
ritratto in un edificio isolato che ne evidenzia lo stato di relativa illibertà - diviene impotente e aggressivo nei confronti delle partner femminili: la rivoluzionaria e conflittuale questione femminile, dal cuore degli
anni sessanta riverbera la propria presenza dapprima nelle centinaia di commedie italiane del periodo; poi, passando per il macabro cinema degli “animali” dei primi anni settanta, giunge fino al cuore del capolavoro filmico
kubrickiano del 1980. L’ultima fatica di Martino nel filone argentiano giunge tre anni dopo L’uccello dalle piume di cristallo, si intitola I corpo presentano tracce di violenza carnale
(gennaio 1973; 90 min.) e si avvale, nel ruolo principale, dell’inglese Suzy Kendall ovvero della protagonista del film d’esordio di Argento (in seguito scomparsa dal panorama cinematografico italiano). Il regista, sempre aiutato in sede di sceneggiatura da Ernesto Gastaldi, ripropone da vicino le coordinate stilistiche e ideologiche del film fondatore del giallo italiano: un maniaco, con maschera, uccide a ripetizione belle e disinibite ragazze, taglia loro la gola e poi lacera il petto. Di violenza sessuale non c’è l’ombra, tanto è vero che il titolo proposto da Martino era I corpi non presentano tracce di violenza sessuale,
mentre l’ “astuto” produttore aveva preteso l’eliminazione del <non>, così da rendere più stuzzicante il richiamo erotico. Di fatto il titolo originario non solo era fedele al racconto, ma anzi dava un indizio allo
spettatore intorno al profilo del killer: un professore di storia dell’arte dell’università di Perugia, che commenta tele che raffigurano il martirio di San Sebastiano (dunque, a suo modo, un martire), il quale, reso impotente
da un incidente accadutogli quand’era bambino, odia le donne, viene ricattato da alcune e, reso folle di rabbia, uccide prima le ricattatrici, poi chiunque abbia sospetti su di lui. La prima parte del film è ambientata nel
centro storico di Perugia, la seconda a Tagliacozzo (vicino L’Aquila) dove quattro studentesse (tra esse la Kendall e Tina Aumont) abitano in una bella e isolata villa. L’assassino ne uccide tre; poi dà la caccia alla Kendall,
la quale, con una caviglia rotta, non può fuggire. Tutto questo lungo finale, parzialmente ispirato alla situazione chiave del recente Terrore cieco (Fleischer, 1971; Mia Farrow, cieca, in una villa con un misterioso assassino; film a sua volta ispirato al teatrale Gli occhi della notte;
T. Young, 1967), è tra le cose più efficaci girate da Martino: la suspense è palpabile e si innesta in uno scenario originale ove gli eventi accadono, per una volta, in piena luce, dando vita a un lungo e complicato gioco del
gatto col topo, non esente da momenti di umorismo nero, che sfocia nella spiegazione finale dell’assassino, amico della Kendall e ora costretto a ucciderla. Questa estesa sequenza ricorda da vicino anche quella delle 4 mosche (Argento, 1971) in cui una ragazza si ritrova sola in casa con l’assassino (in entrambi i casi la giovane si nasconde in un armadio).
I corpi presentano tracce di violenza carnale, ultima (per adesso) imitazione argentiana, chiude in bellezza un’epoca filmica, riassumendo gli elementi fondamentali del genere: un assassino impotente, fanciulle
“emancipate” (studentesse straniere a Perugia), festini hippy con amore di gruppo, scene lesbiche, un dettaglio mancante (riguardante un foulard rosso e nero) che ossessiona una testimone (Tina Aumont), un sadismo misogino fin
eccessivo (le due macabre esecuzioni iniziali, sotto un ponte e in una boscaglia, sono ottimi pezzi di cinema). Il quadro, riassunto in modo forse inconsapevole dagli autori, ripropone in modo netto e marcato i significati
sociali del film: la figura del maschio in crisi, complessato e impotente, si confronta in modo astioso con una realtà femminile sfuggente, autonoma e ormai incontrollabile e nel farlo offre al pubblico italiano un’occasione di
sfogo onirico collettivo. In questo lavoro, forse il migliore di Martino, anche la musica (firmata da Guido e Maurizio de Angelis) viene rinnovata in una direzione che anticipa la svolta rock di Profondo rosso: non
una colonna sonora atonale e sinistra, né tanto meno una tardoromantica; al contrario temi essenziali, melodici, ben ritmati, eseguiti con strumentazione elettronica, imparentati col rock progressivo e abilmente modulati, nei
loro crescendi e nelle loro esplosioni improvvise, con le situazioni di terrore descritte dalle immagini. Lo scenario musicale si è dunque aggiornato in una direzione più semplice e immediata, capace di un coinvolgimento
emotivo del pubblico ancora superiore rispetto alle sofisticate partiture morriconiane della trilogia degli animali. Il “rito misogino” viene ora celebrato invitando il pubblico a un’adesione più totale, quasi “tribale”,
suscitata dalla piacevolezza del discorso sonoro, rispetto alle tele sonore “astratte” del primo Argento che, in qualche modo, ponevano il quadro dell’orrore a una certa distanza da chi lo osservava, essendo impossibile
identificarsi con stratificazioni sonore atematiche e rumoristiche. In Profondo rosso (1975), Suspiria (1977) e Inferno (1980) questa tendenza troverà una straordinaria e insuperabile realizzazione. Non
manca infine una battuta ironica sulle forze dell’ordine allorché il commissario di turno (il cui ruolo peraltro sarà sostanzialmente nullo) invita gli studenti, per questa volta, a collaborare con la polizia al fine di
identificare l’assassino; in seguito potrete “tornare a lanciare pietre contro di noi”: c’è, in queste battute, una palese ironia antistudentesca che implicitamente qualifica sessantotto e derivati come una grande mascherata,
in fondo possibile e tollerabile nel paese della commedia dell’arte. A Martino e Gastaldi appare evidente che l’unica vera e duratura rivoluzione di quegli anni si consuma nel perimetro delle abitudini sessuali, all’interno del
cosiddetto movimento di emancipazione della donna. E’ un ulteriore, importante elemento che stabilisce l’appartenenza di questo cinema allo schieramento conservatore. Il film, dopo aver ottenuto un buon successo in Italia
viene distribuito negli Usa col titolo Torso dove avrà una certa influenza sui futuri imitatori americani del giallo italiano; in particolare la maschera del professore assassino ricorda molto quella del Michael Myers di Halloween (Carpenter, 1978).
Una fedele e scialba imitazione del film d’esordio di Argento si trova in L’etrusco uccide ancora
(febbraio 1992; 98 min.) di Armando Crispino, basato su una sceneggiatura del regista e di Lucio Battistrada. Lo scenario mutato - gli scavi archeologici etruschi e Spoleto - sembra implicare una dimensione paranormale; in realtà lo schema è quello di sempre: un giovane traumatizzato (vide da bambino la madre adultera scoperta dal padre), il riemergere del ricordo (al posto del quadro di Monica Ranieri c’è una macabra serie di affreschi etruschi), l’assassino (Carlo De Mejo) che uccide coppie impegnate ad amoreggiare, il suo debole tentativo di stornare i sospetti (come la Ranieri, si presenta come l’unico sopravvissuto all’ira del mostro), il doppio finale (la falsa confessione del padre, poi la scoperta del colpevole). Insomma quasi una celebrazione dell’Uccello dalle piume di cristallo nell’esatto secondo anniversario della sua uscita (febbraio 1970).
L’ambientazione a cielo aperto non giova alla pellicola (gli ambienti urbani offrono scorci assai più sinistri e suggestivi), la musica romantica di Riz Ortolani è fuori luogo mentre l’utilizzo del Dies irae di Verdi quale sigla dell’assassino è un’idea abbastanza goffa oltre che del tutto l’inverosimile. C’è perfino un incredibile inseguimento in auto dentro i labirinti medievali di Spoleto, nel vano tentativo di coniugare giallo italiano e film d’azione americano (il modello è Bullitt,
Yates, 1968). Gli attori sono piuttosto mediocri e la tensione latita; particolarmente insopportabile la macchietta del direttore d’orchestra (John Marley; fisicamente modellato su Karajan e Bernstein),padre dell’assassino,
perennemente arrabbiato con tutti.
Anche Sette orchidee macchiate di sangue
(febbraio 1972; 96 min.) girato da Umberto Lenzi, basato su una sceneggiatura del regista e di Roberto Gianviti, è un fedele clone dell’opera prima di Argento. Assassino nerovestito trucida sei donne (poi viene fermato; dovevano essere sette) secondo le consuete modalità sadiche; c’è un primo finale (fasullo) e poi un secondo nel quale si scopre l’identità del criminale. Le atmosfere terrorizzanti - ben costruite dal regista - derivano completamente dal modello di due anni prima: donne sole, disinibite, uccise in appartamenti. Sicuramente notevoli le sequenze che riguardano la morte della prostituta Ines (Gabriella Giorgielli), di Marina Malfatti, di Rossella Falk nonché i due tentativi di ammazzare la protagonista (l’attrice tedesca Ushi Glass) che riveste il ruolo già di Suzy Kendall nell’Uccello
dalle piume di cristallo; al posto di Tony Musante c’è il suo fidanzato Antonio Sabato, detective dilettante mentre a Enrico Maria Salerno subentra Pier Paolo Capponi nel ruolo indispensabile del commissario poco capace.
La pellicola offre ottime sequenze di tensione e mostra un Lenzi capace di creare situazioni di reale inquietudine; egli sceglie ambienti molto ampi (appartamenti con troppe stanze) nei quali contemplare le proprie vittime
divorate dal panico; una colonna sonora discreta ma efficace (spesso ridotta al silenzio) e l’utilizzo di inquadratura non dozzinali contribuiscono ulteriormente a porre questo prodotto un gradino sopra la media. Il film
rientra a pieno titolo nel filone antifemminista, non solo perché si concentra su una serie di esecuzioni compiaciute di donne sensuali ed emancipate, il cui corpo viene letteralmente aggredito e lacerato (secondo modalità
derivate da un cocente desiderio sessuale), ma anche perché all’origine della sequenza omicida viene posta una donna adultera, colpevole di aver lasciato morire il proprio amante per non dover confessare al marito le proprie
colpe. L’emancipazione del desiderio femminile è dunque foriero di disgrazie, oltre che di disordine sociale. La sceneggiatura è però realmente disastrosa: l’assassino è un sacerdote protestante (Renato Romano) il quale,
per vendicare il fratello morto durante una vacanza in un incidente d’auto, a causa del mancato soccorso della amante che era con lui (per i suddetti motivi), non conoscendo l’identità della colpevole, decide di ammazzare (due
anni dopo l’evento) tutte e sette le donne presenti nell’albergo in cui alloggiava. Come si nota la soluzione è più delirante del film stesso il cui sadismo misogino - pur evidente - non spinge la macelleria ai livelli più
alti. La ricetta è dunque quella della sequenza misteriosa di delitti che hanno una motivazione razionale, difficile da individuare (si pensi al Cornell Woolrich de La sposa in nero, 194, tradotto in film da Truffaut nel 1965; o al Simenon de I
fantasmi del cappellaio, 1949, tradotto in pellicola da Chabrol nel 1982); solo che in questo caso la costruzione del meccanismo approda a questa spiegazione assolutamente ridicola.
Lenzi si è ispirato (per sua stessa ammissione) al valido romanzo Rendezvous in black (1948; Appuntamento in nero) di Cornell Woolrich in cui si racconta di un uomo che decide di vendicare la morte della fidanzata
avvenuta per un bizzarro incidente (una bottiglia gettata da un piccolo aereo la colpisce e la uccide) con una serie di cinque omicidi: anche in quel caso il protagonista commette una serie di delitti sostanzialmente assurdi
poiché anziché punire l’unico colpevole, egli decide di vendicarsi su tutti e cinque i partecipanti a una comitiva di caccia, uno solo dei quali è il responsabile dell’incidente mortale. Decisamente migliore è
Il coltello di ghiaccio (agosto 1972; 92 min.; locandina) girato da Lenzi su sceneggiatura propria e di Antonio Troisio. Siamo dalle
parti dell’ Etrusco di Crispino: intorno a Marta (Carroll Baker), una bella bionda, muta, si scatena una devastante serie di omicidi; nei dintorni si aggira un eroinomane, cultore di Satana (tale Mason, figura evidentemente ispirata a Charles Manson) e la polizia divaga sulla pista esoterica; l’assassino decide di cavalcare la medesima pista e uccide solo per confermarla. In realtà la colpevole è proprio Marta, mossa da atroce invidia per la cugina (Evelyn Strewart), una cantante di grido che ha avuto il torto di ricordarle, con un’audioregistrazione, il tempo in cui anch’ella poteva recitare poesie durante le feste scolastiche. Uccisa la cugina, la donna ci prende gusto e ammazza per depistare o per sopprimere scomodi testimoni. Verrà incastrata da un’abile trappola inscenata da polizia e parenti.
Lo stile di Argento sembra ora lontano; il maniaco nerovestito diventa addirittura un provocatore guidato dalla polizia per indurre in errore l’assassina (nel finale); manca la dimensione erotica e quella esoterica è
fasulla. Il giallo torna ad essere un rebus in stile Agatha Christie, incentrato sugli eventi interni a un edificio isolato, posto vicino a un cimitero, in cui tutti si aggirano con aria colpevole. Lenzi dirige con mano sicura,
non perde tempo, evita i tempi morti, sa ottenere il meglio da attori abbastanza secondari, valorizza gli scenari di una quieta Spagna rurale e sfrutta ottimamente una bella colonna sonora di Marcello Giombini che utilizza con
estro sonorità elettriche e motivi ben disegnati, vicini al progressive rock (Profondo rosso, 1975, porterà il connubio rock-thriller a pieno compimento). Senza poter contare su momenti memorabili o su eccezionali
svolte narrative (la soluzione è prevedibile, fin dal momento della comparsa dell’audioregistrazione), Il coltello di ghiaccio è un buon prodotto medio che attenua l’influenza dei modelli argentiani, pur rimanendo nell’orbita del fortunato filone del giallo italiano, inaugurato dalla trilogia degli animali.
Se per I corpi presentano tracce di violenza carnale Martino si era parzialmente ispirato a terrore cieco (Fleischer), ne Il coltello di ghiaccio (il titolo riprende una descrizione della paura di Edgar Allan Poe) Lenzi si ricorda della governante muta del celebre La scala a chiocciola (Siodmak, 1946).
Seguendo il modello del film spagnolo di Lenzi, Bava va a Toledo e gira Lisa e il diavolo
(maggio 1973; 90 min.), girotondo demoniaco-onirico intorno a un’altra bionda (Elke Sommer) la quale, giunta come turista davanti alla cattedrale di Toledo, si perde per i labirinti della città vecchia e approda, con altri (Sylva Koscina, Gabriele Tinti), a una casa maledetta dove un maggiordomo assatanato (Telly Savalas) prepara manichini per le future vittime del giovane padrone pazzo (Alessio Orano). C’è perfino Alida Valli nel ruolo della contessa, madre dello psicopatico. Come già nel più interessante Reazione a catena (Bava 1971; vedi), non sopravvive nessuno.
Il film è un vero disastro: monocorde, confusa, prevedibile, accompagnata dalla solita estenuante colonna sonora romantica (non poteva mancare il Concerto di Aranjuez di Rodriguez), perfino ridicola (nel finale i morti si trasformano in zombie). Le somiglianze con Il coltello di ghiaccio rimangono alla superficie: un’abitazione isolata dove si consumano la maggior parte dei delitti, il colpevole che coincide con il padrone di casa e la tematica luciferina. La pista esoterica infatti, pretestuosa in Lenzi, è invece l’unica in grado di giustificare l’illogicità di Lisa e il diavolo,
film che, in definitiva, appartiene più al filone gotico-horror che a quello argentiano. La pellicola, presentata al mercato di Cannes non trova compratori (giustamente) e rimane inedita. Due anni dopo il produttore rimette
mano al film con l’intenzione di farne un’imitazione di The Exorcist (Friedkin, 1973), vi aggiunge il personaggio di un esorcista, cambia titolo optando per La casa dell’esorcismo (aprile 1975; locandina) e in questa veste - disconosciuta da Bava - esce nelle sale senza ottenere alcun successo. Il già mediocre film originale (però dotato di
una propria coerenza visiva) diventa, in questa seconda versione, un ignobile pasticcio in cui si alternano, senza soluzione di continuità, due film stilisticamente incompatibili.
Alfonso Brescia cerca di intervenire nel filone con Ragazza tutta nuda assassinata nel parco
(maggio 1972; 95 min.), una pellicola decisamente brutta, girata nei dintorni di Madrid. Vi si racconta del girotondo di morti intorno alla eredità inerente una ricca polizza sulla vita stipulata da un ricco possidente, ucciso in un lunapark. Si scoprirà che dietro tutti i morti c’è il desiderio di vendetta del detective delle assicurazioni (Robert Hoffman), mentre l’ucciso era un ex criminale nazista. Colui che indaga dunque è anche il principale colpevole in un intreccio che potrebbe avere una qualche originalità se non risultasse una sorta di remake de La coda dello scorpione (Martino, 1971; vedi).
In ogni caso il film è girato in modo rozzo, con lunghi episodi inutili, tempi morti, inquadrature sgraziate e una colonna sonora zuccherosa. Manca ogni effettiva tensione - nonché qualunque macabro compiacimento, tipico
del genere - poiché i delitti avvengono sostanzialmente “fuori campo”, tra una sequenza e l’altra. Nel pasticcio sono coinvolti anche Adolfo Celi e Philippe Leroy, sprecati in ruoli secondari. Il gran finale al luna park tenta
inutilmente di rifarsi alle atmosfere de Il terzo uomo (Reed, 1949) e Delitto per delitto (Hitchcock, 1951).
Tra le imitazioni più scadenti del modello argentiano troviamo AAA massaggiatrice bella presenza offresi
(mag. 1972; 85 min.), isolata incursione nel giallo di Demofilo Fidani, specialista del cinema western. Una bella ragazza (Paola Senatore) scappa di casa, contesta il noioso padre, serio e avaro e si dà alla
prostituzione di alto bordo. La giovane appare libera e soddisfatta; purtroppo però i suoi facoltosi clienti vengono regolarmente ammazzati a rasoiate da un misterioso killer nerovestito (la fotocopia dell’assassino de L’uccello dalle piume di cristallo).
La ragazza si spaventa, i suoi familiari (la madre è Yvonne Sanson) e amici (c’è anche un povero fidanzato in attesa) si disperano e alla fine la polizia incastra, con un abile stratagemma, l’omicida che è proprio quello che
tutti sospettavano ovvero il padre della fuggitiva. Fidani gira con scarsissimi mezzi quasi tutto in interni (di Roma si vede giusto il ponte Flaminio nell’inquadratura finale), tira per le lunghe le esibizioni erotiche
della bella Paola Senatore, non è in grado di articolare con estro gli omicidi (tutti identici e tutti
negli appartamenti delle vittime, per risparmiare...) e affoga il racconto nella noia. Seppur nella sua modestia il film conferma l’assunto sottinteso di questo cinema: il fattore scatenante la rabbia omicida è l’emancipazione femminile; in questo film lo schema è esemplare poiché una ragazza di buona famiglia rifiuta tutte le istituzioni tradizionali della società (famiglia, rispetto genitoriale, fidanzamento in vista di un matrimonio convenzionale) per iniziare un’esistenza trasgressiva in cui usare il proprio corpo per far soldi rapidamente e godersi un’esistenza lussuosa e individualista; non muore solo perché l’assassino (suo padre) non osa ammazzarla e preferisce colpire i suoi complici.
Il film fu un fiasco commerciale.
Polselli si inserisce nel giallo argentiano con Delirio caldo
(mag 1972; 110 min), film in cui si narrano le gesta dell’assassino seriale Lyutak (Mickey Hargitay), un uomo impotente e sadico che sfoga le proprie frustrazioni su vittime casuali. L’identità del colpevole è pertanto chiara fin dall’inizio; non è chiaro invece chi lo imiti, uccidendo altre donne quando il protagonista è dotato di alibi certi. Si scoprirà che il secondo colpevole è la moglie (Rita Calderoni) dell’assassino, morbosamente legata al suo uomo
La pellicola, alquanto scombinata quanto a sceneggiatura, affastella delitti sanguinari ai danni di giovani e dinìsinibite vittime e riprende la soluzione de L’uccello dalle piume di cristallo, capovolgendola: ora è una moglie che aiuta il marito nelle sue imprese criminali. Polselli riprende le atmosfere argentiane e le rivede, aggiungendovi immagini tanto colorate quanto irreali come tutto il contesto, pressochè onirico, del film. Le tendenze misogine, presenti nella trilogia delgi animali del regista romano, si ritrovano identiche ed addirittura “spiegate” nel film di Polselli: un individuo in condizioni di inferiorità (più o meno simbolica) nei confronti di donne libere ed emancipate, decide di vendicarsi della propria nuova situazione di inferiorità, uccidendole. Anche Polselli - in modo certo inconsapevole - denuncia il disagio della nuova situazione maschile all’interno dell’esasperato ugualitarismo modernista, tipico della rivoluzione antropologica degli anni sessanta.
Molto meglio vanno le cose a un altro regista occasionale del giallo italiano, Giuliano Carnimeo, il quale firma un unico contributo a questo genere filmico; d’altro canto
Perché quelle gocce di sangue sul corpo di Jennifer?
(agosto 1972, 97 min.) si avvale dell’esperto sceneggiatore Ernesto Gastaldi e della coppia di attori George Hilton - Edwige fenech, tutti veterani del settore. Gli autori seguono perfettamente il dettato argentiano: una città moderna (Genova con belle location nel centro cittadino), un luogo degli orrori (un ampio condominio di oltre venti piani), uno psicopatico nerovestito che uccide - secondo modalità sadiche e compiaciute - donne belle, emancipate e tendenzialmente amorali, una colonna sonora morriconiana (di Bruno Nicolai), pulsante come quelle destinate al cinema di denuncia civile, egemone della scena filmica italiana in quei primi anni settanta.
La vicenda - come sempre ampiamente inverosimile, fino a sconfinare in un morboso onirismo - prevede un intreccio serrato e coinvolgente, ricco di caratteristi abili e di figure interessanti tra le quali lo sceneggiatore
pesca il suo assassino: un anziano violinista, sconvolto dalle tendenze lesbiche della figlia (Annabella Incontrera) che attribuisce al dirompente, amorale modernismo e ai nuovi costumi sessuali posteriori alle rivolte degli
anni sessanta. Insomma l’omicida perfetto in quanto uomo all’antica (suona sempre autori ottocenteschi), reazionario nonché disgustato dal nuovo stile di vita che coinvolge soprattutto le donne. A completare il quadro si
aggiungono lo smaliziato fotografo di moda (Oreste Lionello) che rimanda ancora una volta a Blow Up (Antonioni, 1966), un commissario con l’hobby della filatelia (Giampiero Albertini) al quale è delegata per intero l’indagine, due disinibite modelle (una squittente Paola Quattrini che viene rapidamente sgozzata e la Fenech che se la cava per un soffio), eleganti prostitute d’alto bordo che vengono accoltellate in ascensore e infine - vero simbolo del film e dell’intero genere - una soubrette di colore, “mascolina”, la quale sfida gli uomini a sottometterla sulla scena e si dice pronta a concedersi solo a colui che avrà avuto successo nell’impresa. Insomma una specie di moderna Turandot, gelida, emancipata e sicura di sé, che in un night si spoglia e umilia i numerosi sfidanti (anche lei comunque finisce con la gola tagliata). Questa figura femminile, sessualmente aggressiva e sicura di poter bastare a se stessa è il vero, segreto bersaglio di questo genere cinematografico antilibertario, antimassonico e poco sensibile alle “grandi innovazioni” della cultura illuminista.
In posizione defilata collaborano al film tre protagonisti del cinema italiano “minore” ovvero Luciano Martino come produttore, Stelvio Massi come direttore della fotografia e Michele Tarantini come assistente alla regia.
E’ la riprova che esiste uno stretto legame tra i generi “secondari” del cinema italiano degli anni settanta. Al filone argentiano si sostituiranno, di lì a poco, infatti il “poliziottesco” e il cinema erotico, formule che
vengono sviluppate da una schiera omogenea di autori e che sono solo apparentemente diverse; in realtà esse ripropongono, in contesti molto variati, una medesima visione conservatrice del sistema sociale.
Del tutto deludente è invece 7 scialli di seta gialla (agosto 1972; 108 min.; locandina) polpettone poco originale di
Sergio Pastore, su sceneggiatura propria e di altri, in cui vengono “riassunte”, in modo scolastico, numerose cose già viste in abbondanza. In un atelier d’alta moda (6 donne per l’assassino, Bava, 1964), le modelle
muoiono una dolo l’altra. Una di queste ricatta il marito (Giacomo Rossi Stuart) della padrona (Sylva Koscina) con delle foto e finisce uccisa insieme al complice (Il gatto a nove code). Intanto un pianista cieco
(Anthony Steffen) - che lavora alla sonorizzazione di un giallo (in realtà Una lucertola dalla pelle di donna) e il cui maggiordomo è l’attore Umberto Raho (il marito dell’assassina nell’Uccello di Argento) indaga (Il gatto a nove code)
e scopre l’ubicazione della complice dei colpevoli grazie ai versi degli animali presenti in una telefonata anonima (L’uccello dalle piume di cristallo). I colpevoli ovviamente sono moglie e marito (doppio finale come 6 donne e L’uccello),
i padrone dell’atelier, che ammazzano per motivi futili. La conclusione con suicidio al rallentatore della protagonista copia il finale di 4 mosche di velluto grigio. La colonna sonora è ordinaria e l’ambientazione a
Copenhagen non aggiunge niente alla narrazione. L’unico elemento originale è anche quello più ridicolo: un gatto con le unghie intinte nel curaro che uccide alla vista di scialli gialli intinti in un liquido dall’odore
repellente. Infine non mancano riferimenti a Psycho (una sanguinosa uccisione in doccia) e Gli occhi della notte (il cieco in balia dell’assassino). Insomma un prodotto ordinario che non nasconde la propria
natura di clone; al suo attivo ci sono soprattutto un buon ritmo e un’elegante qualità delle inquadrature. Dietro all’insieme dovrebbero nascondersi moventi pseudorazionali; ciononostante l’atmosfera generale è la solita,
ispirata al generico sadismo misogino che sorregge l’intero genere. Ne è riprova la terrificante uccisione a rasoiate in doccia, durante la quale il corpo della malcapitata viene letteralmente squarciato in lungo e in largo.
Decisamente migliore è invece La dama rossa uccide sette volte (agosto 1972; 98 min.; locandina) di Emilio Miraglia,
su sceneggiatura di Fabio Pittorru. Ambientato nella tedesca Würzburg, la storia ruota ancora intorno a una ditta di alta moda e anche in questo caso le belle ragazze cadono vittime, una dopo l’altra, della misteriosa dama
rossa. Nello sfondo c’è una questione di eredità e non è difficilissimo intuire che la stravagante assassina, più che a un racconto neogotico, appartiene alle diaboliche macchinazioni di una delle eredi (Marina Malfatti),
decisa a eliminare tutti i concorrenti (due sorelle e un fratello) dalla spartizione. In ogni caso la storia è condotta con piglio sicuro, gli attori (Ugo Pagliai reduce dal fortunato Segno del comando, Rai, 1971 e una
perennemente impaurita Barbara Bouchet) sono sempre convincenti, le sequenze degli omicidi sono ben congegnate e sufficientemente inquietanti, l’ambiguo balletto di belle donne intorno al dirigente Pagliai tiene desta
l’attenzione e complica l’intreccio in modo intelligente mentre la musica di Nicolai lavora in modo abile (archi, pianoforte e clavicembalo si avvicendano) intorno a una cantilena infantile, secondo i noti modelli morriconiani.
C’è anche una bellissima sequenza onirica discretamente orrorifica, giocata sulla paura dei grandi spazi chiusi. Inoltre gli scenari di Würzburg sono opportunamente vari e situano una sequenza chiave nello splendida cornice
della celebre residenza principesca del Settecento (celebre per un immenso affresco di Tiepolo). Va ricordato che la prima vittima a cadere sotto i colpi della dama è l’anziano padre delle tre sorelle, interpretato da Rudolf
Schindler, ottimo attore che ritroveremo nel ruolo dell’indimenticabile professore di stregoneria nel capolavoro gotico di Argento, Suspiria (1977). Se l’intreccio generale del film esclude psicopatici e allontana in
apparenza la tematica misogina, va ricordato che le vittime, in quanto modelle che offrono quotidianamente il loro corpo alle necessità del sistema produttivo, sono emblemi tipici di quella modernità libertaria che questo tipo
di cinema tende a mettere in discussione. Sono sempre loro le vittime della furia omicida di assassini che, in fondo, più che ad astratti e pretestuosi moventi, appartengono alle fantasie perverse e “risentite” dei cineasti e
delle nutrite schiere di spettatori.
Dopo il più convenzionale L’occhio del ragno (1971; vedi), Roberto Bianchi Montero dirige con Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile
(ago 1972; 90 min.; il film è noto anche come La morte viene dal buio), suo unico contributo al giallo argentiano (la sceneggiatura è del regista coadiuvato da Luigi Angelo e Italo Fasan). Si tratta di un notevole
ricalco de L’uccello dalle piume di cristallo (1970), nel quale le tendenze misogine del modello, legate come si è detto alla rivoluzione dei costumi in atto, vengono esplicitate ed accentuate. Un maniaco nerovestito
uccide donne belle, ricche, emancipate e tutte adultere, lasciando ogni volta, sul corpo martoriato, le foto che comprovano i tradimenti della vittima. Cadono così, sotto di rasoio del folle, Annabella Incontrera, Femi Benussi,
Susan Scott e Silva Koscina. Quest’ultima è addirittura la moglie del capo della mobile (Farley Granger) il quale scopre in extremis l’identità del colpevole (tramite il suono di una pendola, udibile in una sua minacciosa
telefonata), lo sorprende e lo ammazza senza troppi complimenti. Si tratta del medico legale (Chris Avram) il quale odiava tutte le adultere poichè anche sua moglie, anch’essa fedifraga, era morta in un incidente insieme al suo
amante. Montero utilizza un ottimo cast, affida il ruolo principale ad un importante attore americano (già protagonista dell’hitchcockiano Delitto per delitto), ripete con estro le situazioni omicide del
film-archetipo, vi aggiunge un maniaco nerovestito che fotografa di nascosto le vittime e commenta le immagini con una melodiosa colonna sonora di Giorgio Gaslini che alterna un motivo lirico (affidato ai consueti vocalizzi
femminili) con inquiete dissonanze (mai aspre e disturbanti come quelle del Morricone de L’uccello argentiano). Insomma, a parte il titolo che anzichè la moda degli animali, ormai al tramonto nella seconda parte del
1972, riprende quella dei titoli lunghi (inaugurata da Confessione di un commissario di polizia ad un procuratore della repubblica, Damiani, 1971), Montero dirige una pellicola tra le più ossequiose del modello (il
regista tiene ben presente anche La tarantola dal ventre nero, Cavara, 1971), riuscendo a firmare numerose sequenze di notevole impatto visivo come quella dell’omicidio sulla spiaggia (ambientazione insolita rispetto al carattere rigidamente urbano di questo genere filmico) e soprattutto ad evidenziare, attraverso dialoghi e situazioni, il carattere di disagio dell’universo maschile nei confronti delle nuove libertarie abitudini sessuali dell’altra metà del cielo. La perdita di potere nei confronti delle consorti o compagne si esplicita in questo delirante ed onirico bagno di sangue, segno violento e traumatico della profonda trasformazione in atto.
Dopo il notevole successo de La morte cammina con i tacchi alti (1971; vedi), il regista Ercoli, lo sceneggiatore Gastaldi, gli attori Susan Scott, Simon Andreu e Claudie Lange girano tra Milano e il lago maggiore
La morte accarezza a mezzanotte
(novembre 1972). L’incipit è il solito: un maniaco uccide in modo sadico (con un pugno di ferro dotato di aculei) una donna e tenta più volte di far fuori anche una testimone (Susan Scott); poi i giochi si complicano incredibilmente e si approda a un giallo tradizionale, piuttosto confuso, imperniato sullo scontro tra due organizzazioni criminali per il controllo del traffico di droga. C’è il solito commissario che non capisce niente, un apparato poliziesco assolutamente risibile e la protagonista che corre per tutto il tempo, inseguita da un folto gruppo di sicari. Insomma un pasticcio poco interessante anche se interpretato con misura dagli interpreti e godibile in alcune isolate sequenze.
C’è modo poi di rivedere alcuni suggestivi angoli della Milano dell’epoca, dai navigli al cimitero monumentale, dal grattacielo Pirelli alla galleria di piazza Duomo.
Dopo il brutto Iguana (1971; vedi), Freda gira il pessimo Estratto dagli archivi segreti della polizia di una grande capitale europea
(dicembre 1972; 82 min.), titolo assurdo per una pellicola gotico-satanista girata senza la minima convinzione. Pur snodandosi per 80 lunghi minuti, la vicenda occupa a stento una mezz’ora di film mentre il resto è costituito da tempi morti conditi con dialoghi senza senso. Vi si racconta di una collana di perle che provoca possessioni demoniache in chi la indossa (ovvero Camille Keaton) e di un gruppo di ragazzi che giunge in un castello di satanisti (tra essi Luigi Pistilli e Luciana Paluzzi) giusto in tempo per assistere a una strage, provocata dalla presenza delle suddette perle. Prontamente gli scampati citano Sharon Tate e i noti fatti di Bel Air; poi altre morti si succedono fino alla disastrosa e ridicola spiegazione finale.
Freda ha il pudore di nascondersi dietro uno pseudonimo (Robert Hampton), gli attori sono goffi, le musiche di Cipriani riprendono le solite tiritere tardoromantiche del cinema di Bava, la qualità visiva è scadente e il
modello argentiano è (purtroppo) latitante. Il film girò pochissimo e scomparve per decenni dalle programmazioni prima della sua “riscoperta” ad opera della biennale veneziana del 2004.
Tra gli ultimi prodotti della prima ondata argentiana (1970-73) va annoverato infine La morte negli occhi del gatto (aprile 1973; 96 min.) di Antonio Margheriti, basato sul racconto Corringa (il nome della protagonista) di Peter Bryan, l’unico film del periodo 1972-73 che torna a un titolo “zoologico”. Il regista ambienta entro una cornice gotica un whodonit di marca argentiana: il solito castello medievale (in Scozia), maledizioni vampiresche, una famiglia di depravati di vario genere, il consueto balletto intorno all’eredità, l’assassino misterioso che elimina uno dopo l’altro tutti i concorrenti. Il risultato è oltremodo tedioso, recitato in modo generico, datato nelle ambientazioni (è uno degli ultimi film gotici italiani) e nella colonna sonora tardoromantica.
La contaminazione di gotico baviano e rigoroso whodonit (l’idea centrale è ripresa dal celebre Trappola per topi, 1952, di Agatha Christie: l’assassino si è intrufolato nel castello sotto una falsa identità - quella
di un sacerdote esterno alla famiglia - e pertanto è uno dei pochi insospettabili) non ha mai prodotto esiti felici; in questo caso poi non funziona nulla: il versante “vampiresco” offre solo stereotipi ben noti mentre il
giallo moderno non diviene mai realmente inquietante. L’idea di inserire un’attrice dal volto e dai modi decisamente giovanili e “contemporanei” come Jane Birkin in questo contesto arcaizzante appare l’unico elemento di un
qualche interesse.
testo scritto nel nov. 2008; ultimo aggiornamento ott. 2019
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