Novecento e La luna

Novecento e La luna: negli anni del compromesso storico (1976-79)

                “Il discorso di Berlinguer sul bisogno di trovare un’unità,
                dentro la classe dei lavoratori, tra le forze comuniste e le forze
                cattoliche, mi sembrava molto interessante...
                Regina è una Lady Macbeth della Bassa...
                Novecento è un monumento alle contraddizioni del sistema,
                un film comunista pagato dagli americani”
                Bertolucci parla di Novecento (1980)

Nella storia del cinema italiano vi sono alcuni film fondamentali in relazione alla loro riuscita estetica come pure al loro stretto legame con il quadro storico-politico della vita nazionale. Uno di questi è La dolce vita (Fellini, 1960), un altro è Novecento (mag 1976; 315 min.) di Bernardo Bertolucci, epopea ambientata nella bassa emiliana basata su una sceneggiatura del regista, di suo fratello Giuseppe e di Kim Arcalli.
Nel settembre 1973 in Cile il colpo di stato di Pinochet, supportato dalla destra Usa, pone fine al regime socialista di Allende. Questo evento traumatico causa un radicale cambiameno di rotta del Pci di Enrico Berlinguer, il più grande partito comunista occidentale ed anche l’unico ad essere sul punto di entrare nella stanza dei bottoni in un paese vitale dell’area Nato. Il suo leader lancia in quei giorni la strategia del compromesso storico ovvero un progetto di governo politico in accordo con la DC, il partito conservatore alla guida dell’Italia dagli anni del dopoguerra. Solo per tale via stretta egli pensa di poter attuare un radicale cambiamento politico nella penisola, senza causare una svolta reazionaria (decisa dagli Usa) di vaste proporzioni.
Il grande progetto di Novecento - un vero e proprio kolossal se confrontato con le produzioni medie italiane ed europee - prende l’avvio sulla scia di quell’enorme fatto politico e con il segreto compito di rafforzare nelle masse italiane di sinistra un inedito sentimento “non-rivoluzionario”; in tal modo si sarebbe completata la “magica” trasformazione di un partito per statuto rivoluzionario (marxista-leninista) e nei fatti socialdemocratico ed europeo. La pellicola ha inoltre il compito di criminalizzare, oltre ogni limite, il periodo fascista della storia italiana, attraverso il personaggio di Attila, uno dei peggiori criminali mai apparsi sugli schermi italiani: in fondo ciò che più temeva la dirigenza comunista in quegli anni era appunto una svolta cilena ossia fascista (o militare) in Italia, di cui la stagione delle bombe - da piazza Fontana a piazza della Loggia - era stata una premessa minacciosa che aveva trascinato il paese vicino al punto di non-ritorno. Così nel magnifico affresco di Bertolucci, l’inverno del fascismo diviene un incubo insopportabile, sanguinario e crudele le cui efferate e gratuite violenze funzionano, inotlre, da automatica scusante per le altrettanto terribili stragi di ex fascisti (famiglie complete ovviamente... ) messe in atto da ex partigiani comunisti nel periodo 1945-48, con il silenzioso appoggio del Pci.
Alcune importanti Majors hollywoodiane (la United Artist innanzitutto) contribuiscono con forti capitali (finanziari ed umani) a questo grande film, sebbene il comunismo sia un‘ideologia invisa alla cultura statunitense. Tale operazione appaia dunque  poco ragionevole: l’impiego di tante risorse per far propaganda all’estensione del sistema totalitario sovietico - il principale nemico della lunga ed estenuante guerra fredda - nel cuore dell’Europa pochi anni dal caso cileno. In quegli anni si discusse molto dei capitali americani che sostenevano le bandiere rosse di Bertolucci (il regista si è spesso vantato di essere stato al centro di questa bizzarra e contradditoria combinazione) come di un motivo per rifiutarle (era la posizione dell’estrema sinstra dell’epoca), in quanto animati da intenzioni revisioniste nei confronti dei “sacri” dogmi” leninisti. In realtà fin dagli anni trenta - quelli in cui Eisenstein giocava a tennis con Chaplin a L.A. - Hollywood (come buona parte della classe intellettuale americana ed europea) ha avuto un occhio di riguardo per la cultura comunista e per il sistema sovietico. La partecipazione di Robert De Niro, Sterling Hayden e di Burt Lancaster al grande affresco filocomunista girato in Emilia ne è la più evidente conferma. Ricordiamo che pochi anni prima una star del calibro di Dustin Hoffman era venuta in Italia per girare un film “locale” come Alfredo Alfredo (Germi, 1972), il cui vero bersaglio era la lotta divorzista e anticlericale (si era alle soglie di un referendum sul tema). Citiamo inoltre Reds (Beatty, 1981), un’altra pellicola hollywoodiana assai indulgente con l’universo della rvoluzione sovietica. Insomma la fabbrica dei sogni d’oltre Atlantico intervenne, in quegli anni, più volte nel mercato italiano, con evidenti finalità politiche. E’ quasi inutile ricordare che Novecento, distribuito negli Usa, fu un solenne e prevedibile fiasco. Quelle Majors dunque non operavano, in questo caso, per finalità meramente commerciali.
Novecento si apre il giorno della morte di Verdi (27 gen. 1901): sulle note della maledizione di Rigoletto (opera simbolica per Bertolucci, già centrale in Strategia del ragno, 1970), nascono Alfredo (Robert de Niro) e Olmo (Gerard Depardieu), protagonisti che appartengono a mondi opposti: il primo è il figlio dei possidenti Berlinghieri, il secondo è un contadino. Sebbene la musica di Verdi poi scompaia per lasciare il posto all’ottima colonna sonora di Morricone, in realtà l’intero film è organizzato in grandi pannelli operistici di matrice verdiana, in cui la carica emozionale e la tipizzazione esasperata dei personaggi approda ad una vibrante pellicola di enorme impatto psicologico. D’altronde una sorta di Rigoletto paesano circola per l’intero film e ci ricorda che il gobbo verdiano, con la propria rabbia e il proprio livore, è un’emblema della classe contadina, eternamente soccombente rispetto alla casta dei padroni.
Il grande affresco racconta la lotta di classe lungo tre generazioni: dapprima quella ottocentesca che possedeva una propria lealtà e rettitudine, poi quella della prima metà del secolo durante la quale lo scontro degenera nel buio del fascismo ed infine quella dell’immediato dopoguerra in cui i toni, per quanto combattivi, lasciano presto il posto ad una nuova intesa seppur litigiosa.
La gioventù di Alfredo (il nome rimanda all’eroe verdiano di Traviata, un borghese illuminato che aveva osato infrangere i tabù della propria epoca sposando l’ex mantenuta Violetta) e di Olmo è un racconto primaverile e luminoso, ricco di poesia, nel quale le frizioni tra classe contadina e padronale per quanto dure e ben delineate, con forze dell’ordine e chierici al servizio dei signori, non sfociano in eventi irreparabili. Burt Lancaster e Sterling Hayden sono i nonni dei due ragazzi, nonni che si contrappongono con durezza ma anche con lealtà nel primo decennio del secolo. Una sottile amicizia, in qualche modo, li lega, amicizia che nei due nipotini si tradurrà in un legame tanto forte da sfiorare l’omosessualità (tema caro a Bertolucci). Di contro, la generazione dei loro genitori è asimmetrica in quanto al padre di Alfredo non fa riscontro una figura maschile, essendo Olmo figlio di padre ignoto.
Dopo la grande guerra la nuova generazione borghese non esita a prendere decisioni impopolari e, di fronte ad una Lega Operaia, organizzata dal Pcd’I, sempre più forte, organizza e finanzia le squadre fasciste. Bertolucci descrive nel modo peggiore questa seconda borghese la quale arriva a prendere il “potere” con l’inganno. Alla morte di Alfredo Berlinghieri (Burt Lancaster), il figlio Giovanni (un eccellente Romolo Valli), per non dover dividere l’eredità col fratello Ottavio (Werner Bruhns), peraltro disinteressato alla vita da latifondista, inscena un falso testamento (evidente la citazione da Gianni Schicchi di Puccini) in una delle sequenze più emozionanti del film, grazie anche alla pefetta aderenza della drammatica partitura morriconiana (interamente di stampo verdiano) agli eventi del racconto.
Insuperabile è anche la descrizione della nascita del fascismo nella bassa emiliana: dopo il fallimento dell’esercito, che non riesce a far sgomberare i mezzadri da un appezzamento di terra, i principali propietari si riuniscono in una chiesa e, come in un rituale sacro, finanzianto la nascita delle squadre fasciste guidate dal perfido Attila (Donald Sutherland in una delle sue migliori interpretazioni). Le due sequenze posseggono entrambe il taglio narrativo e la forza corale di tante pagine presenti nei melodrammi risorgimentali verdiani. I proprietari, impauriti dalla forza crescente dei socialisti, con la benedizione della chiesa, ricorrono ad una violenza illegale di segno identico e contrario rispetto a quello dei propri nemici. Il film, tuttavia, descrive sempre e solo le violenze di Attila, né potrebbe essere altrimenti trattandosi di una pellicola che, tra le altre cose, è un esplicito film di propaganda socialcomunista.
L’intero, “invernale” atto secondo è una descrizione efferata delle gesta di Attila il quale sevizia ed uccide un bambino durante la festa di matrimonio di Alfredo e Ada (D. Sanda), insieme ai suoi sodali pesta a sangue Olmo accusato pretestuosamente di tale delitto di fronte a un Alfredo (dopo la morte di Giovanni, è lui il nuovo padrone) incapace di difendere l’amico; uccide poi, in modo orribile, la vedoca Pioppi (Alida Valli) per impossessarsi della sua villa ipotecata. Sono sequenze di una drammaticità quasi insostenibile, grazie anche agli interventi musicali di Morricone: la simbiosi di immagini, gesti, movimenti di macchina e suoni approda alla creazione di alcune scene di inaudita forza comunicativa, il cui unico paragone possibile è con certi concertati di finale d’atto del melodramma verdiano. Il pensiero va a Verdi e non ad altri grandi musicisti teatrali (come Puccini) poiché le scene suddette hanno un carattere essenzialmente corale e, in seconda battuta,  politico: la loro forza deriva non tanto dall’esplodere di un singolo evento tragico, quanto dal suo riverberarsi su una piccola folla di personaggi, tutti in qualche modo coinvolti. In tal senso Novecento, come alcuni melodrammi verdiani corali (Nabucco, Macbeth o Don Carlo tra gli altri), racconta una tragedia collettiva e segnata dalla politica.
In particolare al Don Carlo rimanda la particolare geometria che regge il secondo atto di Novecento. Come nel dramma di Verdi (creato per l’Opera di Parigi nel 1867), un padrone (Alfredo/re Filippo) è soggiogato da un suo importante servitore (Attila/il Grande Inquisitore) e riesce a stento a proteggere un amico leale ma sovversivo (Olmo/il Marchese di Posa). Il gioco regge fino a quando Olmo e i contadini non superano il segno, ribellandosi ad Attila; a quel punto neppure Alfredo è più in grado di proteggere l’amico che viene costretto alla fuga.
Giunti alla primavera, metaforica e reale, della Liberazione, Attila e la sua amante Regina (Laura Betti), sorta di crudele Lady Macbeth, vengono ammazzati dai contadini infuriati mentre Alfredo, il padrone “illuminato”, viene giudicato colpevole da un improvvisato tribunale del popolo, tra canti, balli e bandiere rosse (è la parte più didascalica e fiacca dell’opera) ma non viene giustiziato, anche perché difeso dall’amico di sempre, Olmo. E’ un’immagine dei due eterni compagni, Alfredo ed Olmo, settantenni, che ancora amichevolmente litigano, a chiudere la fluviale pellicola, invitando gli Italiani ad aprire le porte al compromesso storico, unica strada di presunto rinnovamento politico in quel contesto storico (ossia in uno stato sottoposto dell’area Nato).
La colonna sonora composta da Morricone è tra le sue creazioni più alte. In essa, non diversamente da quanto accadeva nelle migliori musiche scritte per Leone (con particolare riferimento a C’era una volta il West, 1968), il musicista crea un perfetto complesso di leitmotive destinati a segnare tutti i principali momenti della narrazione. Il tema chiave - posto all’inizio ed alla conclusione, in uan significativa ed ottimistica circolarità - è quello dell’inarrestabile marcia del quarto stato: questo motivo, lirico e grandioso ad un tempo come pure venato da una sottile mestizia, compare quale commento alla celebre tela di Pelizza da Volpedo posta in apertura (titoli di testa) ed in tutte le situazioni che esaltano il carattere progressista delle gesta dei contadini. Ad esso si oppone il tema livido della repressione e della reazione: esso dapprima segna l’arrivo dei soldati, chiamati a fronteggiare i contadini in rivolta; in seguito esso si lega ad Attila e Regina, alle loro inenarrabili malefatte.
L’intera prima parte di Novecento racconta, con toni dolci ed elegiaci, la profonda amicizia esistente tra Alfredo (la borghesia illuminata) ed Olmo ed è accompagnata da un delicato tema cantabile e affetuoso, affidato prevalentemente agli archi (se si vuole è il motivo del “compromesso storico”); esso ritornerà spesso nella cupa seconda parte come un ricordo luminoso in un’epoca buia. Alla fine del primo atto e per l’intero secondo atto il compito di rischiarare una tela fosca oltre ogni limite (l’inverno del fascismo) è affidato al luminoso e magnifico tema di Ada (la moglie francese, simbolo di quella borghesia progressista che fatica ad affermarsi in Italia), tema cantabile e tuttavia titubante e riservato, segno di una dolcezza interiore che non riesce a trovare un proprio spazio nel drammatico clima del ventennio mussoliniano. Non a caso Ada abbandonerà il marito e tornerà in Francia. Al suo apparire questa figura, quasi angelica, viene ritratta come la protagonista di C’era una volta il West (Claudia Cardinale), anch’essa elemento di rottura che va ad inserirsi - con ben altro successo rispetto al racconto di Bertolucci - in un contesto violento e tutto maschile. Anche Ada possiede questi caratteri di estraneità e di continua contestazione dell’esistente (si pensi a tutta la sequenza della festa paesana in cui, non a caso, si finge cieca oppure ai vani tentativi di escludere Attila e Regina dalla propria cerchia familiare, fin dagli eventi tragici che segnano il suo matrimonio), caratteri volti ad instaurare una visione quasi matriarcale nel tessuto sociale e come tali destinati al fallimento. L’Italia soprattutto nel ventennio, rimane un paese patriarcale, impregnato di violenza e governato dall’esercizio della forza.
Nel 2003 Marco Tullio Giordana cerca di costruire un terzo atto di Novecento con il pregevole La meglio gioventù, saga familiare che si snoda tra il 1966 e il 2003 nel quale due fratelli si trovano su fronti opposti nelle vicende successive al ’68...

Tre anni dopo il regista, coadiuvato ancora dal fratello Giuseppe e da Arcalli nella stesura del soggetto, gira La luna (lug 1979; 140 min.) che costituisce l’anti-Novecento ovvero la malinconica antitesi di quell’affresco epico corale.
Fin dal titolo il film indica una dimensione intima, femminile, domestica, antipolitica che suona come una sconfitta dopo l’entusiasmo di Novecento. Allora un mondo nuovo sembrava alle porte, ora invece si esamina la realtà di sempre, inquadrata come solida e immutabile attraverso gli occhi del ragazzino Joe (Matthew Barry), un figlio trascurato che si è rinchiuso nell’universo della droga e di sua madre Caterina (Jill Clayburgh), una soprano di successo, fino a quel momento del tutto disattenta alle problematiche di Joe e ignara dei suoi drammi. La musica di Verdi torna ad esserre protagonista, ma in una maniera imprevista e fredda, messa in scena a marcare la distanza tra un universo lirico denso di emozioni e di vitalità ed una realtà statica e deludente. Infatti le tre grandi sequenze verdiane del film sono tutte in qualche modo antiepiche: nella prima vediamo Caterina cantare un’aria di Leonora(da Il Trovatore)  mentre la regia si concentra sulle macchine di scena, sui suggeritori, sul backstage; nella seconda la madre mostra al figlio Villa Verdi, esalta quel luogo e l’arte del grande compositore al quale ha dedicato l’intera esistenza e deve registrare, con stizza, che il figlio è del tutto disinteressato alla questione; nella terza, durante le prove del Ballo in maschera alle Terme di Caracalla, in un prosaico scenario del tutto quotidiano (cantanti e orchestrali sono vestiti in maniera ordinaria, manca qualunque messa in scena...), Caterina dapprima addirittura non canta (così ha deciso, comprendendo che le attività di madre e di star della lirica sono del tutto incompatibili), poi finalmente, alla comparsa del padre (Tomas Milian) e di una incerta ricomposizione del quadro familiare, si abbandona al canto. C’è inoltre una quarta sequenza musicale collocata nel centro del racconto e che, meglio di tante parole, definisce il clima sociopolitco nuovo di quell’Italia del 1979: Joe balla Night Fever dei Bee Gees in un modesto bar romano, sotto gli occhi di un omosessuale (Franco Citti), affascinato dalla bellezza del giovane. Bertolucci ammetrte la propria sconfitta: Verdi e il comunismo sono passati di moda e dopo la tragedia Moro (marzo-maggio 1978) sono stati definitivamente messi in soffitta da una società che è sempre più dedita alla riceca di un pacere individuale ed immediato di cui la dancemusic de La febbre del sabato sera (Badham, 1977; film chiave di quegli anni) è un ottimo esempio. Il regista torna infatti, nella parte finale del film, ai luoghi dei suoi esordi cinematografici, ai ragazzi di vita de La commare secca (1962), agli scenari parmensi di Prima della rivoluzione (1964) per chiudere un cerchio che si è dimostrato velleitario ed inconcludente. Joe balla felice, si droga, soffre per la mancanza d’amore, cerca un padre (certo non per ucciderlo... tematica centrale del Bertolucci “rivoluzionario”), “se ne frega di tutto” come ripete più di una votla ed, in una chiusura radicale entro la dimensione domestica, finisce addirittura per cercare l’amore sessuale della madre la quale, anch’essa poco avvezza ai doveri della genitorialità, gli si concede pur di farlo felice così come lo aiuta a drogasi pur di non vederlo soffrire.
Questa lungo vagabondaggio tra Roma e Parma di una madre egoista e sognatrice e di un figlio perduto nella propria solitudine disegnano un film poetico, segnato dalle notturne immagini della luna, e, a suo modo, disperato il cui modello è il recente capolavoro bergmaniano Sinfonia d’autunno (1978) dove al posto della cantante lirica c’era una pianista di fama internazionale (una straordinaria Ingrid Bergman) e al posto del figlio, una figlia altrettanto trascurata e bisognosa di affetto (Liv Ullman). La luna è una pellicola ricca di una poesia trattenuta alternata, perfino, a momenti di pretesa comemdia (un genere che non è nelle corde del regista emiliano) e di alleggerimento (si vedano le presenze di Benigni, Salvatori e Verdone) in cui la figura di questo ragazzino bello e ombroso, ritratto anche con una certa insofferenza, sembra alludere all’Italia intera, colpevole di non aver accolto le suggestioni politoco-artistiche di Novecento e di essersi ritratta in un contesto “reazionario” (la dimensione domestica, la dance music... ). Appare evidente che tutta la simpatia degli autori va alla madre artista, appassionata di Verdi, sicuramente progressista, la quale cerca di sedurre il figlio con l’intensità artistica di un universo lirico (esattamente come Bertolucci aveva cercato di incantare il pubblico italiano con il suo kolossal segnato nel profondo dall’arte di Verdi) che non appartiene alla storia del ragazzo, alla sua triste solitudine, alla sua infanzia newyorchese, al suo rapporto intermittente con una madre spesso assente per lunghe tournèe. D’altronde in questo viaggio romano, Joe, dapprima rifiutato, viene accolto dalla madre solo perché il marito americano, che doveva accompagnarla, è morto improvvisamente, lasciandola sola.
La luna è il primo film di Bertolucci che pone al centro del racconto una figura femminile, a riconferma del caratttere antirivoluzionario dell’opera: quasi tutti i film precedenti del regista trattavano della “rivoluzione” e, pertanto, mettevano in scena figure maschili, spesso in lotta tra loro; ora invece lo scenario è quello di un intimismo domestico e femminile (l’incesto è pur sempre un segno di estrema chiusura al mondo, prima ancora che un gesto trasgressivo) nel quale l’enfasi rivoluzionaria riappare solo a tratti (la sequenza a Villa Verdi) e in negativo, come un’opzione perdente o superata dagli eventi. Il regista si concede addirittura il vezzo di ripassare, in auto, dentro il set del film “rivoluzionario”, quasi a rimarcare la distanza tra l’attuale prosaica realtà (la cascina viene ripresa in tutta la sua spoglia normalità, nelle dolci luci di un simbolico tramonto) e l’epica finzione di qualche anno prima.
Oltre a ritrarre in modo originalissimo la grande svolta politica italiana del dopo Moro, Bertolucci delinea in modo preciso anche le problematiche di un universo artistico esigente ed autonomo, che non ammette altri affetti al proprio interno. Chi vi si dedica al più alto livello si trova obbligato a tralasciare altri impegni affettivi o coniugali o a porli in secondo piano. Nel ritrarre questa madre “sciagurata”, infantile negli impegni della vita equotidiana e domestica in quanto completamente innamorata della propria arte (e di riflesso della musica italiana), Bertolucci appare più indulgente e certamente meno duro del Bergman di Sinfonia d’autunno: c’è molta complicità e comprensione in quel ritratto di cantante lirica laddove l’autore svedese manifesta un distacco piuttosto freddo nei confronti della sua star del pianoforte. In ogni caso, il dilemma arte-vita viene delineato in entrambi i casi senza infingimenti, trattandosi di un tema caro ad ogni individuo realmente creativo: è in fondo, per bergman come per Bertolucci, una questione, in una certa misura, autobiografica.
Nel lungo confronto tra madre e figlio, la prima comprende che solo l’amore paterno può sanare le ferite del secondo e gli rivela l’identità del suo vero padre (fno a quel momento taciuta): l’intero, commosso capitolo conclusivo è segnato dall’incontro di Joe con Giuseppe (uno straordinario Tomas Milian), suo padre, dal loro riconoscersi e dall’evidente inizio di una nuova vicenda esistenziale per entrambi. Il secondo, tra l’altrro, è un professore di disegno, abituato pertanto a stare a contatto con i ragazzi. E’, in fondo, anche questa scelta narrativa così arcaica (un padre biologico non è la stessa cosa di un padre adottivo) un ritorno alla Tradizione e un’ammissione di sconfitta su un classico tema della Modernità quale quello della pretesa, assoluta uguaglianza degli individui e della inconsistenza dei rapporti su base biologica. Si ricordi che la famiglia tradizionale è stato uno dei bersagli privilegiati della cultura progressista degli anni sessanta e settanta, spesso con punte deliranti come quelle della cosiddetta antipsichitria e che, di fatto, continua ad esserlo ancora ai giorni nostri... 

testo scritto nel mar. 2013