Per amare Ofelia, Paolo Barca, Il padrone e l’operaio, Due cuori una cappella, Luna di miele in tre e Sturmtruppen: la flemmatica comicità di Renato (1974-76)
“I comici di adesso sono tutti diversi.... vengono dal cabaret,
sono più freddi... Pozzetto ormai capisce benissimo il mezzo e le regole del cinema. Comunque è un’altra estrazione, un’altra cosa.
Non hanno alle spalle quel tipo di teatro comico con i suoi tempi, le sue improvvisazioni, i tormentoni... Non avendo avuto l’avanspettacolo e la continua conferma del pubblico a certi lazzi,
a certe gag, sono sempre un po’ indecisi sul momento della battuta o della gag, sui tempi” Steno
Renato Pozzetto esordisce al cinema con il fortunatissimo Per amare Ofelia (apr. 1974; 105 min.), diretto dal semiesordiente Flavio Mogherini. Il comico
milanese interpreta la figura di Orlando, uno stralunato industriale della pubblicità, che possiede una morbosa attrazione per la bella madre Federica (Francoise Fabian) che lo blocca con tutte le altre donne e che giungerà
fino alle soglie dell’incesto (ma in extremis scopriremo che Federica è solo una matrigna). Del giovane, al tempo stesso brillante (sul lavoro è efficiente e dittatoriale) e imbranato (nei rapporti affettivi), si innamora la prostituta di buon cuore ofelia (Giovanna Ralli) che gradualmente riesce a sbloccarlo (“smammarlo”) utilizzando le sue “notevoli” qualità. Il racconto è tutto qua: un ragazzotto, spesso in preda a sconnessi e divertenti deliri verbali (più idonei allo show televisivo che al racconto filmico), diviso tra una bellezza aristocratica e una romana verace, memore della prostituta Cabiria. I ricordi felliniani sono molti: c’è lo scenario con i resti del Rex di Amarcord,
c’è il pellegrinaggio al Divino Amore con una simpatica suora veggente (Didi Perego) e c’è un dirigibile (in apertura e in chiusura) la cui splendida figura compete con quella del Rex. La tematica puramente erotica, con
spunti audaci (Orlando voyeur nei confronti della presunta madre) mischiati a tematiche religiose (il Divino Amore) e a una comicita lunare finiscono col creare un’amalgama assai originale che quasi anticipa il Fellini de La voce della luna (1990).
Il trionfo commerciale della pellicola rivela la presenza di un’Italia “cinematografica” che ama questi racconti ingenui, segnati dalla centralità di una figura maschile tenera e immatura di cui si prendono cura,
amorevolmente, una coppia di donne la cui unica finalità esistenziale sembra essere proprio quella di soddisfare le esigenze maschili. Insomma quanto di più antitetico al prevalente femminismo i cui toni arrabbiati e violenti
dominavano la quotidianità politico-sociale. Non diversamente dall’Amarcord felliniano, anche questa Ofelia di Mogherini risulta essere un rifugio onirico, una fuga dalla realtà verso una dimensione sognante che,
in realtà, rievoca semplicemente le abitudini di un passato assai recente. Il medesimo spirito felliniano aleggia in Paolo Barca, maestro elementare praticamente... nudista
(mar. 1975; 110 min) in cui Mogherini e Pozzetto replicano pregi e difetti del film precedente; anche il successo commerciale strepitoso si ripete. Paolo (Renato), nudista spaurito e maestro per caso, giunge a Catania per
prendere servizio (al suo primo incarico) in una scuola elementare. Il suo temperamento nordico, libertario e vagamente hippy genera immediatamente scandalo nell’ambiente ultraconservatore della città: il preside (Stefano Satta
Flores) rimprovera severamente il neoassunto anche se poi finisce con il fare amicizia con lo stralunato Paolo Barca. Intanto tutte le maestre si mettono in fila per riuscire ad intrattenere una relazione erotica con il
forestiero: ci sono Magali Noel, Liana Trouchè e Janet Agren; tutte verranno esaudite dal protagonista che, tuttavia, agisce sempre come se fosse in uno stato di sonnambulismo, dando scarsa soddisfazione alle sue partner. Il
film inizia come un scontro politico tra progressisti (lo svagato nudista, figlio dei fiori e forse comunista) e conservatori (il solito sud ritratto in maniera caricaturale); tale filone è tuttavia presto abbandonato (come nel
precedente film, Mogherini sceglie di fatto la visione conservatrice) per divenire un racconto semionirico in cui appare evidente che la scuola catanese deriva da quella di Amarcord e che i suoi folli docenti sono macchiette umoristiche e irreali, destinate a valorizzare, per contrasto, la stranezze dell’intruso. Dopo una vivace e simpatica prima parte il film crolla: diviene una sorta di rifacimento di Homo eroticus (Vicario, 1972) privo d interesse, tra lungaggini e sequenze prive di mordente (tutta la lunga relazione con la giovane Janet Agren è soporifera). Anche lo scandalo delle lezioni di educazione sessuale che, con spavalda ingenuità, il maestro impartisce ai suoi allievini di quinta elementare appare divertente all’inizio, poi stucchevole a causa delle insistenze narrative. Inoltre la pretesa di insegnare educazione sessuale in maniera dettagliata a ragazzini di dieci anni risulta comunque eccessiva e velleitaria così come le reazioni dei genitori, lungi dall’apparire reazionarie, appaiono di buon senso, finendo con il rendere poco credibile la battaglia naturalista del maestro.
Mogherini possiede grandi doti visionarie (era stato scenografo) e spesso inventa immagini e scenari accativanti; però non riesce sempre a motivarli con contenuti altrettanto interessanti. Il ritratto manieristicio di una
Sicilia ferma all’Ottocento deriva dal Germi di Sedotta e abbandonata (1964)e risulta, di fatto, poco originale. Rimane all’attivo del film soprattuto la presenza lunare di Renato, unica vera ragion d’essere dell’opera.
Un successo ancora più grande saluta il successivo Il padrone e l’operaio (nov 1975; 95 min.) , piacevole commedia umoristica di Steno. Vi si confrontano due
tipi umani antitetici e segnati da eccessi macchiettistici ovvero il padrone Gianluca (Renato Pozzetto) dai modi snobistici e maniacali e l’operaio Luigi (Teocoli) animato da una perenne euforia. Il primo vive la propria
condizione di miliardario come una schiavitù: perennemente al lavoro, stanco della noiosa moglie (Francesca Romana Coluzzi) e poco attratto ormai anche dalla amante, vive in maniera complessata ogni secondo della sua esistenza.
Con il suo sistema di ferreo controllo dell’attività dei suoi operai scopre il vivace Luigi e inizia a spiarne le imprese amatorie. Molto presto si unisce a lui per cercare di emularne lo spirito baldanzoso ed entusiasta, ma
con scarsi esiti: le donne continuano a correre dietro all’operaio e a emarginare il padrone, prigioniero di una serie di piccole paranoie. Dopo una prima parte decisametnte brillante e originale il racconto si perde: non ci
sono abbastanza idee per arrivare ai fatidici novanta minuti e i personaggi iniziano a ripetee stancamente dialoghi e situazioni fino a una conclusione paradossale in cui Gianluca scopre quanto sia divertente fare il pazzo:
potrà vivere nel lusso senza dovere più preoccuparsi degli opprimenti impegni lavorativi. L’argomento affrontato da Steno è decisamente scottante: pochi autori hanno provato a descrivere il lavoro di fabbrica e su tutti
incombe la grande prova di Petri (La classe operaia va in paradiso, 1971); il regista romano si colloca agli antipodi dell’importante autore marxista e gira un’opera coerentemente centrista e quasi provocatoria. Il suo
Luigi è un’anima festosa che si disinteressa del lavoro, dei padroni e dei colleghi operai, è disiniteressato alla coscienza di classe e alla lotta operaia (come gli rimproverano alcuni colleghi marxisti, ligi alle direttive
del sindacato) e vive un’esistenza di sogno (tutte le donne non aspettano che lui... ). Insomma il ritorno al privato, veicolato ad arte (di lì a poco) dal Potere grazie anche a film come il celebre La febbre del sabato sera (autunno 1977) è già compiutamente sperimentata in questa briosa commedia che allontana lo spettro della cupa lotta di classe, dei sequestri (citati dallo spaventato Gianluca) e della lotta armata (le Br avevano già rapito e liberato Sossi, 1974) e descrive una realtà operaia fatta di modeste trattorie e feste paesane in cui gli operai appaiono addirittura di gran lunga più felici e spensierati de loro padroni. In tal senso il film sembra quasi un antiFantozzi (mar. 1975), sostituendo al grigiore programmatico degli impiegati-schiavi che circondano Paolo Villaggio con la colorata spensieratezza generata soprattutto dalla nuova morale sessuale libertaria che avvolge ogni gesto di Luigi. L’operazione possiede una propria audacia: peccato che la seconda parte del racconto, ripetitiva e noiosa, vanifichi in parte l’interessante esperimento.
Maurizio Lucidi, ai suoi primi passi nel campo della commedia, firma il mediocre Due cuori, una cappella (set. 1975; 110 min.), commedia umoristica in cui
l’unica cosa originale rimane la surreale comicità di Pozzetto, decisamente troppo poco per salvare la pellicola che, tuttavia, ottenne un vero e proprio trionfo commerciale. Aristide (Renato), da poco orfano e ricco grazie
alla eredità lasciatagli dalla madre usuraia, viene sedotto dalla bella Claudia (Agostina Belli) che si fa trovare piangente al cimitero (l’idea è ripresa da Amore e morte, episodio di Amore in quattro dimensioni,
1964; vedi). Il giovane, del tutto disarmato di fronte alla incontenibile fanciulla, se la porta in casa e la associa alla propria stravagante attività (modifica ovvero trucca oggetti finalizzati alla contabilità come bilance e
tassametri... ); molto presto però quest’ultima gli impone la presenza di Victor, un presunto marito malavitoso (Aldo Maccione). La vicenda appare scontata fin dall’inizio e dunque non vi sono sorprese; al contrario inizia una
lunga e tediosa sceneggiata del terzetto, finalizzata a derubare il tonto proprietario di casa. Dopo un finto rapimento e la consegna dei suoi risparmi (un piccolo tesoro fatto di gioielli) a Victor, la coppia di ladruncoli
sparisce. Si scoprirà che il vero cervello dell’operazione era Claudia mentre Aristide, meno scemo di quanto sembri, le ha consegnato solo delle copie fasulle dei gioielli... Il canovaccio è stereotipato e tirato per le
lunghe in un film quasi teatrale (praticamente tutto in interni) e non bastano e consuete tirate surreali di Renato per renderlo sufficientemente interessante. Rimane anche in questo lavoro (sceneggiato da Nicola Badalucco e
dallo stesso Pozzetto) una lieve vena misogina che segna un po’ tutti i lavori del comico milanese. Possiamo pertanto dire che in numerose commedie umoristiche di enorme successo di metà decennio (da Amici miei a Fantozzi)
prevale una comicità “antica” che tende a ricollocare la donna nel suo ruolo di seduttrice e tentatrice infedele; d’altronde la madre di Aristide, prima di morire, in una delle sequenze più divertenti del film, dopo averlo più
volte apostrofato come un povero deficiente, lo ammonisce ripetendogli ossessivamente “non fidarti delle donne”. Mentre il cinema “impegnato” e d’autore marcia all’interno di quella cultura progressista che guarda con
ammirazione e timore reverenziale al mondo femminile, il cinema cosiddetto “commerciale”, in realtà la tradizione della commedia, guarda indietro con nostalgia e continua e perpetuare i modelli umani di sempre ovvero una
visione patriarcale abbinata all’eterna battaglia tra i sessi nella quale l’universo femminile utilizza innanzittuo il proprio carisma sessuale per abbindolare e imprigionare alcune ingenue prede maschili (si veda in tal senso
anche La padrona è servita, Lanfranchi, 1976). L’uguaglianza non abita qui.
Carlo Vanzina, figlio di Steno, esordisce con il simpatico e inattuale Luna di miele in tre
(mar 1976; 95 min.) in cui si narrano le disavventure di un goffo erotomane diviso tra una moglie e una playmate. Alfredo (Renato), cameriere imbranato a Stresa, adora le modelle nude delle riviste patinate ma è costretto a
sposare Graziella, una cassiera (Stafania Casini) che ha messo incinta. Avendo contemporaneamente vinto un soggiorno in Giamaica di cinque giorni accanto ad una playmate decide di unire “dovere” e piacere: porta Graziella in
Giamaica in viaggio di nozze e praticamente la lascia sola per cinque giorni per potere accompagnarsi con la modella (Kirsten Gille). Il risultato prevedibile rovescia la situazione: Alfredo non riuscirà a sedurre la bella
straniera mentre la trascurata mogliettina finirà con il consolarsi con un amico (Cochi Ponzoni) del marito. Ritornati a Stresa le immagini di Alfredo con la playnate occhieggiano in tutte le edicole... Il soggetto è
scontato, una commedia degli equivoci trascinata per l’intero film che provoca situazioni ora esilaranti, ora ripetitive, ora troppo assurde per poter essere divertenti. Si tratta, tuttavia, dello schizzo di quella che
sarà la carta vincente della futura carriera del regista (qui ventiquattrenne) ovvero i ccosiddetti inepanettoni con Boldi (qui in una piccola parte) e Christian De Sica basati su vicende amorose clandestine collocate in
scenari più o meno esotici. Questo primo esperimento possiede una indubbia freschezza e, sebbene numerosi siano i momenti di stanchezza narrativa, l’insieme del racconto appare divertente e ben interpretato da un cast brillante
(ci sono anche Vincent Gardenia e lo spassoso Harry Reems nel ruolo di un gay). Il cinismo del neomarito, degno del più “meschino” Alberto Sordi, risulta incisivo e totalmente anacronistico rispetto al clima sociale di metà
anni settanta. Il film sembra infatti collocarsi in una sorta di limbo atemporale: una figura maschile così misogina e concentrata esclusivamente sulla bellezza fisica delle controparti è decisamente poco frequente in quegli
anni di femminismo radicale e, per quanto celata dietro le ovvie scusanti di una comicità farsesca, tradisce una visione patriarcale rigida che verrà confermandosi nell’intera carriera successiva dell’autore. Questo Alfredo,
marito per paura (del suocero) e deciso a continuare un’esistenza “gaudente”, appare un personaggio desueto in quanto completamente assorbito dalle proprie pulsioni individuali, dal proprio “privato” e impermeabile a tutti gli
ideali del proprio tempo. In fondo Luna di miele in tre anticipa l’idividualismo edonisitco che sarà moneta comune nel decennio seguente e lo fa ottenendo un notevole successo, a conferma del fatto che quella visione “reazionaria” del mondo vive sottotraccia anche in quegli anni così politicizzati.
Il film riscosse un notevole successo.
Salvatore Samperi si trova a dirigere Sturmtruppen
(dic 1976; 100 min.), versione filmica delle strisce a fumetti comiche di Bonvi (1968-95). Il film trova la sua ragion d’essere nel cast composto da comici molto popolari in quel periodo, soprattutto in ambito televisivo (Renato, Cochi, Felice Andreasi) cui si aggiungono Lino Toffolo, Massimo Boldi, Corinne Clery e Jean Pierre Marielle.
Il film è un insopportabile raccolta di microepisodi farseschi, incapaci di dar vita a un racconto organico nonchè dotati di un umorismo greve e senza gioia. Sebbene il film non risulti mai divertente, ottenne un enorme
successo commerciale (risulterà ottavo nell classifica degli incassi del periodo 1976-77). Nella prima parte appare evidente il tentativo di scimmiottare Mash (Altman, 1970), un modello filmico ovviamente inarrivabile per questo prodotto paratelevisivo, che è uno dei primi esempi di invasione di campo dell’universo del piccolo schermo nel film cinematografico (invasione che diverrà un fatto molto frequente negli anni ottanta e addirittura la norma ai giorni nostri); nella seconda parte autori ed attori prendono spunto dai grandi film di guerra (il mondo delle trincee di Orizzonte di Gloria di Kubrick, La
grande guerra di Monicelli e Uomini contri di Rosi), cercando di farne una modesta e inutile parodia. Nel 1982 seguirà Sturmtruppen 2 con lo stesso regista e un cast simile (ma senza Cochi e Renato). Il successo, per quanto minore, sarè ancora buono.
testo scritto nel giu. 2018
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