Ogni giorno è domenica e La vita semplice

Ogni giorno è domenica, La vita semplice e Senza famiglia: reduci, vagabondi, arte italiana e bombe alleate (1944-45)

              Era la prima volta che gli Alleati avevano deliberatamente preso come obiettivo un monumento religioso....    C’era qualcosa di strano nel lancio di un       tonnellaggio tanto elevato di bombe contro un unico edificio, e per di più un monastero”.
              D. Hapgood, D. Richardson, Montecassino, 1984

Pietro Baffico, nato a La Maddalena (Sassari) nel 1907, firma negli anni trenta dapprima alcuni cortometraggi, poi esordisce con la pellicola La danza delle lancette (1936; coregista Alberto Lattuada) cui seguono alcuni altri lavori. Nel 1944 aderisce alla RSI e si sposta nel cinevillaggio veneziano dove gira Ogni giorno è domenica (1944; 72 min.), opera minore nella quale, fin dal titolo, appare la preoccupazione propagandistica. La vicenda è quella piuttosto scontata del grande, improvviso amore che sboccia tra un soldato in licenza (Renato Bossi) e una giovane (Giuliana Pinelli), impiegata come maschera in un cinema. Dopo un incipit svolto nel chiuso soffocante della sala cinematografica, il lungo pomeriggio “amoroso” della coppia si avvale di un’ottima, luminosa ambientazione tra i canali veneziani. Poi i due si devono separare; il militare torna in prima linea e la ragazza lo aspetta preoccupata. Quando ormai è certa che il fidanzato è morto, la giovane lo ritrova in laguna, ombroso e solitario: ha perduto una gamba. La ragazza tuttavia lo abbraccia e gli fa intendere che tra loro nulla è cambiato.
In questa pellicola semplice e filmata con buona sensibilità dall’autore, ricca di efficaci figure di contorno, risulta prevalente la cornice sul contenuto; infatti si inizia con un soldato in vacanza per pochi giorni e si termina con un soldato mutilato per ricordare a tutti che l’Italia è ancora in guerra e che quel pomeriggio solare e ricco di effusioni è solo una parentesi fragile e transitoria, minacciata da ben altri destini. Anche la morale consueta viene travolta (i due fanno l’amore in un cascinale) proprio nel segno di quella incertezza che incombe su ogni evento. Partito il giovane, la ragazza ripiomba in una grigia quotidianità dalla quale esce solo nel ritrovamento finale dell’amato. E’ allora che la pellicola esterna il suo messaggio tranquillizzante: i soldati coraggiosi e menomati che fanno ritorno alla vita civile possono stare certi che ritroveranno donne fedeli e amorose ad aspettarli, donne le quali sapranno superare qualunque difficile situazione dovesse prospettarsi. Questo scottante tema era stato già trattato l’anno precedente da De Robertis in Uomini e cieli, lavoro interrotto dagli eventi bellici e completato solo nel dopoguerra (vedi). Anche in quel caso una generica e ottimistica retorica si sostituisce a una seria riflessione sull’argomento.
Alcuni anni dopo, a Hollywood, Fred Zinnemann esamina il problema in The Men (Uomini, 1950; film d’esordio di Marlon Brando) e anche allora - nonostante il taglio documentaristico, l’atteggiamento più freddo e una serie di ambiguità che mostrano in modo articolato la complessità della situazione - “amor omnia vincit”: il “roseo” destino dei reduci sembra identico nel cinema americano e nella produzione filmica italiana, in entrambi i casi salvaguardato e protetto in un contesto semifavolistico secondo le necessità della ragion di stato come sempre aliena dalle regole del buon senso quotidiano. Per un’analisi spietata della tragedia della menomazione fisica prodotta dallo scontro bellico bisognerà attendere il Dalton Trumbo di Johnny Got His Gun (E Johnny prese il fucile, 1971) e l’Oliver Stone di Born on the Fourth of July (Nato il quattro luglio, 1989).

Nel 1944 Francesco De Robertis si sposta nella Venezia della RSI dove gira La vita semplice (1945; 80 min.; soggetto e sceneggiatura del regista), film nel quale prosegue in tono favolistico la sua polemica nei confronti dell’aridità delle classi altoborghesi, urbane e legate al mondo affaristico. La tematica tutta mussoliniana, volta a esaltare lo schietto universo rurale e artigiano e a trascinare nel fango la dirigenza industriale, colpevole di avere perso il necessario slancio fascista nonché di avere sabotato lo sforzo bellico, trova una ulteriore esemplificazione (dopo Alfa Tau! e Uomini e cieli; vedi) ne La vita semplice. Laddove nelle ambiziose opere precedenti tale argomento andava a comporsi con altri nel tentativo di tracciare un affresco “realistico” dei difficili anni 1942-43, la nuova pellicola veneziana invece esamina questo unico tema, con ossessiva ripetitività.
D’altronde questa accusa veniva ribadita in quei mesi nelle asserzioni iniziali del ben noto discorso di Mussolini al teatro Lirico di Milano (16 dicembre 1944) allorché egli dichiarava che “la resa a discrezione dell’8 settembre è stata voluta dalla monarchia, dai circoli di corte, dalle correnti plutocratiche della borghesia italiana, da talune forze clericali, congiunte per l’occasione a quelle massoniche...”; dunque la ricca e da alcuni anni osteggiata borghesia produttiva del nord è ora ufficialmente accusata di tradimento.

La “ditta” bisecolare Bressan e figli, fondata nel 1740, fabbrica gondole di tanto in tanto; più spesso però il titolare si gode il sole, la primavera e i magnifici scorci della laguna. Ora però, minata da enormi debiti e numerose cambiale andate in protesto, rischia di chiudere poiché viene presa di mira da un “ignobile” industriale milanese (Giulio Stival) che scorrazza per i canali di Venezia con un veloce motoscafo e che vive con l’unica preoccupazione di ammassare la maggior quantità possibile di denaro. Lo scontro è totale e De Robertis si diletta a raccontarlo facendo ampio uso di un creativo montaggio alternato che affianca i due antitetici universi. Inutile dire che in quello veneziano si allude alla secolare tradizione artistica italiana mentre in quello “milanese” si allude alla gretta mentalità “americana”. Ciononostante il regista evita (prudentemente) qualunque riferimento al conflitto in corso e pone il racconto in una fiabesca Venezia, quieta e atemporale. Se la prima parte offre qualche episodio di valore nel quale il regista conferma il proprio estro visivo e la capacità di usare l’arte del montaggio con efficaci intenti espressivi, molto presto il gioco si fa stucchevole a causa della monocorde e insistente tematica unica. Nel finale lieto i Bressan si salvano e anzi “convertono” l’industriale al loro universo di valori; così quest’ultimo si decide a rallentare il moto del proprio motoscafo e finalmente ad ammirare il Canal Grande e Rialto mentre la bella figlia (Anna Bianchi) dell’uomo d’affari abbandona uno sciocco industriale in erba per fidanzarsi con l’artista Bressan figlio (Gianni Cavalieri).

Nella sorridente fiaba l’antica cultura italica vince qui la propria battaglia con armi pacifiche, quasi “taoiste”; l’avversario aggressivo e spietato, ormai sul punto di sfrattare i due “gondolieri” veneziani dalla loro laguna dopo due secoli, cede e viene a patti. Al contrario nel mondo reale gli Alleati si preparano a condurre in modo del tutto differente il loro implacabile cammino di conquista sul suolo italiano, fino alla resa incondizionata della RSI e dello scellerato nazismo. Della scarsa sensibilità intorno alle creazioni artistiche e culturali della secolare storia della penisola hanno già dato un ottimo saggio attraverso il gratuito bombardamento a tappeto e la conseguente distruzione dell’Abbazia di Montecassino (15 febbraio 1944; circa 230 morti) avvenuto nonostante i ripetuti appelli del Vaticano a risparmiare il monastero in quanto patrimonio dell’intera Cristianità, nonché edificio ininfluente dal punto di vista delle operazioni militari.

Giorgio Ferroni, nato a Perugia nel 1908, accantona una carriera nella magistratura per dedicarsi al cinema a partire dagli anni trenta. Aiutante di Gennaro Righelli e documentarista al Luce esordisce nel lungometraggio di finzione solo negli anni quaranta, sempre alternando l’attività di regista a quella di autore di documentari.
Negli anni della Rsi si sposta a Venezia dove firma una pregevole versione di Senza famiglia (girata nel 1944, esce nelle sale nel gennaio 1946; 82 min.), il noto romanzo (1878) di Hector Malot, sceneggiato dallo stesso regista con Piero Tellini.
Vi si narra la prima parte (la seconda, girata congiuntamente, uscirà negli stessi giorni col titolo Ritorno al nido) delle lunghe e fantasiose disavventure del trovatello Remigio (Luciano De Ambrosis), cresciuto dai Barberin, una famiglia di modesti allevatori, poi affidato a Vitali (Erminio Spalla), un suonatore ambulante che si affeziona profondamente al piccolo, lo educa e ne fa una artista di strada. C’è poi l’incontro con la ricca signora Milligan (Bianca Doria) che tiene con sè Remigio come compagno di giochi di suo figlio malato, il ritorno alla strada con Vitali e il periodo di prigionia presso uno sfruttatore di minorenni (Giorgio Piamonti). In conclusione di questa prima parte Remigio si ricongiunge all’amato Vitali in prigione (nella seconda parte quest’ultimo muore e il piccolo finirà con lo scoprire nella signora Milligan la sua vera madre).
Gli autori fanno miracoli per ambientare tra le calli di Venezia una vicenda che, nell’originale, possiede un respiro “europeo” (la Milligan, nell’originale, è una gentile signora inglese, fatto improponibile nel cinevillaggio della RSI; inoltre la storia, ambientata in Francia, prevede un lungo episodio in Inghilterra; c’è infine Mattia un amico italiano di Remigio, suo compagno di sventure). Ciononostante l’abile Ferroni ottiene il massimo dai suoi pochi mezzi: fa recitare splendidamente i bambini e Vitali, offre spaccati di vita quotidiana improntati a un forte naturalismo e segnati da grande finezza visiva, organizza entro un ritmo incalzante i molti eventi, senza dimenticare di approfondire i caratteri. Ci sono momenti di vera poesia infantile soprattutto nell’episodio della prigionia dei ragazzi i quali - costretti a lavorare nelle fabbriche del vetro di Murano - vengono tenuti prigionieri di notte da un aguzzino sdentato e repellente. E’ durante una di queste lunghe notti che un amico di Remigio gli racconta il suo sogno: essere malato di tumore per poter finalmente venire internato in un ospedale, mangiare a letto e infine volare in cielo. E’, questa, una pagina di intensa poesia filmica.
Ennio Porrino, un valente compositore influenzato dal colorismo di Respighi, appronta un vivace e pungente commento sonoro basato su alcuni temi ricorrenti che si fanno notare e che rafforzano ora l’andamento scanzonato, ora il patetismo degli eventi.
La scelta di un soggetto che esalta gli umili e critica l’universo medio-alto borghese (c’è la figura spregevole di uno zio, interpretato da Elio Steiner, che vuole Remigio morto per assicurarsi un’ingente eredità di cui egli sarebbe l’ultimo beneficiario; c’è inoltre il cinico impiegato del notaio che porta via la mucca ai Barberin, lasciandoli in miseria) conferma la predilezione fascista per la gente semplice e la critica verso le tradizionali classi dirigenti capitalistiche con le quali - in particolare con il loro statico e guardingo conservatorismo - il regime ha sempre avuto un rapporto sostanzialmente conflittuale. Il cinevillaggio della Rsi insomma prosegue e anzi accentua la politica culturale del ventennio fascista.
La versione filmica di Ferroni del romanzo di Malot segue quella francese di Marc Allégret (1934) e precede sia quella di André Michel (1958, con Gino Cervi), sia quella libera e fantasiosa di Vittorio Gassman (Senza famiglia: nullatenenti cercano affetto, 1972; con Paolo Villaggio).