Per qualche dollaro in più, Per un dollaro di gloria, Deguejo, 7 pistole per i McGregor, Sugar Colt, Ringo del Nebraska, Sette dollari sul rosso, Mille dollari sul
nero, Tre colpi di winchester per Ringo, Django, Johnny Oro, Navajo Joe, Per il gusto di uccidere, Texas addio, Djurado, Ringo il volto della vendetta, Yankee, Arizona Colt, Starblack, Ringo e Gringo contro tutti, Per
qualche dollaro in meno e Uccidi o muori: delicati carillon e crudeltà gratuite (1965-66)
Negli ultimi giorni di dicembre (1965) esce l’attesissimo secondo western di Sergio Leone, Per qualche dollaro in più (125 min.), sceneggiato dal regista con
Luciano Vincenzoni e Sergio Donati. La colonna sonora, fondamentale come nel precedente film, è sempre di Morricone mentre i due attori principali ripetono sostanzialmente gli stessi ruoli. Direttore della fotografia è sempre
Massimo Dallamano mentre aiuto regista è Tonino Valerii. Clint Eastwood è ora il Monco, un cinico bounty killer mentre Gian Maria Volontè carica ancor più il suo personaggio facendo dell’Indio un capobanda messicano drogato
e doppiogiochista. A questi due viene aggiunto un terzo polo della narrazione rappresentato da un bounty killer più anziano, il colonnello Douglas Mortimer (Lee Van Cleef), il quale dà la caccia all’Indio per antichi rancori
personali (l’Indio ha tentato di violentare sua sorella la quale ha preferito suicidarsi). Il cuore della narrazione è costituito dalla rapina alla banca di El Paso cui segue una subdola lotta tra l’Indio (che vuole tenersi
l’intero bottino) e l’intera sua banda mentre i due bounty killer, infiltratisi tra i rapinatori, sono in agguato. Nel finale sistematica eliminazione dei banditi e duello decisivo tra Mortimer e l’Indio, scandito dalle
sonorità di un carillon. Come nel caso di Per un pugno di dollari, l’intreccio è ordinario mentre lo stile, ancora ispirato alle strutture narrative e agli impasti di azione e musica del teatro lirico, è sontuoso e
ammirevole. Leone perfeziona il suo straordinario vocabolario narrativo, sempre coadiuvato da un Morricone in stato di grazia e da una perfetta schiera di attori e caratteristi. Non solo il solenne Eastwood e il tormentato,
animalesco Volontè sono inarrivabili; anche la nuova scoperta di Lee Van Cleef (un altro caratterista del cinema hollywoodiano, scoperto e trasformato in grande protagonista dal regista romano) è sorprendente come pure la
scelta di validi maschere (all’interno della banda dell’Indio) come quelle di Klaus Kinski e di Luigi Pistilli. Una sinfonia di volti indimenticabili viene coniugata con un concerto di suoni di intensa seduzione. Morricone
prepara essenzialmente tre motivi con i quali animare le trame visive di Leone. Uno esordisce sui titoli di testa ed è l’evidente prosecuzione di quello che apriva Per un pugno di dollari. Si tratta di una vera e propria
ouverture basata su un tema che apre con l’immancabile, spavalda quarta ascendente (intervallo chiave nel la colonna sonora del 1964, spesso imitata nel film del filone) ed evolve secondo una linea tendenzialmente discendente,
circondata dalle sonorita oramai non più inconsuete di scacciapensieri, fischi, borbottii e cori maschili. Questo tema si riascolta in numerosi momenti del racconto, soprattutte nelle sequenze d’azione (ad esempio
l’evasione dell’amico dell’Indio). Dopo l’ “ouverture”, il regista decide di presentare i propri personaggi ordinatamente, come si trattasse dell’entrata in scena dei principali cantanti di un’opera lirica ottocentesca.
Ognuno dei tre viene descritto con una microstoria che culmina con un omicidio durante la quale il carattere del personaggio viene perfettamente enucleato. Sono, insomma, le “arie di presentazione” del teatro lirico divenute
roboanti sequenze sonore giocate oltre che sul commento musicale (per la verità abbastanza contenuto in questo inizio e spesso limitato a piccoli incisi ironici, quasi umoristici, volti a sottolineare l’ineffabile abilità dei
tre protagonisti), anche su icastiche battute di dialogo che – giostrate in una serie di abili rimandi - funzionano come i motti musicali nel discorso operistico. Presentati i tre protagonisti iniziano i “duetti”:
dapprima quello ironico (quasi da opera buffa) tra il Monco e Mortimer i quali si pavoneggiano in un duello virtuale, osservati da un gruppo di ragazzini. Leone sottolinea in questa sequenza il carattere onirico, infantile (la
presenza dei bambini che raddoppia quella degli spettatori) e teatrale del suo racconto, con quei due pistoleri che si affrontano pestandosi i piedi e sparando ai propri rispettivi cappelli. Poi giunge il “duetto” drammatico
tra il Monco e l’Indio all’interno di un duello anche qui solo accennato, sebbene riccamente “corroborato” dal solito tema morriconiano: siamo di fronte a uno splendida invenzione lirica con tipica dilatazione degli eventi e
accurato studio di mimiche e dettagli. Si noti che la banda dell’Indio – sorta di pubblico ideale in questa sequenza - staziona in una vecchia chiesa sconsacrata, scenografia quanto mai baroca e in sintonia con il gusto del
teatro d’opera. Al centro si colloca invece il blocco delle sequenze relative alla rapina di El Paso che costituiscono una sorta di Finale primo: il favoloro “duetto buffo” tra Mortimer e il gobbo al saloon (accensione del
cerino sulla gobba del bandito), i “concertati” inerenti allo studio della banca (i ripetuti conteggi per stabilire il tempo impiegato dalle guardie a percorrere il perimetro dello stabile) e la grande scena della rapina.
In questa ideale conclusione del primo atto Morricone inserisce una seconda idea musicale più distesa e solenne, basata su una quinta ascendente (modellata comunque sul tema d’apertura della “ouverture”), affidata a una
voce femminile e scandita dal ricorrente ritmo anapestico. Essa viene esposta ora in versione lenta, ora in versione accelerata. Tale efficace idea sonora accompagna innanzitutto l’intero, ampio episodio di El Paso
e ritorna poi in alcune sequenze successive come per l’entrata del Monco ad Agua Caliente. Il secondo atto incomincia con il rientro del Monco nella banda dell’Indio (dopo la presunta azione diversiva in una cittadina non
lontana da El Paso) e relativo “duetto” nel quale il capobanda finge di credere alla versione fornita dall’americano. Poi, nel paese messicano di Agua Caliente un nuovo “duetto” dei bounty killers (potremmo definirlo
duetto delle mele) e soprattutto l’eclatante secondo “duetto” tra Mortimer e il gobbo con duello decisivo. Il gioco musicale dei rimandi tematici e dei Leitmotive si ritrova ora nei gesti e nei dialoghi: la situazione di
El Paso (Mortimer che provoca il gobbo) si ripete ora, rovesciata, in un differente contesto e con diverso esito. Ci si avvia al caotico Finale secondo, dapprima girotondo intorno al bottino, poi grande scena conclusiva di
vendetta. La coppia di bounty killer, accompagnati dal tema principale (“l’ouverture”), elimina progressivamente l’intera banda in un vivace concertato che approda al grande “terzetto” finale nel quale tutti gli interrogativi e
le tensioni trovano uno scioglimento. Più di una volta Leone ha inserito un flashback piuttosto enigmatico intorno a un carillon e a uno stupro commesso dall’Indio: tale inserto si è fatto via via più completo (la stessa
tecnica verrà perfezionata dal regista nel successivo C’era una volta il West, 1968, e verrà anche utilizzata da Dario Argento nel suo misterioso sogno arabo de Quattro mosche di velluto grigio, 1971) e solo ora comprendiamo che la donna era la sorella di Mortimer. Dunque il catrillon diventa elemento centrale e il suo motivo - finora solo accennato – funge da introduzione all’entrata in scena del tema musicale più bello del film, che - secondo una tecnica insolita per il cinema ma frequente nell’universo melodrammatico – Leone ha tenuto in serbo per questa scena finale (l’aveva utilizzato in precedenza in una situazione secondaria – il duello dell’Indio con un traditore - affidandolo però all’organo). Si tratta di un motivo ampio e solenne, giocato ancora sull’intervallo di quinta (vedi motivo del Finale primo a El Paso) e affidato al lussureggiante timbro della tromba che lo sviluppa in un crescendo di tensione che raddoppia quella dello schermo.
L’epico duello dunque esordisce come un duetto tra Mortimer (in difficoltà) e l’Indio, commentato dal suddetto motivo musicale per “carillon solo” e dimesso accompagnamento orchestrale. Quando la sequenza pare giunta al
proprio apice, a sorpresa si inserisce un secondo carillon – sfasato rispetto al primo – e, senza soluzione di continuità (come accade spesso nei finali d’atto operistici), il duetto si fa terzetto (entra in scena il Monco):
dopo poche memorabili battute di un dialogo, che è esso stesso “musicale”, esplode il grande motivo finale di cui si è detto, al quale spetta il compito di condurre il film verso il sospirato climax (la morte dell’Indio). Per qualche dollaro in più, opera
ammirevole in ogni sua parte, perfeziona la poetica del western melodramma, già vincente in Per un pugno di dollari. Per quanto riguarda la visione del mondo che traspare dal secondo western leoniano c’è poco da
aggiungere a quanto detto commentanto il precedente film: la legge è assente (gli sceriffi si limitano ad erogare i soldi delle taglie) e questo universo immaginario, selvaggio e infantile al tempo stesso, risulta
esclusivamente regolato dalla forza. Gli uomini vi appaiono in perenne e spietata lotta e si dividono in protagonisti e comparse, semplicemente in relazione alla propria abilità nel duellare, nel raggirare e nell’uccidere i
propri aversari. Il duello – molto più che nel film precedente – vi compare come l’unico elemento regolatore la cui funzione èquella di dirimere la questione del comando. Ciò che Kubrick ci dirà in modo sistematico con il
magnifico Barry Lyndon (1975; il cui magisrale duello conclusivo tra il protagonista e il figliastro appare influenzato dallo stile del regista italiano) è già compiutamente presente in questo capolavoro di Sergio Leone.
Come noto il secondo western del regista romano è un successo colossale in Italia, in Europa e –nell’estate 1967 – negli Usa. Ciononostante la critica italiana stenta a comprendere la portata del fenomeno e l’importanza del
film per i motivi già segnalati parlando di Per un pugno di dollari.
Fernando Cerchio, veterano dei peplum e dei film di Totò, gira negli anni sessanta un’unica pellicola western ovvero Per un dollaro di gloria
(gennaio 1966; 94 min.), film il quale – a parte l’insensato titolo – non possiede alcun punto in comune con la saga degli infallibili pistoleri inaugurata dal binomio Leone- Eastwood. Sebbene goda di pessima stampa, il film – derivato dalla grande tradizione americana e basato su una sceneggiatura scritta dal regista con Ugo Liberatore - è pregevole, maturo, ben recitato, a tratti suggestivo.
1864: zona di confine col Messico. Nel fortino Sharp, dimenticato da tutti, il paranoico colonnello Lennox (Broderik Crawford, ottimo protagonista del Bidone felliniano) ha deciso di resistere contro tutto e contri tutti. Assediato da un numero imprecisato di indiano Navahos, guidati di Wichita, combatte la sua battaglia aiutato da una pattuglia di soldati francesi, guidati dal capitano Clermont (Mario Valdemarin) che, per errore, hanno sconfinato dal Messico. Le donne e i bambini del forte sono stati fatti allontanare nella speranza di salvarli e invece sono stati massacrati dai Navaho.
In un crescendo di eventi laceranti (la notizia della strage dei familiari) e di insanabili contrasti, si arriva alla aperta ribellione nei confronti del colonnello: Clermont prende il comando, abbandona il forte e guida i
superstiti verso la salvezza. Racconto, come si vede, privo di qualunque relazione con il cosiddetti “spaghetti western”, Per un dollaro di gloria possiede tutte le caratteristiche dell’onesto e maturo artigianato di Cerchio. Il racconto possiede una perfetta costruzione intorno alla situazione chiave del forte assediato: l’incubo di una morte atroce viene continuamente sottolineata dagli ossessivi tamburi dei Navahos come pure dalle inattese incursioni notturne dentro al forte da parte di indiani travestiti. Il colonnello invece possiede gli ambigui caratteri dell’ostinazione eroica che sconfina nella follia solitaria e nella paranoia le quali rinchiudono il personaggio in un isolamento doloroso che ne ingigantisce il profilo. L’universo dei soldati sudisti e francesi è descritto con una folla di caratteristi dai tratti espressivi e credibili, gente apparentemente cordiale che però non esita – appena saputo del massacro dei propri familiari - a linciare una povera, incolpevole indiana presente nel forte Sharp.
Girato con uno stile sobrio ed essenziale, Per un dollaro di gloria, senza essere un capolavoro, è tuttavia una pellicola capace di far rivivere l’epopea storica americana con una buona dose di realismo.
Giuseppe Vari esordisce nel western con il modesto Deguejo (feb. 1966; 100 min; il titolo non è il nome dell’ennesimo pistolero ma significa massacro o marcia
di morte) in cui guarda più ai modelli americani che al recente, innovativo stile leoniano. Vi si narrano le peripezie di un gruppo di avventurieri (tra cui Giacomo Rossi Stuart e Riccardo Garrone) che finiscono con il
difendere un martoriato villaggio, popolato di sole donne, dagli attacchi del perfido Ramon (Dan Vadis) e della sua banda messicana. I buoni vinceranno. Raccontato con un ritmo troppo lento, recitato in modo approssimativo,
privo di inquadrature degne di nota e commentato da musiche tardoromantiche (figurano addirittura citazioni da sinfonie ottocentesche), la pellicola guarda soprattutto a I magnifici sette (Sturges, 1960). La noia regna
sovrana. Gli incassi furono discreti.
Un gruppo di collaboratori di Per un pugno di dollari gira in Spagna, nell’estate 1965, un western destinato ad avere notevole fortuna commerciale:
7 pistole per i McGregor (febbraio 1966; 95 min.). Il regista è l’esordiente Franco Giraldi (si firma Frank Garfield), già regista della seconda unità di Leone nel film con Eastwood, gli sceneggiatori sono Fernando Di Leo e
Duccio Tessari (con altri), il musicista è Morricone e la produzione è in parte di quella Jolly Film che aveva finanziato il capostipite del genere. Il risultato è però scadente, a riprova del fatto che il merito del successo
di Per un pugno di dollari è da ascriversi unicamente al talento registico di Sergio Leone. La vicenda è ancora una fotocopia sbiadita del film leoniano: i fratelli McGregor lottano contro una banda di criminali
messicani capitanata da Santillana (Leo Anchoriz) in cui milita anche Miguel (il solito Fernando Sancho). Gregor McGregor (Robert Woods) si infiltra nella banda, ne sabota le iniziative, viene scoperto, pestato, fugge e, con
l’aiuto di fratelli e genitori, ha la meglio sui messicani. L’errore – assai frequente, come si è visto, nella produzione del periodo - consiste nell’indecisione tra farsa e film truculento. La prima metà possiede i toni
addirittura della satira; poi l’entrata in scena di Santillana vira il film verso toni sadico –cruenti che si alternano con quelli di commedia. Né gli uni, né gli altri riescono convincenti e generano – di fatto - il solito
prodotto schizofrenico, mal recitato e dotato di dialoghi e situazioni scontati fino alla noia. Unici momenti relativamente godibili sono la sequenza della rapina al treno e il duello finale, basato sui soli pugni, di
McGregor e Santillana, tra le pale di un piccolo mulino. La musica di Morricone è dignitosa ma sprecata. Il pubblico tuttavia sembra apprezzare, cosicché viene preparato in gran fretta il seguito 7 donne per i McGregor.
Al contrario il successivo film di Giraldi, Sugar Colt (ottobre 1966; 100 min.), basato su una sceneggiatura di Fernando Di Leo, è un lavoro pregevole e
originale, uno dei migliori western di quell’annata ed ottiene, infatti, un buon successo popolare (anche se inferiore a quello del film sui McGregor). La storia dal taglio quasi poliziesco, gli attori di buon livello e
l’uso della musica secondo il modello leoniano creano un’opera piacevole, a tratti divertente (l’uso dell’ironia è in questo caso ben calibrata e peraltro non confligge con eccessi truculenti), a tratti suggestiva e perfino
lirica. Sugar Colt (il perfetto Hunt Powers, come Eastwood un attore di serial americani al suo esordio cinematografico) viene incaricato dall’amico Pinkerton di dirimere una complicata matassa: un battaglione di cento
soldati è misteriosamente scomparso nei pressi di Snake Valley e le autorità hanno da tempo smesso di indagare. Il nostro infallibile pistolero, assunte le sembianze di un inoffensivo medico, si reca nel temibile, sperduto
villaggio dove viene minacciato e irriso dai soliti brutti ceffi che vi spadroneggiano. Non gli ci vuol molto a comprendere che quasi tutti nascondono qualcosa e così, dopo essere scampato a numerosi attentati, scopre la pista
giusta che lo porta nella fattoria del potente Havelbrook (Giuliano Raffaelli) nel cui sotterraneo vengono tenuti prigionieri i soldati. Nel concitato finale il nostro detective riesce a farli fuggire e, insieme a loro,
stermina la banda di criminali. Come si nota la vicenda è un po’ differente dal solito come pure originale è la figura del protagonista, un pistolero dal fisico smilzo e dallo sguardo sempre arguto e ironico. Oltre a questa
simpatica figura, il film viene impreziosito da un abilissimo uso di un tema di fanfare, composto da Bacalov, il quale irrompe come “da lontano”, incutendo un certo terrore ai malviventi del villaggio (esso ovviamente evoca il
ricordo dei numerosi soldati uccisi e di quelli sequestrati) ed aprendo una serie di squarci lirici di matrice leoniana durante i quali l’azione si ferma su inquadrature ben composte e innervate da un sottile tensione emotiva.
La funzione poetico-espressiva di questa fanfara è, in fondo, una riformulazione del carillon di Per qualche dollaro in più: in entrambi i casi una suggestiva componente musicale compare in maniera intermittente,
sospende gli eventi e acuisce il carattere enigmatico dell’intreccio. Anche la qualità delle inquadrature è sempre curata e non mancano eleganti movimenti di macchina. Insomma appare evidente il tentativo di creare uno
spettacolo “alto”, nel quale rimodulare, con misurato equilibrio, le principali caratteristiche della poetica di Sergio Leone: ironia e lirismo.
Antonio Romàn, un veterano della cinematografia spagnola (attivo dagli anni trenta) dirige Ringo del Nebraska (marzo 1966; 90 min), una fiacca imitazione
leoniana di cui firma anche la sceneggiatura. E’ il suo penutlimo film. Sul set lo aiuta Mario Bava, che figura come coregista. Ringo (l’americano Ken Clark) è il solito cavaliere solitario che giunge in una ricca fattoria
dove la piacente Kay (Yvonne Bastien, moglie di Romàn) è ai ferri corti col marito Marty (Alfonso Rojas). Il nuovo arrivato viene assunto come collaboratore e soprattutto pistolero poiché la banda di Peter Carter (Piero Lulli)
perseguita la coppia. Si susseguono sparatorie e misteriosi delitti (più adatti a un contesto poliziesco urbano che alle praterie spagnole) prima del regolamento di conti finali: muoiono quasi tutti. Nelle ultime immagini il
nostro eroe si allontana sotto gli occhi dispiaciuti della sopravvissuta Kay. Dello stile di Leone c’è giusto la fischiettante colonna sonora di Nino Oliviero con piacevole tema spagnoleggiante affidato per lo più alla
tromba e il personaggio del pistolero senza storia. Per il resto la narrazione si trascina senza meriti e senza ecessivi demeriti, indugiando non poco sul melò familiare (il triangolo marito brutale – moglie insoddisfatta –
impiegato aitante in landa semideserta ricorda quello celebre del Postino suona sempre due volte di James Cain, come si sa molto frequentato dai cineasti). L’ordinata e anonima scrittura filmica evita, purtroppo, sia
la dilatazione enfatica, sia la leggerezza ironica.
Il regista genovese Alberto Cardone firma Sette dollari sul rosso
(marzo 1966; 95 min.), suo quinto lungometraggio nonché primo tentativo entro le coordinate del western italiano. La pellicola, basata su una sceneggiatura di Melchiade Coletti, Arnaldo Francolini e altri, propone il solito intreccio animato da propositi di fiera e giustificata vendetta.
Johnny Ashley (Anthony Steffen) torna a casa e ritrova la moglie massacrata e il figlioletto Jerry rapito. Per lungo tempo cerca invano i colpevoli. Una ventina di anni dopo, tornato al punto di partenza, incontra
finalmente la banda del sadico Sciacallo (il solito Fernando Sancho, con enorme sombrero nero), scopre che sta preparando una rapina alla banca e ne organizza l’eliminazione. Nel duello finale, in un clima di tregenda, sotto la
pioggia e nel fango, affronta Jerry (Roberto Miali), il figliastro dello Sciacallo, divenuto un bandito ancor più spietato del suo patrigno e, soprattutto, ignaro di avere di fronte il suo vero padre. La sospirata e
sconvolgente agnizione conclusiva avviene nel sangue. L’intreccio di Cardone riprende le due linee principali di Per qualche dollaro in più (la vendetta e l’assalto alla banca) e, sebbene l’autore abbia a disposizione
attori poco incisivi (con l’eccezione di Fernando Sancho), riesce a mettere a fuoco un capitolo conclusivo di buona efficacia e, soprattutto, memore del clima del melodramma, tra laceranti intrecci familiari e colpi di scena di
notevole crudeltà. Il film gira a vuoto per un’ora, con il giustiziere Jerry che vagabonda di villaggio in villaggio, compiendo inutili e sconnesse prodezze. Poi, rientrato nel suo paese, si scontra più volte con Jerry (senza
sapere di chi si tratta) mentre quest’ultimo seduce e poi ammazza -
in una sequenza di efficace durezza, non priva di un proprio sommesso lirismo - una giovane del saloon, colpevole di avere scoperto le trame criminose della banda dello Sciacallo. A partire dall’uccisione della indifesa e ingenua ragazza, che invano fugge su un calesse, le situazioni si fanno estreme come in un melodramma (in tal senso il film di Cardone recupera, almeno in parte, lo spirito degli “originali” leoniani) e sfociano nel decisivo duello tra padre e figlio, con Johnny che tenta, senza riuscirci, di stabilire un rapporto con il canagliesco Jerry, figlio finalmente ritrovato e subito perduto (il giovane non sopravvive allo scontro).
Sette dollari sul rosso è uno dei pochi western del periodo a non avere un lieto fine e a terminare in un clima di opprimente desolazione. Anche per questa coraggiosa scelta, come pure per l’utilizzo dell’agnizione
nel momento apicale del racconto (espediente classico della tradizione operistica), il film sembra ispirarsi al tipico finale tragico che animava il teatro lirico romantico. Peccato che il commento musicale (di Francesco De
Masi, con chitarra elettrica, fisarmonica e tromba in bella evidenza) passi inosservato e non riesca a contribuire in modo significativo al discorso filmico. Il notevole successo commerciale riportato dal film
convince Cardone a proseguire sulla stessa strada con Mille dollari sul nero (dicembre 1966; 105 min.), una variante fin troppo scoperta del film precedente. Anziché padre e figlio, questa volta si scontrano due
fratelli, il leale e assennato Johnny (sempre Anthony Steffen) e il perfido Sartana (John Garko; il nome Sartana, destinato a divenire ricorrente, compare qui per la prima volta). Quest’ultimo mette a ferro e fuoco i paesini
della regione, ammazza e rapisce a piacimento, segretamente appoggiato da un insospettabile e rispettato giudice. Con Johnny lo scontro è costante e termina – dopo le prevebili disavventure (tra cui l’immancabile cattura e
pestaggio dell’eroe) - con la morte del criminale e di tutta la sua banda. Le limitate qualità di Sette dollari sul rosso si perdono completamente in questo scadente sequel nel quale Cardone allinea, in modo
stucchevole, sparatorie, violenze gratuite e pestaggi senza curare minimamente la struttura drammatica della narrazione. La saturazione è quasi immediata. Gli arabeschi della solita tromba e i tentativi di inserire elementi
melodrammatici e perfino gotici (la madre dei due fratelli sempre nerovestita e sola in una dimora lussuosa e decadente) appaiono artefatti e finiscono col rendere la ridondante narrazione ancor più indigesta.
Poco da dire anche su Tre colpi di winchester per Ringo (marzo 1966, 90 min.) nel quale Emimmo Salvi, giunto al suo settimo film e al suo primo western,
racconta l’usurata contrapposizione tra l’onesto Ringo (Mickey Hargitay) e lo spietato banchiere Daniels (Ivano Staccioli) che controlla sia la città, sia lo sceriffo Frank (Gordon Mitchell), un tempo amico di Ringo. Per metà
della pellicola il protagonista è cieco (o si finge tale) mentre nel finale, riacquistata a sorpresa la vista, mette in atto la prevedibile strage. Le sequenze d’azione sono scadenti anche perché il regista sembra
spesso indeciso tra violenza e umorismo, la struttura narrativa è priva di interesse, l’ambientazione è anonima (il film è stato girato nel Lazio) e i personaggi sono schematicamente divisi in buoni e cattivi (assente dunque il
cinismo innovativo del cinema di Leone). Di contro esiste una sottostoria melodrammatica, riguardante il triangolo amoroso Ringo – Frank - Jane (Milla Sannoner; moglie del protagonista, inutilmente desiderata dal rivale) che
appare decisamente più riuscita, accesa, coloratissima e neobarocca che sfocia nella delirante sequenza finale in cui la donna, presa in ostaggio, è stata appesa a cinquanta metri d’altezza dai banditi (l’effetto sorpresa può
ricordare quello dell’entrata in scena di Sordi a un’altezza vertiginosa e fantastica ne Lo sceicco bianco; Salvi è stato ispettore di produzione per Le notti di Cabiria…) e viene salvata da Ringo, costretto a
rientrare in città (secondo l’inossidabile modello di Per un pugno di dollari).
Sergio Corbucci, uno dei collaboratori alla sceneggiatura di Per un pugno di dollari, firma con Django (aprile 1966; 90 min.) una scadente imitazione del
film leoniano; alla pellicola, girata in Spagna, ha lavorato un esercito di sceneggiatori (tra gli altri Bruno Corbucci e Piero Vivarelli). Nel ruolo di Eastwood c’è ora il nerovestito Franco Nero, un reduce nordista il
quale vaga a piedi per le sterminate distese americane del sud, trascinandosi dietro una bara. Nel solito paesino (insolitamente fangoso) al confine col Messico – dove si affrontano la banda messicana di Rodriguez (José Bodalo)
e quella americana dell’ex maggiore sudista Jackson (Eduardo Fajardo) - il nostro eroe massacra quasi completamente la prima grazie a un mitragliatore che tiene nascosto nella cassa da morto. Poi si unisce ai messicani,
cerca di rubare loro il furto di una rapina, viene scoperto, massacrato di botte, si riprende e riesce lo stesso a fare piazza pulita. Corbucci riprende il solito logoro canone narrativo, scopre il talento di Franco Nero
(al suo primo ruolo di protagonista), infarcisce la noiosa pellicola di crudeltà degne d un film dell’orrore e rischia spesso il comico involontario (con quella ridicola bara trascinata di qua e di là). Dimostra di essere uno
dei pochi registi in grado di dilatare una sequenza con effetti lirico – leoniani, ma si tratta di episodi appena accennati in quanto Corbucci non osa avviarsi verso quel tipo di stilizzazione e preferisce la solita routine
delle scazzottate e dei massacri a ripetizione (anche questi a un passo al ridicolo, con un uomo solo che ammazza decine di “idioti”; spesso con un paio di colpi ne stende cinque o sei…). Attori tutti ordinari, con l’eccezione
di Franco Nero. Qualche dubbio sulla qualità del film lo ebbe lo stesso regisa il quale dichiarava che “ a metà della lavorazione volevo abbandonarlo perché ero convinto che… stessi facendo una boiata… Vedevo come una grossa
frescaccia la scena di questa bara trascinata per la strada, avrei giurato che la gente l’avrebbe presa a pernacchie”. Al contrario – soprattutto grazie alle scene truculente – il film ottiene un enorme sucesso e diviene,
nel tempo, oggetto di culto anche se non troverà distribuzione negli Usa e in Gran Bretagna, se non molti anni dopo. In particolare la sequenza dell’orecchio tagliato da Rodriguez a un americano ispirerà il ben noto episodio
presente ne Le iene (Tarantino, 1992). Inutile ricordare che, negli anni successivi, il nome Django tornerà in numerosi altri titoli. Ancor più insignificante è Johnny Oro
(luglio 1966; 90min.) che Corbucci inizia a girare prima di Django e che termina dopo. Nella sceneggiatura di Bolzoni e Ferretti si racconta del bounty killer Johnny Oro (Mark Damon, opaco clone dell’Eastwood di Per qualche dollaro in più)
che prima dà la caccia ai fratelli Peres e poi – dopo averne ammazzato uno - da cacciatore diviene preda: la banda messicana sconfina negli Usa, si allea con un branco di indiani arrabbiatissimi e mette a ferro e fuoco
Coldstone, la cittadina dove Johnny Oro viene tenuto in carcere dal ferreo e noiosissimo sceriffo (Ettore Manni, improbabile imitazione del Gary Cooper di Mezzogiorno di fuoco). Strage finale e vittoria dell’eroe.
Scadente ad ogni livello, il film è fiacco e tira in lungo tra canzoni al saloon e macchiette poco riuscite. Il colmo del ridicolo si raggiunge allorché la famiglia dello sceriffo – per “salvare” il figliolo di circa dieci anni
– lo allontana dal villaggio spedendolo a cavallo, solo soletto, in bocca agli indiani. A rendere più noioso l’insieme va detto che il protagonista passa un terzo del film in galera. Anche Johnny Oro ottenne un inspiegabile successo popolare.
Il terzo western firmato in quell’anno dal regista, Navajo Joe
(nov. 1966; 90 min.), sebbene sia il meno conosciuto è però il migliore, pur rimanendo un prodotto di consumo confezionato alla svelta e senza speciali cure. Il soggetto è di Ugo Pirro mentre la sceneggiatura è firmata da Fernando Di Leo e Piero Regnoli.
Vi si narrano le peripezie dell’indiano Navajo Joe (Burt Reynolds, come Eastwood noto attore televisivo negli Usa, qui al suo terzo film) il quale si ritrova la moglie massacrata dal sadico capobanda Duncan (Aldo Sambrell),
ne segue le tracce, gli sabota la rapina ad un treno, gli massacra la banda ed infine lo ammazza. Nel duello conclusivo, tuttavia, ci rimette la penne. La pellicola, pur seguendo percorsi arcinoti - il tema della vendetta,
la grande rapina situata nella parte centrale, la cattura dell’eroe, il suo pestaggio, la sua “rinascita” - percorsi ripresi dal recente Per qualche dollaro in più, li riformula con una certa originalità sia per
l’inserimento della figura di un indiano, sia per la creazione di inattese figure secondarie (le vivaci ballerine del saloon, la meticcia Nicoletta Machiavelli, il medico - ovvero Pierre Cressoy - complice dei criminali che
uccide una testimone mentre finge di operarla per salvarle la vita), sia per l’utilizzo di una originale colonna sonora morriconiana (che però si firma Leo Nichols) impostata su un efficace refrain affidato ora alla chitarra
elettrica, ora al pianoforte abbinato a vocalizzi (refrain ripreso da Tarantino in Kill Bill vol. 2) e soprattutto su una canzoncina dai toni beffardi e sovraccarichi, impostata su un ostinato ritmico. Anche la morte del
protagonista nelle ultime inquadrature costituisce una svolta narrativa inusuale. A causa delle sequenze di notevole violenza il film venne proibito ai minori di 18 anni, divieto raro in un genere filmico destinato,
all’epoca, anche ad una vasta platea di adolescenti. Gli incassi furono appena discreti.
Un evidente clone del secondo western leoniano è Per il gusto di uccidere
(giu. 1966; 90 min.), opera prima di Tonino Valerii. Lanky Fellow (Craig Hill) è un bounty killer ritagliato sul consueto modello di Eastwood che dà la caccia alla banda criminale di Kennebeck (George Martin). C’è di mezzo una banca (identica a quella di Per qualche dollaro in più)
oggetto del desiderio dei malavitosi, la quale è però stata svuotata preventivamente dal furbo Fellow e trasformata in una gigantesca trappola. Dopo le sparatorie di prammatica si giunge al classico duello nella main road con l’inevitabile vittoria del protagonista.
La pellicola, sebbene priva di qualunque originalità, scorre piacevole grazie al buon livello degli interpreti e alla scelta di un ritmo narrativo spedito e ricco di eventi (ci sono ben due rapimenti, uno messo in atto dai
banditi ed uno dai loro avversari). L’unica novità di rilievo è che questa volta viene pestato a sangue non il bounty killer, bensì il braccio destro cinese (George Wang) di Kennebeck, al fine di farlo confessare: buoni e
cattivi adottano gli stessi metodi amorali e si confondono nel cinema di Valerii, autore perfettamente in sintonia con il nichilismo di Sergio Leone. Gli incassi furono discreti.
Lo strepitoso successo di Django obbliga Franco Nero a ripetersi in Texas addio (agosto 1966; 90 min.) pellicola girata con un cast simile a quello del film di
Corbucci ma affidato dalla produzione alla regia di Ferdinando Baldi, al suo esordio in ambito western. Il film, sceneggiato da Franco Rossetti e dal regista, non offre alcuna novità di rilievo. Come in Per qualche dollaro in più una
coppia di pistoleri - Burt Sullivan (Franco Nero, doppiato da EnricoMaria Salerno, per avvicinarsi il più possibile al modello Eastwood) e suo fratello Jim (Alberto Dell’Acqua) – danno la caccia a un malvivente per motivi di
vendetta (non mancano la foto ricordo, il carillon e il flashback sugli eventi passati). Essi lasciano il Texas e arrivano in un paesino messicano dominato da Cisco Delgado (José Suarez), potente e spietato criminale, nonché
assassino del padre di Burt. Sparatorie, crudeltà inutili (nello stile di Django) e perfino una piccola rivoluzione messicana guidata da un avvocato (Luigi Pistilli) conducono alla solita strage che culmina nel duello
tra il buono e il cattivo. Texas addio è un western scontato che tuttavia riscosse un enorme successo di cassetta; al suo attivo c’è solamente la magnifica fotografia dai toni caldi di Enzo Barboni e qualche
inquadratura dalla composizione accurata.
Ai livelli più bassi si colloca invece Djurado (agosto 1966; 80 min.) diretto dall’esordiente Silvio Narzisi e girato con un cast modesto in cui spiccano però
Scilla Gabel e la giovane Margaret Lee. L’intreccio contrappone il pistolero Djurado (Montgomery Clark) - il cui nome riecheggia volutamente quello di Django - all’ignobile Duncan (Luis Induni) che spadroneggia nel paesello
messicano. Il protagonista si fa aiutare dalla tenutaria del saloon. La strana coppia avrà ovviamente la meglio. Le sparatorie si alternano alle partite a poker e ai numeri di rivista. La recitazione è fiacca, la storia
inesistente, la fotografia spenta; anche la musica è di routine mentre le inquadrature appaiono degne di un telefilm. Un prodotto da dimenticare.
Mediocre risulta anche il terzo western di Mario Caiano, Ringo il volto della vendetta (ago 1966; 90 min,) che, come il precedente Una bara per lo sceriffo (1965;
vedi), affida il ruolo principale ad Anthony Steffen. Vi si raccontano le gesta di quattro avventurieri alla ricerca di un tesoro: alcuni posseggono la prima parte della mappa che porta al nascondiglio dell’oro, altri la
seconda. Il percorso è lungo e accidentato: solo il nostro taciturno eroe (A. Steffen) sopravvive e con gesto sprezzante regala il malloppo alla popolazione misera di un paesino messicano. La pellicola procede in modo
fiacco, allineando episodi ripetitivi (il quartetto viene assalito più volte da piccole folle di aggressivi pistoleri, segretamente manovrate ora dall’uno o dall’altro dei protagonisti) che non destano mai la minima sorpresa;
numerose sono poi le trappole che i quattro compari si tendono a vicenda, nel finale con esiti mortali. Anche gli attori, senza infamia e senza lode (uno dei quattro è Frank Wolff in un ruolo alquanto subdolo), non riescono a
rendere interessante il racconto mentre le sfavillanti musiche di De Masi ripetono i soliti stereotipi morriconiani. L’unico elemento di reale interesse è costituito dalla centralità della citata mappa divisa in due parti,
evidente anticipazione dell’elemento chiave della narrazione epica de Il buono, il brutto, il cattivo.
Tinto Brass, dopo due interessanti commedie di taglio anarchico (Chi si ferma è perduto; Il disco volante; vedi) si cimenta nel western con Yankee (ago
1966; 90 min), genere per il quale mostra di non avere alcuna inclinazione, firmando uno dei peggiori cloni del cinema di Leone. Il regista litigherà anche con la produzione e finirà (si dice) col disconoscere il prodotto
finito. Sui quotidiani dell’epoca, tuttavia, Yankee viene recensito come un “film di Tinto Brass” e come tale appare anche sulla moderna copertina dell’edizione in dvd. La vicenda, priva di qualunque originalità,
contrappone il pistolero-bounty killer chiamato Yankee o l’americano (Philippe Leroy) e il sadico capobanda messicano detto il Grande Concho (Adolfo Celi). Con stratagemmi puerili il nostro eroe, il quale viene ovviamente anche
catturato e torturato dall’antagonista, riesce a sterminare l’intera banda criminale. Brass appare del tutto disinteressato al racconto western, ai suoi paesaggi e alle sue figure tipiche, e ne propone una sorta di
caricatura pop di sapore fumettistico (come farà l’anno successivo con l’altrettanto scadente Col cuore in gola, ispirato questa volta al giallo psicologico; vedi) che non interessa nessuno. Il fumetto è quanto di più lontano dal cinema, di cui non possiede i tempi morti e le ampie durate; al contrario il tentativo di Brass naufraga in lunghe tediose cavalcate, successioni stucchevoli di primi e primissimi piani in cui si perde il senso dello spazio e dello scenario e dialoghi inascoltabili senza che tutto ciò venga compensato da immagini di una qualche bellezza o originalità. Se ne deduce che è inutile lavorare su una materia - quella dell’avventura western - se non si possiede talento per quel genere e se ne vuole fare una vacua caricatura intellettuale; quest’ultima, infatti, infastidisce inutilmente il pubblico affezionato al genere mentre viene snobbata dagli spettatori abituati al cinema d’autore. D’altronde lo stesso regista intervistato da Dario Argento sul quotidiano L’Unità, ammetteva: “faccio western semplicemente perchè non mi fanno fare altri film che mi interessano”...
Ciononostante gli incassi furono buoni.
Dopo numerosi peplum e il satirico Per un pugno nell’occhio, Michele Lupo approda al”vero” western italico con il discreto Arizona Colt (agosto 1966; 115
min.), basato su una sceneggiatura di Ernesto Galstaldi. La vicenda è sempre quella: una banda di criminali messicani, capeggiata dall’ultrasadico Gordon Watch (un Fernando Sancho in piena forma) rapina, uccide a ammazza
ovunque, anche per puro divertimento. Gli si contrappone Arizona Colt (un Giuliano Gemma ormai perfettamente a proprio agio in queste parti), simpatico bounty killer nonché difensore dei deboli, ma a pagamento. In particolare
questi si offre di vendicare Dolores (Rosalba Neri), uccisa da uno dei banditi di Gordon Watch (un po’ come avverrà venticinque anni dopo ne Gli spietati di Eastwood). Inizia la solita tiritera: il nostro eroe
dapprima stravince, poi viene catturato e brutalmente ferito (alle gambe e alle mani) e, infine, ritrovata miracolosamente la propria forma fisica, stravince, liquidando l’intera banda. Le novità sono poche ma la fattura è
notevole: belle le inquadrature, ottima la direzione degli attori e perfetto il senso del paesaggio (le vallate spagnole, in questo film più aspre che mai). Si nota ache qualche modesto tentativo di creare ampie sequenze
liriche nello stile di Leone (in particolare durante i numerosi agguati che si susseguono nel lungo tira e molla tra Arizona e Gordon) e l’abile gioco nei dialoghi su un preciso, ironico “ritornello” (“ci devo pensare…”). Dei
modelli leoniani inoltre Lupo conserva il tono allegramente nichilista: Arizona Colt fa giustizia ma solo dietro congruo compenso e, se capita, ammazza anche lui chi gli sbarra il cammino (nella prima sequenza uccide un soldato
durante la fuga dal carcere). Le legge del più forte (o a volte del più furbo) – punto di riferimento della cultura di destra, nella sua implicita accettazione della naturale diseguaglianza dell’esistente - rimane
l’unica legge in vigore da queste parti. Non va dimenticato che questi western - centrati su solenni figure maschili (le donne sono sempre elementi meramente decorativi) e sul concetto generalizzato di lotta quale fondamento
dell’ordine sociale - erano di coproduzioni italo-spagnole (dunque destinate anche al pubblico spagnolo), girate in quella penisola iberica che viveva sotto la dittatura franchista della quale, sotto certi aspetti, finivano per
riflettere la filosofia. Purtroppo Lupo non osa puntare sulle sole qualità stilistiche sopraindicate e propina agli spettatori carneficine a ripetizione – tutte identiche e prevedibili – con esiti alla lunga stomachevoli.
Il film riscosse un notevole successo e il personaggio verrà ripreso in seguito, ma con altri attori.
Dopo l’interessante All’ombra di una colt (1965; vedi), il siciliano Gianni Grimaldi torna al western con Starblack (agosto 1966; 90 min.) nel
quale, lavorando su una sceneggiatura propria, cerca di inserire nel canovaccio del western italiano elementi presi dalla serie delle pellicole su Zorro e dal coevo cinema gotico italiano (Mario Bava innanzitutto). Il risultato
è modesto, anche se non completamente censurabile. Grimaldi conferma il proprio estro visivo (le inquadrature posseggono spesso una rimarchevole composizione interna), l’abilità nell’utilizzare un montaggio non scontato (per
l’occasione affidato a Roberto Perpignain e Franco Fraticelli) e, inoltre, dimostra di sapere inserire ad arte la moderna colonna sonora approntata da Benedetto Ghiglia nella quale accanto alle solite canzoni, compaiono
inquiete fasce sonore affidate agli ottoni. Per creare un prodotto realmente valido però occorreva anche una sceneggiatura più originale, attori meno stereotipati e dialoghi più efficaci. Invece nella conduzione della storia
tutto procede meccanicamente, ed anche la trovata del pistolero misterioso Starblack (Robert Woods), nascosto da una maschera (come Zorro) - sempre pronto ad intervenire in difesa dei più deboli - sortisce effetti limitati
poiché i suoi interventi sono sempre assolutamente prevedibili e, alla lunga, stucchevoli. La storia è quella di sempre: il giustiziere solitario lotta contro una banda di manigoldi che tiene in ostaggio un intero paese, con in
più un piccolo colpo di scena finale: il patrigno dell’eroe, lo stimato giudice King (Harold Wolff), è il vero capo occulto della banda criminale. Per ravvivare duelli e scazzottate Grimaldi inserisce qualche effetto
truculento (ripreso – come si è detto - dal cinema dell’orrore del periodo), senza riuscire a migliorare la situazione. Efficaci comunque risultano le immagini relative al grande regolamento di conti conclusivo. Il flm
ottiene uno scarso riscontro commerciale e Grimaldi abbandona il genere del western serio (firmerà l’anno dopo Il bello, il brutto, il cretino).
L’enorme successo del western all’italiana genera ogni anno parodie e versioni farsesche. Bruno Corbucci firma Ringo e Gringo contro tutti (agosto 1966; 105
min.) basato sulla coppia Raimondo Vianello – Lando Buzzanca, quest’ultimo reduce da due fortunate parodie del cinema di James Bond (il dittico su James Tont, sempre di Bruno Corbucci). La pellicola, girata in Spagna, si basa
su un umorismo puerile che non riesce a divertire neppure a sprazzi. Ringo e Gringo sono due soldati sudisti i quali, isolati per molti anni, credono di essere ancora in guerra con il Nord. Ne conseguono i prevedibili equivoci.
Il film è costruito come una serie di siparietti relativamente autonomi in uno dei quali Buzzanca veste il poncho di Eastwood e Vianello diventa il colonnello Mortimers; per il resto il film non possiede precise relazioni
con il western italico e offre le solite trovate tipiche dell’avanspettacolo (a turno i due comici si travestono da donne ecc.). Mario Mattoli, giunto alla sua ultima pellicola, riutilizza la medesima coppia comica in Per
qualche dollaro in meno (agosto 1966; 95 min.), film nel quale – a differenza della pellicola di Corbucci - si mettono in burla sistematicamente personaggi e situazione dei primi due film di Sergio Leone (non manca
inoltre la bara trascinata nel film Django). Buzzanca veste il poncho di Eastwood, Vianello porta i baffi di Lee van Cleef ed Elio Pandolfi scimmiotta Gian Maria Volonté. Ci sono dunque bounty killers, carillon, rapine
alle banche, fughe dalle prigioni e cassaforti da aprire; perfino i celebri dialoghi fulminanti di Leone vengono riutilizzati, parola per parola. La commediola, scritta dai fratelli Sergio e Bruno Corbucci, è prevedibile e
non diverte quasi mai; le smorfie di Buzzanca, che si atteggia quasi sempre a bamboccio fifone, appaiono presto stucchevoli e affondano il film. La pellicola contiene però un elemento rilevante (già accennato nel film di
Corbucci): la trovata del “bounty killer” Vianello che cattura il cugino ”bandito” Buzzanca per riscuotere la taglia e subito dopo lo libera per ripetere il giochetto in seguito, anticipa l’idea d’apertura de Il buono, il
brutto, il cattivo (1966). Mario Mattoli muore nel febbraio 1980 a Roma.
Tanio Boccia, giunto alla propria quindicesima fatica, firma con Uccidi o muori (ott. 1966; 90 min.) il suo primo western.
Si tratta di un lavoro dozzinale, ricalcato sui consueti modelli leoniani. Due famiglie si odiano e si combattono. Giunge in paese un misterioso pistolero-violinista (Rod Dana/Robert Mark) che si schiera con i più deboli.
Ammazza parecchi scagnozzi della famiglia nemica (i Griffith), poi viene imprigionato, pestato e abbandonato a morte certa nel deserto. Ovviamente viene miracolosamente salvato, torna e stermina i suoi nemici. In questo
logoro copione si salvano le musiche morriconiane di Rustichelli, la presenza di Rod Dana e la scena del ritorno dell’eroe, copiata dalla Lucia d Lammermoor (Donizetti, 1835): il redivivo irrompe, inatteso, sulla scena
delle improvvisate e frettolose nozze della giovane Lisa (di cui è innamorato) con il perfido Scott Griffith (Fabrizio Moroni). Tutto il resto è scontato e fiacco. Gli incassi furono modesti.
testo scritto nell’ott.2010; ultimo aggiornamento gen.2017
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