Quien sabe? e La resa dei conti

Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro, Un fiume di dollari, Quien Sabe?, La resa dei conti, Pochi dollari per Django, Django spara per primo, Per pochi dollari ancora, El Cisco, I cinque della vendetta, Sette donne per una strage, Un dollaro tra i denti e Due once di piombo: nasce il western progressista (1966)

                “Cristo è morto tra due banditi”
                il frate rivoluzionario in Quien Sabe?

                “E tu, non comprarti il pane con esto dinero, hombre!
                Compra dinamite! Dinamite!!!”
                El Chuncho nel finale di Quien Sabe?

Uno dei successi dell’estate 1966 è il primo western di Lucio Fulci, Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro (agosto 1966; 90 min.) su sceneggiatura di Fernando Di Leo. Fulci cavalca la nuova ondata del western truculento, con qualche eccesso sadico, arruola Franco Nero reso popolare dal successo di Django (il capostipite di quel filone) e gli contrappone Nino Castelnuovo nel ruolo di uno psicopatico che ama frustare i suoi nemici (l’anno seguente tutta l’Italia lo acclamerà invece negli angelici anni di Renzo Tramaglino, nella versione televisiva del romanzo manzoniano diretta da Sandro Bolchi). In un ruolo secondario compare anche l’uruguayano George Hilton la cui fortunaa carriera italiana si puòdire inizi dal successo di questa pellicola.
Il nerovestito Tom Corbett (Franco Nero) ritorna al suo “bianco” paese dove il terribile Jason Scott (Nino Castelnuovo), biancovestito, capo perennemento reclinato a sinistra, semina il terrore. Il fratello Jeffrey Corbett (George Hilton) sembra un ubriacone buono a nulla (ma molto presto avrà modo di far valere la propria abilità di pistolero) al quale gli Scott hanno portato via la fattoria. Lo scontro culmina nel grande
duello a colpi di frusta che avviene nella residenza degli Scott, alla presenza degli eleganti invitati (tutti biancovestiti) di una sorta di festicciola. Fulci crea una visionaria variante delle sequenze del pestaggio dell’eroe: non sono i soliti animaleschi bandidos a ridurre il volto di Tom a una maschera di sangue, bensì il solo Jason che si esibisce di fronte a coloro che detengono il potere locale. In tal modo il film accentua una propria insolita caratteristica sociopolitica, inserendo (forse per la prima volta) un’accennata lotta di classe e pertanto un punto di vista”socialista” nel western italiano. Il trionfo finale di Tom, coadiuvato da Jeffrey, sancisce il successo della rivolta degli umili contro i potenti
Al riguardo va ricordato che anche in seguito Fulci, allorché si inserirà a modo suo nel filone argentiano con Non si sevizia un paperino (1972; vedi), farà la stessa operazione”politica”:  cercherà di piegare un genere a suo modo conservatore ad esiti di contestazione sociale.
Numerose appaiono in definitiva le qualità del film: il taglio ricercato delle inquadrature, la capacità di ricreare in modo credibile la vita di una cittadina del West (ricreata nel Lazio), il commento sonoro variegato di Lallo Gori che utlizza ora solenni sonorità tardo romantiche, ora i ritmi del bolero e i carillon, la costruzione di complesse sequenze nelle quali l’autore dilata il ritmo alternando quadri d’insieme e sguardi dei personaggi, cementati dall’efficace colonna sonora,  secondo il ben noto stile di Leone.
Dal recente Per qualche dollaro in più Fulci e Di Leo riprendono anche la struttura a tre personaggi dell’intreccio con Tom aiutato da Jeffrey (che presto scopriremo non essere fratello dell’eroe ed essere addirittura fratello di Jason) nella lotta contro la numerosa banda di Scott. Insomma Tom e Jeffrey, come il Monco e il colonnello Mortimer, vanno a caccia di Jason alias l’Indio per sistemare molte pendenze, alcune di queste squisitamente “private”; in entrambi i casi la coppia di vendicatori riuscirà ad averla vinta solo dopo avere sterminato l’intera banda dell’avversario.

Ancora più evidente appare il differente punto di vista presente in Un fiume di dollari (settembre 1966; 90 min.) che segna la prima “discesa in campo” di un autore considerato importante nella storia del cinema italiano, ovvero Carlo Lizzani (le cui opere appaiono, a chi scrive, quasi sempre sopravvalutate). Sebbene egli si firmi con uno pseudonimo (Beaver), rimane il fatto che il genere è diventato troppo importante per poter essere lasciato in esclusiva a Sergio Leone e soci; pertanto autori politicamente orientati a sinistra cercano di inserirsi in questo nuovo filone, modificandolo secondo il proprio punto di vista ideologico.
La vicenda narrata è sempre quella: un pistolero (Thomas Hunter) deve vendicarsi dell’amico traditore Seagull (Nando Gazzolo) e per riuscirci mette l’una contro l’altra le due bande della zona, fingendo di far parte di entrambe. Inutile dire che l’eroe verrà dapprima pestato a sangue, ma che – come dubitarme – risorgerà. Sparatorie e scazzottate di rito guidano verso alla resa dei conti finale. La pellicola dunque ricicla senza fantasia gli schemi narrativi dei due film di Leone e lo fa senza il minimo estro. Stile visivo, recitazione e montaggio sono del tutto ordinari e la noia regna sovrana. Anche il malvagio messicano nerovestito - affiìdato a Henry Silva – è una ben povera copia dell’Indio di Volonté mentre la colonna sonora, affidata a Morricone, rievoca assai vagamente le valide partiture composte per Leone.
Quello che interessa in questo mediocre lavoro è il differente stato d’animo che governa gli eventi e soprattutto che aima l’eroe: accantonate ironia, cinismo, visione scettica e trasporto lirico, si ricade nello schema classico dell’uomo ingiustamente colpito dalla cattiva sorte che cerca di fare trionfare la giustizia in un mondo dominato dalla barbarie. Non a caso il film, anziché terminare con il pistolero che si allontana, solitario, nel paesaggio sconfinato, propone addirittura una cerimonia di encomio ufficiale da parte dell’esercito nei confronti dell’eroe, cui guardano con fiducia un simpatico ragazzino e una donna innamorata. Il protagonista torna ad essere il raddrizzatorti ovvero l’uomo che può cambiare e migliorare un mondo ingiusto e lacerato dalla violenza; non a caso è un personaggio melodrammatico che urla, si dispera, parla molto e non scherza mai. Lizzani dunque si pone agli antipodi dell’ironia disillusa e crudele di Leone e degli artigiani del nuovo genere italiano, prende sul serio lo scenario western e cerca di piegarlo ai valori consueti di giustizia e ingiustia, bene  e male, sebbene stia maneggiando stereotipi senza vita e ambienti – in fondo – puramente astratti.
Un fiume di dollari, primo western firmato da un autore “importante” del cinema italiano, è il secondo (dopo quello di Fulci) western “progressista” dell’era Leone.

Solamente con il terzo western progressista, tuttavia, diventa evidente che il genere si sta quasi biforcando. Damiano Damiani, autore nella prima metà del decennio di pellicole impegnate (a volte di derivazione letteraria), recluta un paio di protagonisti del cinema di Leone quali Gian Maria Volonté e Klau Kinski, unisce loro Lou Castel, l’attore rivelazione del film più ribelle degli ultimi anni (I pugni in tasca, Bellocchio 1965), adotta una sceneggiatura di Franco Solinas, sposta l’azione nel Messico rivoluzionario degli anni dieci del Novecento, lo arricchisce con alcuni tipici vocaboli musicali morriconiani e gira Quien Sabe? (dicembre 1966; 102 min.). Il film ottiene un enorme successo e sancisce la nascita ufficiale del western politico.
L’intreccio si incentra sulle scorribande di El Chuncho (uno straordinario Volonté che offre una versione “rivoluzionaria” e “problematica” dell’Indio) che è a capo di una banda di fuorilegge indecisi tra commercio con i ribelli messicani e impegno diretto nella rivoluzione. Gli si affianca l’enigmatico Bill Tate (Lou Castel) il quale si infiltra nella banda con l’evidente scopo di arrivare a scoprire  l’ubicazione del generale Elias, capo temuto degli insorti al fine di eliminarlo. Scopriremo alla fine che Bill, tra l’altro uno statunitense, è un sicario prezzolato (una sorta di bounty killer, dunque) del governo messicano. Quien Sabe? racconta il lungo viaggio di Bill e di El Chuncho verso il campo base del generale (in tal senso quasi un’anticipazione di Apocalypse Now), un viaggio durante il quale l’americano rimane sempre lo stesso, flemmatico, gelido e sicuro di sé mentre l’istrionico capobanda messicano è sballottato tra ambizioni politiche e sete di guadagno, tra il desiderio di diventare un vero rivoluzionario e la più semplicistica ricerca dell’arricchimento personale. Nella banda non manca un esaltato frate predicatore (Klaus Kinski) il quale interpreta il lato “cristiano”della lotta di classe posta in essere dai peones, né un proprietario terriero (Andrea Checchi) che viene spogliato di ogni bene e giustiziato senza troppi riguardi (dieci anni dopo gli insorti di Novecento, Bertolucci 1976, saranno più clementi con il latifondista interpretato da Robert De Niro).
Nel doppio finale Bill elimina il generale Elias e El Chuncho – dopo qualche esitazione – ammazza Bill. Con quel gesto diventa, finalmente, un eroe della rivoluzione.
La cifra stilistica complessiva del film è largamente leoniana (al di là delle affermazioni un po’ presuntuose del regista che si professa estraneo alle vicende del western italiano; inutile dire che Quien Sabe? sarebbe impensabile senza i primi due tasselli della trilogia del dollaro con Eastwood e Volonté): taglio delle inquadrature, recitazione calibrata e quasi teatrale dei principali protagonisti, commenti musicali enfatici (Morricone riutilizza addirittura vocaboli chitarristici identici a quelli di Per qualche dollaro in più), respiro dilatato nelle sequenze degli scontri, attenzione ai dettagli e ai primi piani, ottima ricostruzione d’ambiente. Questa generale cadenza epica del film si coniuga però non con il consueto nichilismo scettico-ironico del fondatore del genere, bensì con la costruzione di un piccolo affresco messicano che canta l’oppressione degli umili, la ribalderia della classe militare e latifondista e l’inevitabile lotta di classe che contrappone gli uni agli altri. Al centro si trova lo stravagante El Chuncho, sincero rappresentante della classe popolare il quale - sostanzialmente disinteressato al denaro - lentamente si trasforma in un convinto rivoluzionario. Il racconto quindi prende senza indugio le difese della rivoluzione, divide in modo manicheo tra buoni e cattivi l’universo sociale collocato a sud del Rio Grande ed esalta la visione marxista della lotta di classe come necessaria e purificatrice in quanto volta a creare un mondo nuovo. Anche i cattolici – per il tramite della figura del frate guerriero – sono invitati ad associarsi con gli insorti mentre gli americani (quelli che vivono a nord del Rio Grande) vengono impersonati dallo “spregevole” Bill.
Damiani e Solinas quindi si appropriano del genere di maggior successo e riescono a farne un perfetto veicolo di propaganda socialcomunista, ligio ad una visione terzomondista e radicalmente antistatunitense. Insomma il Messico del nostro simpatico Volontè – che si esprime in un ineffabile linguaggio italo-spagnolo – è uno scenario di comodo popolato dalle ideologie, dai dubbi e dalle aspirazioni della sinistra cattocomunista italiana.
Se numerosi sono i punti di contatto con i film leoniani – in particolare la figura del gelido “bounty killer” che si infiltra nella banda dei fuorilegge – d’altro lato il lavoro di Damiani possiede il merito di avere eliminato il consunto schema del film di vendetta e di avere allargato il quadro a una situazione storica un poco più articolata, con personaggi non coincidenti con gli arcinoti stereotipi del pistolero di ghiaccio e del capobanda criminale. Abbiamo invece un sicario misterioso e dedito al più rigoroso autocontrollo, un capobanda istintivo e giullaresco, perennemente indeciso sul da farsi, un frate che uccide dopo aver fatto la predica, una famiglia di padroni che cerca di trattare coi ribelli, un generale che condanna a morte El Chuncho per mancato soccorso agli abitanti del paesino di San Miguel. Siamo pertanto di fronte a una scenggiatura più articolata del solito, nella quale alle consuete marionette del western italiano si sostituiscono, in alcuni casi, personaggi sfaccettati e quasi credibili.
Inutile dire che l’ambizioso titolo rieccheggia il celebre Che fare (1902) leniniano mentre il film, come i testi del rivoluzionario russo, cerca di mostrare la violenza sanguinaria della rivoluzione come qualcosa di necessario e positivo, nonché appannaggio di un’avanguardia cosciente del proprio ruolo storico-politico (coscienza alla quale Chuncho giunge solo nelle ultime immagine del film, ammazzando l’americano Bill). In tal senso è pur vero (seguendo lo spirito delle cichirazioni di Damiani) che il film non aderisce al genere “leoniano” e appartiene invece a quel filone tutto politico che si dipana da I pugni in tasca (1965) verso il cinema civile di Petri e Rosi dei primi anni settanta per approdare infine al già citato grande affresco storico di Bertolucci (Novecento, 1976). Ed è altrettanto vero (e prevedibile) che la critica dell’epoca – del tutto refrattaria ai capolavori di Leone - dedichi notevoli attenzioni - spesso espliciti encomi - a questo discreto film che appare, come si è detto, nettamente derivato dal cinema del regista romano.
Solo quindici mesi separano l’uscita di Quien sabe? dall’esplosione del “sessantotto” a Valle Giulia (Roma).

Sergio Sollima firma con La resa dei conti (ott. 1966 in Spagna; mar.1967 in Italia; 110 min.) uno dei migliori western del decennio e uno dei pochi in grado di reggere il confronto con i capolavori leoniani.
Corbett, un bounty killer dai rigidi principi morali (un ottimo Lee Va Cleef), viene incaricato, dal capitalista Brokston (Walter Barnes), di inseguire il messicano Cuchillo (un altrettanto bravo Tomas Milian) in fuga verso il Messico. Il giovane - un poveraccio che vive di espedienti, maneggia con abilità i coltelli ma non sa sparare - è accusato di avere stuprato e ucciso una dodicenne. La caccia all’uomo si snoda lungo una serie di episodi separati, tutti perfettamente calibrati e intriganti. Dapprima il confronto con una carovana di Mormoni (in memoria del noto film di John Ford del 1950); poi nella fattoria di una spietata matriarca (Nieves Navarro); infine in Messico dove uno spassoso Fernando Sancho, nel ruolo di una autorità locale, incentiva il duello dei contendenti, avendo in antipatia sia i gringos, sia i peones. Qui Corbett viene raggiunto dal magnate Brokston e dall’intera sua famiglia, un nido di vipere in cui si annida il vero colpevole dello stupro e un pistolero austriaco (Gerard Herter) la cui figura militaresca si ispira a quelle interpretate dal celebre Eric Von Stroheim. Si giunge alla spettacolare scioglimento tra i monti dell’Almeria: dapprima Cuchillo ammazza il vero colpevole, poi Corbett elimina sia il pistolero austriaco, sia il magnate.
Sollima parte da un soggetto socialisteggiante di Franco Solinas di cui mantiene sostanzialmente l’impalcatura, senza però esagerarne i significati politici, anzi asciugando ogni possibile generalizzazione. Nel racconto certamente tutti i capitalisti sono perfidi mentre i poveracci si limitano a rubacchiare e soprattutto a scappare, perseguitati dai potenti. Tutto ciò, comunque, non sfocia in invettive e manifesti quali quelli presenti nei coevi film di Lizzani e Damiani. L’attenzione di Sollima è sempre sui singoli personaggi, sulla loro umanità e imprevedibilità. Così Corbett, senza troppe dichiarazioni, capisce, si ravvede e nell’entusiasmante finale, si schiera al fianco di Cuchillo. Inoltre il disegno delle figure femminili - sempre secondarie, asservite all’uomo e sostanzialmente decorative - conferma la consueta visione patriarcale e conservatrice, tipica del western italiano. L’unica che tenta di imporsi - la matriarca Nieves Navarro - perde la sua battaglia.
Lo stile è quello di Per qualche dollaro in più, film senza il quale sarebbe impensabile La resa dei conti. Il personaggio di Corbett è fotocopiato da quello del colonnello Mortimer, metre i duelli finali, commentati dall’ottimo soundtrack lirico di Morricone (vi fa capolino addirittura il beethoveniano Per Elisa), replicano quelli eccellenti del modello di Leone. La vitalità spavalda del messicano e l’elegante durezza dell’americano si fronteggiano con ironia per l’intero racconto: è questo costante duello, modulato in modo flessibile e originale, a tener desta l’attenzione, dalla prima all’ultima immagine. Sollima, autore di grande valore, ingiustamente sottovalutato, si tiene alla larga dai pessimi stereotipi del genere: le lunghe sparatorie, le partite a poker, gli intermezzi musicali nei saloon, i continui duelli; all’opposto utlizza dialoghi pungenti e crea situazioni insolite e godibili (la carovana dei mormoni, il bordello messicano, il salotto del magnate dove si suona Beethoven).
Le ampie melodie di Morricone vengono utilizzate da Sollima nel solco di Leone, cercando l’effetto melodramma attraverso la dilatazione del tempo narrativo. Anche i due personaggi principali “entrano in scena” come cantanti d’opera: ciascuno possiede una propria “aria di presentazione” (l’eliminazione di tre banditi per Corbett, la scena del barbiere per Cuchillo). Segue una serie interminabile di “duetti” Corbett-Cuchillo (si potrebbe dire baritono-tenore), alcuni drammatici (la sequenza del serpente), altri ironici e vivaci (l’incontro nel carcere messicano); mentre il “finale primo” è occupato dalla scena nel bordello messicano, il grande “finale secondo” è costituito da un energico “concertato” in cui vengono riuniti tutti i “cantanti” del racconto: dopo i cori di prammatica (l’inizio della caccia), si sviluppa come un duetto (Corbett-Cuchilllo), prosegue con un terzetto (primo duello: pugnale contro pistola), diviene poi un quartetto (secondo duello: oltre ai due protagonisti, il pistolero austriaco e Brokston) e termina con una coda inattesa (terzo duello coi fucili: terzetto Corbett-Cuchillo-Bronxton).
Sollima è pertanto un attento orchestratore, non inferiore al “maestro” Leone; nella sua superba partitura c’è dunque poco posto per le invettive politiche che avrebbero falsato il ritmo eminentemente lirico del racconto, anche se il quadro complessivo si iscrive certamente nel cosiddetto western progressista. Il simpatico personaggio di Milian diverrà una delle molte icone del ’68 ormai alle porte.
La resa dei conti riscosse un successo trionfale, situandosi al sesto posto negli incassi della stagione.

Enzo Castellari, figlio di Marino Girolami, esordisce come coregista de Pochi dollari per Django (settembre 1967; 90 min.), modesto western che ricicla per l’ennesima volta la struttura di Per un pugno di dollari. Così il bounty killer Django (Anthony Steffen con poncho e sigaro; il nome ammicca al recente fortunato successo di Corbucci) deve vedersela con due gruppi in aperta guerra nel Montana del 1877: gli allevatori e i coloni, questi ultimi guidati da Morton (un bravo Frank Wolff; due anni dopo interpreterà il colono trucidato all’inizio di C’era una volta il West).
Il film, privo di qualunque novità anche se sostenuto da un buon mestiere, porta la firma registica dell’anziano Leon Klimovski; a Castellari, coregista di fatto, incaricato di rendere la pellicola più aggressiva e al passo coi tempi, si attribuisce nei titoli di testa un’insolita “direzione generale”.
In ogni caso la pellicola si snoda attraverso le solite sparatorie e scazzottate e va a parare nella canonica grande sparatoria finale che vede trionfare l’eroe. L’unica cosa che risalta è la bravura degli stunt.
In fondo il western degli anni sessanta, con il suo carattere circense, è tornato ad essere assai vicino alla semplicità spettacolare di un certo cinema muto (quello avventuroso e quello comico) basato innanzitutto su eventi “acrobatici”: mentre le storie, i gesti, le mimiche e i dialoghi si ripetono sempre identici, l’intero armamentario si sostiene essenzialmente grazie alla prestanza degli acrobati che rischiano l’osso del collo ogni cinque minuti e rendono queste modeste pellicole ricche di interesse per un pubblico ingenuo, affascinato dai rocamboleschi (anche se ripetitivi) salti mortali delle coraggiose controfigure.

Al contrario di questo Django spagnolo, il western italiano di Alberto De Martino, Django spara per primo (ottobre 1966, 90 min.) – sceneggiato dall’autore con un piccolo esercito di scrittori - è tra le pellicole migliori dell’anno, nonché una delle più fedeli imitazioni dello stile leoniano.
La vicenda in sé appare scontata ma viene sviluppata con estro e giunge ad esiti realmente interessanti.
Django (Glenn Saxson) rientra a Silver Creek dove spadroneggia il malvagio banchiere Kluster (Nando Gazzolo) il quale ha fatto ammazzare il padre di Django, un tempo suo socio in affari. Django si scopre coproprietario di tutti i beni di Kluster il quale cerca quindi di farlo uccidere in differenti modi. Accanto al pistolero ci sono Doc (Alberto Lupo che ripete il personaggio del colonnello Mortimer), un dottore in cerca di vendetta e Gordon (Fernando Sancho, per una volta alleato coi “buoni”), un pittoresco abitante del paese innamorato dei soldi. Nell’intreccio si inseriscono anche due donne: la barista buona (Erica Blanc) e la perfida amante di Kluster (Evelyn Stewart), nonché ex moglie di Doc. Dopo l’inevitabile regolamento di conti – che avviene di notte in un cimitero – il film termina su toni leggeri con Django che sposa la barista e con l’imprevisto arrivo di un figlio di Kluster che si affaccia nel paesino a chiedere la sua parte…
Alberto De Martino riunisce un cast realmente notevole (tutti estremamente bravi gli attori), si avvale di un’ottima colonna sonora di Bruno Nicolai, pienamente morriconiana (un tema epico adagiato sui ritmi di bolero), compone immagini di notevole raffinatezza e intercala le consuete sparatorie con validi acceni umoristici che sfoceranno nella conclusione in stile di commedia. Anche le sequenze d’azione – enfatizzate dal tema di Nicolai - posseggono la doverosa solenne dilatazione, impreziosita da immagini non scontate mentre il senso generale del racconto adotta il nichilismo scettico dei modelli leoniani con il denaro che governa le azioni di tutti, “buoni” e”cattivi”, senza troppa differenza. De Martino inoltre, pur inserendo nel film il nome di Django, evita tutti gli inutili sadismi del modello di Sergio Corbucci/Franco Nero: avendo a disposizioni attori interessanti e essendo in grado di vivacizzare con abilità le consunte situazioni del plot, egli dimostra che si può ottenere un buon western senza ricorrere alle crudeltà gratuite.
Gli incassi tuttavia furono modesti e non premiarono il lavoro.

Giorgio Ferroni (alias Calvin Jackson Padget), un anno dopo Un dollaro bucato (1965, vedi), firma Per pochi dollari ancora (ottobre 1966; 105 min.) pellicola basata su una tortuosa sceneggiatura firmata da ben sei differenti autori e spudoratamente copiata da Michele Strogoff (J. Verne, 1876). Come nel caso precedente, a parte il titolo, i riferimenti al cinema di Leone sono estremamente esigui: potremmo dire che si limitano alla colonna sonora di Gianni Ferrio che riutilizza numerose cellule melodiche del soundtrack morriconiano di Per qualche dollaro in più (con esiti poco incisivi) e alla presenza di una banca di criminali che vuole svaligiare una cassaforte. Per il resto il film di Ferroni è un complicato racconto dove i buoni e i cattivi sono nettamente separati e in cui il protagonista è il tipico eroe del western americano, pronto a sacrificare la vita per compiere la propria missione.
Il tenente sudista Gary (G.Gemma, con lo stesso nome del protagonista di Un dollaro bucato) cerca di sventare le trame di Riggs (Dan Vadis) il quale, in combutta con il perfido maggiore Sanders (Jacques Sernas), ha architettato addirittura l’assalto a un forte nordista da parte di un piccolo esercito di sudisti ribelli (siamo nel 1865, nei mesi successivi alla fine della Civil War), quale importante diversivo durante il quale penetrare nel fortino da un cunicolo e sottrarre l’ingente somma ivi custoditavi. Gary riesce – dopo inenarrabili peripezie (non una bensì due volte cade e risorge il nostro eroe, prima ferito, poi torturato dai nemici) – a sventare la criminosa operazione.
Il film, di gran lunga migliore del precedente western ferroniano (Gemma è ora un attore più credibile e ci sono un paio di caratteristi decenti al suo fianco), tiene desta l’attenzione soprattutto per i numerosi colpi di scena che si snodano durante il lungo percorso che conduce Gary dal forte nordista in cui è prigioniero di guerra al secondo forte nordista che sta per venire attacato Come si nota l’intreccio è più vicino a l poliziesco che al western. Inoltre va rilevata una buona ricostruzione degli ambienti, tra forti nordisti, cittadine polverose e saloon mal frequentati.
Per il resto i personaggi restano scialbi, le sparatorie e le scazzottate sono prive di mordente, l’apporto della musica rimane circoscritto (in nessun punto la colonna sonora diviene protagonista, né tanto meno scandisce il ritmo degli eventi, amplificandoli) e il finale appare decisamente frettoloso e pasticciato: ad affrontare l’intera banda criminale si presenta Gary in solitudine mentre l’esercito sudista e i suoi ufficiali - amici di antica data del protagonista, salvati in extremis dalla carneficina - non si capisce che fine abbiano fatto e perché siano disinteressati a mettere le mani su coloro che li stavano mandando a morte sicura.
Come il precedente, anche questo western ferroniano ebbe un enorme successo di pubblico.
Dopo il modesto Uno straniero a Sacramento (1965; vedi) Sergio Bergonzelli torna al western con El Cisco (ottobre 1966; 85 min.), pellicola altrettanto ordinaria. Come per il precedente film,  il modello permane quello di Per un pugno di dollari, sia nella trama, sia nel commento sonoro di Bruno Nicolai, platealmente ricalcato su quello di Morricone.
Il solito pistolero, di nome El Cisco (William Berger), dotato dell’immancabile sigaro, si barcamena tra una banda di messicani guidati da Toro (ma l’attore George Wang è in realtà un cinese!!!) e una di americani capeggiata dal perfido banchiere Burt (Tom Felleghi). Egli deve regolare i conti con entrambi e ci riesce dopo le consuete peripezie: viene pestato, ucciso (si fa per dire), sepolto dopo di che “risorge” e, dopo le sparatorie di rito, fa giustizia. Lo sceriffo è inetto mentre il vicesceriffo collabora segretamente con la banda di Toro.
Come sempre nel western italiano la legge è latitante o al servizio del migliore offerente mentre l’eroe deve caversela con i propri mezzi. Tra le righe di questo come di decine di altri western del periodo si può leggere un’allegoria del sistema sociopolitico italiano il quale, nel nuovo millennio, non sembra essere molto migliorato…
Bergonzelli gira con pochi mezzi e con buon mestiere: la vicenda, per quanto scontata, mantiene un qualche interesse nel taglio delle inquadrature, nell’utilizzo della colonna sonora e nel competente uso de montaggio. Anche gli attori sono più che accettabili.  

Aldo Florio, già aiuto regista di Giorgio Bianchi, esordisce alla regia con il mediocre I cinque della vendetta (ott. 1966; 90 min.), western relativamente insolito quanto a costruzione narrativa, realizzato tuttavia in maniera stereotipata.
La prima parte del racconto va inscritta nel limitato perimetro del western progressista: Jim (German Longo), un possidente terriero di idee illuminate, viene brutalmente assassinato dai suoi concorrenti, i Gonzales, che non apprezzano le concessioni che va facendo ai peones. La vedova (Monica Randall) chiama a raccolta gli amici del defunto: in cinque (Guy M adison e altri) giungono presto, ben determinati a fare piazza pulita degli assassini e dei loro accoliti. Ci riusciranno dopo le abituali e generiche sparatorie.
Il modello leoniano è quasi assente in questo western che diluisce i protagonisti (ce ne sono almeno sette: il morto, i cinque del titolo e il capobanda antagonista) e cerca di creare un intreccio che rimanda semmai ai classici d’oltreoceano (I magnifici sette, 1960, pellicola di Sturges che, a sua volta, si ispirava a I sette samurai, Kurosawa, 1954). La parte iniziale possiede un qualche interesse, sebbene sia viziata dalla retorica tipica del cinema militante (buoni e cattivi nettamente distinti, portatori di visioni antitetiche del mondo; peones eroici che muoiono per la causa...); con l’entrata in scena dei cinque vendicatori il racconto si diulisce in episodi tediosi e scontati, girati senza convinzione.
Ad avvalorare il messaggio politico, Florio calca la mano sulla violenza (i Gonzales, non soddisfatti, rapiscono anche il figlio della vedova), inserendo brutalità gratuite  intese a colpire lo spettatore al fine di acuire la sua identificazione con i vendicatori, rappresentanti di una concezione socialisteggiante del mondo.
Il successo fu modesto.

Dopo il brutto Johnny West il mancino (1965, vedi), Parolini gira in Spagna una bizzarra produzione europea intitolata Sette donne per una strage (nov. 1966; 100 min.) nella quale, anziché ripetere i consueti vocaboli leoniani, gli autori (Parolini è affiancato da altri due registi) guardano al western classico americano degli anni quaranta e cinquanta.Vi si racconta di una carovana di carri che viaggia verso ovest la quale viene attaccata dagli apache: un gruppo di sette donne riesce a sfuggire (a piedi) alla furia degli assalitori e inizia una lunga ed estenuante marcia nella speranza di raggiungere il forte più vicino ossia Fort Lafayette. Gli indiani dapprima le attaccano (una viene uccisa quasi subito), poi le osservano da lontano e infine – a sorpresa – scortano le sopravvissute all’interno del forte. “Non si fa guerra alle donne” è il motto ripetuto dai guerrieri apache..
La pellicola è una stanca copia di modelli hollywoodiani (anch’essi in genere tutt’altro che entusiasmanti) che costituì certamente un’amara sorpresa per gli spettatori dell’epoca anche se la protagonista principale era nientemeno che Anne Baxter (già interprete di Eva contro Eva, 1951). Al cinismo compiaciuto e tronfio dei soliti pistoleri si sostituisce un’avventura di stampo classico, girata senza alcun guizzo vitale se si esclude il gran finale a sorpresa con gli indiani divenuti d’un tratto nobili e galanti.
Come prevedibile il film fu severamente punito dai modestissimi incassi.

Luigi Vanzi esordisce nel western con Un dollaro tra i denti (nov. 1966; 90 min.) il cui protagonista - lo Straniero (Tony Anthony), scontata copia del silente eroe leoniano - tornerà ad essere il personaggio centrale in tre pellicole successive, due firmate da Vanzi e l’ultima da Ferdinando Baldi. Quest’ultima, intitolata Get Mean (1975), uscirà negli Usa e non in Italia.
Un dollaro tra i denti, le cui situazioni riprendono soprattutto quelle di Per un pugno di dollari, è decisamente al di sotto della media.
Con uno stratagemma lo Straniero aiuta la banda di Aguilar (Frank Wolff) a sottrarre un carico d’oro all’esercito americano. Anzichè ringraziarlo, ovviamente, quest’ultimo e i suoi compari cercano di ammazzarlo. Lo straniero li eliminerà uno per uno.
Il film risulta ultraripetitivo ed inutilmente violento (venne vietato ai  minori di diciotto anni, divieto insolito e dannoso per un film destinato anche a platee di ragazzini), si svolge interamente nello stesso villaggio e quasi sempre di notte. Abbondano i tempi morti e le sequenze inutilmente dilatate.
Gli incassi furono modesti.

Nel primo western di Maurizio Lucidi, Due once di piombo (dicembre 1966; 80 min) l’unica cosa nuova è l’avere affidato la parte del mattatore a un messicano. Per il resto lo stanco copione è sempre quello: il pistolero Pecos (Robert Woods) arriva in un paesino di confine per vendicarsi del padre ucciso dal perfido Kline (Pier Paolo Capponi) il quale spadroneggia nell’area. I suoi uomini ammazzano per puro divertimento e fanno violenza a tutte le donne che incontrano; siamo, insomma, dalle parti del western sadico iniziato con Django nel quale, in genere, manca qualunque accenno ironico di alleggerimento. Come sempre l’eroe viene catturato e pestato a sangue ma non ucciso; dunque può risorgere e vendicarsi nell’obbligatoria resa dei conti conclusiva.
Non manca la caccia al tesoro nascosto (la refurtiva di una rapina che passa di mano in mano). La recitazione è comunque dignitosa e i paesaggi risultano abbastanza valorizzati.
Gli incassi sono modesti.

testo scritto nel dic. 2010; ultimo aggiornamento: gen. 2017