Rossini, Campo de' fiori e L'ultima carrozzella

Rossini, Avanti c’è posto..., Campo de’ fiori, Che distinta famiglia! e L’ultima carrozzella: moniti, gioco e borsa nera (1942-43)

            “...questo fenomeno d’incoscienza è molto diffuso in numerose città più di Roma. Si gioca molto. Adesso questo spettacolo
            dovrà finire.  Anche se si gioca nelle case private il fatto
            che una bisca sia nella casa del signor X o del signor Y
            non significa  che non sia una bisca
            B. Mussolini (discorso del 24 gennaio 1942)

Nell’ottobre1942 nei cinema compare Rossini (120 min.), una pregevole biografia dell’operista pesarese basata su un soggetto di Giuseppe Adami, Gherardo Gherardi e Alberto Luchini sviluppato in sceneggiatura da Parsifal Bassi e Vittorio Novarese e messo in scena da Mario Bonnard. Il racconto non si estende all’intera vita del musicista, salta completamente infanzia, giovinezza e periodo veneziano-milanese (1810-15) per cominciare con l’arrivo di Rossini a Napoli (autunno 1815). La pellicola si concentra sul fruttuoso periodo 1815-16 ovvero la difficile ambientazione nel contesto inizialmente ostile della capitale partenopea, la composizione della Elisabetta, lo spostamento a Roma per la creazione del celeberrimo Barbiere (febbraio 1816) e il ritorno a Napoli per la messa inscena dell’Otello (dicembre 1816). Le vicende successive vengono narrate invece sommariamente nell’ultima parte del film (tournée a Vienna, incontro con Beethoven, successi parigini) che termina sul grandioso motivo conclusivo composto dall’artista per il Guillaume Tell (1829), il suo ultimo melodramma.
Il genere biografico spesso trova i cineasti poco preparati e anzi negligenti, portati a indulgere a grossolanerie e ingenuità, spesso manipolando senza la minima prudenza fatti storici accertati e assai noti al pubblico del settore. Basti citare il “recente”, pessimo Melodie eterne (C. Gallone, 1940) intorno a un goffo Mozart (G. Cervi) nel quale il defunto imperatore Giuseppe II (1790) assiste e commenta la prima di Die Zauberflote (1791). Ancora più clamorosi saranno gli errori storici in Casa Ricordi (ancora C. Gallone, 1954). Insomma siamo di fronte a un genere che sembra confinato nell’alveo della più inutile e irritante mediocrità. La fatica di Bonnard è invece una piacevole sorpresa: sebbene non manchino le inesattezze e le libertà narrative, si nota tuttavia un serio sforzo nel restituire una situazione storica e musicale. Il ventiduenne musicista pesarese (Nino Besozzi) giunge a Napoli portandosi dietro un bagaglio culturale “settentrionale”, sinfonico e “dissonante” rispetto al gusto semplice e cantabile egemone al teatro San Carlo e deve dunque misurarsi con un ambiente poco favorevole. Inoltre Rossini è anche “in fuga” dal nord: deve far dimenticare di avere aderito al movimento insurrezionale di Murat attraverso la composizione ed esecuzione dell’inno Agli Italiani di Giambattista Giusti (Bologna, aprile 1815). Tutto ciò è dipinto con perfetto gusto e dialoghi incisivi nella prima parte della pellicola. Si noti, tra l’altro, che la diffusa immagine oleografica di Rossini tende a restituirne la figura di un conservatore indolente laddove la verità storica offre quella di un operista che non ha mancato un solo appuntamento con la “rivoluzione” nazionale nel periodo della sua intensa attività artistica (trentasei opere nel periodo 1810-29). A maggior ragione dunque si deve lodare la precisione con la quale Bonnard ci dipinge la figura di un musicista ironico e deciso, minacciato dal “simpatico” e autoritario Ferdinando I il quale è stato avvisato dalla sua polizia degli intrallazzi “carbonari” del pesarese.
Anche il lungo episodio che rievoca la fortunosa prima romana del Barbiere, con i seguaci di Paisiello che sabotano lo spettacolo facendolo precipitare in una bolgia infernale, è trattato con misura e buon gusto. La pellicola ricorda l’ “affronto” del giovane musicista che si permette di proporre una propria versione del Barbiere in implicita competizione con quella (datata 1782) allora assai popolare del maestro tarantino. Bonnard ritrae anche quest’ultimo ancora vivo (morirà proprio in quel 1816) che si esprime con benevolenza nei confronti del giovane rivale.
Subito dopo il film illustra la creazione dell’Otello a Napoli e ne approfitta per dare risalto al carattere tenace di Rossini ora in conflitto diretto col re il quale, in mordo pittoresco, impone un lieto fine all’opera shakespeariana. Tuttavia in questo episodio la pellicola mostra faciloneria e opportunismo in quanto l’episodio narrato è totalmente inesatto: Otello andò in scena a Napoli nel dicembre 1816 nella versione tragica e fedele all’originale; anzi si trattò di uno dei rari esempi di opera seria con finale tragico del periodo. Il re dunque non richiese alcuna modifica e d’altronde la battuta di Rossini stizzito “nel finale ci ficco il duetto amoroso dell’Armida” è impossibile in quanto Rossini scriverà Armida solo un anno dopo (Napoli, novembre 1817). In realtà l’incongruo finale lieto verrà messo in scena in occasione di una ripresa romana (nel dicembre 1819), appunto inserendo un pezzo dell’Armida quale nuovo finale. Né quanto a errori scenici va lasciata passare sotto silenzio la scelta di un attore quale il Besozzi, capace e autorevole, tuttavia completamente fuori parte: l’attore milanese, nato nel 1901, interpreta a quarant’anni suonati (e ben visibili) le disavventure di un operista ventiquatrenne (Rossini è del 1792).
Nell’ultima parte Bonnard trova accenti drammatici e perfino espressionisti nel raccontare il celebre incontro viennese tra l’artista italiano e Beethoven, un incontro intorno al quale molto è stato scritto e che probabilmente non è mai avvenuto. In ogni caso, attenendosi a quelle fonti che testimoniano tale evento, il regista romano mette a fuoco uno stupefacente momento cinematografico: in una casa oscura e modesta, durante una sera piovosa, il maestro pesarese incontra il volto arcigno del compositore di Bonn (Memo Benassi) mentre risuonano le note dell’Allegretto della Settima sinfonia, pagina lieta che in questo contesto si ammanta invece di significati epici, solenni e minacciosi. I due non riescono a comprendersi (le lingue differenti, la sordità del tedesco) e si limitano a osservarsi in modo curioso: il primo intimidito e come estasiato di fronte a colui che ritiene un genio, il secondo statuario e rinchiuso in se stesso e nel proprio tormento. Questa pagina filmica contiene qualcosa di straordinario che trascende i singoli personaggi per farsi profetico simbolo di sciagure: appare evidente che la scelta di dare spazio a questo episodio allude alla “fraterna” amicizia italotedesca che sta alla base del conflito in corso. Bonnard aveva già dimostrato nella polemica antifrancese presente nella Gerla di papà Martin (1940; vedi) di essere un regista allineato alla politica culturale del regime. Anche ora dunque porta il proprio conributo nel rimarcare l’amicizia tra due grandi culture ormai legate indissolubilmente nei vortici della bufera europea. Il quadro d’insieme tuttavia appare poco rassicurante: l’episodio è il più drammatico della pellicola, l’atteggiamento dell’italiano è di mera sudditanza e di timore mentre quello di Beethoven appare segnato da una totale, magniloquente solitudine, sprezzante nei confronti di ciò che lo circonda. Insomma la sequenza appare densa di significati tragici nel mostrare due figure incapaci di qualunque reale dialogo in un clima segnato da una fotografia solcata da violenti chiaroscuri. I cupi moniti del brano sinfonico beethoveniano torneranno anche più avanti nel film mentre a poco vale il tentativo di correzione apportato con le luminose note finali del Tell, sorta di ottimistica alba dell’uomo in un universo pacificato di natura e cultura; questo radioso finale, relativo tra l’altro ai poco attuali movimenti di rivoluzione democratico-liberale (la ribellione alla tirannia capeggiata dall’eroe svizzero), rimane un fatto isolato che non possiede la forza di cancellare il carattere lacerato degli ultimi episodi della biografia di Bonnard.
Il mese precedente era uscito nelle sale un altro pregevole film di Mario Bonnard, Avanti c’è posto... (settembre 1942, 90 min.), opera importane per molteplici aspetti. Innanzitutto si tratta del lavoro d’esordio cinematografico di Aldo Fabrizi, attore romano (nato nel 1905), estremamente popolare in quanto protagonista di primo piano nel teatro di rivista a partire dagli anni trenta. Il film, sceneggiato oltre che dal regista e dall’attore, da Federico Fellini, Cesare Zavattini e Piero Tellini, offre fin d’ora l’umana, indimenticable maschera tipica di Fabrizi, quella del popolano semplice, onesto e generoso, destinato sempre a soccombere nelle rivalità amorose a causa della propria goffaggine e poca avvenenza, capace tuttavia di superare le cocenti delusioni e di tirare avanti perché dotato di una sicura percezione della realtà e di un grande amore per la vita.
Il bigliettaio di filovia Cesare (Fabrizi) aiuta la giovane Rosella (un’imbambolata Adriana Benetti, vero punto debole del film) la quale è stata derubata sull’autobus di cinquecento lire. Inizia così una lunga e colorita odissea: la polizia non riesce a trovare il colpevole, la famiglia presso cui lavora la licenzia (la somma perduta era della padrona), l’albergo non le dà una stanza perché è senza documenti e infine dalla abitazione di Cesare vengono cacciati in malo modo dalla scandalizzata padrona di casa di quest’ultimo. La coppia dorme alla stazione e il giorno dopo il generoso Cesare la accompagna in numerose abitazioni alla ricerca di un nuovo impiego di domestica. Alla fine, dopo avere assistito alla nascita di un bimbo in una di queste case, Rosella finalmente trova un lavoro come maschera in un cinema. Nel frattempo l’amico di Cesare, l’aitante Bruno (Andrea Checchi) cerca di soffiargli la ragazza prima con modi da volgare seduttore, poi con atteggiamenti più impegnativi. La situazione volge verso lo scioglimento drammatico: Cesare spera di sposare la giovane, quest’ultima non nasconde il proprio amore per Bruno mentre quest’ultimo è richiamato al fronte. Parte senza entusiasmo (ma anche senza protestare) anche perché al suo fianco c’è ora la giovane che lo attenderà. Cesare capisce e piange.
Il racconto è denso di motivi di riflessione che vanno molto al di là del consueto triangolo amoroso e della scontata vitoria del bello sul brutto, del fascinoso sul goffo. Innanzitutto l’ambientazione popolare, tra autobus, esterni romani tutti reali e ben fotografati (vengono mostrati perfino i barboni che dormono alla stazione, infrangendo il divieto di illustrare realtà deprimenti e irrisolte da parte del regime), famiglie modeste ma ricche di esuberanza, serate concertistiche al dopolavoro (dove Cesare suona i timpani nella banda guidata da un esilarante Virgilio Riento, il suo capo), conferma le note simpatie per gli strati sociali meno abbienti da parte del cinema di regime del periodo 1940-45. La figura di Fabrizi è una sorta di centro di irradiazione di quell’umore sanguigno e semplice, onesto e fattivo che coinvolge tutti i numerosi personaggi positivi di questo complesso e vivace affresco di un‘Italia che sembra muoversi con compostezza anche nel difficile attuale frangente (o almeno tale la vorrebbe il ceto dirigente e buona parte dell’universo cinematografico, innanzitutto quello che gravita intorno all’industria statale Enic, produttrice della pellicola in oggetto). Le case visitate dalla aspirante cameriera sono animate da piccoli eserciti di bambini vocianti, da ragazze che studiano il pianoforte con ardore, da padri in ansia per la nascita dell’ennesima creatura in una pittura d’ambiente che unisce simpatia, caos vitale e fiducia nell’esistenza. I valori di riferimenti sono chiari e ribaditi: la gioia dell’unione coniugale benedetta da una prole numerosa (non importa quanto confusionaria), le cerimonie cattoliche quale passaggio qualificante della vita sociale (il battesimo del neonato al quale Cesare e Bruno fanno da padrini), gli impegni nelle organizzazioni del regime quale momento cementante la coesione tra individui (le sequenze della banda che prova ed esegue il concerto all’organizzazione del dopolavoro fascista).
Di contro a questa umanità colorita, a volte sopra le righe o fuori dalle regole (lo “scippo” della ragzza a Cesare ad opera di Bruno), ma sempre guidata da un fondo di umana comprensione, si collocano alcune figure della medio-alta borghesia ritratte con dura antipatia da Bonnard e dai suoi sceneggiatori (altro che “telefoni bianchi”, fantomatica creazione di una critica “militante” che i film del periodo 1940-45 ha solo fatto finta di vederli e in seguito li ha apertamente boicottati) come le due sciocche signore che parlano di bridge e vacanze nella sequenza iniziale sull’autobus di fronte a uno smarrito e sempre più irritato Cesare al quale non si degnano di dare ascolto. In questo incipit c’è tutta la filosofia del cinema popolare di quei primi anni quaranta. Allo stesso modo con fastidio si guarda all’altezzoso impiegato di un albergo di lusso che non concede la camera alla ragazza e ai padroni benestanti che la licenziano. All’opposto la figura di Bruno, dopo lo sgarbo all’amico, si redime con la serena accettazione del fatto di venire strappato alla tranquilla quotidianità romana per finire nei deserti africani a combattere come carrista. Inoltre, per tale via, il sodalizio virile con l’amico Cesare viene ristabilito e vince sull’occasionale rivalità per la conquista della ragazza. Bonnard e amici non si sottraggono dunque all’obbligo di indulgere a una pagina di aperta propaganda fascista (sebbene asciutta e priva di sciocca enfasi) nel mostrare l’accettazione virile del proprio destino da parte di Bruno, sorretta dalla certezza che la ragazza ora lo apprezza e lo aspetterà. Insomma il reclutamento funziona da momento di redenzione, di passaggio all’età adulta, per chi aveva commesso un grave errore di valutazione (lo sfrontato tentativo di sedurre e portare immediatamente a letto la ragazza) e aveva finora perseguito solo occasionali e transitori divertimenti in ambito amoroso.
La pellicola dunque propone una ricca orchestrazione di motivi etici, vivificati dalla intensa interpretazione di Fabrizi, perfettamente coadiuvato da Checchi, Riento e dalle musiche di Giulio Bonnard e annodati in una pellicola che possiede un ritmo di narrazione mosso, a tratti perfino trascinante. Non vi sono momenti morti, sbavature o errori e la tela tra gioia e amarezza, tra poesia del quotidiano e tragico destino incombente, si snoda senza incertezze e infatti viene salutata da un grande successo di pubblico. Negli anni seguenti però il film viene progressivamente dimenticato (fino alla sua completa scomparsa ai giorni nostri) e lo si può capire per il fatto che la figura disegnata dal protagonista, così aderente all’ideologia del regime (in una delle prime sequenze saluta romanamente con un gesto di totale spontaneità), risultava stonata con i personaggi del sacerdote martire antifascista in Roma città aperta (Rossellini, 1945) e del contadino coraggioso che nasconde soldati americani durante la guerra (in Vivere in pace, Zampa, 1947). Così anche questo gentile capolavoro di Bonnard scompare in omaggio ai “tempi nuovi”, contribuendo (insieme a numerose altre pellicole ingiustamente trascurate e in questa sede storica ricollocate al loro posto) a creare quell’artificioso vuoto filmico che costituisce il supporto necessario alla mitologia di un cinema italiano rigenerato dalla Resistenza e come sorto dal nulla, a partire dalla seconda metà del 1945.
La pellicola successiva del regista, Campo de’ fiori (giugno 1943; 95 min.) conferma il periodo felice dell’autore e può essere considerata una delle pagine più significative del cinema italiano degli anni quaranta. Basata su un soggetto di Marino Girolami sceneggiato da Aldo Fabrizi, Federico Fellini, Aldo Tellini e Mario Bonnard, il film si incentra intorno alla figura del pescivendolo Peppino il quale, popolano originario del quartiere di Campo dei fiori (nella nota piazza partecipa con la sua bancarella al mercato rionale), si innamora perdutamente di Elsa, una misteriosa ed elegante borghese (Caterina Boratto). La corteggia in ogni modo, rendendosi anche ridicolo fino a quando, facendole una visita a sorpresa, non si trova coinvolto in una bisca organizzata nel suo appartamento da sfaccendati di estrazione alto borghese. Finisce in galera dalla quale esce rapidamente e aiuta la donna andando a prendere suo figlio Carletto in Abruzzo e tenendolo con sé fino al momento della sua uscita di prigione. Le prepara anche un alloggio elegante nella speranza di potere iniziare una nuova esistenza con lei quando la ricomparsa dell’antico amante della giovane (e padre di Carletto) dissolve ogni speranza nel pescivendolo che rapidamente si rituffa nel proprio ambiente e sposa la fruttivendola Elide (Anna Magnani) che da tempo cercava inutilmente di attirare la sua attenzione.
Il ritratto patetico che Aldo Fabrizi mette in campo è intensamente comunicativo e, da solo, regge il costante interesse di un racconto il quale conosce un vero e proprio crescendo drammatico che passa attraverso l’episodio della bisca e della galera per infrangersi sulla riapparizione del padre “scomparso”. Solo allora Peppino capisce il proprio errore di popolano, scopre di essere stato sedotto da un universo caratterizzato da un lusso vacuo e inconsistente e “si redime” ovvero va al cinema con Elide: il film che si proietta è appunto “Un amore infranto”.
Il racconto si attiene alla linea ideologica prevalente, volta a esaltare la semplicità fattiva e generosa delle classi popolari e a collocare sotto il segno della meschinità egoistica le classi borghesi. Mussolini si esprimeva a tale riguardo con crescente livore, incolpando queste ultime dell’andamento catastrofico della guerra e Bonnard ripete la propria filosofia popolaresca che aveva già animato La gerla di papà Martin di un paio di anni prima. Allora come adesso agli ambienti “depravati” delle glassi agiate fa da controcanto la poesia della povera gente che vive di poco, lavora con ostinazione e sa rendersi utile senza badare costantemente al proprio tornaconto. Pertanto la storia dell’ “amore infranto” di Peppino, oltre a offrire i luoghi canonici del melodramma, funziona anche da lezione morale intorno alla inutilità di perseguire con tenacia un’elevazione sociale che spesso non corrisponde a un progresso etico. Il lungo e fondamentale episodio della bisca e della galera sembra volere ribadire in immagini il discorso di Mussolini del gennaio 1942, allorché rispondendo a Colesanti, il federale di Roma, afferma che “questo fenomeno d’incoscienza è molto diffuso in numerose città più di Roma. Si gioca molto. Adesso questo spettacolo dovrà finire. Anche se si gioca nelle case private il fatto che una bisca sia nella casa del signor X o del signor Y non significa che non sia una bisca. Tutto questo dà luogo a commenti che io trovo giustificati. Il popolino quando sa che il signor X ha vinto da un altro signore la importante somma di 700mila lire e l’avvenimento è stato festeggiato in un albergo, il popolino è autorizzato a fare questo ragionamento:... mentre il popolo dà i suoi figli a combattere in Russia contro il bolscevismo, sopportando un freddo che è arrivato a 46 gradi sotto zero, costoro danno questo spettacolo di sublime cinismo”.
Il tema dell’amore per i più piccoli, un amore capace di andare al di là delle convenzioni sociali (Carletto è un figlio illegittimo), è un secondo tema ricorrente della cinematografia del periodo (in linea, come si è già rilevato, con il pensiero del duce); anche questa volta un uomo di umili condizioni si fa subito carico delle esigenze del bambino semiabbandonato laddove il (si presume ricco) padre lo aveva trascurato e lasciato andare al suo destino. Le classi popolari sembrano pertanto più vicine alla natura, alle sue esigenze primarie mentre i borghesi appaiono dimentichi dei loro doveri naturali, obliati in favore di un fatuo benessere individuale.
Infine il racconto descrive un differente quadro sociale, innervato da elementi di insolito realismo nei confronti della situazione bellica, ormai degenerata in fame e disperazione: il protagonista vende pesce e questa cosa lo pone nell’ambito dei privilegiati; dispone di una merce assai ricercata in quei tempi ed è pertanto un popolano diventato di colpo un benestante, anche nei confronti di quelle eleganti signore (Elsa e l’amica) che lo invitano nella propria ricca dimora non certo perchè abbagliate dalla sua prestanza, bensì in quanto anche loro si trovano in evidente difficoltà. Insomma la drammatica situazione economico-sociale dei primi anni quaranta porta con sé anche un inatteso rimescolamente delle classi sociali e del loro benessere, rimescolamento che viene puntualmente registrato dal regista e dagli sceneggiatori. D’altro canto la descrizione del mercato di Campo de’ fiori, ricco di beni alimentari e di clienti, appare una mera utopia in quella tarda primavera del 1943 nella quale il cibo era rigidamente contingentato.
Il film successivo di Bonnard, Che distinta famiglia! (78 min.) viene interrotto dalle note vicende dell’estate 1943 e verrà completato e distribuito solo nell’ottobre 1945. La pellicola è veramente modesta: vi si mette in immagini una commedia ungherese sceneggiata dal regista nella quale a un duca (Aroldo Tieri) la famiglia nega il permesso di sposare la fidanzata (Assia Noris), una celebre cantante americana, in quanto si tratta di una borghese. Si provvede allora a organizzare un rapido matrimonio - divorzio (siamo a Parigi) con uno spiantato nobile locale (Gino Cervi), adattatosi a fare il cameriere d’albergo. Malintesi e sorprese portano allo scontato finale in cui la donna si innamora del cameriere-conte. Girato tutto in interni, fatto che accentua la matrice letteraria del lavoro, l’ultima pellicola dell’era fascista di Bonnard non propone elementi di interesse. Vi si ritrova comunque la consueta aspra satira delle classi nobiliari e alto borghesi, soggiogate dall’abituale concentrato di capricciosa vacuità.

Il successo riportato da Campo de’ fiori induce Aldo Fabrizi a riproporre un personaggio simile a quello del pescivendolo romano in L’ultima carrozzella (dicembre 1943; 90 min.), film diretto da Mario Mattoli su soggetto di Aldo Fabrizi, sceneggiato insieme a Federico Fellini. C’è ancora la Magnani, questa volta nel solito ruolo di volgare soubrette, mentre perfino le battute replicano fedelmente quelle del film precedente (in particolare quella sul timore di una contravvenzione a seguito di abbracci maschili troppo espansivi con la quale il comico romano allude alla realtà illegale dell’omosessualità).
Le disavventure del vetturino Totò, un popolano molto simile al pescivendolo Peppino, si dipanano ora nell’ambito di una presunta truffa: la canzonettista accusa il vetturino di avergli sotratto un brillante dalla valigia incautamente dimenticata sul calesse. Nel finale a sorpresa, in tribunale, tutto si aggiusta.
Anche questa volta il semplice uomo del popolo si avvicina a una realtà sociale differente e “superiore”, quella del mondo dello spettacolo, del gioco delle corse (la tematica del gioco ritorna ancora, con accenti fortemente negativi in quanto viene mostrata una folla di persone che si accalca a giocare fortissime somme alle corse dei cani, evento in conflitto con la realtà miserabile e “affamata” della primavera 1943; vi si sottintende che si tratta di sfaccendati dediti a traffici loschi; non manca un preciso accenno alla piaga della borsa nera), delle belle di una notte (la Magnani appunto) e ne rimane scottato: finisce in galera ingiustamente, accusato di furto e solo il caso riesce a salvarlo da una condanna ormai certa.
La pellicola insomma ribadisce le simpatie populiste di Campo de’ fiori ma con un racconto più sfilacciato ed episodico, godibile a tratti, più spesso retto unicamente della simpatica maschera di Fabrizi.