Schumann in pellicola
Le biografie per immagini dedicate a Robert Schumann sono solamente tre:
Träumerei (1944) del regista tedesco Harald Braun, su sceneggiatura di Harald
Braun e di Herbert Witt, con Hilde Krahl (Clara Wieck), Mathias Wieman (Robert Schumann), Emil Lohkamp (Franz Liszt) e Ulrich Haupt (Johannes Brahms), inedito in Italia e pressoché invisibile da molti decenni.
Il canto dell’amore
(tit. or. Song of Love; 1947; 118 min.) di Clarence Brown, mediocre film hollywoodiano con Katharine Hepburn (Clara Wieck), Paul Henreid (Robert Schumann), Rober Walker (Johannes Brahms) e Henry Daniell (Franz
Liszt). La sceneggiatura deriva da un testo teatrale di Bernard Schubert e Mario Silva. Le esecuzioni al pianoforte sono a cura del direttore William Steinberg e del pianista Artur Rubinstein. Il racconto, dopo un breve
prologo intorno alle vicissitudini amorose dei giovani Robert e Clara, ostacolati dal futuro suocero, si incentra sugli eventi del 1853-54, a partire dall’arrivo di Brahms a casa Schumann. Il film, di stampo teatrale (girato
quasi interamente in interni), è radicalmente infedele alla realtà storico-musicale: gli autori sovrappongono ad essa banali invenzioni sentimentali, rendendo il lavoro totalmente privo di interesse. Anziché raccontare il lento
precipitare nella follia del musicista - argomento peraltro adatto a uno sviluppo cinematografico - si fantastica intorno all’amore impossibile del giovane Brahms per Clara, lasciando in definitiva sullo sfondo la figura di
Schumann. Altrettanto inesatti sono tutti i riferimenti musicali: basti dire che Brahms si presenta a casa di Robert e Clara eseguendo la Rapsodia op. 79 n. 2, un brano che risale al 1879 (ovvero a venticinque anni dopo
gli eventi raccontati nel film). Interessante notare invece che gli unici brani di Schumann ai quali si concede un certo spazio (a parte l’immancabile Träumerei) sono il Carnaval op. 9 e il Concerto per
pianoforte: in questa mielosa pellicola - incredibilmente avara di attenzioni nei confronti dell’arte del grande compositore - quanto meno si ricava la conferma che quei due lavori schumanniani, alla metà del Novecento così
come ancora oggi, sono quelli più amati dal grande pubblico.
Sinfonia di primavera (tit. or. Frühlingssinfonie,
1983; 105 min.), film tedesco di Peter Schamoni con Nastassja Kinski (Clara Wieck), Herbert Grönemeyer (Robert Schumann), Rolf Hoppe (Fiedrich Wieck) e
André Heller (Felix Mendelssohn). Il titolo riprende quello della prima sinfonia del compositore. Il pregevole film di Peter Schamoni - uno specialista del documentario, autore di validi lavori sui pittori Max Ernst e
Caspar David Friedrich - offre un ritratto di grande verosimiglianza intorno alle vicende biografie di Robert, Clara e Friedrich Wieck nel periodo 1830-41 e va considerato come una delle migliori biografie musicali della storia
del cinema. Insolita coproduzione tra la Germania occidentale e quella dell’est, la sceneggiatura, sempre di Schamoni, ricostruisce con puntigliosa precisione ambienti e figure, ripercorrendo con attenta partecipazione il
cammino artistico del giovane Schumann (le numerose citazioni dal repertorio pianistico sono tutte appropriate) e spesso citando nei dialoghi, in modo del tutto naturale, frasi note (tratte dalle lettere o dai diari) dei
personaggi. Il racconto si concentra sugli anni lipsiensi di Schumann, sul suo difficile rapporto con Friedrich Wieck (un ottimo Hoppe) e sul travolgente amore per Clara. Nel fare ciò esso inoltre ricrea, con encomiabile
precisione, gli ambienti concertistici, gli accesi dibattiti interni alla nuova generazione romantica, l’aspro conflitto con lo spietato Wieck, la complessa situazione familiare di Clara (il freddo rapporto con la matrigna) e
termina con le nozze e l’esecuzione della Prima sinfonia schumanniana al Gewandhaus, sotto la direzione di Mendelssohn.
Il film utilizza interpretazioni musicali di Wilhem Kempff, Ivo Pogorelich e Wolfgang Sawallisch.
Raramente la musica di Schumann è stata impiegata quale colonna sonora cinematografica. Un paio di esempi - tutti interni alla grande tradizione del film d’arte europeo - si
impongono:
Fanny e Alexander (tit. or. Fanny och Alexander,
1982) di Ingmar Bergman, memorabile capolavoro in parte autobiografico e vasto affresco della vita in Svezia (a Uppsala) agli inizi del Novecento tratteggiato da uno dei maggiori registi della storia del cinema. La versione
originale si compone di cinque puntate televisive (312 min.) mentre in Italia è circolata soprattutto la ridotta versione cinematografica (197 min). Bergman utilizza in modo magistrale il secondo movimento del Quintetto op. 44 per pianoforte di Schumann i cui due temi antitetici, una cupa marcia funebre e un’intensa melodia di natura elegiaca, vengono associati in modo indissolubile ai mondi violentemente contrapposti dell’austera residenza dell’arcivescovo Vergerus e della misteriosa bottega dell’antiquario ebreo Isak Jacobi. Sebbene le apparizioni dei due motivi siano in realtà pochissime, esse segnano e rafforzano l’intima essenza del racconto: l’undicenne Alexander Ekdahl, cresciuto con amore nell’universo favolistico e teatrale del padre Oscar, morto quest’ultimo vive come un crudele esilio il proprio rapporto col terribile, dogmatico patrigno Vergerus (la marcia funebre) e ritrova la propria identità - abbandonata finalmente la residenza dell’arcivescovo - nei labirinti magici della bottega di Jacobi (tema elegiaco). Nel gioioso epilogo il motivo cantabile, trasfigurato nella timbrica di un carillon, sigla lo scampato pericolo e la riunione generale della famiglia Ekdahl.
Ludwig (1973) di Luchino Visconti è la fluviale (264 min.) biografia di Ludwig II, re di Baviera, dal giorno della sua
incoronazione (1864) a quello della sua morte (1886). Nella solenne e magnifica pellicola prevalgono, come è ovvio, i motivi wagneriani; per commentare il lungo incontro (posto all’inizio del racconto) tra il protagonista e la
cugina Elisabetta d’Austria, Visconti utilizza invece Le scene infantili op. 15 di Schumann. Ascoltiamo dunque le prime sette miniature (fino al celebre Träumerei) scorrere nel fondale sonoro durante il complesso
e ammiccante dialogo della coppia, ma la presenza delle melodie schumanniane ci appare fuori posto. I bozzetti musicali dell’artista rimandano a un universo infantile ingenuo che è l’esatto opposto delle allusioni sessuali che
costellano il discorso dei due aristocratici; inoltre il carattere “pittorico” di numerosi brani rimanda a singole situazioni ben delineate, totalmente estranee alle immagini. Probabilmente la scelta di Visconti (peraltro, in
quasi tutti i suoi film, un maestro nel creare emozionanti abbinamenti di tele sonore e visive) voleva semplicemente ricordare il carattere “immaturo” di Ludwig, la sua esuberanza di eterno adolescente; ma tale operazione
approda in definitiva solo a un artificioso gioco intellettuale, troppo mediato per risultare efficace.
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