Bello onesto emigrato Australia e Lo scopone scientifico

Il presidente del Borgorosso Football Club, Le coppie, Noi donne siamo fatte così, Gli ordini sono ordini, Detenuto in attesa di giudizio, Bello onesto emigrato Australia..., Lo scopone scientifico: uomini arrendevoli e donne in lotta (1970-72)

                Amedeo: Halo Giuseppe, sono io mi senti? 
                Giuseppe: Sì, chi è che parla? 
                Amedeo: Sono Amedeo. 
                Giuseppe: È già arrivata tu moglie? 
                Amedeo: Sì, è arrivata. 
                Giuseppe: E com'è? 
                Amedeo: Giuseppe è un gran colpo, è bella! 
                Giuseppe: E perché, la volevi brutta? 
                Amedeo: No, è che è troppo bella!
                dialoghi da Bello onesto emigrato Australia

Luigi Filippo D’Amico, giunto al proprio sesto lungometraggio, torna a lavorare con Alberto Sordi (con cui aveva esordito nell’interessante Bravissimo, 1955) ne Il presidente del Borgorosso Football Club (ott. 1970; 115 min.), pellicola tra le peggiori interpretate dal comico romano, qui anche tra gli autori della sceneggiatura.
Vi si narrano le peripezie di Benito Fornaciari (A. Sordi), timido impiegato in Vaticano, che eredita la squadra del Borgorosso alla morte del padre e si reca nell’omonimo paesino (in realtà Bagnacavallo, situato nelle vicinanze di Forlì e Predappio) con l’idea di svendere tutto e ritornare alla tranquillità vaticana. Invece, gradualmente, l’uomo si appassiona alla nuova realtà di provincia, alla squadra (che gioca in serie D) che sembra essere l’unica preoccupazione degli abitanti locali e, pur non capendo nulla di football, finisce addirittura per dirigerla (impegnando tutte le sue consistenti sostanze) con esiti alterni. Nel finale, dopo essere stato cacciato da una parte dei tifosi, decide di tornare con un gesto estremo: l’assunzione di Omar Sivori quale nuovo allenatore.
La pellicola è il primo tentativo di commedia calcistica dopo i film degli anni cinquanta (La domenica della buona gente, Gli eroi della domenica, Gambe d’oro) ed è un tentativo fallimentare poiché la vicenda è totalmente fasulla, da qualunque parte la si rigiri. Un romano, vissuto nella quiete del Vaticano, di colpo si appassiona (non si sa perché) a questa squadra in un paesino che sembra vivere solo per il calcio. Siamo nel 1970, poco dopo l’autunno caldo, la strage di piazza Fontana e le tensioni sociali animate da gruppi estremistici; per quanto il paesino sia una realtà isolata, questo suo interessarsi esclusivamente del calcio di serie D appare una forzatura favolistica inaccettabile; ne consegue che tutti i personaggi, peraltro affidati ad attori secondari e poco incisivi, appaiono marionette senza vita come pure il ruolo di Sordi che dovrebbe reggere, da solo, l’intera pellicola. Invece l’attore romano, inserito in questo contesto artificioso, non riesce mai a divertire e ripete senza sosta i suoi vezzi tipici, fino a ottenere un effetto di monotona saturazione. La sceneggiatura è inesistente e impone una sequela di noiose partite, giocate malamente, accanto a personaggi che parlano a vanvera di schemi calcistici e al mattatore che invano si sgola e si sbraccia al fine di animare questo film inerte. Di tutto il lavoro colpisce solo la breve imitazione mussoliniana con cui, parlando dal balcone di casa, Benito (Fornaciari) arringa la folla, riproducendo le grottesche e ben note pose del duce.
Il regista farà molto meglio tre anni dopo, con L’arbitro affidato a Lando Buzzanca (vedi) mentre un fiorire di film sul calcio (spesso migliori di questo) si avrà solo in seguito, nei più disimpegnati anni ottanta.
Va infine detto che forse dietro al film si celava un intendimento politico preciso ovvero quello che riuscirà sette anni dopo con l’esperimento de La febbre del sabato sera (Badham, 1977): proporre un film di puro intrattenimento con cui lanciare una moda e un filone narrativo, quello del calcio, tematica già ben radicata negli Italiani, che potesse ottenere un successo tale da sviare le tensioni politiche, mediante l’incentivazione a tutti i livelli delle tifoserie. Non a caso nel film, fortemente voluto da Sordi - non solo appassionato di calcio ma soprattutto uomo di idee conservatrici - il football viene definito il vero oppio dei popoli. Sebbene la pellicola risulti un notevole successo commerciale (12° posto negli incassi dell’anno), l’effetto emulazione non ci sarà e l’opera rimarrà un fatto isolato.

Le coppie (dic. 1970; 120 min.) è un modesto film a episodi che giunge nella fase terminale di questo genere filmico assai fortunato negli anni sessanta, genere che avrà una breve rinascita (I nuovi mostri, Signore e signori buonanotte) a metà degli anni settanta.
Ne Il frigorifero (M. Monicelli) la coppia di spiantati di origine sarda, Gavino e Adele (Enzo Jannacci, Monica Vitti) vive in un sottoscala, tra anonimi casermoni alla periferia di Torino e venera come una divinità il grande frigorifero (un elettrodomestico entrato nella vita di tutti gli italiani all’inizio degli anni sessanta) che troneggia nel piccolo monolocale. Intorno ai due rappresentanti della categoria degli umiliati ed offesi ci sono piccolo borghesi odiosi o ripugnanti (dagli impiegati dei negozi ai clienti delle prostitute), secondo un ben noto modello ideologico. Per completare il pagamento delle rate Adele decide di prostituirsi, almeno una volta; Gavino la lascia fare. Poi però l’occhio cade su una lavatrice e si comprende che lo stile di vita della coppia cambierà.
Monicelli racconta la perdita dell’innocenza del proletariato a contatto con i miracoli della tecnica, in una logica non lontana dalla retorica pasoliniana relativa al sottoproletariato delle borgate romane. Il problema è che la coppia di protagonisti, per quanto bravi, offrono una versione caricaturale e inverosimile dei loro personaggi mentre l’ambiente circostante pare eccessivamente ostile ad ogni loro iniziativa. In ogni caso la visione di un benessere che si estende a tutte le classi sociali, in un modo o in un altro, è efficace e, infine, porta a identificarsi con la scelte amorali di Adele più che a condannare il “sistema borghese”.

Una logica quasi antitetica vive nell’episodio La camera di taglio decisamente conservatore. Sordi (attore e regista) inaugura la creazione della coppia di romani incolti e arricchiti (torneranno in due episodi in Il comune senso del pudore del 1976 e Dove vai in vacanza del 1978; vedi) che, per una volta, decide di concedersi una vacanza tra i milionari di Porto Rotondo. La vistosa famigliola incontra la prevedibile ostilità dei gestori degli alberghi di extralusso e, dopo numerose peripezie, finisce per passare la notte in prigione.
Sordi abbraccia una visione politica di marca populista, venata da un inconsueto ribellismo antisistema attraverso questi due incredibili piccolo borghesi che appartengono alla stessa cerchia di personaggi secondari che si opponevano a Gavino e Adele e che venivano, allora, guardati con disprezzo. Il bersaglio di questo episodio, quindi, si sposta verso un’alta borghesia finanziaria e un’aristocrazia poco note alla gente comune. Tutto il ciarpame delle mode pseudoculturali della massoneria altoborghese viene ridicolizzato in questo raccontino (come peraltro nei due citati, successivi episodi di fine decennio, con i quali costituisce una suggestiva trilogia). Il regista smaschera la logica settaria di questo clan elitario che ama riunirsi in luoghi riservati, tutti identici seppur situati in ambienti geografici assai differenti, la cui unica particolarità consiste nel fatto di essere inaccessibili (a causa delle esose tariffe) alla normale borghesia produttiva. Spiagge “speciali” (uguali a tante altre), luoghi per nudisti e pranzi costosissimi segnano un universo di noia blasonata di cui la coppia romana scopre presto il presuntuoso grigiore.
Di nessun interesse è invece il breve episodio conclusivo Il leone, firmato da un De Sica svogliato, intorno a due amanti clandestini (Sordi e Vitti troppo sopra le righe e pertanto poco divertenti) bloccati in una villa di Castelgandolfo da un leone fuggito da un circo.

Dino Risi torna al film a episodi, genere in cui aveva dato ottime prove (I mostri, Vedo Nudo) ed in cui si cimenterà ancora con esiti sempre interessanti (Sessomatto, I nuovi mostri) con il deludente Noi donne siamo fatte così (set. 1971; 110 min.) scritto con collaboratori di prestigio (Sonego, Scola, Vincenzoni, Age&Scarpelli) e affidato al notevole talento di Monica Vitti (si sono anche Enrico Maria Salerno e Carlo Giuffrè).
Il problema di questi dodici brevi episodi consiste nel fatto che le situazioni non riescono mai ad essere realmente umoristiche mentre il percorso narrativo è scontato fin dall’incipit di ciascuna vicenda. Sfilano pertanto la “schiava d’amore” che vorrebbe ribellarsi all’uomo padrone senza riuscirvi, la coppia di siciliani che in pubblico sostiene la coppia aperta e in privato, di fronte all’adulterio accertato, commette una strage, l’orgogliosa madre napoletana di 22 figli, la suora modernista che intona un inno rock in cui si implora Dio di “venire”, la moglie borghese insoddisfatta che si finge abusata per provocare un trio di popolani poco rassicuranti...
In pieno furore femminista la pellicola di Risi ridicolizza le smanie “indipendentiste” del sesso debole, ritrae figure tutte, in diversa misura, sottomesse al mondo maschile e descrive con palese ironia la distanza che permane tra le parole e le cose, tra nuovi costumi modernisti proclamati a gran voce e costantemente disattesi nella realtà quotidiana (la coppia sicula, la schiava d’amore... ).
Il coraggio del film, il cui taglio conservatore sfugge di mano anche agli sceneggiatori, in genere di simpatie progressiste, è però vanificato dal carattere prevedibile e spesso noiosetto dei singoli episodi. L’unica cosa che si salva è l’ottima presenza della Vitti.
Gli incassi furono modesti.

Disastroso risulta Gli ordini sono ordini (mar. 1972; 95 min) diretto da Franco Giraldi e basato su una sceneggiatura di Tonino Guerra e Ruggero Maccari ispirata a un racconto di Moravia.
In una città veneta di fantasia che comprende piazze importanti di Vicenza e Padova e scorci di Treviso e Jesolo Lido, si racconta, attraverso una sequela di irritanti stereotipi, l’emancipazione della casalinga Giorgia (Monica Vitti), una sorta di schiava rincretinita di un marito ottuso ed egoista (Orazio orlando), figura anch’essa irrealistica e scostante. Una vocina, espressione dello Zeitgeist, le ordina dapprima di concedersi a un bagnino, poi di amoreggiare con il solito artista scemo (Gigi Proietti) e in seguito con un malvivente in fuga dalla polizia (Corrado Pani), approdando a un finale scimmiottato dai primi coevi poliziotteschi. Giorgia, ammaccata e felice, è diventata una donna “libera” e rifiuta di tornare al domicilio coniugale...
Il film allinea una serie di inerti luoghi comuni, inquadrati nell’ottuso modernismo femminista di quegli anni e dà vita a un racconto di marionette, inattendibile come film ideologico e impossibile come film umoristico (non c’è una sola trovata divertente). Ciononostante l’opera ottenne un discreto successo.

Nanni Loy, insieme allo sceneggiatore Sergio Amidei, firma il deprimente Detenuto in attesa di giudizio (ott. 1971; 100 min.), racconto tetro ed artificioso dell’emigrato Giuseppe Di Noi (Alberto Sordi), geometra di successo, che rientra in Italia dopo sette anni di assenza per una vacanza insieme alla famigliola svedese.
Giunto alla frontiera, pieno di entusiasmo, l’uomo viene prelevato, ammanettato e portato immediatamente in galera (a San Vittore) mentre la moglie (Elga Andersen) rimane ferma alla dogana, priva di informazioni utili. Inizia la prevedibile odissea del malcapitato, sbattuto di prigione in prigione senza che, nell’arco di una decina di giorni, possa né rivedere la famiglia, né conoscere il capo di imputazione per cui gli è stata tolta la libertà. Il panorama delle carceri italiane fornito da Loy è agghiacciante: certamente rispondeva e risponde a una certa quota di verità; tuttavia l’avere mostrato sempre e soltanto figure ciniche e svogliate, violente e corrotte (secondini, direttori di carcere, giudici, avvocati e stenografi, poco cambia), marionette odiose e senza vita, offre uno spaccato inverosimile oltre che fazioso. Ovviamente i carcerati sono invece guardati con comprensione e spesso simpatia (con l’eccezione di un gruppo di perversi mafiosi nel finale che si appresta a violentare il protagonista). Il disegno è insomma fortemente politico: l’Italia è un paese invivibile, dove non ci sono diritti civili (l’assurdo del protagonista tenuto in isolamento senza potere vedere un avvocato o conoscere la propria imputazione) e solo una radicale rivoluzione sociale (sottinteso di marca socialcomunista) potrà riportare giustizia e umanità in questo tessuto sociale.
La pellicola si snoda noiosa e ripetitiva: il talento di Sordi viene sprecato in una discesa agli inferi sempre identica a se stessa (i volti dei carnefici sono, di volta in volta, quelli di Tanio Cimarosa o di Lino Banfi in un ruolo insolitamente drammatico), in situazioni estreme in cui l’attore può solo mostrare, in modo monocorde, un unico atteggiamento vittimistico. Dopo mesi e dopo una altrettanto scontata rivolta carceraria, in un finale frettoloso e poco chiaro (anche perché è obiettivamente difficile giustificare in modo credibile una simile odissea), Giuseppe Di Noi, ormai traumatizzato e irriconoscibile, viene informato del capo d’accusa e contestualmente riconosciuto innocente.
Detenuto in attesa di giudizio è certamente tra le peggiori pellicole di Nanni Loy (autore assai sopravvalutato) e Sordi. Paradossalmente si potrebbe dire che lo schema (non privo ovviamente di elementi di verità; non c’è mai fumo senza fuoco... ) con il quale i due autori (Loy-Amidei) hanno cercato di mettere in pessima luce il sistema Italia, è stato ampiamente mutuato dai sistemi totalitari e comunisti in particolare, ovvero quei sistemi che, in maniera implicita, dovrebbero costituire una valida alternativa alle democrazie capitalistiche dell’Occidente. Se volessimo immaginare la storia del nostro geometra ambientata nella Russia sovietica o nella Cecoslovacchia comunista, ecco che essa tornerebbe ad essere più credibile. Il fatto di venire prelevati di colpo, senza accuse precise, allontanati dalla famiglia senza spiegazioni e tenuti in isolamento è stata, come noto, una prassi ricorrente nei sistemi d’oltre cortina, fatto peraltro raccontato in numerosi film (si pensi all’esemplare Papà è in viaggio d’affari di Kusturica sulla Jugoslavia di Tito o al polacco L’uomo di marmo di Wajda, 1976).
Il cinema italiano post ‘68 sta attaccando frontalmente le istituzioni italiane: la polizia (Indagine su un cittadino, 1970), le gerarchie militari (Uomini contro, 1970), gli industriali (La classe operaia va in paradiso; La califfa, In nome del popolo italiano); Loy prende di mira il sistema carcerario, (obiettivo anche de L’istruttoria è chiusa dimentichi Damiani, 1971). Certamente tutto è sempre migliorabile e spesso le critiche partono da elementi di verità; tuttavia queste pellicole, spesso assai valide dal punto di vista squisitamente filmico (non è il caso del presente lavoro), affrontano queste realtà in maniera così radicale da rendere evidente che l’opzione degli autori non è quella di riformare/migliorare tali realtà ma semplicemente di abbatterle all’interno di un processo rivoluzionario che traghetti la penisola verso un sistema di democrazia popolare, prossimo al comunismo sovietico ovvero un sistema assai peggiore di quello presente nell’Europa liberale, democratica e capitalista.
Il film ottenne un notevole successo commerciale.

Zampa dirige Sordi per la terza volta  in pochi anni (dopo Il medico della mutua e Contestazione generale) con Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (dic. 1971; 120 min.), sceneggiato da Rodolfo Sonego e brillantemente musicato da Piero Piccioni.
Amedeo vive un’esistenza solitaria e malinconica in Australia; non riuscendo a trovare una moglie decide di tentare la sorte, facendola venire dall’Italia. Così spende ogni risparmio per unirsi a Carmela (Claudia Cardinale), una prostituta in fuga dal suo protettore. Il racconto è tutto nel titolo: lui non è bello (è anche povero ed epilettico), lei non è illibata; su questo gioco di menzogne e malintesi si regge l‘intero, lungo viaggio che la coppia fa da Sidney a Bum Bum Ga, durante il quale Amedeo, intimorito dalla fiera bellezza della compagna, non osa raccontarle di essere il suo pretendente (le ha inviato la foto dell’amico Giuseppe/Riccardo Garrone) mentre lei, che ovviamente si spaccia per un’operaia, è ansiosa di congiungersi al presunto marito che crede ricco (Amedeo si è spacciato per un capostazione mentre è un modesto operaio delle ferrovie). Infiniti equivoci costellano il divertente itinerario che illustra un continente in cui le meraviglie della natura si alternano alla scoperta del carattere prosaico degli abitanti, violenti e spesso ubriachi. Infine Carmela si getta tra le braccia di Giuseppe che prontamente la mette a fare lo stesso  lavoro che faceva a Roma; compresa la lezione, la donna, alquanto riluttante, sembra volersi adattare al proprio destino di sposa di Amedeo (il quale a sua volta ha accettato di avere in casa una ex donna di strada), ma il finale è aperto.
Sordi e la Cardinale, entrambi molto bravi, riescono a dare vita e sostanza a questo piccolo affresco australiano, fatto di amarezze e meschinità; prigionieri di contesti brutali e menzogneri, accantonata da tempo l’illusione del vero amore e di un’esistenza pienamente appagante, i due loser cercano una situazione accettabile e sono disposti a sopportare chiunque possa offrirla. E’ dunque l’ennesimo ritratto della dura vita del migrante, fatta di lavoro sfiancante e di una conseguente salute malferma, spesso conseguenza delle terribili condizioni ambientali che si è costretti ad accettare. Nel confessarla alla compagna di sventure, il protagonista riesce a mettere a fuoco, contemporaneamente, la propria bonaria sensibilità e l’arido contesto australiano (una ex colonia inglese, utilizzata per un lungo periodo come colonia penale, grande venti volte l’Italia e popolata da soli 225 milioni di abitanti).
Zampa, autore di sinistra, arricchisce il racconto con la propria abituale capacità di ritrarre  le classi sociali più sfortunate e disagiate mentre la sceneggiatura di Sonego riesce a illustrare la capacità più grande degli Italiani, soprattutto all’estero ovvero quella di indossare una quantità infinita d maschere mendaci. In fondo tutto è falso nel rapporto tra i due protagonisti anche se entrambi sono animati da una positiva volontà di trovare un reale accordo nei confronti del prossimo: si mente per compiacere l’altro e per innescare con lui uno schema esistenziale che funzioni. In questo senso la creatività italiana è, in fondo, l’essenza più profonda di questo vivace e intenso racconto: Amedeo e Carmela, come si è detto disposti a tutto, finiscono per accettare anche le falsità altrui pur di portare a compimento il proprio progetto. Perfino il mutamento degli orizzonti morali non scompone più di tanto Amedeo: ancora legato a un’ottica tipica degli anni cinquanta e ignaro dei radicali cambiamenti apportati dalla modernità degli anni sessanta (o meglio dalla rivoluzione sessuale), l’uomo pretende una sposa illibata ma si abitua, senza troppi drammi, ad accettare la nuova realtà. L’incontro di Amedeo e Carmela è anche l’accostamento di due mentalità antitetiche e conflittuali - quella conservatrice e quella progressista - appartenenti ad epoche diverse (nel nuovo millennio la prima, un tempo appannaggio prevalentemente dell’universo maschile, si è ormai dissolta).
Flessibilità e capacità di adattamento sostenute da un evidente, implicito nichilismo ideologico risultano le qualità indiscusse della natura italica, perfettamente esemplificate nella coppia di protagonisti. La dolce fragilità di Amedeo e l’impetuosa disperazione di Carmela sono destinati a convivere, perché assediati da una società spietata, retta dalla sopraffazione reciproca.     
Il film riscosse un grande, meritato successo commerciale.      

Luigi Comencini, coadiuvato dallo sceneggiatore Rodolfo Sonego, gira Lo scopone scientifico (ago 1972; 115 min.), una specie di tediosa favola marxista, travestita da film neorealistico e resa interessante dallo straordinario quartetto di interpreti.
Peppino (A. Sordi) e Antonia (Silvana Mangano) sono due umili borgatari che vivono in un quartiere di baracche nelle vicinanze di San Pietro, in un contesto semifavolistico memore di Miracolo a Milano. Sordi riprende il personaggio del poveraccio rassegnato del recente Bello onesto emigrato Australia, mentre la Mangano gioca il ruolo della donna fiera e combattiva (non lontana dalla Carmela del film di Zampa), decisa a tutto per migliorare il proprio stato. Ogni anno giunge dagli Usa una tremenda miliardaria (Bette Davis), vecchia e ipocrita, le cui buone maniere celano la propria infinita avarizia e una subdola malvagità volta a ripetere, in modo coatto, un gioco di sadica sopraffazione. La sua villa domina simbolicamente le borgate e il suo unico divertimento è giocare a scopa ovvero illudere poveracci come Peppino e Antonia donando loro un milione di posta che essi sono obbligati a giocare e regolarmente a perdere. Inutile dire che l’intero racconto è pura simbologia: un capitalismo di marca americana domina sfrontatamente gli umili ad ogni latitudine del pianeta, si diletta nello sfruttarli (li fa giocare/lavorare), non dando loro nulla in cambio. I poveri, ritratti come gente prossima alla santità (non manca tra loro il solito sacerdote di sinistra), vivono nella speranza di avere, prima o poi, un colpo di fortuna, simboleggiato dalla occasione che, ogni anno, viene data alla coppia Peppino-Antonia. Tra loro c’è anche il prevedibile professore marxista (Mario Carotenuto) che li indottrina quotidianamente con le solite nenie sulla inevitabile rivoluzione alle porte mentre, più nascosta e silenziosa, c’è anche la giovanissma Cleopatra (figlia della coppia di giocatori) la quale medita di risolvere la cosa con le armi del terrorismo: durante l’intero film prepara amorevolmente la sua “bomba” (un dolce avvelenato) che poi offre alla miliardaria e al suo servile segretario (Joseph Cotten) nelle ultime immagini, capovolgendo così la disfatta totale dei proletari in una sinistra vittoria.
Mentre il percorso narrativo è quanto mai scontato e stucchevole (l’ossessiva ripetitività di dialoghi e situazioni è il peggiore difetto e genera noiose lentezze), con i nostri eroi a un passo dal vincere una fortuna prima di perdere tutto, d’altro lato la silente presenza di Cleopatra costituisce l’unico elemento di interesse del racconto (comunque salvato dalla splendida interpretazione dei quattro protagonisti). Ai piedi della villa, emblema del capitalismo, ci sono in agguato non solo le grigie marionette delle borgate, tipico falso, indulgente ritratto di una realtà popolare “inventata” dalla classe media e “illuminata” della penisola (ritratto che ritroviamo costantemente nel cinema italiano “impegnato”; certo il popolo è visto in maniera ben differente nei poliziotteschi di destra...), che si balocca, in modo stolto e pericoloso, con l’ideologia sovietica appostata ai nostri confini; c’è anche la giovane assassina che ha compreso che le parole marxiste e le speranze (una via legale alla ricchezza) degli umiliati e offesi sono senza futuro e pertanto mette in campo l’unica arma rimasta alle classi più sfortunate del sistema ovvero il terrorismo: uccidere i propri nemici in maniera subdola. Comencini e Sonego raccontano questo sinistro apologo nei giorni in cui numerose formazioni terroristiche muovono i primi passi (le BR su tutti) e pochi mesi dopo la morte di Feltrinelli e soprattutto del commissario Calabresi (mag. 1972), primo gesto inequivocabile del terrorismo di sinistra. Uccidere a tradimento rimane l’ultima arma dei diseredati più cinici e determinati: l’Italia se ne accorgerà di lì a poco, quando le strade delle città (soprattutto del nord) diverranno impropri campi di battaglia per formazioni terroristiche che giocano alla rivoluzione.
Il cinema d’autore si colloca spesso al fianco di queste formazioni composte da fanatici (fanatico è chiunque uccida a freddo, in nome di un’idea), guarda sovente ad essi con indulgenza, come a “compagni che sbagliano” ma pur sempre “compagni” e lo fa utilizzando i propri artisti più convincenti, dando luogo a pellicole di alta qualità artistica che, infatti, trovano ascolto preso vasti strati della popolazione.
Se esaminiamo il racconto di Sonego, scopriamo che esso concede poco spazio a un’ottica graduale e riformista, la impersonifica nel protagonista principale e la ritrae come destinata alla sconfitta. Il povero Peppino, ritratto come uno sciocco, come una mente confusa e ignorante al confronto della battagliera Antonia o del professore marxista, è invece l’unico ad avere compreso che la salvezza consiste nel mettere in salvo almeno una parte della vittoria al tavolo da gioco; invece l’ansia assolutista dei marxisti (dal professore, ad Antonia a tutto il coro dei popolani che plaude loro) vuole una ricchezza totale e soprattutto desidera la rovinosa caduta del nemico capitalista. Invano un giocatore esperto (Domenico Modugno) avvisa gli stolti che non ha senso giocare al raddoppio poiché la miliardaria possiede ricchezze quasi infinite e pertanto, prima o poi, vincerà tutto il piatto. E’ un fatto che Peppino intuisce perfettamente: egli, ovvero l’anima riformista del sistema, non ha interesse a distruggere la spietata Signora ma semplicemente a migliorare il proprio singolo stato; ciononostante l’ottusità ideologica che pervade tutti i suoi compagni porta l’iniziativa di rivalsa popolare alla più completa rovina dopo la quale non resta che l’arma del terrorismo. Forse senza rendersene completamente conto, gli autori narrano questo tipo di situazione ovvero l’ottusità dei marxisti - impermeabili al realismo graduale di Peppino, emarginato come mediocre e inconcludente - la loro sconfitta inscritta nelle cose, la loro spocchia e il loro disprezzo per la tradizione, accecati dall’odio nei confronti del capitalismo, del lusso e della ricchezza (il ritratto perfido della miliardaria riassume tutto questo astio risentito dell’ “ultimo uomo” di Nietszche), qualità che sono comunque il portato di intelligenze superiori a quelle dei borgatari che  vivono trafficando in rifiuti. Il dogma “religioso” dell’ugualitarismo, cui aderiscono gli autori del cinema di “denuncia civile”, deforma le cose e produce questo genere di false rappresentazioni.
Nel complesso la favola, come tanti prodotti coevi di Petri, Rosi e Damiani, possiede un indubbio fascino filmico e otterrà un notevole successo commerciale.

testo scritto nel mag. 2019