Shadow of a Doubt

Shadow of a Doubt: un giustificato sospetto (1943)


            “...credo che, se, per disgrazia, dovessero sparire tutti gli altri film che ha fatto,
            L’ombra del dubbio darebbe un’idea inesatta del tocco <alla Hitchcock>”
            Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock (1967)
             

Hitchcock, in qualche modo irritato dall’aver dovuto sottostare al diktat della produzione in Suspicion, ne gira una seconda versione con Shadow of a Doubt (gennaio 1943; 108 min.), decisamente migliore e più aderente ai suoi iniziali propositi nei confronti del romanzo di Iles. Basandosi su una sceneggiatura originale scritta da Thornton Wilder, Alma Reville (moglie del cineasta) e Sally Benson, il regista inglese rimette in scena la situazione già centrale nel testo del giallista inglese, sviluppandola però in modo differente.
All’interno di un tranquillo contesto familiare (siamo a Santa Rosa, cittadina nell’immediato nord di San Francisco) irrompe un personaggio brillante e ambiguo: lo zio Charlie (un ottimo Joseph Cotten). Praticamente venerato da tutti, l’uomo, che si fa passare per un affarista di successo, è invece il perfido assassino denominato Merry Widow in quanto ammazza e deruba allegre vedove (eterna variante dell’allora celebre Henri Landru detto anche Barbablu [1869-1922]; quattro anni dopo sarà la volta di Chaplin con Monsieru Verdoux). Ha alle calcagna una coppia di sciocchi poliziotti che non riusciranno a infastidirlo se non superficialmente. All’interno della grigia routine della famigliola, la nipote Charlie (Teresa Wright; ma Hitchcock avrebbe voluto Joan Fontaine, così da sottolineare maggiormente il legame con il precedente Suspicion), insofferente del grigiore familiare e ansiosa di evasione dall’universo delle regole tradizionali (non a caso si chiama come l’assassino), dapprima pende dalle labbra dello zio giramondo; poi, un po’ alla volta, scopre di chi realmente si tratta.
Nella sequenza posta nell’esatto centro del film la donna, in preda a una forte ansia, corre alla biblioteca centrale dove – in un episodio solenne e magnifico - trova la definitiva prova delle colpe dello zio: la tensione emotiva si accumula durante la corsa verso l’edificio e trova una propria catarsi nell’efficace dolly con cui la mdp si alza dalla protagonista e dal quotidiano che sta consultando per esprimere – con tale inattesa enfatizzazione del quadro visivo - la tempesta interiore che agita Charlie. Da quel momento le allusioni sonore (la ricorrente citazione del tema de La vedova allegra di Lehar) assumono un preciso significato ed inizia un lungo duello tra la giovane e il malvagio parente. In questa seconda parte l’ambiguità va scemando e l’interesse si sposta sulle impreviste gesta dell’assassino il quale tenterà per tre volte di ammazzare la nipote, nell’ultima delle quali – sul convoglio ferroviario che lo allontana da Santa Rosa – troverà la morte, cadendo dal treno in corsa.
L’ombra del dubbio è un buon film, senza pagine memorabili (a parte la citata sequenza della biblioteca) e privo di una vera e propria tensione. Innanzitutto va lodata l’ottima e (per Hitchcock) insolita ambientazione quasi documentaristica tra le strade di Santa Rosa, elemento che contribuisce a rendere più efficaci gli eventi oltre a costituire un valido documento d’epoca sulla cittadina californiana. Inoltre appare perfetta la figura del mascalzone, un Cotten insolito in un ruolo negativo, con accenti di superomismo e di evidente squilibrio psicopatico che portano nell’ambito dell’abituale misoginia hitchcockiana. Nel suo grande monologo a tavola, Charlie perde il controllo e, in un delirante crescendo degno del dostoieskiano Raskolnikov, descrive le anziane e spendaccione vedovelle intente a sperperare i soldi ricevuti in eredità dai defunti mariti come una stirpe subumana, degna di essere eliminata. La sciocca sorella ride, senza comprendere fino in fondo, mentre la nipote intuisce la verità. Questo assassino schizofrenico - un’evidente anticipazione sia del Bruno di Strangers on a Train (1951), sia del Norman Bates di Psycho (1960; vedi) - agisce secondo una logica cinica, anarcoide e antimodernista nella quale viene esaltata la naturale diseguaglianza degli individui e il conseguente diritto del più forte. La giovane nipote, annoiata dalla routine imperante nella modesta cittadina come dalla ripetitiva vita familiare, spera invano di incontrare, tramite lo zio giramondo, un universo ideale più colorito ed esaltante; al contrario si ritrova a dover fare i conti con le crudeltà di un mondo reale assai diverso dalle sue romantiche e sciocche aspettative: il confronto con lo zio si trasforma, insomma, in una cocente delusione e in un dolorosa presa di coscienza dei pericoli che allignano nell’agognato “mondo esterno” alla tranquilla Santa Rosa. Il mondo perde i caratteri del giocondo lunapark globale, pubblicizzato dai media modernisti, per rivelarsi luogo di tremende sopraffazioni. Alla giovane e irrequieta Charlie non resta che accettare la tradizione ovvero rimanere nella propria dimensione provinciale e ripiegare su tranquille nozze con lo sciocco detective che è stato incapace di individuare l’assassino e di difenderla dal pericolo.
Il disegno complessivo del film è, dunque, intrigante e ben condotto. Mancano però momenti alti mentre fallisce la tendenza a coniugare thriller e commedia semiumoristica attraverso l’inserimento di una serie di scadenti siparietti (le noiose discussioni tra il padre della ragazza e l’amico giallista sulle modalità del delitto perfetto) le quali dovrebbero fare da contrappunto al dramma reale. Agli accademici dibattiti polizieschi si alternano i reali tentativi di omicidio di Charlie, senza però che trea i due livelli si stabilisca una reale sintonia di alcun genere. Anche i tentativi dell’assassino di eliminare la nipote appaiono sommari, poco elaborati e del tutto inverosimili (lo scalino segato; il garage invaso dai fumi di scarico ecc.), la qual cosa rende l’intera seconda parte alquanto fiacca e priva di tensione rispetto alla prima parte, più ambigua e promettente.
Inutilmente poi la “sofisticata” critica moderna ha tentato di costruire artificiose elucubrazioni sulla figura del doppio: i due Charlie – il bene e il male – la coppia di detective - il ripetersi delle situazioni semrpe due volte ecc. (i primi furono i francesi Chabrol e Rohmer nel loro celebre testo su Hitchcock del 1958 che diede ufficialmente inizio alla rivalutazione del regista inglese all’interno della cosiddetta “politica degli autori”): certamente le cose si ripetono due volte e ci sono evidenti allusioni alla lotta tra il bene e il male, ma tutto ciò non migliora la qualità sommaria di numerose sequenze, non riscatta il frettoloso finale, né rende più accettabili le lungaggini inerenti alla descrizione dell’invadente contesto familiare. Quelle argomentazioni critiche rimangono riflessioni astratte e abbastanza inutili, create a posteriori: esse, certamente, rivelano l’impalcatura ideale del racconto la quale, da sola, non è in grado di migliorare il testo filmico, tanto più che la modesta caratura di tutti i personaggi (lo stesso omicida viene ritratto in modo sfocato, basti dire che non assistiamo a nessuno dei suoi delitti), come pure dei dialoghi e delle situazioni, impedisce che da questo film possa decollare una qualunque complessa riflessione morale.
In ogni caso L’ombra del dubbio rimane il miglior Hitchcock americano della prima metà degli anni quaranta.