Skrjabin e Prokofiev

Reminiscenze del linguaggio di Skrjabin nelle opere pianistiche di Prokofiev

                                                                               “All’inferno questa musica futurista!...
                                                                             I nostri gatti sui tetti fanno musica migliore di questa”
                                                                               Commenti intorno al Secondo concerto per pianoforte (1913)(1)

Primi passi di un pianista eclettico e antiromantico
Quando, nell’agosto 1912, Prokofiev esegue il suo Primo concerto per pianoforte op.10 a Mosca, egli offre al pubblico un catalogo già completo del proprio eterogeneo linguaggio musicale. Lo sfacciato eclettismo di tale lavoro irrita parte degli ascoltatori e provoca le reazioni stizzite di numerosi critici musicali che, sotanzialmente, insultano autore ed opera. In questa partitura breve ed impostata in un unico movimento, il giovane compositore accosta il tardoromanticismo acceso della tradizione neoromantica tedesca filtrato attraverso l’amore per Skrjabin, con il romanticismo più evanescente e delicato presente in alcune opere di Rachmaninov; inoltre separa questi due linguaggi con sonorità e temi dissonanti ed umoristici che risulteranno essere quelli maggiormente legati alla propria futura concezione musicale. Si può comprendere lo sconcerto di una parte degli ascoltatori che non riuscivano a comprendere l’accostamento di vocaboli sonori tanto differenti, fino al punto di configurare una sorta di personalità poetica schizoide, non dissimile da quella schumanniana, a suo tempo divisa tra Florestano, Eusebio e Maestro raro. Ciò che più colpisce in questa creazione è certamente il tema maestoso posto in apertura e chiusura della partitura, un tema in cui l’utilizzo di una breve cellula iterata con ostinazione nel tentativo di generare un senso di smisurata ebrezza, rimanda direttamente a numerose pagine del Poema divino – Sinfonia n. 3 (1904) di Skrjabin, testo molto amato dal compositore ucraino il quale, nel 1910, ne stava addirittura approntando una riduzione per pianoforte solo. Entrambi i musicisti, tuttavia, avevano attinto a piene mani al repertorio wagneriano nel loro tentativo di creare una musica “sovrumana” e “visionaria”, capace di generare il confondersi di finito ed infinito, di singolare e universale. In particolare Skrjabin sembra ispirarsi, nel sopracitato lavoro, ad alcune celebri pagine del Tristan (il grande duetto d’amore del secondo atto) nel proprio sfrenato finale mentre dietro la grandiosa pagina d’apertura dell’op.10 sembra profilarsi l’ombra dell’ouverture del Rheingold, opera amata da Prokofiev. La costruzione complessiva del Concerto – in un unico movimento che ne contiene però altri (un Andante assai e un Allegro scherzando) – rimanda, invece, all’esempio celeberrimo della Sonata in si min. di Liszt, come pure al suo Secondo concerto per pianoforte in la mag., anch’essi formati da movimenti che si susseguono senza soluzione di continuità. Prokofiev, nel guardare alla grande tradizione del romanticismo tedesco della seconda metà dell’Ottocento non ha dubbi: è la corrente neoromantica di Liszt e Wagner, l’unica a stimolare la sua fantasia; per Brahms i commenti sono misurati, quando non tiepidi e decisamente sorprendenti. Così parlando dei concerti per pianoforte il compositore russo ha parole di apprezzamento per quelli di Beethoven, per il primo di Liszt e per il primo di Ciaikovskij, mentre di fronte ai due capolavori del compositore di Amburgo egli dichiara: “Brahms mi passò accanto senza lasciare traccia”(2).
Come suona già lontana e superata, in quell’estate 1912, la breve Sonata n. 1 op. 1 in fa min. per pianoforte (concepita nel 1907 e edita nel 1910) del musicista ucraino, un’opera scolastica il cui cantabile e moderatamente acceso lirismo discende direttamente dai lavori pianistici del giovane Schumann. Va rilevata inoltre qualche somiglianza con la 1° sonata op. 6 in fa min. (1893) di Skrjabin è presente (soprattutto in riferimento al primo movimento) poichè anche quest’ultima si ispira al lirimo florestaniano del musicista di Zwickau, con particolare riferimento all’impetuoso primo movimento della Terza sonata op.14 (anch’essa in fa min.). La scrittura del primo tema della sonata di Prokofiev sembra ricordarsi della spinta ascendente che domina il tempestoso incipit della composizione di Skrjabin.
Ritroviamo influenze scriabiniane nei coevi 4 pezzi op.4 (1911-12). Nel secondo brano, Slancio, l’ossessiva iterazione ritmica rimanda al compositore russo, ancora filtrato attraverso l’ardore florestaniano di Schumann. Nel successivo Disperazione, si nota la presenza di un fondale ritmico cromatico, monotono e uniforme (la cui fissità espressiva può ricordare il coevo preludio Des pas sur la neige di Debussy), spesso segnato da ampi salti, sul quale si stagliano armonie dissonanti e dolorose e ridotte cellule motiviche in un complesso statico e desolato, vicino a tante pagine del compositore moscovita. Infine nel popolare Suggestione diabolica, dopo un incipit misterioso (in cui pare di risentire quello di Scarbo di Ravel il cui “protagonista” è un bizzarro e vivacissimo folletto), ecco comparire un vorticoso Leitmotiv il quale, sorta di perpetuum mobile, attraversa l’intero brano senza concedere tregua. Prokofiev certamente pensa al Mephisto Valzer di Liszt e lo coniuga con le modalità tipiche della sfrenatezza scriabiniana: la composizione si rivela una corsa verso l’abisso che toglie il fiato. D’altro canto il giovane compositore ucraino rovescia lo spirito delle fonti sonore cui si ispira: egli trasforma lo schopenhaueriano anelito a fondersi con l’infinto del wagneriano Scrjabin in un beffardo, gelido ed antiromantico elogio della civiltà delle macchine. Il pianoforte viene ridotto a strumento percussivo: la cantabilità viene bandita ed al suo posto emerge un propensione per la mera invenzione ritmica (il tema vi compare sia rapido, in crome, sia “aumentato” in semiminime) il cui inesorabile incedere – differente dall’andamento ondivago e aereo delle progressioni ritmiche scriabiniane – evoca semmai quella che, nel rock dei primi anni novanta, si chiamerà Industrial Metal (quello dei Nine Inch Nails). Suggestione diabolica si pone, infatti, tra i pezzi esemplari del cosiddetto futurismo russo.
Nella Toccata op.11 (1912) – una sorta di brillante e inesausto perpetuum mobile – le sfrenate ebrezze di Scrjabin, ricche di reminiscenze tristaniane e dense di sottintesi filosofici ripresi dalla filosofia superomistica di Nietzsche, si trasformano in una spensierata ed a tratti beffarda cascata di note, paga di se stessa. Dopo le “suggestioni diaboliche”, Prokofiev approfondisce l’uso dell’ostinato – una delle sue tecniche ricorrenti – il quale appare in qualche modo derivato dalle avventure “orgiastiche” dell’ammirato Skrjabin (si pensi ad esempio al quarto movimeno della Terza sonata), “ripulite” da ogni “solennità” tedesca e ridotte a un mero gioco di natura immanente e scettico, che evoca i ritmi della moderna società urbana e industriale, creando muri sonori scanditi da ritmiche inesorabili, attraversati da una febbrile vitalità e dotati di una gelida bellezza. Questa scrittura implacabile ed ossessiva giungerà al proprio culmine in quella che è la pagina pianistica più nota dell’autore: il movimento finale della Settima sonata.

Anni giovanili nella Russia zarista
Nella Seconda sonata op.14 per pianoforte (1912), pagina ampia e significativa, i ricordi scriabiniani si arrestano al tema d’apertura il quale possiede ampio spazio nel primo movimento Allegro non troppo. Si tratta di un tema inquieto che ascende per terze, sovrapponendosi a linee cromatiche e ad un fondale ritmico impostato su un terzine irregolari: vi si possono leggere, in filigrana, tutte le speculazioni mistiche del musicista di Mosca. Subito dopo, però, già la transizione al secondo tema propone sonorità lievi che spazzano via le preoccupazioni metafisiche dell’esordio mentre il dolcissimo secondo tema, dalle sonorità fiabesche e quasi popolari, si allontana ancor più dai paesaggi scriabiniani per approdare a melodie sognanti e consolatorie. Il secondo movimento, Allegro moderato, cancella totalmente le insinuanti inquietudini scriabiniane – sulle quali, peraltro, si era chiuso il primo tempo – dando luogo ad uno scherzo toccatistico in cui ritornano, ammorbidite, le ritmiche oggettive e implacabili della Toccata op.11. Anche l’Andante, col suo procedere quieto e trasognato, utilizzando uno statico tema che ricorda quello de Il vecchio castello (Musorgskij, Quadri di un’esposizione), confina i tormentati fantasmi scriabiniani a qualche singola increspatura. Nel quarto movimento Vivace, infine, ritmi di danza memori della felicità del Carnaval schumanniano, conducono questa ammirevole composizione verso un lieto fine irrorato di sorrisi infantili e giocosi. Quello che maggiormente differenzia fin d’ora Prokofiev da Scrjabin è la tendenza a utilizzare temi ampi e strutturati secondo gli schemi dell’epoca classico-romantica, con melodie distese e ben articolate (anche se appoggiate su armonie spigolose e a volte politonali), agli antipodi del frammentarismo wagneriano e anche debussiano del compositore moscovita.
Nei Sarcasmi op.17 (1912-14) Prokofiev allinea numerosi vocaboli scriabiniani – insistenti accordi ribattuti e sincopati (n.4-5), cellule tematiche di dimensioni ridotte (n.1-3), ampi arpeggiati ed episodi segnati da rarefazione sonora (n.2-4) – ma piega l’insieme alla ricerca di effetti percussivi e grotteschi, beffardi e “futuristi”, lontani dalla potica romantica del compositore moscovita. Per entrambi, come già notato, il punto di partenza rimane il pianoforte di Liszt, piegato ad esiti differenti: in un caso vi si esaspera la tinta romantica, nell’altro lo stupefacente funambolismo.
Ancor più lontano da Skrjabin risulta il Secondo concerto per pianoforte op.16 (1914), opera di dimensioni quasi doppie rispetto al Primo concerto e, tuttavia, meno ricco di suggestioni e novità. Vi si danno convegno pagine lisztiane, temi giocondi ed infantili e moderni squarci toccatistici senza che l’insieme assuma una precisa fisionimia. L’anno seguente l’impegno nella composizione del balletto Ala e Lolly – poi riciclato nella Suite Scita – ci mostra un compositore non solo dimentico delle alchimie wagneriane di Skrjabin, ma ampiamente debitore alle “barbarie” foniche del Sacre strawinskiano.
Nel proprio ultimo concerto pianistico moscovita (apr. 1918), prima del lungo periodo di “esilio”, Prokofiev esegue per la prima volta le Visions fugitives op. 22, la Terza e la Quarta sonata per pianoforte. La prima composizione offre una raccolta di venti brani piuttosto differenti tra loro per ispirazione e riferimenti musicali; le Visions sono, in un certo senso, i Preludi di Prokofiev: come nel caso dell’op.28 di Chopin, il compositore ucraino offre un primo catalogo, abbastanza esaustivo, del proprio linguaggio musicale. Accanto a brani “umoristici” e distesi nello stile più personale dell’autore, a brani dove compaiono riferimenti a certa giocondità schumanniana (n.3-5-6) e a schizzi innervati da reminiscenze debussiane (n. 1-2-7), troviamo nelle ultime sei composiizoni (n.15-20) alcuni precisi rimandi a Skrjabin. In questi ultimi prevale un cromatismo melodico frammentato in brevi cellule motiviche ora declinate in contesti irruenti ed aggressivi (16-17-18-20), ora in scenari rarefatti (n.15-19). Il materiale tematico tende a ridursi a linee melodiche circoscritte e poco incisive rispetto ad altre invenzione prokofieviane, linee fuse però in ambienti sonori fortemente suggestivi. Una disperata corsa verso l’abisso (n.15 - Inquieto) trova un’antitesi e un proprio riequilibrio in canti cromatici discendenti (n.16 - Dolente; n.17 - Poetico, Andantino) e in pensosi arabeschi (n.18 - Con una dolce lentezza); il frastuono e la lotta verso una skriabiniana purificazione ricompare (n.19 - Presto agitatissimo) ed approda ad un brano paradisiaco (n.20 - Lento irrealmente) in cui si possono ascoltare, oltre alle atmosfere mistiche del compositore moscovita (in particolare si nota una stretta parentela con alcuni rarefatti frammenti motivici presenti nella prima parte della Settima Sonata), anche certi finali visionari della poetica schumanniana (si pensi soprattutto all’ultimo brano dei Davidsbündlertänze op.6).
Anche la Terza sonata op.28 (1917; in un solo movimento) nasce nel segno di Skrjabin: l’intero episodio relativo al primo tema, con il suo crescendo drammatico e tempestoso, rimanda alle sonate della maturità del compositore russo (n.3-4-5): Prokofiev, come Skrjabin, sceglie un tema conciso e “wagneriano”, un gesto semplice, animato da una forte spinta ascensionale che poi anima l’episodio di transizione. L’ansia spirituale che sembra attraversare questa lunga sezione si placa e trova il proprio contrappeso nel lirico e disteso secondo tema, questo decisamente poco skrjabiniano e più imparentato con certi squarci lirici delle Visions fugitives. Lo sviluppo, la ripresa e il vorticoso finale sono, tuttavia dominati dall’instancabile vitalismo (quasi un moto perpetuo) del combattivo tema dell’esordio.
E’ interessante notare che questa sonata influenza l’esordio di Šostakovič, compositore per pianoforte: nella sua Prima sonata op.12 (1926) l’intero tumultuoso e vasto episodio iniziale nasce nel solco di questa sonata poichč non solo il tema d’apertura, conciso e scolpito, ma anche l’intero episodio successivo ripete il pulsante schema ritmico (in 12 ottavi) del lavoro di Prokofiev per approdare a una incandescente conclusione memore di alcuni passaggi conclusivi della Quinta sonata di Skrjabin. Gli universi sonori di Prokofiev e Skrjabin si trovano riuniti nel primo movimento dell’op.12 mentre, dopo un adagio “evanescente, il toccatistico movimento conclusivo č apertamente ispirato allo stile percussivo del compositore ucraino. Nel febbraio 1927 il poco piů che ventenne Šostakovič fa ascoltare l’op.12 a Prokofiev che la apprezza e ne loda soprattutto il primo movimento.
La Quarta sonata op.29 (1917) offre un incipit oscuro e misterioso in cui, anzichè stagliarsi un tema nitidamente delineato (come nelle abitudini di Prokofiev), compare l’ostinata iterazione di una formula ritmica di sapore neobarocco (quasi un ritmo di gavotta) nel registro medio-basso della tastiera. Si tratta dunque di un episodio tematico frastagliato e interrogativo che mostra una netta influenza scriabiniana al punto che l’amico Miaskovsky affermava che, in quella sonata, gli sembrava di udire tracce del Poema satanico op. 36 di Skrjabin, una composizione molto apprezzata da entrambi i musicisti. Questo tema iniziale, con la sua ridotta cantabilità settecentesca, si aggira ora spettrale, ora scolpito, come un Leitmotiv wagneriano, per l’intero primo movimento dando luogo ad uno dei tempi di sonata più ermetici e introspettivi dell’intero repertorio pianistico del musicista ucraino. Anche il tema dominante il successivo Andante assai, con il suo sofferto andamento cromatico-ascendente, rimanda alla poetica scriabiniana e più precisamente ad alcuni passaggi similmente cromatici del citato Poema satanico op.36 (in particolare la seconda cellula tematica, da batt. 17 in poi). Nel terzo e ultimo movimento, il liberatorio Allegro con brio, Prokofiev esce dai tortuosi labirinti scriabiniani per instaurare una di quelle brillanti e impetuose corse sonore, scandite da un andamento ritmico neobarocco di taglio schumanniano (florestaniano sarebbe meglio dire) e dotato di un lirico e disteso episodio cantabile centrale. Possiamo affermare che questo ultimo movimento rappresenta il definitivo allontanamento di Prokofiev dall’universo sonoro pianistico scriabiniano il quale riapparità molti anni dopo – nel trittico delle “sonate di guerra” – in maniera, tuttavia, filtrato e marginale.
Al contrario alcuni anni dopo, con le due importanti creazioni terminate intorno al 1921 – il Terzo concerto per pianoforte e l’Amore delle tre melarance – ogni influenza scriabiniana sembra dileguare. Il concerto, certamente il più riuscito tra gli otto concerti (cinque per pianoforte, due per violino, uno per violoncello) creati del compositore ucraino, offre un catalogo quasi completo dei suoi vocaboli musicali, da quelli sarcastico-umoristici, a quelli toccatistici, dai suggestivi temi popolari russi fino ai grandi squarci lirico-romantici (si veda l’ampio episodio centrale del terzo movimento, nel segno di Rachmaninov); manca solamente quell’impeto misticheggiante, costruito su concisi Leitmotive, che aveva caraterizzato alcune sezioni importanti di opere pianistiche precedenti.
L’opera umoristica delle melarance, terza partitura per il teatro lirico di Prokofiev ispirata a una fiaba del veneziano Carlo Gozzi, annovera una scrittura vocale il cui declamato-arioso si collega alla grande tradizione dell’opera russa dal Boris all’Onegin mentre il soggetto rimanda addirittura ai grandi singspiel mozartiani (Entführung e Zauberflöte); la scrittura per Leitmotive è assente come pure qualunque mistica, scriabiniana drammaticità. Vi si ritrova uno stile sonoro distaccato che cerca l’effetto comico, spesso attraverso gelidi ritmi marionettistici.
Dopo la Quinta sonata (1923) pianistica Prokofiev accantona per oltre quindici anni la creazione di improtanti composizioni per tastiera; tale lungo silenzio è ointerrotto solamente dalla creazione degli ultimi due concerti per painoforte, il Quarto op. 53 per la sola mano sinistra (1931) e il Quinto op.55 (1932): si tratta di due lavori improntati ad un freddo e spigoloso neoclassicismo, innervato a tratti da pagine percussive e da sonorità orchestrali beffarde (si veda l’uso di tromboni, tube e timpani nel Quinto concerto), che confermano il momento di scarsa creatività nel settore pianistico. Il Quarto concerto viene addirittura rifiutato dal committente, il pianista mutilato Paul Wittgenstein, ed è significativo che il compositore se lo “dimentichi” (la prima esecuzione, postuma, si avrà solamente nel 1956). Un simile tipo di scrittura - totalmente irrelata con la poetica scriabiniana come pure lontana dall’intensa e originale prima fase creativa (1912-21) di Prokofiev - tornerà solo nell’ultima, deludente stagione (1945-53) del compositore ucraino (si pensi alla Nona sonata pianistica).

I poemi pianistici di Skrjabin tra wagnerismo e teosofia
Nelle sue prime cinque sonate Skrjabin ripensa il patrimonio romantico europeo: nella prima e nella seconda l’evidente modello è Chopin, nel solenne e massiccio incipit accordale della Terza (1898) è forte il ricordo delle giovanili sonate brahmsiane mentre nella Quarta sonata (1903) le rarefazioni languide dell’introduzione come pure l’ostinata concitazione del Prestissimo volando ricordano la scrittura di Liszt. All’inizio della tempestosa Quinta sonata (1907) compare una citazione esemplare intorno al carattere programmatico di tali lavori: “Vi chiamo alla vita, forze misteriose immerse nelle profondità oscure dello spirito creatore, timorosi abbozzi di vita, a voi porto l’audacia”. Ovunque poi, in queste prime cinque sonate, aleggia il pianismo di Robert Schumann, ma non tutto Schumann, non l’anima incantata, infantile o “parlante” e mesta (Eusebio), bensì principalmente l’anima florestaniana ovvero quella tendenza impetuosa e basata su un’estenuante motricità neobarocca. La ritroviamo particolarmente nel primo e nel terzo movimento della Prima sonata, nel secondo movimento della Seconda Sonata, nel primo movimento e nel quarto movimento della Terza sonata. In questo elemento schumanniano c’è un importante punto di congiunzione tra la poetica scriabiniana e quella di Prokofiev anche se in quest’ultimo le tempeste schumanniane tendono a perdere progressivamente l’originario carattere romantico, aereo e “volatile” per trasformarsi in aspri ostinati, congegni più freddi, meno “autobiografici” seppur sempre altamente drammatici.
Nelle successive cinque sonate pianistiche (1911-13) – sonate che delineano l’ultima fase creativa del compositore moscovita – si percepisce con forza la presenza di un programma segreto, di una lotta interna che anima e lacera tali composizioni. I differenti e spesso contrapposti temi – sempre ridotti a cellule motiviche essenziali, nel segno del Leitmotiv wagneriano – ingaggiano una battaglia tra esigenze ed aspirazioni opposte, dando luogo ad una sorta di teatro musicale timbricamente monocromatico. Più che sonate (della cui struttura tradizionale non mantengono quasi nulla) si potrebbe definirle poemi pianistici, in qualche modo derivati dalla concezione del poema sinfonico di Liszt e di Richard Strauss. Il contenuto di tali brani si caratterizza per una forte e pressochè unica ambizione metafisica e spiritualista. Skrjabin crede nel valore filosofico della creazione artistica: mentre lavora ai suoi mastodontici progetti sinfonici (Prometheus del 1911; Mysterium rimasto irrisolto a causa dell’inattesa morte) in cui la lotta tra l’aspirazione all’ascesa spirituale dalla materia ed alla ricongiunzione all’Uno metafisico – che si manifesta nella ricerca del momento estatico - risultano chiari e manifesti, crea queste sonate pianistiche in cui il medesimo percorso spirituale viene realizzato in contesti più circoscritti, ma non per questo meno efficaci e incisivi. Di volta in volta l’esito è più oscuro – (come nelle sonate n. 6 e n. 9, la cosiddetta messa nera) – o più luminoso (le Sonate n.7 e n.8); in ogni caso è evidente la “compromissione” dell’atto creativo con una filosofia di stampo neoplatonico o se si preferisce plotiniana, filtrata attraverso i testi teosofici di M.me Blavatski, di cui, come è noto, il compositore russo è un grande ammiratore. Skrjabin si colloca in una sorta di punto di estrema amplificazione di quel tardoromanticismo wagneriano che aveva introiettato nel propro corpo estetico il cupio dissolvi di Schopenhauer e Nietzsche, due filosofi molto letti e citati da Skrjabin insieme a Fichte di cui il musicista condivideva l’idealismo filosofico. Con Skrjabin termina un’epoca e nella sua musica visionaria si riassume una concezione del mondo attenta esclusivamente ai valori spirituali e individualistici, alla loro presunta evoluzione nel tentativo di tornare a immergersi/innalzarsi nell’infinito dell’Essere inteso come Divinità da cui tutto emana e a cui tutto fa ritorno.
Non è secondario ricordare che Stravinskij – il maggiore rappresentante della musica russa del Novecento - guardasse a Skrjabin con grande diffidenza accomunando la sua poetica “rivoluzionaria” a quella dell’odiato Wagner: per entrambi il compositore del Sacre parla di musica disordinata in quanto regolata da un ordine arbitrario e soggettivo, derivato da componenti extramusicali. Riferendosi al compositore del Poema dell’Estasi, egli parla di “disordine ideologico, psicologico, sociologico che si impadronì della musica con sfacciata disinvoltura.”(3)
Nel suo complesso l’estetica di Prokofiev si colloca al capo opposto di quella scriabiniana: dopo una breve infatuazione giovanile, il compositore ucraino si dimostra un sarcastico, spesso umoristico creatore di macchine sonore aspre e vitali, “meccaniche” e futuriste”, stravinskiane e bartokiane, in cui lo squarcio lirico di matrice popolare o l’abbandono al canto tardoromantico ciaikoskiano sono episodi circoscritti di necessario riequilibrio all’interno di furori sonori chiassosi e spesso giocondi. L’amore del compositore per la matematica, gli scacchi e le automobili veloci accanto allo scarso interesse per paesaggi anturali, monumenti, musei, arti figurative e letterarie completano il quadro caratteriale di un Prokofiev concreto, immerso nel presente e partecipe degli entusiasmi del movimento futurista.
Negli anni in cui era studente al conservatorio di San Pietroburgo il giovane Prokofiev fu molto colpito dalla musica di Skrjabin, musica che costituiva la novità più insolita del panorama russo dell’epoca ed in seguito l’artista ucraino inserirà alcune composizione pianistiche di Skrjabin nei propri programmi concertistici. In particolare, nella sua autobiografia, egli afferma di apprezzare soprattutto la Quarta e la Quinta sonata di Skrjabin. Scriveva al riguardo: “Amo molto la Quinta sonata (un miglioramento della Quarta sonata)... il suo momento più alto consiste nela frenesia dell’ultima pagina, estatico”(4). In quegli anni Prokofiev dedica anche una composizione orchestrale, Dreams (1910), a Skrjabin. Appare dunque logico che, nelle opere pianistiche del primo periodo (1912-23), siano presenti tracce evidenti di quella tensione spirituale skrjabiniana, tracce che tendono a scomparire man mano che il compositore si avvicina agli anni venti e che inizia la propria odissea europea (periodo 1918-33). Lo conferma anche il pianista Nikita Magaloff, suo allievo di composizione a Parigi nel periodo 1929-34, il quale racconta che Prokofiev lo incitasse a liberarsi dell’influenza di Skrjabin. D’altronde nella sua autobiografia il compositore ucraino affermerà: “Fondamentalmente Skrjabin stava tentando di trovare nuove basi per l’armonia. I principi che aveva scoperto erano molto interessanti, ma in relazione alla loro complessità essi costituivano una pietra al collo del compositore, rendendo difficile l’invenzione melodica e, soprattutto, il movimento delle voci”(5).
Ciononostante è proprio nell’opera teatrale creata da Prokofiev nel 1920-22 e poi lungamente perfezionata fino al 1927 – L’angelo di fuoco, dall’omonimo romanzo (1907) dello scrittore simbolista Velerij Brjusov – che troviamo il punto di massima tangenza con il mondo poetico e musicale di Skrjabin. Il lavoro, sebbene lo si possa considerare l’esito più alto del compositore nell’ambito del dramma musicale, non troverà alcun teatro disposto a metterlo in scena e la sua crescente fama è in realtà postuma, a partire dalla prima rappresentazione scenica avvenuta a Venezia nel 1955.
L’opera racconta le disavventure di Renata, una sensitiva dotata di speciali poteri di chiaroveggenza la quale vive la propria dolorosa esistenza terrena perennemente circondata da presenze demoniache, alla ricerca del suo angelo di fuoco dalle numerose e cangianti identità (Madiel – Heinrich), in attesa di un’agognata ricongiunzione con il mondo ultraterreno nel quale poter riunificarsi con la propria ”fiamma angelica”. Appare evidente la vicinanza tra la tematica spiritualista di questo insolito Prokofiev e le preoccupazioni metafisiche del "teosofo" Skrjabin. Per realizzare il proprio affresco sonoro, attraversato da frequenti lampi demoniaci, Prokofiev utilizza concisi e rigidi Leitmotive (assenti, come si ricorderà, ne L’amore delle tre melarance) ed anzichè variarli alla maniera wagneriana, li inserisce in tele sonore caratterizzate da ostinati ritmici di grande efficacia, non lontani da quelli che segnavano tutte le principali sonate skrjabiniane come pure il tardo e significativo Vers la flamme op. 72 (1914). Insomma una medesima tensione metafisica anima il grande affresco cinquecentesco di Prokofiev e i progetti sonori dello Skrjabin maturo sebbene, ancora una volta, il percorso sembri essere antitetico. L’anelito verso l’alto del primo si trasforma in un’ossessione demoniaca nel secondo che culmina con un grandioso Sabba in cui Renata guida un certo numero di suore verso gli abissi del Male, mentre un Inquisitore la maledice. La scultorea fissità del Leitmotiv dell’angelo di fuoco ovvero del demonio – quando di più lontano dai fluidi ed evanescenti motivi scriabiniani - pervade l’intera partitura e la conclude con sinistre, trionfanti sonorità. Possiamo dire che Prokofiev coniuga la tensione metafisca di Skrjabin con le suggestioni barbariche e sulfuree dello Stravinskij del Sacre, al quale rimanda l’ipnotica ed incandescente ripetitività del suddetto tema.

Prokofiev nella “prigione” moscovita
Un destino di ostracismo segna, nei decenni della più rigida politica culturale zdanoviana (1936-53), sia le opere di Skrjabin, sia l’Angelo di fuoco. A partire dalla fine degli anni venti cala un sostanziale silenzio intorno alle creazioni skrjabiniane, percepite dalla dirigenza stalinista come estranee sia alla tradizione marxista, sia ai dogmi del realismo socialista. In effetti Stalin non sbaglia nel censurare la figura del compositore moscovita come quella di un borghese che si attarda su posizioni spiritualiste contrarie all’ateismo materialista dell’U.r.s.s. A riprova di quel “silenzio” si noti che nel 1931 un gruppo di musicisti sovietici di secondo piano, allineati alla linea antiformalista imposta dal regime, chiedeva ufficialmente al Comitato ufficiale della radio russa perchè si dedicasse ancora spazio ad autori “decadenti” come Skrjabin e “l’ostile emigrante Rachmaninov”(6). Possiamo inoltre notare che i due principali giovani pianisti sovietici del secondo dopoguerra, Sviatoslav Richter e Emil Gilels, incidono in patria pochissime pagine di Skrjabin negli anni cinquanta e sessanta – il primo esegue una scelta di studi nel 1952, la Seconda e la Sesta sonata nel 1955 mentre il secondo interpreta la Quarta sonata nel 1957 - laddove, in seguito, essi incrementeranno (soprattutto Richter) la presenza di questo autore nelle loro incisioni discografiche. Sul mercato russo, tuttavia, si potevano ascoltare le numerose incisioni di Heinrich Neuhaus che, tra il 1946 e il 1953, incise quasi tutte le principali composizioni pianistiche del compositore moscovita. Nel 1972 invece, in occasione dei festeggiamenti per il centenario della nascita che sanciscono in qualche modo la ripresa di interesse ufficiale per questo compositore, Igor Zhukov incide l’integrale delle sonate pianistiche.
Al tempo stesso Prokofiev, dopo il celebre articolo “Più confusione che musica” (28 gen.1936) comparso sulla Pravda per stigmatizzare l’inutilità e il carattere non socialista (più precisamente si parla di “tentativi formalistici piccolo-borghesi” e di “musica irrequieta, urlante e neurotica”) di Lady Macbeth di Mynsk di Šostakovič,, capisce perfettamente che il suo Angelo di fuoco non sarebbe mai stato messo in scena fino a che non fosse morto Stalin e non fosse cambiata la dura e minacciosa politica culturale dell’U.r.s.s.. Tanto piů che tra gli elementi che avevano certamente irritato Stalin nell’opera di Šostakovič c’era anche il carattere amorale della vicenda - una moglie adultera e assassina che, arrestata, finisce con lo scontare la propria pena in un campo di lavoro siberiano – e anche un certo erotismo diffuso e assai esplicito. Il soggetto, insomma, si allontanava da tutti i punti di vista da quell’arte positiva e “popolare”che avrebbe dovuto essere il necessario corollario della svolta rivoluzionaria comunista. Un’opera deprimente e oscura andava bene durante altre stagioni politiche e con finalitŕ di sostanziale contestazione del sistema, come č sempre stato: si pensi ai desolati melodrammmi con finale tragico – ad es. Anna Bolena di Donizetti nell’Italia degli anni trenta dell’Ottocento e al loro spesso implicito carattere antitirannico e alle censure che tali lavori suscitarono in alcuni stati particolarmente conservatori come il regno di Napoli. In quel contesto sovietico in cui Stalin esigeva che prevalesse il cosiddetto realismo socialista, l’Angelo di fuoco di Prokofiev, con la sua scrittura musicale scostante, i suoi onnipresenti demoni e la sua protagonista posseduta e “negativa”, ansiosa di ricongiungersi al suo Madiel nell’al di lŕ, era improponibile.
Nel 1933 Prokofiev, deluso dallo scarso successo complessivo ottenuto negli Usa e in Europa (si pensi all’impossibilità di trovare un teatro per l’Angelo di fuoco), decide di rientrare nella Russia sovietica dove i suoi giri concertistici e l’Amore delle tre melarance (1927; 1929; 1932) hanno sollevato notevole entusiasmo. Egli, poco incline ad esaminare in profondità le questioni sociopolitiche - Stravinskij, relativamente alla scelta del rimpatrio, scriverà: “[Prokofiev] politicamente era un ingenuo”(7) - sottovaluta il criminale regime staliniano (peraltro già stigmatizzato in Europa da numerosi saggi storico-politici) e si illude di potersi adattare facilmente alla dittatura sovietica. Eppure numerose persone lo avevano messo in guardia; inoltre proprio nel 1935 usciva a Parigi l’esplosivo Stalin dell’ebreo-ucraino Boris Souvarine in cui, per la prima volta, si mostrava tutto il carattrere illiberale e tragico del sistema inaugurato nel 1917 e reso sistematico dal dittatore georgiano.
Al compositore viene concesso di uscire dai confini della Russia (solo nel periodo 1933-38) per giri concertistici anche molto lunghi, solo a patto che i suoi due figli rimanessero a Mosca “in ostaggio”. Nel frattempo lo stile del Prokofiev “sovietico” si fa più bonario e accomodante: nascono così il Nevski e Ivan il terribile, Un matrimonio in convento e Guerra e pace, Romeo e Giulietta e La Bella addormentata, Pierino e il lupo e il pianistico Album per la gioventù, opere in cui, al di là del diseguale valore artistico (spesso assai alto), aleggia sempre un certo gusto neoaccademico e l’idea assai prudente della musica quale servizio per il popolo, onde evitare di finire in disgrazia presso le alte sfere o peggio rinchiuso in qualche desolato gulag della Siberia per seguire qualche corso di rieducazione marxista.
La cultura è rigidamente orchestrata e guidata dal Partito: la sua unica finalità è glorificare la costruzione del comunismo; ogni formalismo, ogni ricerca sonora in ambito dissonante, ogni opera teatrale in cui prevalga un costante recitativo antimelodico, ogni opera complessivamente deprimente viene considerata antisovietica, decadente e “collusa” con la cultura capitalistica. Chi si allontana dalla linea rischia di fare una brutta fine. La cosiddetta libertà della creazione artistica, tanto cara alla cultura occidentale, soprattutto a quella “progressista”, è una chimera nei paesi del comunismo reale. In particolare nel 1948 Stalin ordina una “ripresa delle ostilità” nei confronti dei principali compositori sovietici che, nel frattempo - nella parentesi della grande guerra patriottica -  erano tornati a creare opere tortuose e antimelodiche. Nella celebre risoluzione del 10 febbraio 1948 la dirigenza del Partito si esprime con parole durissime contro Prokofiev, Šostakovič, Chačaturijan ed altri: li si accusa di “deformazione formalistica”, “tendenza antidemocratica in musica”, di “entusiasmo per combinazioni disordinate e neuropatiche che conducono la musica verso la cacofonia “, di “rispecchiare il marasma della cultura borghese” e si termina parlando di “danno incalcolabile per l’arte musicale russa”.  Si tratta pertanto di una spietata scomunica che ha come effetto di bandire la musica di Prokofiev da tutti i teatri (con l’eccezione del Nevskij e di Romeo e Giulietta) e di isolare il compositore (tra l’altro recentemente insignito di ben due premi Stalin, per la Quinta sinfonia e per Ivan il terribile) dal contesto musicale sovietico. Prudentemente Prokofiev reagisce scrivendo un’umiliante lettera di autocritica in cui promette al Partito che non avrebbe ripetuto i suoi precedenti “errori” musicali. Questo č il clima del dopoguerra in cui un Prokofiev, tra l’alto giŕ malato, si trova a vivere. Una ripresa dell’Angelo di fuoco č, pertanto, totalmente impensabile.
Nel 1948, tra l’altro, viene arrestata Lina Codina, la prima moglie di Prokofiev, con l’accusa di spionaggio e viene condannata a vent’anni di carcere. La donna viene mandata in un gulag siberiano dal quale uscirà solo otto anni dopo, negli anni del disgelo e della destalinizzazione. E’ un fulmine a ciel sereno che contribuisce a impaurire il musicista ucraino il quale, peraltro, aveva più volte consigliato alla ex moglie di diradare le sue  frequentazioni di personaggi stranieri che potevano essere male intese dalle autorità comuniste.
Walter Bedell Smith, ambasciatore americano a Mosca nel periodo 1946-49, nel tentativo di descrivere il totalitarismo culturale sovietico scrive: “Quel che viene offerto alle masse è un piatto che dev’essere consumato senza obiezioni e proteste ed il buongustaio della cultura ha a sua disposizione soltanto una lista molto limitata di vivande...”(8); “L’importante rivista del partito “Il Bolscevico”, nel suo numero di maggio 1948 afferma “Un artista che vive nella realtà socialista deve assolutamente seguire nelle sue opere la tendenza del partito... Gli scrittori sovietici si ispiarano alla politica del partito bolscevico e dello stato sovietico”...  ” (9). In questo contesto opprimente sia Šostakovič, sia Prokofiev vengono piů volte accusati di muoversi in territori musicali antisovietici, formalisti e filooccidentali e piů volte i medesimi devono accondiscendere ad umilianti ritrattazioni per evitare conseguenze peggiori.
Anche nel decennio successivo la morte di Stalin (morte che avviene lo stesso giorno della morte di Prokofiev) – il cosiddetto periodo del disgelo voluto da Krushev – le cose cambieranno assai poco. Basti ricordare il rude e minaccioso discorso sulla cultura del medesimo Krushev dell’8 marzo 1963. Vi si trovano accuse violente agli intellettuali e agli artisti troppo indipendenti: “il nostro popolo ha bisogno di un’arte militante rivoluzionaria... che riproduca con brillante immaginazione artistica la grande eroica epoca della costruzione del comunismo”. Invece alcuni scrittori ed artisti “ritraggono la realtà dai cattivi odori che provengono dalle latrine, ritraggono deliberatamente la gente in modo deformato... con colori oscuri che possono far piombare la gente nella disperazione... “(10). Anche intorno al discorso musicale Krushev mostra il proprio disprezzo per le sonorità “cacofoniche” e ribadisce l’esigenza di ispirarsi al patrimonio dei canti popolari russi. Se la sinistra cappa stalinana è scomparsa (gli artisti non si sentono più minacciati fisicamente), la pressione del partito sul mondo della cultura rimane forte e opprimente.
Un ultimo esempio del permanere, negli anni sessanta e settanta, di una censura pronta a colpire ogni devianza dalla linea culturale del partito, è confermata dal clamoroso caso del capolavoro cinematografico di Tarkovskij, Andreij Rublev, nel quale si tratta esplicitamente il tema della mancanza di libertà dell'artista costretto a vivere sotto regimi tirannici e, in filigrana, si racconta la sofferenza del popolo russo imprigionato nel dispotico sistema comunista. Il film, terminato nel 1966, viene bloccato dalle autorità per cinque anni (sebbene nel 1969, presentato fuori concorso al festival di Cannes, avesse suscitato un’enorme ammirazione) ed esce nelle sale russe solo nel dicembre 1971 (in Italia nel 1975).

Gli ultimi capolavori: le “sonate di guerra”
Negli anni del secondo conflitto Stalin ammorbidisce la propria condotta intollerante, avendo bisogno di tutte le forze nazionali. Agli artisti, fatti trasferire in zone lontane dal fronte (soprattutto in Siberia), si chiede di collaborare con opere che rafforzino lo spirito nazionale e si evita di sollevare polemiche sul carattere più o meno socialista delle nuove creazioni. Tra le numerose testimonianze vale la pena di ricordare cosa scrive Pavel Zudoplatov, un influente ex agente del Kgb, nelle sue memorie (edite nel 1994): “All’inizio della guerra avevamo un disperato bisogno di personale qualificato. Suggerii di scarcerare un gruppo di circa 140 ex funzionari del controspionaggio e della sicurerzza – una richiesta che finì per confermare il cinismo e la superficialità di Berija.... Berija non menzionò neppure di sfuggita la questione della colpevolezza o innocenza delle persone da me indicate; mi chiese solo: “E’ sicuro che ci possono essere utili?”. “Sì” risposi. “ Allora si rivolga a Kobulov per la procedura di scarcerazione e li metta subito al lavoro”(11). Come si nota detenuti politici (a questi si riferiva la richiesta di Sudoplatov), incarcerati per motivi ideologici, vengono rilasciati senza il minimo controllo intorno alla loro presunta pericolosità in quegli anni in cui la priorità assoluta è diventata la mortale minaccia nazista.
Prokofiev sembra volerne approfittare e compone in quel periodo le ultime creazioni importanti per tastiera nelle quali, non a caso, si ritrovano echi insistenti del linguaggio skriabiniano dal quale egli si è tenuto lontano nel periodo 1935-40, ovvero in un’epoca, come si è detto, caratterizzata da opere più semplici ed accondiscendenti.
Nasce, dunque, il trittico delle cosiddette “sonate di guerra” (Sesta, Settima e Ottava sonata) che ottengono un largo riscontro. La terza viene addirittura insignita del premio Stalin. La Sesta sonata op.82 (1940), una vasta creazione in quattro movimenti, esordisce con l’ostinata iterazione di una delle cellule motiviche più dure e dissonanti dell’intero repertorio del compositore russo, segnata internamente dalla presenza del tritono (vocabolo onnipresente nelle composizioni dello Skrjabin maturo). Se la memoria va immediatamente al Sacre stravinskiano ed alla Suite scita, d’altro canto la comparsa di un dolcissimo secondo tema ricorda la netta contrapposizione che caratterizzava i due temi della 3° sonata. Dove invece sembra di ritrovare alcune reminsicenze scriabiniane è nell’incandescente sezione di sviluppo (dal Più mosso del Tempo I): come in tante creazioni del compositore deceduto venticinque anni prima, vi si ritrova l’organizzazione del materiale motivico in un vorticoso crescendo che sembra spingersi verso uno spaventoso baratro. La sezione prende le mosse da un delicato e saltellante inciso che utilizza la testa del secondo tema; molto presto questo disegno si estende all’intera tastiera e trova sul proprio percorso, ad ostacolarlo, la violenta ricomparsa dell’incipit del primo tema (quello “barbarico”): tra i due (il tema cantabile vi ricompare anche in forma aumentata) si instaura una battaglia feroce che giunge a risultati parossistici durante i quali il tema cantabile viene come annichilitto, frammentato ed eclissato dal brutale tema dell’esordio. Anche nella breve ripresa tematica il primo tema prevale e restaura pesantezze sonore che rievocano nuovamente la crudeltà del Sacre stravinskiano. Come nelle sonate “spiritualiste” di Skrjabin, uno scontro è avvenuto e l’esito è pessimistico. Indubbiamente il tema chiave dell’op. 82 evoca minacce incombenti e spaventose (come quelle che attorniavano le giovinette del Sacre) alle quali invano si oppone un tema di dolce e nobile cantabilità. Se si tratti poi di un semplice discorso spiritualista o delle paure del compositore, ritrovatosi prigioniero di un sistema totalitario o dello scenario europeo che andava precipitando verso un conflitto mondiale, non è dato sapere. Il carattere sostanzialmente più sereno del secondo (Allegretto) e terzo (Tempo di valzer lentissimo) movimento sembrano volere esorcizzare le paure evocate dall’Allegro moderato iniziale. Il quarto tempo inizia con un girotondo popolaresco, segnato però al proprio interno dalla presenza del fatale tritono; giunti al centro del movimento, esso si arresta e lascia ricomparire, in modo alquanto teatrale, lo scultoreo tema principale del primo movimento il quale ingaggia un nuovo conflitto con questo lieve ed indifeso tema popolare, al culmine del quale – nella tumultuosa coda – il dissonante motivo iniziale rimarrà solitario e “vincitore”, chiudendo circolarmente la tragica composizione. Il carattere tempestoso e circolare della Sesta sonata rievoca il percorso dell’altrettanto drammatica Sonata op.57 di Ludwig van Beethoven.
La Settima sonata op.83 (1943) possiede invece un carattere più autobiografico, all’insegna di una drammatica desolazione. Prokofiev si è ormai reso conto di vivere all’interno di una grande prigione a cielo aperto in cui la vita del singolo, per quanto autorevole e famoso, non vale nulla. In quegli anni anche importanti artisti erano stati arrestati e perfino giustiziati. Questa situazione di tetra angoscia sembra attraversare l’intera sonata nella quale compaiono elementi skriabiniani, seppur rivisitati in una direzione opposta a quella dello spiritualismo utopico del compositore moscovita. Nel primo movimento il tema d’apertura beffardo e inutilmente agitato offre l’immagine di un essere in trappola mentre il secondo tema, mesto e vagamento chopiniano, canta la desolata accettazione di quello stato di cose. Nel tumultuoso sviluppo si possono cogliere echi della densa scrittura scriabiniana come pure nell’episodio centrale del secondo movimento. Quest’ultimo esordisce con un dolcissimo tema di marca schumanniana, nel quale si può cogliere tutta la silenziosa disperazione dell’autore. L’episodio centrale porta a un caos sonoro privo di temi estesi e ridotto all’alternanza ostinata di due accordi che evocano l’effetto di un insistente scampanio: è una sorta di stupore atterrito quello che anima l’ascensione drammatica della pagina che procede dal semplice al complesso come tante pagine pianistiche di Skrjabin, senza però trovare alcuna “luce in fondo al tunnel”. Il pensiero musicale di Prokofiev continua a evocare l’inquieta agitazione di chi si ritrova confinato entro un recinto opprimente. Lo conferma anche la celebre toccata posta a conclusione della composizione, pagina quanto mai scriabiniana ma “a rovescio”: la pretesa ascesa da una materialità pesante e ossessiva non trova sbocchi, nè soluzioni alternative e la corsa si esaurisce all’interno di un orizzonte grigio e minaccioso, segnato dai rintocchi tenebrosi del basso ostinato.
L’ultima “sonata di guerra”, l’Ottava sonata op.84 (1944), si caratterizza per un esteso ed introverso lirismo (primo movimento) congiunto a venature neoclassiche (il secondo movimento, Quasi un minuetto) e ai consueti vocaboli toccatistici (terzo movimento). In essa non appaiono elementi scriabiniani mentre l’autore sembra approfondire la vena schumanniana che pervadeva il secondo movimento della settima sonata. Lo squisito neoclassicimo melodico della contemporanea Sonata per flauto e pianoforte op.94 è anch’esso totalmente slegato da qualunque eredità scriabiniana come pure quello della nona (composta nel 1947 ed eseguita nel 1951) ed ultima sonata pianistica dell’autore il cui equilibrato nitore, spesso giocoso e “infantile”, sconfina a tratti nell’esercizio scolastico.
Le composizioni del periodo 1945-53 tornano a un neoccademismo prudente - certo indotto anche dalla paura di persecuzioni politiche – con il quale il musicista ucraino si rifugia in una scrittura assai lirica ma anche alquanto scolastica: il balletto Cenerentola (1945), la nona sonata pianistica come pure la sesta (1947) e la settima (1952) sinfonia ne sono una evidente riprova. I lavori piacciono alle autorità (la settima sinfonia vincerà il premio Lenin nel 1957) ma rimangono sostanzialmente poco conosciute ed emarginate dai repertori internazionali. Possiamo dire che queste ultime opere sono quanto di più distante si possa immaginare dai convulsi e sperimentali lavori dell’autore del Poema divino.
Skrjabin è stato il primo compositore russo a dedicarsi con tenacia alla sonata pianistica: il suo contributo è un risultato di grande importanza anche se debitore a differenti poetiche della cultura europea ottocentesca, da Chopin a Liszt, da Brahms a Wagner. Nel cosiddetto repertorio internazionale si ascoltano con buona continuità solo la Terza, la Quarta e la Quinta sonata. Al contrario l’enorme impegno di Prokofiev nel medesimo campo sonoro ha prodotto il più significativo contributo dell’universo russo alla cultura pianistica. La sua poetica - per quanto collegata ad alcuni momenti fondamentali della letteratura pianistica precedente (l’energia di Beethoven, il lirismo di Schumann, il virtuosismo di Liszt, la delicatezza di Chopin, le atmosfere di Debussy e del primo Stravinskij), tra cui ovviamente ben figura il mondo sonoro scriabiniano - ha saputo in definitiva svincolarsi dal passato per offrire agli ascoltatori un universo musicale specifico e del tutto originale nel suo continuo trascolorare tra aspre violenze foniche organizzate in implacabili ostinati e dolcissime melodie di lineare, spesso “fiabesca” semplicità. Le opere pianistiche del compositore ucraino che appaiono con regolarità nei programmi concertistici comprendono non meno di due concerti (il Primo e il Terzo), cinque sonate (la Seconda, la Terza e il trittico delle “sonate di guerra”), numerosi pezzi sciolti (Suggestione diabolica, la Toccata, le Visions Fugitives) ed infine, il piacevole Album per la gioventù (1935), assai diffuso tra gli studenti dei primi corsi.

Alcune riflessioni conclusive, politiche e estetiche
Un tremendo giorno del febbraio 1948 Lina Prokofiev (divorziata da qualche anno dal compositore che le ha preferito la più giovane Mira Mendelson) viene attirata in una banale trappola da uomini del NKVD, prelevata di forza, portata alla Lubjanka, interrogata per giorni intorno a presunte attività spionistiche, condannata a vent’anni di lavori forzati. I due figli non la potranno rivedere fino al suo rilascio negli anni del cosiddetto disgelo (1956), Prokofiev non la rivedrà più. Questo è il totalitarismo sovietico: una mattina ti vengono a prendere e tu scompari per sempre in un gulag siberiano, nè ti viene concessa la possibilità di comunicare con i tuoi congiunti, nè questi ultimi possono sapre quale sia il tuo destino. Ora è impossibile credere che un simile clima terroristico, aggiunto agli imperativi discorsi zdanoviani sulla cultura, non abbia influito sulle scelte estetiche di Prokofiev.
Quest’ultimo, si è detto, in modo ingenuo si era lasciato persuadere a rientrare in Urss; probabilmente venne ifluenzato anche dal percorso biografico dello scrittore Gorkij il quale si convinse ad aderire alle idee del socialismo sovietico, rientrò in patria (in maniera definitiva nel 1931) e divenne la massima autorità del mondo letterario russo, nonchè amico personale di Stalin. Morì però già nel 1936 e qualcuno vocifera che potrebbe essere stato fatto avvelenare dal tiranno per motivi politici. Differente fu il destino di Prokofiev. Questo abile e appassionato giocatore di scacchi non era mai stato un attento conoscitore degli eventi storico-politici e delle connesse dinamiche, eventi largamente assenti infatti dal suo epistolario. Una volta finito in quell’inferno egli si ritrova a comporre, fino all’ultimo dei suoi giorni, numerose opere elogiative di Stalin e del comunismo sovietico sulla cui sincerità è difficile esprimersi. Dopo le umilianti lettere che aveva dovuto scrivere al partito per scusarsi di questa o quella dissonanza e dopo il “sequestro” della ex moglie nelle modalità suddette, è altamente probabile che Prokofiev cercasse di barcamenarsi e facesse buon viso a cattivo gioco. Ne consegue che tutta la sua musica “sovietica”, dal 1936 al 1953, con i suoi Pierini, Album per la gioventù, Cenerentole, Matrimoni in convento e sinfonie accademiche, per non parlare della Cantata per il ventennale della Rivoluzione su testi di Marx, Lenin e Stalin e di altri lavori propagandistici, cerca di amalgamare la dirompente originalità della scrittura del compositore ucraino con le esigenze di semplicità espressive imposte dal regime. In questo lungo periodo possiamo dire che solo le tre “sonate di guerra”, certamente l’esito più indipendente e alto (insieme alla Quinta sinfonia ed alla Sonata per flauto) del compositore nel periodo sovietico. Non è un caso che è proprio e solamente in queste sonate che ritroviamo qualche eco del febbrile misticismo scriabiniano che aveva ampiamente influenzato il giovane Prokofiev.
Nella Russia staliniana, come poi in quella di Krushev e del primo Brezhnev, la musica di Scrjabin è assente poichè in essa vive uno spiritualismo d’impronta fortemente individualistica, sconosciuto e censurato dal regime. Solo negli anni settanta si nota qualche accenno di recupero allorchè viene celebrato il centenario della nascita di Scrjabin di cui resta testimonianza anche in un’emissione filatelica.
Skrjabin e Prokofiev (insieme a Rachmaninov) sono i russi che hanno saputo meglio interpretare alla tastiera il proprio tempo: il primo creando i suoi “wagneriani” poemi pianistici, non meno eccessivi dei fluviali drammi del compositore di Bayreuth, il secondo interpretando in modo originale (soprattutto nel periodo giovanile e negli anni dell’esilio europeo) l’epoca dell trionfo della tecnica, dell’universo urbano, del futurismo e del surrealismo. In entrambi c’era la determinazione ad esplorare un linguaggio fino alle sue estreme conseguenze, determinazione che portò Scrjabin a chiudersi in un radicale isolamento e Prokofiev a parlare con insolito disprezzo della musica italiana (Verdi in particolare; ma poca simpatia il compositore manifestò spesso anche per Mozart e Chopin), il cui spiegato lirismo veniva percepito come l’antitesi più profonda a quell’esigenza di aspro dinamismo che caratterizzava la trascinante scrittura del musicista ucraino e che avrebbe potuto venire sviluppato secondo percorsi assai più liberi e stimolanti se Prokofiev non si fosse lasciato convincere a rientrare in Urss dove, come dirà Šostakovič, “fině come un pollo in pentola. Venne a Mosca per fargliela vedere lui a quelli e quelli cominciarono a impartire lezioni a lui”(12).

 

Note
1) S. I. Slifstein, S. Prokofiev, Sergei. Materialy, dokumenty, vospominanija, pag.29-30, Mosca, 1956.
2) S. Prokofiev (a cura di M. G. Kozlova), Autobiografjia, pag. 356, Sovetzkij Kompozitor, Mosca, 1982
3) I. Stravinskij, Poétique musicale Plon, Parigi, 1945; trad. it. La poetica della musica, Curci, Milano, 1978;
     pag. 86
4) S.Prokofiev, Prokofiev by Prokofiev, Doubleday and Company, New York, 1979; p. 318
5) S.Prokofiev, Avtobiografiya, Miralda Kozlova, Mosca 1973; p. 557
6) D. Sostakovic (a cura di E. Wilson), Trascrivere la vita intera: lettere 1923-1975, Il Saggiatore, Milano, 2006,
     pag.157
7) I. Stravinskij e R. Craft, Colloqui con Stravinskij, Einaudi, Torino, 1977, pag.142
8) W. Bedell Smith, My Three Years in Moscow, Lippincott, Philadelphia 1949; trad. it Tre anni a Mosca,
     Garzanti, 1951, pag 325
9) W. Bedell Smith, id, pag 335-336
10) A. Levi, Il potere in Russia da Stalin a Brezhnev, Mulino, Bologna, 1967(2° ediz.), pag. 280-281
11) P. Sudoplatov, A Sudoplatov, Incarichi speciali. Memorie di una spia del Kgb, Rizzoli, Milano, 1994, p.153
12) S. Volkov, Testimony. The Memoirs of Dmitrij Shostakovich, Hamilton, Londra, 1979; tr. it Testimonianza, Le memorie di Dmitrij Shostakovich, Mondadori Milano, 1979, pag. 83

 

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