La patata bollente e Sono fotogenico

I due superpiedi quasi piatti, Pari o dispari, Io sto con gli ippopotami, Charleston, Piedone l’africano, Piedone in Egitto, Lo chiamavano Bulldozer, Uno sceriffo extraterrestre... , Chissà perché capitano tutte a me, Poliziotto superpiù, Nerone, Scherzi da prete, Tutti a squola, L’imbranato, Ciao marziano, Il casinista, L’inquilina del piano di sopra, Squadra antitruffa, Il figlio dello sceicco, Squadra antimafia, Squadra antigangster, Assassinio sul Tevere, Delitto a Porta Romana, Messalina Messalina, Agenzia Riccardo Finzi, Il ficcanaso, Il lupo e l’agnello, Tre tigri contro tre tigri, Io tigro tu tigri egli tigra, Ecco noi per esempio, Il belpaese, Il professor Kranz, Dove vai in vacanza?, Rag. Arturo De Fanti, Fantozzi contro tutti, Quando c’era Lui... caro lei, Dottor Jekyll e gentile signora, Saxofone, La patata bollente, Fico d’India, Sono fotogenico, Mia moglie è una strega, Amori miei, La presidentessa, Riavanti marsch, Cara sposa, Come perdere una moglie e trovare un’amante, Gegé Bellavita, Il corpo della ragassa, Sabato domenica e venerdì, Il ladrone, Qua la mano, Il Pap’occhio, Zio Adolfo in arte Fuhrer, Geppo il folle, Mani di velluto, La locandiera, Il bisbetico domato, Il malato immaginario, Il marito in collegio, Tutto suo padre, Pane burro e marmellata, Aragosta a colazione, Odio le bionde, Melodrammore, Le braghe del padrone, Per vivere meglio divertitevi con noi, Belli e brutti ridono tutti, 3 sotto il lenzuolo, Tesoromio, L’appuntamento, Io zombo tu zombi lei zomba, Scusi lei è normale?, L’importante è non farsi notare, La moglie in vacanza ..., Zucchero miele e peperoncino, Mi faccio la barca, Il vangelo di San Frediano, Champagne e fagioli, Augh! Augh!: comicità d’altri tempi (1977-80)

                       “In sala quando compariva Tomas Milian
                  o a certe sue battute… succedeva il finimondo,
                  sembrava di essere in uno stadio… “
                   B. Corbucci

Con I due superpiedi quasi piatti (mar.1977; 110 min.) la coppia Terence Hill-Bud Spencer, diretta dal fidato Enzo Barboni, torna ai fasti commerciali di Trinità ottenendo un trionfale e abbastanza inspiegabile successo.
La pellicola, ambientata in una  Miami periferica, narra le lodevoli disavventure di un paio di ladruncoli che, divenuti poliziotti per caso, sbaragliano una pericolosa gang criminale guidata da Luciano Catenacci. La sceneggiatura è quanto di più generico e funziona come semplice pretesto per inscenare le celebri risse della coppia, risse che risultano essere l’unica vera e molto presto tediosa ragion d’essere del lavoro. La coppia di attori è simpatica e ben affiatata ma questo è anche l’unico pregio di una pellicola tra l’altro prolissa e ripetitiva, perfetta per le sale parrocchiali.
Nel cuore dell’Italia degli anni di piombo il cinema di stampo popolare della seconda metà del decennio torna ad essere una semplice valvola di sfogo e di semplice intrattenimento: la classifica degli incassi vedeva al primo posto il King Kong di Guillermin e nella prima decina Rocky, La battaglia delle Midway, Sturmtruppen, Cassandra Crossing e Il corsaro nero. L’unico film politico presente nelle prime posizioni era Novecento atto primo (Bertolucci, 1976).
Il grande successo convince la coppia a replicare subito con l’altrettanto modesto Pari o dispari (ott.1978; 105 min.) in cui l’unica differenza, peraltro quasi inavvertibile, è l’avere affidato la regia a Sergio Corbucci.
Lo scenario è il medesimo ovvero una Florida anonima mentre la gang da sconfiggere si occupa questa volta di gioco d’azzardo (ma è sempre guidata da Luciano Catenacci); la vicenda è sempre banale e solo accennata mentre Spencer e Hill sono in perfetta sintonia come al solito ma questo non basta a garantire un divertimento di qualità. In ogni caso il grande pubblico corse nuovamente a riempire le sale.
Non c’è due senza tre: Io sto con gli ippopotami (dic.1979; 110 min), terza ed ultima regia di Italo Zingaretti ci mostra i nostri due eroi in Rodesia (in realtà in Sudafrica) alle prese con Jack Ormond (Joe Bugner), perfido trafficante di avorio e di animali.
Il copione è il solito canovaccio senza pretese; l’unica differenza rispetto ai film precedenti è costituito dalla presenza dei paesaggi africani e dei tanti animali difesi dalla coppia di protagonisti (perfino i cacciatori devono accontentarsi di safari con armi caricate a salve...). Il successo si ripete.

Bud Spencer, da solo, interpreta la figura di un simpatico truffatore in Charleston (mar.1977, 105 min.), una dignitosa imitazione de La stangata (Hill,1973) diretta da Marcello Fondato (suo settimo ed ultimo lungometraggio).
A Londra, ai giorni nostri, una banda di modesti imbroglioni, guidata da Charleston, riesce a destreggiarsi tra la polizia di Scotland Yard guidata dall’ispettore Watkins (Herbert Lom) e Lo Monaco (James Coco), un capitalista furfante intenzionato a disfarsi ad ogni costo di una nave-casinò che gli fa perdere molte migliaia di dollari. La trama è oltremodo contorta e si incarta anche in qualche lungaggine ma approda a un brillante finale in cui, attraverso uno stratagemma molto simile a quello del film modello con Robert Redford, si fa credere a Lo Monaco che lo yacht, appena venduto a Charleston, è affondato in un incidente e che quindi il compratore potrà fruire di un enorme rimborso assicurativo. Così il capitalista si affretta a ricomprarlo e cade nella trappola.
Fondato evita quasi tutti gli stereotipi del cinema di Spencer-Hill, crea una serie di gag decisamente modeste, quando non sciocche e puerili, centrate su James Coco e il suo telefono; tuttavia l’attore americano ha modo di riscattarsi in altri briosi momenti del racconto. Bud Spencer, col suo fare sornione, appare perfettamente a proprio agio e anche la obbligatoria megarissa, inserita nel finale, appare estremamente originale poiché a fronteggiare i soliti malviventi c’è, con Charleston, un gruppo di attori circensi che rendono questa spettacolare scazzottata addirittura la cosa migliore dell’intero film.
Gi incassi, per quanto inferiori a quelli abituali del duo Spencer-Hill, furono comunque molto buoni mentre tornarono ad essere eccezionali per lo scadente Piedone l’africano (mar. 1978; 110 min.), terza avventura della quadrilogia firmata da Steno.
La pellicola inizia con un prologo in puro stile poliziottesco (Steno, con La polizia ringrazia, aveva “inventato” il genere sei anni prima), con il protagonista che sgomina una banda di teppisti su un autobus napoletano. Poi si passa a Johannesburg, alla Namibia e alle vicende inverosimili e noiose di Piedone che investiga su una banda di trafficanti di droga e diamanti. Tutto scorre nella maniera più apatica, con Steno indeciso tra la trama poliziesca inesistente e le spacconate del protagonista anch’egli abbastanza opaco e sottotono. Il contorno umoristico affidato a Enzo Cannavale, le stereotipate immagini dei safari e la presenza aggraziata di Dagmar Lassander non migliorano la pellicola. All’attivo rimane solo la bella colonna sonora dei fratelli De Angelis che cita apertamente i ritmi ostinati dei Goblin di Profondo rosso.
Il grande successo popolare invoglia Steno e Bud Spencer a proseguire con quella che sarà l’ultima avventura del poliziotto napoletano ovvero Piedone d’Egitto (mar.1980; 100 min.), film che conferma la modesta qualità della serie, rendendo sempre più evidente che il destinatario dell’operazione è un pubblico giovanile senza troppe pretese.
In questo episodio al posto del Sudafrica c’é Il Cairo e le sue piramidi mentre l’avventura, confusa e puerile, nonché vagamente ispirata agli schemi narrativi del cinema di James Bond, riguarda uno stravagante scienziato (Leopoldo Trieste) che, intento a scoprire metodi infallibili per individuare i giacimenti di petrolio, viene rapito da bande criminali egiziane.
Il successo questa volta è buono.
In quegli anni Bud Spencer recita anche in una coppia di film affidati alla regia di Michele Lupo. Il primo, Lo chiamavano Bulldozer (ago 1978; 110 min.), ripropone lo schema tipico del film sportivo. Il nostro eroe, campione di football americano a riposo, accetta di allenare una squadra di simpatici dilettanti per sfidare un’agguerrita compagine composta da militari americani. Nel finale, dedicato al match, la vittoria arriva all’ultimo minuto.
Il lavoro, privo di originalità, anch’esso rivolto a un pubblico giovanile, non offre motivi di interesse. Il protagonista, sempre all’altezza del compito, sostiene faticosamente l’intero racconto che, tuttavia, ottenne un notevole successo commerciale.
Identico discorso vale per Uno sceriffo extraterrestre... poco extra e molto terrestre (ago 1979; 90 min.) in cui Michele Lupo e Bud Spencer si ispirano ai recenti successi hollywoodiani di marca fantascientifica ovvero Guerre stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo.
In una cittadina americana (Newman, Georgia) lo sceriffo Bud Spencer si imbatte nel ragazzino H7-25 (Cary Guffey, già presente nel recente capolavoro spielberghiano) ovvero un picco E.T “caduto” per sbaglio sulla terra. Il nostro simpatico tutore della legge impiega metà film per rendersi conto dei reali poteri del ragazzino alieno e nella seconda metà gli tocca proteggerlo dai militari che lo vogliono sequestrare per motivi di studio... Nel finale l’astronave madre torna a prenderlo.
La pellicola è estremamente modesta e non è in grado di sfruttare il soggetto che avrebbe potuto diventare un grande successo internazionale: i dialoghi sono spesso sciocchi, gli effetti speciali inguardabili e la conduzione della storia puerile. L’unico elemento di interesse consiste appunto nel suo anticipare clamorosamente la struttura narrativa di E.T. (Spielberg, 1982): il celebre regista americano sostituirà Bud Spencer con il gruppo di ragazzini amici dell’alieno e poi calerà l’insieme in un magnifico contesto epico, popolato da splendidi effetti speciali e innervato da un soundtrack tra i più belli della storia del cinema. In tal modo il piccolo film di Lupo-Spencer si trasformerà in una favola fantascientifica capace di sedurre tutte le platee del globo.
Il notevole successo commerciale di Uno sceriffo extraterrestre invogliano Lupo e Spencer a inventarsi una seconda puntata con lo scadente Chissà perché capitano tutte a me (set 1980, 100 min.) in cui lo sceriffo e il piccolo e.t. H7-25, che peraltro si vede abbastanza poco, si trovano a dovere affrontare un alieno animato da cattive intenzioni. Nel frattempo l’esercito continua a dare la caccia al ragazzino...
Questa volta anche la risposta del pubblico è più tiepida.
Terence Hill cerca di inserirsi in questo ciclo di favole fantascientifiche per ragazzi con il modesto Poliziotto superpiù (ott 1980; 100 min.), diretto da Sergio Corbucci, in cui il popolare attore si spira al personaggio dei Due superpiedi quasi piatti (siamo ancora a Miami) e viene affiancato nientemeno che da Ernst Borgnine. Il protagonista si ritrova degli incredibili superpoteri (prevede l’immediato futuro, muove qualunque oggetto col pensiero, ferma le pallottole coi denti... ). Dopo qualche trovata simpatica, il film scade in noiose ripetizioni mentre il soggetto ovvero la caccia a una banda di falsari, è privo di qualunque interesse.
Il successo commerciale fu comunque buono, anche se probabilmente inferiore alle aspettative.

Pingitore si conferma regista caustico e ambizioso, saldamente inserito nel campo conservatore, con il suo Nerone (gen.1977; 90 min.) in cui tenta addirittura di raccontare la conflittualità estrema del quadro politico contemporaneo (ormai avviato al terrorismo di entrambi i colori) attraverso le maschere dell’imperatore romano, di Petronio, di Pietro e dei cristiani perseguitati. Pur potendo contare su un cast sorprendente, Pingitore non va oltre la collezione di scenette da avanspettacolo, molte delle quali appesantite di una inutile verbosità di stampo appunto teatrale. In particolare appaiono inutili i lunghi interventi di un Montesano/Petronio che, insieme ad alcune scene corali abbastanza caotiche, vorrebbero rievocare il magnifico Satyricon felliniano. Più interessante è tutta la parte incentrata su Nerone (un Pippo Franco in gran forma) che incarna la salda e gioconda amoralità del Potere alla quale inutilmente si oppone il fanatismo cristiano/comunista il cui moralismo stucchevole e la cui ipocrisia antivitale sono i coraggiosi bersagli contro cui si scaglia il regista. Meno riuscita è invece la parte che allude alle minoranze militariste/fasciste con un generale Galba/Aldo Fabrizi anziano e spento, incapace di “raccontare” i misteri del golpe dell’Immacolata (dic.1970) e del principe Junio Valerio Borghese. Il finale poi si perde in un musical che vorrebbe parodiare Jesus Christ Superstar (Jewison, 1972) mentre riesce solo ad annoiare.
Nonostante il ricchissimo cast (ci sono anche Maria Grazia Buccella, Paola Tedesco, Paola Borboni, Oreste Lionello, Paolo Stoppa... ) il pubblico decretò fiasco, mostrando di non gradire queste operazioni comico-politiche in cui l’umorismo è assai freddo e le allusioni politiche spesso troppo contorte e difficili da afferrare per un pubblico non sempre “preparato”.
Pingitore insiste con la satira politica e firma una pellicola più interessante ovvero Scherzi da prete (mar.1978, 90 min.), in cui si diverte a esaminare il conflitto tra cattolici modernisti, seguaci di Paolo VI e del Concilio (1962-65) e cattolici tradizionalisti che volentieri avrebbero fatto a meno delle tante novità che avevano modificato radicalmente la pratica liturgica.
Il film si concentra sulla novità della messa in italiano al quale, in un piccolo paese della Ciociaria, si contrappone la messa in ciociaro, gestita con entusiastico zelo da don Tarquinio (un brillante Pippo Franco). L’aristocrazia nera scopre questo personaggio ingenuo e ostinato, lo sostiene contro alla nuova nomenclatura vaticana (rappresentata da Gianfranco d’Angelo e Lino Toffolo, entrambi in gran forma) e addirittura fonda un partito di destra - la democrazia ciociara - che si propone come alternativo alla DC. Uno scatenato don Tarquinio ottiene un crescente successo nelle piazze fino a quando, con un abile stratagemma, il Vaticano ricatta  gli aristocratici che, di colpo, tolgono ogni sostegno alla pericolosa e destabilizzante operazione politica. Tutto torna come prima e don Tarquinio viene spedito in Uganda...
Il film esamina due problematiche allora abbastanza attuali ovvero lo scisma attuato dal vescovo francese Lefebvre (ancora attivo oggi anche se marginale e sostanzialmente sconosciuto) e i tentativi di fondare un partito conservatore alla destra della DC (il modesto tentativo di Democrazia nazionale di Nencioni, durato pochi anni). Il regista guarda con evidente simpatia al mondo della destra e ironizza in maniera spesso polemica con l’asse cattocomunista, in quel periodo al culmine della propria fortuna. Inoltre continua a ispirarsi al modello felliniano di cui, questa volta, ripete il divertito anticlericalismo soprattutto nella sequenza della sfilata di moda ecclesiastica, memore di quella superba presente in Roma (Fellini, 1971).
A differenza di Nerone, Scherzi da prete riscosse un discreto successo e un clamore ancora più deciso ottenne il successivo Tutti a squola (feb 1979, 90 min.) in cui il contesto scolastico ha poco a che fare con le situazioni rilassanti del cinema erotico iniziato con L’insegnante (Cicero, 1975). Nel ritrarre la scuola libertaria, politica e degradata degli anni di piombo Pingitore prende a modello il recente Prova d’orchestra (Fellini, 1978) di cui ripete il clima apocalittico (che in quel contesto rievocava, in maniera metaforica, l’omicidio Moro), piegandolo ad una ironia cinica e nera che spesso riesce anche a divertire.
Il perno della narrazione rimane Pippo Franco, professore spaesato, timido e bonario che diviene vittima di ogni sopruso. Le femministe lo insultano, gli studenti lo considerano un fossile mentre gruppi criminali (tra cui uno spaesato Lino Banfi), dediti allo spaccio di droga nelle ricettive aule scolastiche, lo ricattano obbligandolo a vendere stupefacenti. Gianfranco D’Angelo è un preside spassoso, pronto ad adattarsi a qualunque follia studentesca pur di riuscire a sopravvivere mentre Bombolo è un bidello capace di convivere con scolaresche tumultuanti. Non può mancare un prete militante, capace di piegare il catechismo al nuovo verbo marxista e la preghiera a chiassose litanie rock. Accanto a episodi indovinati ci sono tuttavia sequenze prolisse e puerili che mancano il bersaglio. In ogni caso il tentativo di attaccare il disordine studentesco e le sue velleità è talmente insolito e a suo modo eroico, che bisogna riconoscere a Pingitore e ai suoi attori un indubbio anticonformismo, uno sguardo lucido ovvero insensibile alle invadenti mode sinistrorse e una certa audacia considerando il minaccioso fanatismo ideologico di quegli anni in cui le più ampie libertà e fantasie convivevano con alcune minoranze armate estremamente pericolose. Ci voleva poco a finire nel loro mirino.
L’episodio successivo della saga di Pippo Franco lo vede calato nel mondo delle vacanze di massa. Ne L’imbranato (ott. 1979; 90 min.) il comico impersona un impiegato fantozziano, pronto a soddisfare ogni esigenza del suo capo (Duilio del Prete). Quest’ultimo, timoroso dei sequestri, lo manda in vacanza in Sardegna al suo posto. Ovviamente verrà rapito ma finirà col divenire amico e complice dei banditi...
L’idea era abbastanza originale ma la realizzazione è noiosa e piatta. Le critiche alle vacanze di massa, soffocanti e iperattive, è scontata e ripetitiva mentre l’episodio del sequestro non viene sfruttato a fondo. Memorabile solo la figura del cognato Bombolo, un bagnino gran lavoratore che considera Pippo un inutile parassita baciato dalla fortuna.
Gli incassi furono buoni.
Stesse argomentazioni valgono per il deludente Ciao marziano (feb 1980, 90 min.) con un Pippo Franco protagonista assoluto nel ruolo di un candido omino verde in visita a Roma. Come Gesù fa miracoli, come Superman vola nei cieli della capitale e amoreggia a suo modo con la prostituta Silvia Dionisio. L’idea si sarebbe prestata a sviluppi intriganti e invece affoga in dialoghi sciocchi. Anche il folto numero di comprimari - Bombolo, Franco Citti, Laura Troeschl, Aldo Giuffré - non riesce ad aggiungere nulla al filmetto organizzato secondo il consueto andamento a episodi separati.
Anche gli incassi questa volta sono modesti.
Scarso successo riscosse anche Il casinista (ott 1980; 90 min.) pellicola ambiziosa che risulta di fatto il migliore della coppia Pingitore-Franco.
Pippo Franco interpreta il ruolo di modesto battutista al servizio di un attore di successo (Renzo Montagnani) le cui movenze risolute e superbe rimandano a Gassman. Il protagonista sembra essere a corto di idee e il suo datore di lavoro lo accusa di ripetere i vecchi stereotipi slapstick mentre si è affacciata la nuova comicità “realistica” di Moretti, Nichetti, Verdone e perfino Woody Allen (ovvero Manhattan, 1979). Pertanto Pippo Franco si immerge nella realtà e vive situazioni estreme con la finalità di cercare una nuova vena comica. Dapprima frequenta il mondo degli sportivi, poi quello della sanità, poi delle carceri, della malavita organizzata, delle maestranze di Cinecittà e infine del terrorismo arabo. Pingitore ha pertanto modo di dipingere con colori vivissimi e profondamente polemici il caos italiano di fine decennio, il suo cinismo sguaiato e l’anarchismo selvaggio che sembra attraversare ogni settore della vita sociale. Gli episodi relativi agli ospedali e alle carceri sono esilaranti mentre le attività di rapinatori e terroristi appaiono perfettamente inseriti in un contesto in cui l’ugualitarismo estremo rende accettabili anche i gesti più devastanti. Nelle gustose sequenze di Cinecittà Pingitore mostra come film di vampiri diretti da un clone di Lucio Fulci e film felliniane (La città delle zoccole) siano grossolani pretesti con l’unico obiettivo di potere mostrare folti gruppi di donne svestite. Un brillante anarchismo nichilista avvolge ogni evento mentre la maschera rassegnata di Pippo Franco sopporta ogni prepotenza, consapevole del fatto che lo stato si è dissolto e che la comunità sociale è frantumata in bande in perenne guerra. L’unica via di salvezza appare dunque la fuga. Infatti il nostro eroe, spesso accompagnato dal fido ed altrettanto arrendevole Bombolo, corre dall’inizio alla fine dello sconclusionato racconto.
Il film è anche una riflessione sul cinema comico e sulla possibilità di divertire ancora con i vecchi mezzi della gag visiva paradossale e inverosimile perennemente confrontata con la nuova comicità degli autori esordienti di cui si parlava molto in quei mesi (da Moretti a Troisi, da Benigni a Nichetti), comicità calata spesso in un contesto più verosimile e arricchita con riflessioni sociali e politiche. Pingitore alla fine rimane fermo sulla propria comicità tradizionale: le sue “marionette” - Pippo Franco in testa – accumulano gag convenzionali di ogni tipo (perfino le torte in faccia), corrono, cascano e se le suonano di santa ragione mentre le sconsolate riflessioni politica sui mali del mondo e le miserie della vita, quando non emergono naturalmente dal contesto surreale, vengono lasciate ai comprimari. Terroristi, scassinatori e ladri rimangono semplici figurine bidimensionali dell’allegro teatrino della vita.

Ferdinando Baldi regista di film d’azione, conferma il proprio scarso talento per la commedia umoristica nello scialbo L’inquilina del piano di sopra (ago 1977; 90 min.), in cui recluta l’insolita e, scopriremo, male assortita coppia Lino Toffolo - Pippo Franco.
In un rispettabile condominio la popolana Silvia Dionisio dà scandalo. Il riluttante e timido professor Lino Toffolo dovrebbe convincerla ad andarsene; invece finisce a farle da Pigmalione, in modo che possa sposare il fidanzato aristocratico Teo Teocoli. Nello scontato finale lei lo ringrazia seducendolo. In un ruolo inutile c’è Pippo Franco malaticcio e sempre alle prese con un esercito di dottori.
Baldi non sa decidersi: è incapace di inserirsi nel solco della commedia softcore (non a caso il film è privo di divieti ai minori) ed è pure incapace di realizzare una pellicola realmente divertente. Lino Toffolo, raramente protagonista, appare questa volta opaco e poco convinto e con lui affonda tutto il film. I comprimari sono inesistenti (oltre a Franco e Teocoli ci sono Enzo Cannavale e Liana Trouché).
Gli incassi furono scarsi.

La terza avventura del commissario Giraldi (Tomas Milian), Squadra antitruffa (nov. 1977; 95 min.) filmata come le precedenti da Bruno Corbucci, è scadente quanto le prime due.
I successi delle puntate precedenti consentono al produttore di ingaggiare un comprimario di lusso quale David Hemmings (in Italia abbastanza noto dopo il successo di Profondo rosso), nel ruolo di un assicuratore londinese a caccia di alcuni truffatori italiani. La trama è grossolana e senza interesse - un gruppo di fanfaroni riusciva a intestare false assicurazioni sulla vita, tutte predatate e intestate a persone morte - mentre le singole sequenze, per lo più una serie di misteriosi omicidi volti a tacitare i componenti della banda, sono girate con buon mestiere e sono di fatto sprecate in questo contesto. C’è anche un breve parentesi a San Francisco in cui Corbucci tenta invano di imitare Bullitt (Yates, 1968).
Il film è indeciso tra tono serio e umorismo di grana grossa e, come sempre in questi casi, fallisce su entrambi i piani. Gli incassi, tuttavia, furono buoni.
Tra il terzo e il quarto capitolo della saga del commissario Giraldi, Bruno Corbucci e Tomas Milian cambiano scenari ma non registro ne Il figlio dello sceicco (feb 1978, 95 min.). La pellicola è sempre una commedia umoristica e poliziesca in cui il protagonista è un romano qualsiasi che di colpo si ritrova ad essere erede delle fortune di un emiro arabo e, al tempo stesso, bersaglio di un sicario (Bo Svenson) assoldato dai nemici dell’emiro. Sullo sfondo ci sono le liti tra clan familiari  relative alle vendite del petrolio.
La prima parte del film è brillante, si ispira vagamente a Il rompiballe (Molinaro, 1973) e descrive i goffi tentativi del killer di eliminare il dapprima ignaro, poi spaventato protagonista. Nel momento in cui il racconto si trasferisce nel golfo Persico (in realtà la Tunisia) si assiste a un teatro di marionette senza vita, tirato inutilmente per le lunghe. Fuori dal proprio contesto romano, Milian appare poco convinto e sostanzialmente incapace di vestire i panni di un emiro mezzo romano e mezzo arabo.
Anche il pubblico appare diffidente e gli incassi sono questa volta solo modesti, mentre diventano addirittura ottimi per il seguente Squadra antimafia (ott.1978; 90 min.), pellicola diretta ancora da Bruno Corbucci.
Pregi e difetti sono quelli del film sopracitato. Il comprimario di lusso è questa volta Ely Wallach (in ottima forma) nel ruolo di un padrino newyorchese, antagonista di Nico Giraldi il quale, nel tentativo di incastrarlo, finisce addirittura sulla sedia elettrica (anche se per finta). La pellicola è quasi interamente girata a New York ed è come sempre indecisa tra comicità e intrigo poliziesco, risultando carente in tutte e due gli aspetti. Laddove l’intreccio narrativo è largamente inverosimile e stucchevole, almeno si sorride per gli ostinati tentativi della figlia Maria Sole Giarra (Margherita Fumero) del boss, bruttina ma simpatica, di sedurre Tomas Milian.
Ancora Maria Sole Giarra è l’unico personaggio realmente umoristico del successivo Squadra antigangster (feb. 1979; 95 min.), ambientato negli Usa tra New York e Miami. Delle caotiche vicende malavitose, vagamente ispirate alla saga del Padrino, non è il caso di dar conto mentre il livello si abbassa ulteriormente venendo a mancare anche l’abituale partecipazione di attori di livello internazionale (in passato Hemmings e Wallach). Anche il pubblico sembra ormai stanco, gli incassi diminuiscono e la formula delle “squadre” termina qui.
Si passa allora alla formula dei delitti e si inizia con Assassinio sul Tevere (ott. 1979, 95 min.) in cui il commissario Giraldi deve affrontare piccoli rebus ispirati agli schemi narrativi di Agatha Christie.
Un uomo d’affari controverso, con molti nemici e una bella moglie (Maria Lante della Rovere) viene ucciso durante una riunione d’affari. Tutti sono sospettati e Giraldi risolve il caso basandosi su un vecchio filmino delle vacanze. Poco cambia rispetto alla vecchia formula: l’intreccio giallo è approssimativo e irrilevante, diminuiscono le risse e gli inseguimenti, il contesto è esclusivamente quello romano, Milian è un mattatore abbastanza ripetitivo mentre ora il ruolo più simpatico è affidato a Bombolo, strepitoso nei panni di un cardinale tedesco che cerca di truffare alcuni ingenui negozianti.
Gli incassi furono buoni e ancora migliori furono quelli del successivo Delitto a Porta Romana (ott.1980; 95 min.) in cui Corbucci e Milian trasportano il loro personaggio nella Milano ricca e snob, mettendo in scena i prevedibili battibecchi tra nordici presuntuosi e laziali orgogliosi di una semplicità spesso confinante con la cafoneria. A parte questa scontata mezza novità, il film però possiede più di una freccia al suo arco e risulta migliore della generale mediocrità in cui affonda la lunghissima serie di Nico Giraldi (11 titoli)
Innanzitutto Corbucci fotografa Milano in lungo e in largo, restituendo un piccolo ritratto della metropoli lombarda agli inizi del nuovo decennio. Tra l’altro il film documenta la presenza de Il Teatrino, il centralissimo locale di spogliarello (situato accanto al cinema Corallo e affacciantesi su piazza Beccaria ovvero nel cuore della metropoli cinematografica), assai popolare negli anni settanta e ottanta, e in seguito sparito. Inoltre la trama poliziesca - una ex infermiera adultera uccisa dal suo amante per motivi misteriosi - è un po’ meno raffazzonata del solito e soprattutto propone un Bombolo in gran forma (le uniche sequenze realmente umoristiche sono certamente sue) nel ruolo di vero e proprio coprotagonista; da antologia i suoi duetti con Bartolo il monzese (Elio Crovetto), gigantesco omosessuale che, in carcere, lo ha “preso in simpatia”. Per il resto inseguimenti e scazzottate sono di qualità ordinaria.
Nella seconda metà degli anni settanta il cinema italiano corre verso un erotismo disinibito e privo di remore e il segno più chiaro è costituito dalla conversione esplicita di alcune sale cinematografiche al cinema softcore. Il primo fu il Majestic (vedi) di Milano che, nell’autunno 1977, inaugurò le luci rosse. Nel frattempo alcune produzioni, sia di tipo meramente commerciale (il filone erotico all’insegna di Edvige Fenech e Gloria Guida), sia con ambizioni autoriali (soprattutto Brass con Salon Kitty e il travagliato Caligola, 1979; ma anche il Lizzani di Storie di vita e malavita), si spingevano oltre i consueti limiti, approdando a pellicole controverse e spesso sequestrate dalla magistratura. In tale contesto si inquadra anche Messalina Messalina! (ago 1977, 100 min.) di Bruno Corbucci con Tomas Milian, Bombolo, Vittorio Caprioli, Lino Toffolo e Anneka De Lorenzo (Messalina anche sul set del Caligola di Brass).
La produzione utilizza i magnifici scenari creati da Danilo Donati per Caligola (film che causa liti giudiziarie, uscirà solo nell’estate 1979 e verrà immediatamente sequestrato) in cui si respirano le atmosfere felliniane del Satyricon e vi inserisce il tono farsesco estremo, tipico della serie di Nico Giraldi oltre a una propensione erotica decisamente ardita. Al centro di tutto c’è Anneka De Lorenzo, una Messalina ninfomane perennemente svestita e ossessionata dalla ricerca del piacere. Tutti se ne approfittano dai nobili ai popolani ai centurioni in una ineluttabile serie di siparietti erotici che anticipa lo schema narrativo del cinema pornografico, mentre l’imperatore Claudio (un perfetto Caprioli) balbetta e fornisce una perfetta esemplificazione del cornuto ignaro e felice. Milian è Babà, un popolano truffatore, che finirà a sua volta truffato nella tipica beffa ripresa da La bisbetica domata (Shakespeare) e dalla vicenda del mendicante Sly trasportato dormiente a corte e convinto da tutti di essere il ricco padrone di casa (in questo caso l’imperatore). C’è poi Toffolo, simpatico forestiero veneto a Roma che finirà nel letto e nella vasca di Messalina e Bombolo, rassegnato centurione romano che monta la guardia al lupanare in cui la protagonista soddisfa decine di “clienti”. Il finale inatteso, un’esplosione splatter di carattere comico, termina una pellicola realmente imprevedibile la cui volgarità è resa sopportabile dall’impiego di un cast eccellente che sembra divertirsi. Paradossalmente Messalina Messalina è più curioso e piacevole dell’intera serie Giraldi.
Tuttavia la pellicola, unica nel suo genere, probabilmente troppo esplicita soprattutto per il pubblico femminile dell’epoca, fu un mezzo fiasco.
Agenzia Riccardo Finzi... praticamente detective (dic.1979; 100 min.) costituisce il mediocre tentativo di creare un Nico Giraldi del nord. Lo schema narrativo è il medesimo: un impianto poliziesco privo d originalità, il ritratto di una metropoli (in questo caso Milano), un protagonista comico con una spalla (Pozzetto e Enzo Cannavale) e qualche attore di rilievo di contorno (Silvano Tranquilli, Olga Karlatos e Lory Del Santo). Sebbene al film collabori soprattutto Max Bunker, ideatore del personaggio Finzi (e soprattutto ideatore di Kriminal, Satanik e Alan Ford), il risultato è alquanto tedioso anche se il pubblico decreta un buon successo commerciale.
Pozzetto appare quanto mai fuori forma e il suo aggirarsi imbambolato stanca subito mentre la vicenda poliziesca (l’assassinio di una ragazza ricca e disinibita), trattata alla maniera dei whodonit della Christie, non decolla mai. Forse Max Bunker pensava al suo Alan Ford, che possiede qualche punto di contatto con il detective milanese; tuttavia la spenta interpretazione di Renato annulla qualunque ambizione. Non a caso il film rimane un episodio isolato.
Di valido resta il ritratto della indaffarata Milano di fine decennio: Corbucci riesce a restituirne i tratti essenziali (come poi nel successivo Delitto a Porta Romana) e, inoltre, documenta la presenza del night club Alle Maschere di via Borgogna (piazza San Babila), rinominato California, che scomparve negli anni successivi.
Il regista romano si ostina nel cercare nuove varianti della fortunata serie di Nico Giraldi e prova anche a mettere Pippo Franco al centro del solito intreccio poliziesco-umoristico ne Il ficcanaso (dic. 1980, 95 min.), pellicola di ambientazione romana che risulta anche peggiore di quella milanese con Pozzetto.
Il comico romano appare spaesato e incolore nel ruolo di un autista timoroso e ossessionato da premonizioni angoscianti; intorno a lui Edwige Fenech, Luc Merenda e Pino Caruso non riescono ad aggiungere nulla al goffo pasticcio. Il pubblico infatti diserta la pellicola ed impedisce, come nel caso di Riccardo Finzi, possibili repliche.
La visione politica di Bruno Corbucci e dei suoi collaboratori (sceneggiatori, attori ecc.) è saldamente conservatrice. Lo dimostra il fatto che tutte le figure femminili sono rigidamente confinate nel ruolo di abili seduttrici o di madri (in alcune pellicole Giraldi ha una moglie incinta che ovviamente trascura...). In nessun momento di questo cinema popolare la donna ambisce a uno stato di astratta parità con il maschio e quando ci prova (la Fenech appassionata di studi parapsicologici) diviene oggetto dell’ilarità maschile; al contrario la figura femminile esalta costantemente la propria sensualità al fine di soggiogare, per quanto possibile e in un contesto temporalmente limitato (in casa, in albergo o al bordello), la controparte, cercando così di ottenere, di volta in volta, il massimo possibile (denaro, gioielli, fidanzamento, matrimonio ecc.). A parte il caso esasperato di Messalina/Anneka di Lorenzo in cui la donna si risolve unicamente nella propria sessualità, c’è il caso di Assassinio sul Tevere in cui Milian/Giraldi accontenta una sua fan (Roberta Manfredi) che ambisce a fidanzarsi con lui (rimarrà incinta) mentre continua a corteggiare la sensuale Marina Lante della Rovere che gli dà corda in quanto interessata a sviare le indagini del commissario. In questo film i due modelli femminili classici (la madre e la seduttrice) vengono perfettamente raffigurati e combattono una serrata battaglia avendo il medesimo obiettivo.

Ritroviamo Tomas Milian nell’insolito e isolato Il lupo e l’agnello (mar. 1980; 100 min.) diretto da Francesco Massaro. Si tratta di un film comico costruito con espliciti riferimenti ad altre pellicole.
A Roma Michel Serrault è un parrucchiere di origini francesi che si finge omosessuale per accontentare la ricca clientela. Il richiamo è non solo al recente Vizietto (Molinaro, 1978) quanto soprattutto a Le signore (Vasile, 1960) in cui Enrico Maria Salerno interpretava un personaggio pressoché identico (in quel contesto si trattava soprattutto di non allarmare i mariti delle clienti… ). Il nostro eroe vive in una famiglia tutta al femminile con moglie e suocera che lo hanno schiavizzato da tempo. Una sera piomba in casa Tomas Milian in versione Monnezza: è un ladro di mezza tacca, inseguito dalla polizia, che si fa chiamare Cuculo in onore di Jack Nicholson (Qualcuno volò sul nido del cuculo). In breve tempo l’uomo impaurisce le donne di casa e diviene amico di Serrault che, finalmente, si sente vendicato. Il racconto è tutto nel gustoso scontro tra la visione patriarcale e “rozza” del ladro e quella femminea, piegata a tutte le mode del momento (ecologia, alimentazione controllata e vegetariana… ) durante il quale il Cuculo, da pericoloso intruso, si trasforma in un amico di tutti, compreso moglie e suocera. Così il dramma, chiaramente ricalcato sul celebre Ore disperate (Wyler, 1955), si stempera presto in una commedia dai toni quasi sentimentali. Nel finale Serrault e Milian scappano con i soldi della suocera: il contesto domestico di tipo matriarcale è insomma una prigione insopportabile da cui evadere quanto prima.
Massaro si inserisce quindi nella visione conservatrice, molto distante dalle sciocchezze moderniste che ormai affliggono l’Italia e che sono un portato evidente della concezione ecologico-sentimentale, per lo più femminista, che ormai invade la quotidianità dell’Occidente senza trovare concreti oppositori.  Il pensiero unico, qui ai suoi albori, si incarna perfettamente nelle molteplici manie delle donne di casa che trasformano l’esistenza di Serrault in un calvario insensato.
Gli incassi furono buoni.

Sergio Corbucci e Steno firmano i tre episodi di Tre tigri contro tre tigri (ago 1977, 110 min.), affidandoli a quattro comici che erano al culmine della fama. Cochi e Renato mettono in scena il classico conflitto tra un moderno prete luterano, ricco e con famiglia, e un povero prete di campagna nel contesto di un paesino rurale lombardo in cui accanto a uno spiccato anticlericalismo prevale l’ammirazione per Berlinguer e il suo partito fatto di gente “onesta”. Il confronto non va oltre i soliti stereotipi e i due comici appaiono incapaci di un autentico umorismo. Anche peggio vanno le cose negli altri due episodi dove la stiracchiata idea base appare priva di un contesto di un qualche interesse. Così Montesano insegue una finta contessa (Dalida Di Lazzaro) che sembra volerlo sedurre ad ogni costo mentre Paolo Villaggio, ormai prigioniero della maschera fantozziana, è un improbabile avvocato trascinato in un’avventura aerea da una folle Anna Mazzamauro.
Il film ebbe un enorme successo che portò a un’immediata replica.
Io tigro, tu tigri, egli tigra (set. 1978, 110 min.) è affidato alla regia di Giorgio Capitani per gli episodi con Villaggio e Montesano mentre Renato dirige il proprio mediometraggio. Il risultato è addirittura peggiore del già insignificante modello. Questa volta gli episodi di Renato cameriere pasticcione e Villaggio alle prese con gli alieni (nel solco del successo planetario del magnifico Incontri del terzo tipo di Spielberg), sono senza valore mentre qualche modesta risata riesce strapparla Montesano che, dirigendo una esercitazione dei bersaglieri, sconfina inavvertitamente in Svizzera (alla ricerca di una tabaccheria ove acquistare sigarette... ) e si trova a combattere una sua piccola guerra.
Il pubblico tuttavia è affezionato ai suoi comici e il film ottiene lo stesso un notevole successo commerciale.

Sergio Corbucci affianca al troppo “tranquillo” Renato il suo opposto ovvero il frenetico Celentano nel fortunato Ecco noi per esempio (dic. 1977, 120 min.), uno dei massimi successi della stagione 1977-78.
La pellicola, quasi interamente ambientata a Milano, gioca tutte le sue carte nel costante confronto/conflitto tra i due comici, un placido poeta e un ipercinetico fotografo, e il contesto sociopolitico distorto da una visione farsesca che cela un evidente distacco dalle parole d’ordine di estrema sinistra prevalenti durante quella particolare stagione. Il carattere ingenuo e candido del poeta viene sottolineato dal fatto di essere un provinciale appena giunto nella metropoli lombarda e dunque estraneo a quel clima politico.
Il racconto, privo di un argomento centrale, è una raccolta di episodi diseguali che permettono al regista di mostrare i nostri eroi perseguitati ora dagli indiani metropolitani, ora da femministe furenti, ora da semplici manifestanti armati con bombe molotov. Non possono poi mancare i rappresentanti della pseudocultura sinistrorsa che simpatizza con il nuovo disordine come il grande poeta omosessuale (George Wilson) che ricatta il candido Renato che, un tempo, lo ammirava…
Ecco noi per esempio è un film poco riuscito in cui gli episodi banali superano quelli di un qualche interesse mentre i due comici si limitano a ripetere senza sosta i loro stereotipi, divertendo solo i loro fan più indulgenti. A distanza di quasi mezzo secolo il film è però un interessante documento di un momento storico unico, gli anni di piombo, con i suoi orribili eccessi e anche le sue incredibili, affascinanti stravaganze. Il regista sembra avere l’ambizione di raccontare quel mondo nuovo e misterioso che si preannunciava nelle celebri immagini conclusive de La dolce vita (nel capolavoro felliniano un ruolo significativo era appunto quello di Celentano) e che ora, quasi due decenni dopo, appare in tutta la sua tracotanza e mostruosità. Tutte le fantasie sono ammesse, sono in qualche modo “al potere” e il risultato è un’orgia puerile in cui tutti i desideri più illogici hanno piena cittadinanza (il racconto offre anche qualche sequenza erotica esplicita, affidata a Barbara Bach e incappa nel divieto ai minori di quattordici anni, insolito per un film comico e “natalizio”) mentre tutte le sicurezze di una Tradizione secolare sono state accantonate e derise. Il Tempo si incaricherà di cancellare almeno in parte quelle sciocche utopie anche se l’ottuso pensiero unico dei nostri giorni, con tutti i suoi astratti egualitarismi e la sua divinizzazione della figura femminile, è, di fatto, un prodotto depurato e corretto, reso un poco più “realistico”, di quella ideologia infantile del piacere.
Sergio Corbucci, animato da sano scetticismo e da una connessa visione conservatrice, stigmatizza le velleitarie pretese della gioventù ricca, benestante e annoiata, ed è forse questo il segreto dell’enorme successo di una pellicola dotata di pochi pregi e di tanti difetti: lo spettatore comune poteva identificarsi con due tipi relativamente normali, assediati da folle di giovani invasati che apparivano per quello che erano ovvero figure anomale e plagiate in un contesto che manteneva ancora, nel fondale, una certa normalità (si pensi alla amica del fotografo che pazientemente si prende cura di numerosi bimbi o a Capucine, moglie del fotografo).
Il finale è abbastanza insolito per una commedia umoristica e natalizia: il poeta ritorna al suo paese natio (Cremenago ovvero un paese immaginario come inverosimile appare tutto quello che riguarda la figura di Pozzetto) e sposa la sua fidanzata, avviandosi ad un esistenza tradizionale, lontana dai furori che attraversano le grandi metropoli mentre il fotografo, dopo un incidente sul lavoro, rimane addirittura cieco, abbandona tutti e parte per la Svezia. La realtà milanese, con le sue false rivoluzioni e la sua sedicente cultura, è dunque un luogo da abbandonare.

Negli stessi giorni esce anche Il… belpaese (dic. 1977; 110 min.) in cui Salce offre praticamente la stessa tematica conflittuale tra contesto e protagonista comico, avendo a disposizione Paolo Villaggio al culmine della propria fama dopo il recente dittico fantozziano (1975-76), diretto sempre da Salce.
Il nostro eroe rientra a Milano dopo avere lavorato per otto anni su una piattaforma petrolifera e crede di ritrovare l’abituale metropoli tranquilla e operosa. Invece si trova ad aggirarsi in una città devastata da ogni forma di violenza (soprattutto di sinistra, ma anche di destra e di tipo mafioso), con gli abitanti “normali” asserragliati nelle case e abituati a sopportare ogni forma di angheria. Il tono è quello grottesco e surreale, quasi bunueliano e soprattutto nella prima metà funziona egregiamente, superando nettamente il film di Corbucci sia nell’invenzione delle situazioni, sia nelle trovate paradossali che spesso stupiscono per una  fantasia non comune. Purtroppo nella seconda parte Salce non è in grado di movimentare l’intreccio che invece si fa ripetitivo e ridondante, finendo per rovinare l’esito positivo della prima sezione.
Ciononostante lo scontro tra il remissivo e stupefatto Villaggio che pretenderebbe di gestire un negozio di orologi rari e da collezione, ovvero un’attività che guarda al passato, cercando di conservarne le eccellenze e di contemplare la bellezza atemporale che esse testimoniano e l’universo attuale in cui tutto si muove verso un futuro imprecisato che si immagina tuttavia radicalmente differente dal presente e dal passato - in quanto rinnovato da invenzioni rivoluzionarie totalmente infondate e spesso anche patetiche -  porta a uno scontro totale in cui a farne le spese è l’uomo comune, travolto da un’onda politica non solo brutale ma anche anomala e insensata.
Salce riesce a raccontare in maniera incisiva lo scontro in atto tra Tradizione e Modernità, argomento peraltro già ampiamente svolto nei due Fantozzi sebbene in maniera meno diretta. Ora l’argomento è indubbiamente quello: accanto al povero protagonista, la cui quotidianità contiene tutte le caratteristiche del mondo tradizionale, si colloca la figura emblematica di Silvia Dioniso la cui sradicata fantasia e il cui futile e mutevole entusiasmo per ogni moda politica (femminismo battagliero e connesse libertà sessuali di cui un imbarazzato Villaggio sarà facile bersaglio, autonomia operaia, indiani metropolitani con i loro espropri proletari, ecologismo antinucleare) che interpreta anche fisicamente (con differenti, esemplari abbigliamenti), testimonia la realtà di una gioventù pronta ad abbracciare qualunque movimento antisistema, senza alcun approfondimento critico dei suoi contenuti.
Il film, il cui impianto conservatore (ricorrente nel cinema di Luciano Salce) è conclamato, ottiene un notevole successo, anche se minore rispetto a Ecco noi per esempio; anche in questo caso il pubblico italiano dimostra di apprezzare questa palese irrisione delle pericolose mode giovanili degli anni di piombo, proprio quando esse stanno per precipitare verso esiti tragici, clamorosi e incontrovertibili (il sequestro Moro - marzo 1978 - e la lunga sequenza di attentati mortali che seguiranno).
Salce insiste con Villaggio e tenta di inventare un nuovo personaggio cinematografico con Il professor Kranz tedesco di Germania (nov. 1978, 105 min.) in cui racconta le noiose peripezie di una banda di banditi improvvisati che, nel Brasile degli esuli nazifascisti, sequestra uno sceicco. Chiesto il riscatto i poveracci scoprono di avere rapito l’autista dello sceicco...
Villaggio, coadiuvato dal solo Adolfo Celi (di casa in Brasile), appare spaesato e non riesce a conferire interesse al personaggio di questo mago pasticcione di origine germanica, nuovo per il cinema (in realtà già proposto, con successo, alla fine degli anni sessanta in un programma televisivo), personaggio che appare troppo somigliante a quello del celebre Fantozzi. Intorno a lui i comprimari brasiliani sono opachi, l’umorismo latita e il film affonda nella mediocrità. Questa volta il pubblico, abituato a riempire comunque le sale in presenza di Villaggio, non ci casca e il film è un fiasco. Si tratta di uno dei peggiori film dell’altrimenti talentuoso Luciano Salce.
Ancora Salce e Villaggio si ritrovano nel film collettivo Dove vai in vacanza? (dic. 1978; 150 min.), classico film a episodi che ottenne un notevole successo.
L’episodio centrale Sì buana , vagamente ispirato a un noto racconto di Hemingway (
The Short Happy Life of Francis Macomber, 1936) racconta le peripezie di Villaggio animatore di un safari in Kenya, incastrato da una furba amante (Anna Maria Rizzoli) che architetta la morte del suo ricco accompagnatore lombardo (Daniele Vargas) per riscuotere una favolosa assicurazione sulla vita. Come nel più celebre caso della Potemkin (Il secondo tragico Fantozzi), Salce prende di mira un simbolo della sinistra (Hemingway) e cerca di smontarne la stereotipata mitologia; ma l’episodio è troppo modesto e privo di mordente per riuscire nell’impresa.
Altrettanto insignificante è il raccontino Sarò tutta per te
firmato da Bolognini in cui si mette in scena l’ormai consueto scontro tra Modernità e Tradizione, affidandosi però a figure e situazioni talmente generiche da risultare false e tediose, così da affondare ogni intento critico nei confronti delle frivole mode culturali del periodo. Tognazzi torna dalla ex moglie Sandrelli, che non vede da dodici anni, con l’unico scopo di andarci a letto di nuovo. La donna però è divenuta una campionessa di femminismo e vive in una elegante villa popolata da numerosi giovani, tutti ormai assorbiti dalla nuova visione egualitaria e totalmente disinibita in questioni sessuali tra nudismo e scambi di coppia. Tognazzi, dentista all’antica, si oppone finché può e alla fine lascia la villa senza essere riuscito ad ottenere  quello che voleva.
Il vero episodio che rimane invece nella memoria per il coraggio e per la forza con cui prende di petto le mode culturali del decennio è Le vacanze intelligenti diretto da Sordi. Questi riprende il personaggio del fruttarolo romano, già visto ne Le coppie e Il comune senso del pudore, e gli fa fare un pellegrinaggio nelle differenti “chiese” del pensiero artistico “rivoluzionario”. Così vediamo  questo uomo del popolo, perfetto rappresentante del monto “antico” e tradizionale, alle prese con le mode storiche (la riesumazione degli Etruschi), i concerti di musica atonale e aleatoria e le provocatorie mostre di pittura della Biennale veneziana. In un crescendo di divertito disagio la coppia sopporta tutto, intimidita al motto di Questi sò scienziati, noi non li potemo capì. Forse un giorno li potremo capì pure noi” ovvero sfottendo l’asse portante di questa pseudocultura basata su un becero evoluzionismo per cui queste opere artistiche sarebbero troppo complesse per la gente comune ma sarebbe state compresa dalle genti future. Oggi più che mai sappiamo che quel futuro, ormai arrivato, ha sepolto nella più totale indifferenza tutta quelle provocazioni culturali. Sordi tuttavia si mostra anche buon profeta: nell’ottimistico finale i tre figli dei fruttaroli, zelanti marionette del “nuovo corso”, tornano agli spaghetti e i genitori hanno buon gioco a comprendere che, dopo tutta quella ubriacatura di astrattezze insensate, anche quei giovani sarebbero tornati alla Tradizione, cosa che avvenne, parzialmente, già nel decennio successivo.
L’ultima collaborazione tra Salce e Villaggio è Rag. Arturo de Fanti bancario-precario (mar. 1980; 95 min.) in cui il regista cerca invano una formula relativamente nuova.
Nel contesto di una Roma sconvolta dal crimine (simile a quella de Il... belpaese), Villaggio è un modesto e squattrinato ragioniere che però si circonda di una compagine femminile di tutto rispetto. La moglie è la fascinosa Catherine Spaak, l’amante è l’appariscente Anna Maria Rizzoli mentre in casa si aggira, in qualità di cameriera, una sensuale Enrica Bonaccorti. Il nuovo personaggio, pur essendo ancora un ragioniere, cerca di evitare le titubanze di Fantozzi e si mostra sicuro di sé. La prima mezz’ora è abbastanza intrigante: il protagonista, con motivazioni generiche di tipo economico, riesce a portarsi a casa l’amante e a farla accettare alla moglie: é pur sempre l’epoca del free love e delle coppie aperte. Di lì a poco anche la moglie lo imita e installa in casa un suo amante. Poi il giochino perde fascino e il numero di amanti, mogli e mariti - tutti costretti nella medesima abitazione - aumenta a dismisura (arrivano Anna Mazzamauro, Carlo Giuffré ed altri) e il racconto diviene confuso, sciocco e ripetitivo.
Per certi aspetti Rag Arturo de Fanti è l’opposto del professor Kranz in quanto, rispetto al film brasiliano interamente basato sul richiamo del comico ligure, può vantare un cast di tutto rispetto; ciononostante il fiasco è simile. La popolarità di Villaggio rischia ora di declinare e allora il comico si vede costretto a ritornare rapidamente alla sua maschera più popolare. Arriva così nelle sale Fantozzi contro tutti (nov. 1980; 90 min.), diretto dal semiesordiente Neri Parenti e dallo stesso Villaggio. Il film, pur non offrendo nulla di nuovo, è un trionfo commerciale (terzo posto negli incassi della stagione 1980-81).
Come i precedenti, il film è diviso in episodi autonomi, alcuni ambientati nella megaditta, altri in ameni luoghi di vacanza in cui il nostro eroe e i suoi colleghi vivono, in realtà, situazioni da incubo. Così ritroviamo Fantozzi alle prese con spietate cure dimagranti a Ortisei o schiavizzato e ridotto a mozzo sul motoscafo di un megadirettore. Il ritmo è buono e alcune gag, per quanto scontate funzionano (soprattutto quelle relative alla vacanza in mare). Inoltre compare il “delicato” episodio coniugale che vede Fantozzi alle prese con la moglie (Milena Vukotic) perdutamente innamorata di un prestante panettiere (Diego Abatantuono). La vicenda è spumeggiante, ricca di trovate e giocata su un registro dolce amaro in cui i momenti esilaranti e surreali (l’appartamento ricolmo di michette e bastoni di pane in ogni suo anfratto) si alternano a quelli patetici (la donna insultata e derisa dal suo presunto amante) con indubbia efficacia. Il film conferma l’Italia della conservazione sociale e non perde neppure tempo a deridere le ultime mode sociali della sinistra radicale come avveniva nel dittico di Salce (1975-76), calato però nel cuore degli anni di piombo. Il mondo impiegatizio, con le sue inossidabili gerarchie e i suoi sciocchi rituali, viene ritratto come l’unico mondo possibile, anche se tutt’altro che perfetto.
L’Italia ormai in dirittura di uscita dagli anni di piombo, immersa in una inedita atmosfera spensierata e consumista, ha ormai accantonato tutte le mode culturali autentiche o inautentiche del passato decennio e anche le scelte del grande pubblico cinematografico sono lì a dimostrarlo. In quella stagione 1980-81 i campioni di incasso sono quasi tutti film popolari e privi di qualunque ambizione autoriale, interpretati dalle star comiche del momento ovvero Ricomincio da tre, Il bisbetico domato, Asso, Mia moglie è una strega. Il capolavoro di Kubrick, Shining, deve accontentarsi della decima posizione.

In quegli anni Villaggio collabora anche con Giancarlo Santi nell’ambizioso film Quando c’era Lui... caro lei (mar. 1978, 100 min.), una favola nera condotta nel registro del grottesco e del paradosso, in cui si annidano interessanti riflessioni sulla storia e la politica italiane.
Nel suo comparare l’Italia coeva del terrorismo e quella passata del fascismo, Santi propone un’opera urlata e a suo modo incisiva in cui ritroviamo lo stile dell’ultimo Petri (La proprietà, Todo modo) e, soprattutto, nella sezione “fascista”, reminiscenze evidenti di Amarcord e del Casanova felliniano. La tesi è semplice ma efficace: il potere è sempre identico a se stesso, manipola in maniera amorale la realtà e, indifferente al realismo e alla verità storica, dispone a piacimento della gente comune, soprattutto di quegli sprovveduti che, privi del carattere adatto, hanno fatto l’errore di avvicinarsi al perimetro della lotta politica.
La vicenda alterna un grigio presente in cui il benzinaio Dalmazio (P. Villaggio) ritrova l’ex commilitone squadrista Pavanati (un ottimo Gianni Cavina che ruba la scena al comico genovese) e l’ex “sovversivo” Rossetti (Hugo Pratt). Come è nella logica delle cose quest’ultimo, un tempo perseguitato, è diventato un pezzo grosso dell’era democratica mentre Pavanati si è abilmente riciclato. Il trio passa una giornata amena, in trattoria, rievocando i “bei tempi andati” ovvero l’era fascista, ritratta in uno stile fumettistico e farsesco. Alla fine della giornata però Dalmazio viene consegnato alle forze dell’ordine dai due presunti amici quale probabile terrorista di destra: è insomma un capro espiatorio ideale per crimini politici mesi in atto dai servizi e volti a destabilizzare l’ordine così da renderlo più facilmente governabile dalle forze conservatrici.
La maggior parte del film, tuttavia, è volta alla riesumazione di tutte le figure cardine dell’era fascista, ritratte con feroce crudeltà. Sfilano con Pio XI (un grande Mario Carotenuto), Mascagni (il cui concerto per mitragliatrice allude alle scempiaggini della musica concreta degli anni settanta: non a caso il direttore d’orchestra viene spedito subito al confino), il re nano, una esilarante donna Rachele (Orietta Berti) sempre intenta a cucinare ottime tagliatelle al ragù, Claretta Petacci (Maria Grazia Buccella) e famiglia, Hitler e Goering sprezzanti nei confronti della corte mussoliniana ridotta a un povero circo di dementi, l’ambasciatore Chamberlain altezzoso e “distante” da quei grossolani dittatori. Pur con qualche lungaggine di troppo e tra eccessi e volgarità che possono disturbare, il film è quasi un unicum e lascia il segno (non a caso può essere considerato il modello del futuro Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, 2002, film anch’esso geniale nell’ideazione e ripetitivo e ridondante nella realizzazione).
Il film offre un quadro completo e ben informato sia dell’universo fascista sia di quello del potere democristiano/atlantico del dopoguerra. In un contesto così complesso anche l’apporto di Villaggio è generico e la difficile comicità complessiva non trovò un pubblico disposto a seguirla. L’opera riscosse incassi limitati.
Un altro tentativo del comico di rinnovare la propria immagine si ha con il mediocre Dottor Jekyll e gentile signora (1979 - 95 min) diretto da Steno. La vicenda rovescia gli stereotipi tradizionali: Jekyll è un perfido capitano d’industria mentre Hyde è un angelico bonaccione, entrambi impegnati nel convincere la regina d’Inghilterra a sponsorizzare un loro prodotto, pericoloso per la salute.
Il film, puerile e poco umoristico, ottenne incassi modesti. L’unica cosa da notare è il fatto che Villaggio abbia palesemente copiato la maschera del suo Hyde da quella di Harpo Marx.

Renato Pozzetto, ormai popolare e certo del proprio talento si avventura nella sua prima ed unica regia di un lungometraggio con il mediocre Saxofone (ott 1978; 100 min.), disordinata collana di episodi in cui l’unico elemento di continuità è costituito dalle gesta di un suonatore di sax che vagabonda per Milano dandosi arie di suonatore ambulante. Nonostante le sciocche moine e la musica sempre identica, l’affascinante Mariangela Melato se ne innamora, abbandona il proprio stato di signora snob, accantona il proprio convenzionale marito e lo segue in adorazione. Scoprirà che il finto clochard è un riccone come lei, con tanto di moglie, quattro figli e maggiordomo...
A parte la simpatica trovata conclusiva il film annoia dall’inizio alla fine. Costituisce, però un simpatico documento della Milano di fine anni settanta. Gli incassi furono discreti a riprova del fatto che negli opprimenti anni di piombo qualunque pellicola che prometteva risate con i beniamini del momento veniva presa d’assalto.

Prendendo spunto dall’inatteso trionfale successo de Il vizietto (Molinaro, 1978), Steno si inventa una versione italiana con La patata bollente (ott 1979; 100 min.) e, in qualche modo, fa centro poiché questa pellicola, non particolarmente brillante, diviene un enorme successo.
Il Gandi (Renato) è un operaio nonché un fervente marxista la cui abitazione è addobbata con gigantografie di Marx e di Lenin; il compromesso storico è ormai alle spalle e il nostro eroe è tornato a professare una fedeltà assoluta a Mosca quale capitale universale del comunismo. Personaggio simpatico e generoso, ex pugile, ha idee radicalmente conservatrici nelle questioni sessuali cosicché quando si trova a soccorrere Claudio, un omosessuale (un ottimo Massimo Ranieri) pestato da alcuni fascisti e a ospitarlo per alcuni giorni in casa, nasconde la cosa a tutti, soprattutto alla sua fidanzata (E. Fenech). Ovviamente i malintesi si assommano e si arriva ad uno scioglimento roseo con il Gandi che cerca di convincere i compagni di partito ad accettare le diversità sessuali...
Il film copia lo schema narrativo del film francese, creando situazioni umoristiche basate sulla vergogna relativa alla frequentazione del terzo sesso ed offre una visione manichea e stereotipata della realtà politica. Negli anni settanta si era già cominciato a guardare all’omosessualità come a un fatto naturale e il cinema ne aveva già parlato in film seri e seriosi come l’episodio Scandaloso di Alta infedeltà o nel film di Brusati Dimenticare Venezia (1978). Nei primi anni ottanta si formeranno alcune associazioni in difesa dei diritti dei gay (quelle capitanate da Franco Grillini) proprio all’interno dell’universo della sinistra. Il film di Steno, brillante e simpatico, condivisibile nelle sue intenzioni ideali, è realistico quanto i film di Don Camillo e Peppone (non a caso il Gandi viene mandato in viaggio premio a Mosca come il Peppone di Il compagno Don Camillo, Comencini, 1965). Come quelli tuttavia è apprezzabile e divertente, grazie alla piena forma di tutti gli attori.
Nel finale ci si inventa che in Olanda è già presente il matrimonio omosessuale (il breve epilogo con Claudio stabilitosi ad Amsterdam). D’altro canto Steno è buon profeta: sarà proprio l’Olanda la prima ad ammettere il matrimonio tra persone dello stesso sesso nel 2001.
Forti dell’incredibile successo Steno e Pozzetto replicano con Fico d’India (set. 1980; 95 min.) in cui il regista riesuma la coppia Renato-Aldo Maccione, già protagonista di uno dei primi exploit del comico lombardo (Due cuori una cappella) e utilizzata anche da Risi nel recente Sono fotogenico (vedi) e fa di nuovo centro. La pellicola in realtà si rivela complessivamente modesta; tuttavia il grande pubblico decreta un nuovo pieno successo.
In effetti la prima metà del racconto, ambientato a Bracciano, funziona e diverte. Renato è un sindaco pignolo e un assicuratore benvoluto da tutti tranne che dalla bella moglie (Gloria Guida) che si sente oltremodo trascurata. Così dà un po’ di confidenza al playboy locale (uno spassoso Maccione) che, con abili stratagemmi, riesce a intrufolarsi nel suo letto dove lo scopre il marito furibondo. Però accade che l’intruso si spaventi al punto da avere un infarto e quindi, su ordine del medico, l’uomo risulta intrasportabile. Inizia la lunga odissea dei coniugi Pozzetto, costretti a convivere in casa con l’invadente playboy, oltretutto cercando di tenere nascosta alla cittadinanza la realtà dei fatti... La serie di equivoci e di liti domestiche conosce un divertente crescendo fino a quando, intorno a metà film, gli sceneggiatori non riescono a trovare più argomenti validi e il racconto si trascina stancamente fino a una soluzione frettolosa. Per arricchire lo statico soggetto si immagina che, di notte, una banda di teppisti, guidati da Abatantuono, metta a ferro e fuoco la cittadina e perseguiti chiunque osi aggirarsi per le strade.
La prima parte funziona anche perché Steno utilizza l’evidente modello di Signore e signori (in particolare il primo episodio), inserisce una serie di macchiette locali e le fa riunire nel bar del centro cittadino, il che rende pungente la vicenda del sindaco e del suo intruso. Poi però le idee finiscono e Maccione-Pozzetto finiscono per diventare fin troppo amici...
Nel film si respira un’aria oltremodo patriarcale (non a caso ispirata alla misoginia del citato film di Germi) con i mariti incapaci di controllare le loro signore la quali appaiono del tutto disinteressate a rivendicare posizioni egualitarie e di contro impegnate nella perenne ricerca di diversivi sessuali.

Dino Risi arruola l’imbambolato Pozzetto per girare il suo film sul cinema ovvero Sono fotogenico (mar 1980, 110 min.). Il racconto, debitore innanzitutto all’universo felliniano, parte dal finale dei Vitelloni ovvero dalla partenza per Roma di un provinciale, un uomo senza qualità, singolarmente inespressivo ma anche appassionato cinefilo. Giunto a Roma il giovane illuso si scontra con il cinico sottobosco che ruota intorno agli studi di Cinecittà. C’è l’avvocato trafficone (un ottimo Maccione) che finge di rappresentarlo per impadronirsi dei suoi modesti risparmi; c’è Cinzia, la bella comparsa (la Fenech altrettanto brava) che vive di espedienti e si concede a questo e a quello pur di tirare avanti in attesa della grande occasione; c’è il mondo della modesta pensione (chiaramente ispirata a quella di Roma, Fellini 1971) in cui alloggia il protagonista, con i suoi tanti aspiranti cineasti e c’è perfino il maestro di recitazione omosessuale, disperatamente innamorato di un esordiente francese che rievoca il celebre (in quel mondo) rapporto tra Visconti e Delon ai tempi di Rocco e i suoi fratelli.
Pozzetto, in uno dei suoi ruoli migliori, è e rimane una comparsa apatica. Tale era, innanzitutto, a Laveno, suo paese di origine, dove rifiutava di integrarsi nel mondo della borghesia locale, ben rappresentata da un meschino Boldi (cognato del protagonista) e tale rimane a Roma dove tanti lo sfruttano senza dargli nulla in cambio anche perché il giovane, pur conoscendo a memoria la storia del cinema, non possiede alcun talento. Tornerà a Laveno, si adatterà a fare l’impiegato in banca nonché il babysitter ai figlioletti dell’amica Cinzia che, sfruttando il suo ascendente sul provinciale, glieli ha prontamente mollati. In alcuni gustosi camei troviamo Tognazzi, Gassman, la Bouchet e Monicelli.
Risi firma una commedia nera, umoristica solo in superficie. La sua ricognizione nell’universo dello spettacolo italiano, che conosce meglio di ogni altro, mette a fuoco un contesto in cui solo la bellezza e il talento riescono a sopravvivere e affermarsi con una relativa facilità. Il fascino naturale di alcuni, ampiamente ripagato, domina la scena e si erge sopra a tutta una compagine d aspiranti attori che quel fascino non possiede e di cui Pozzetto è un perfetto rappresentante. Anche in questo settore, dove tutto sembra facile, vige una lotta senza esclusione di colpi in cui pochi si accaparrano molto e molti sopravvivono con poco in attesa di qualcosa che non arriverà. La bellezza e il talento naturale sono strumenti di seduzione essenziali: essi incatenano la gente comune che, spesso stretta in grigi contesti quotidiani, li insegue e sembra non poterne fare a meno. Pozzetto fa parte di questa gente comune, è stato totalmente sedotto da quell’universo immaginario di cui, invano, con il suo faccione inespressivo, vorrebbe far parte.
Gli incassi furono appena discreti, a riprova del carattere tutt’altro che accomodante di questa pellicola.

Renato giunge l’apice del successo con Mia moglie è una strega (dic.1980; 85 min.) di Castellano e Pipolo, favola umoristica liberamente ispirata al celebre film di Clair Ho sposato una strega (1942; uscito in Italia alla fine del 1945).
La strega Finnicella (probabilmente la migliore interpretazione di Eleonora Giorgi), mandata al rogo intorno al 1650, ritrova a Roma, ai giorni nostri, un discendente del cardinale che l’aveva condannata ovvero l’innocuo Emilio (Renato), operatore finanziario in procinto di sposarsi con la noiosa Tania (Lia Tanzi). Dapprima la strega, coadiuvata dal terribile diavolo Asmodeo (nientemeno che Helmut Berger), gioca una serie di simpatici dispetti alla coppia. Poi, quando Emilio si innamora di lei, non resiste e lo sposa. In agguato c’è però Asmodeo che cercherà di incastrare Emilio e di mandarlo alla ghigliottina (la parte finale del racconto è ambientata a Parigi dove vige, ancora per poco, la pena di morte) ma alla fine sarà proprio il diavolo a “perdere la testa”...
Film per famiglie, positivo e ottimista, Mia moglie è una strega è una delle pellicole più significative tra quelle che inaugurano gli anni ottanta ovvero un’epoca edonistica e disimpegnata in cui, cancellate utopie e illusioni politiche, trasgressioni e fantasie sessuali, si fa ritorno ai valori consolidati dell’amore eterno, della famiglia e dei figli (sono addirittura tre nel breve epilogo). Non a caso il centro del racconto torna ad essere il matrimonio, come accadeva nelle commedie più ordinarie degli anni quaranta e cinquanta. Ed è curioso che a riportare in auge i valori tradizionali sia una strega, un tempo bruciata da santa madre chiesa...
Il trionfo commerciale del film porterà ad almeno due repliche negli anni successivi.
Giorgio Capitani firma il simpatico Bollenti spiriti (1981) con Johnny Dorelli al posto di Renato alle prese con un fantasma dispettoso che è poi un suo doppio; accanto a lui c’è Gloria Guida, decisamente meno efficace della Giorgi.
Nel 1982 è la volta de La casa stregata di Bruno Corbucci, ancora incentrato su Renato che, insieme a Gloria Guida, deve fronteggiare un bizzarro fantasma saraceno che impedisce alla coppia, fresca di nozze, di avere rapporti sessuali. Anche questa volta l’esito è discreto e il successo commerciale consistente.

In quegli anni Steno firma anche Amori miei (dic 1978; 100 min), trasposizione filmica della omonima commedia teatral-musicale (1974) di Iaia Fiaschi. In piena temperie femminista il testo illustra la credibile esigenza di una eccezionale Monica Vitti di avere non uno ma due mariti ovvero l’esagitato Johnny Dorelli e il tranquillo Enrico Maria Salerno. La donna riesce, con abili stratagemmi, a portare avanti i due menage in parallelo fino a quando non rimane incinta. A quel punto deve riuscire a capire di chi sia il figlio e abbandonare il divertente triplo matrimonio. Le cose ovviamente si complicano: i due mariti si conoscono (si credono mariti di due amiche/colleghe) e insieme si concedono qualche scappatella con una sfolgorante Edvige Fenech. La Vitti si trova così tradita di colpo da entrambi e medita di abbandonarli. Poi i nodi vengono al pettine e la coppia di uomini fa buon viso a cattivo gioco: saranno entrambi padre...
Steno firma una commedia sofisticata di ottimo livello. Gli attori sono in splendida forma e gli argomenti riflettono con leggerezza e brio le tematiche femministe che animavano la vita quotidiana dell’epoca. La naturale tendenza poligamica femminile trova una perfetta giustificazione nelle esigenze della Vitti di condurre una vita completa come solo due persone differenti possono concederle. In realtà, probabilmente senza accorgersene, la Fiaschi si contraddice e approda a un racconto ben poco femminista: ella infatti stabilisce che la donna sarà anche autonoma e uguale al maschio, ma quando vuole concedersi tutte le libertà finisce solo col raddoppiare le proprie “catene”, sposandosi ben due volte; così viene solo ribadito l’antico concetto per cui l’unico reale completamento dell’essere femminile è entro le mura domestiche, magari con tipologie differenti di partner, al fine di alleviare la noia della routine. Il modello dello scapolo cinico e libertino sembra pertanto inappropriato e distante da questo modello femminile.
Il film ottenne un ampio e meritato successo.

Monica Vitti è anche una delle quattro protagoniste di Letti selvaggi (mar.1979; 110 min.), modesta pellicola a episodi che chiude la lunga carriera di Luigi Zampa. Il film ripete situazioni tipiche dell’universo femminile, già rappresentate in simili pellicole a episodi soprattutto degli anni sessanta. Addirittura la vicenda conclusiva del film, con Laura Antonelli manager indaffarata che rimanda all’infinito l’amplesso con un direttore d’orchestra che la corteggia, ripete l’analogo episodio che chiudeva Controsesso (Castellani, 1964; vedi).
Il film ripete, senza estro, il tipico sguardo misogino su un mondo femminile composto da donne poliedriche e amorali, ottime attrici capaci da un lato di manipolare ingenui partner maschili al fine di soddisfare la propria sensualità, dall’altro di utilizzare per finalità affaristiche il loro indubbio ascendente. In un perimetro sociale organizzato da valori tutti maschili, questi esponenti del bel sesso confermano di percepire come estranee tutte le convenzioni sociali. In tal senso esemplare è la vicenda della moglie ex ballerina francese (Sylvia Kristel) che, esasperata dal moralismo soffocante del marito, dapprima lo lega, lo imbavaglia e, facendogli credere di stare giocando a nascondino, sale su un taxi con i due figli e torna a Parigi.
Tuttavia nell’insieme le storielle sono troppo prevedibili e il film si salva solo per la bravura e il fascino delle quattro attrici protagoniste ovvero Ursula Andress (ricca vedova che, subito dopo il funerale si concede, tra finte titubanze, al fotografo Michele Placido), Laura Antonelli, Monica Vitti (ladra di classe in guerra con il collega/rivale Michele Placido) e Sylvia Kristel.
A dispetto del lussuoso cast, gli incassi furono modesti.

Salce firma La presidentessa (feb.1977; 95 min.), nuova versione filmica dell’omonimo testo teatrale francese (1912) di Hennequin e Veber, già messo in immagini da Germi con la Pampanini nel 1952 (vedi). La nuova versione conferma pregi e difetti di queste operazioni: il teatro filmato mortifica le possibilità del cinema e spesso stanca a causa della staticità dell’azione e della verbosità innaturale dei dialoghi (si veda quanto scritto per il film di Germi). Gli aspetti positivi, che possono alleviare quei difetti, consistono nella eventuale bravura degli attori e nel fatto che una generazione di spettatori può così venire a conoscenza di testi altrimenti poco noti. La versione di Salce si avvale appunto di un’ottima Mariangela Melato e di un Johnny Dorelli all’altezza della situazione. Per il resto le vicende della soubrette che si fa credere moglie di un integerrimo magistrato di provincia e che seduce il ministro della giustizia ed altri intorno a lui, scorrono abbastanza fluide e divertenti. L’unica evidente novità è il contesto apocalittico in cui versa il ministero della giustizia, evidente tentativo di Salce di descrivere l’Italia degli anni di piombo attraverso il profondo disinteresse che sembra caratterizzare tutti gli uomini delle istituzioni, dai presidenti agli uscieri. C’è l’aggiunta di un curioso epilogo alla Scala, con la soubrette che si improvvisa ballerina classica tra le risa generali di un pubblico che, tuttavia, viene presto convinto dalle autorità ad applaudire comunque l’intrusa... Insomma anche nel tempio della lirica milanese tutto è in disfacimento e la dittatura sembra alle porte.
Gli incassi furono buoni.
Al contrario un netto fiasco salutò Riavanti Marsch (nov. 1979; 95 min.), maldestro tentativo di Salce di rifare Amici miei in un insolito ed inverosimile contesto militare. Alcuni cinquantenni vengono strappati alla loro routine domestica per un corso di aggiornamento militare obbligatorio. Il barone Carlo Giuffré lascia la bella moglie Annamaria Rizzoli, il miliardario Alberto Lionello ritrova l’amante Sandra Milo di vent’anni prima, Stefano Satta Flores è il solito intellettuale sinistrorso (vedi C’eravamo tanto amati) alla ricerca di un’anima gemella, Renzo Montagnani si affeziona a una ragazzina (Silvia Dionisio) che potrebbe essere sua figlia, Aldo Maccione è il solito spiantato pieno di debiti e sempre arrapato...
Con una sceneggiatura scritta meglio forse poteva nascere una pellicola divertente; invece il film affonda in situazioni tutte prevedibili e fiacche; quando poi, nell’ultima parte, prevale il patetismo il naufragio è totale e il modello di Germi/Monicelli del tutto tradito.

Pasquale Festa Campanile si inserisce nel solco della commedia di fine decennio con due brutti film affidati a uno spento Johnny Dorelli. In Cara sposa (ago. 1977; 100 min.) il nostro eroe cerca in ogni modo di riconquistare la moglie Agostina Belli dopo aver passato cinque anni a San Vittore. L’uomo, un simpatico truffatore che vive di espedienti e sembra uscito da I soliti ignoti, in realtà è finito in galera per avere gravemente pestato la moglie la quale ora convive con un tassista. Il film enumera stancamente tutti i tentativi dell’uomo, dapprima utilizzando il registro umoristico ed infine quello patetico. La noia regna sovrana e la Milano autunnale e triste non aiuta. In ogni caso il pubblico non fece mancare il suo assenso e il regista decise di riprovarci ora giocando esclusivamente sul registro comico-farsesco, quasi fantozziano. Nasce così il pessimo Come perdere una moglie e... trovare un’amante in cui Dorelli tradito dalla moglie tenta di suicidarsi come pure Barbara Bouchet. Le due anime solitarie e deluse finiscono con l’incontrarsi durante una lunga vacanza tra le nevi del Trentino e infine si sposeranno. L’umorismo, di grana grossa, è quasi imbarazzante per la sua inefficacia mentre i personaggi sono tutti privi del minimo spessore. Ciononostante il pubblico accorse nuovamente anche questa volta.
Per il seguente film di Campanile, Gegé Bellavita (mar. 1979, 95 min.), invece l’insuccesso fu netto e meritato. Vi si narrano le tediose peripezie di Flavio Bucci portiere napoletano superdotato che, padre di nove figli e maritato con un a santa accondiscendente, soddisfa tutte le donne (Ria De Simone, Marisa Laurito... ) del suo stabile e così tira a campare. La noia regna sovrana e si rimpiange ovviamente il modello ben altrimenti divertente ovvero Homo eroticus (Vicario, 1971; vedi).
Poco meglio vanno le cose con Il corpo della ragassa (set. 1979, 100 min.), tentativo goffo e accademico di lanciare Lilli Carati nell’universo delle attrici erotiche di classe (L. Antonelli, B. Bouchet, E. Fenech). Ambientato a Mantova, a ridosso della fine delle case chiuse (legge Merlin 1958), il film illustra i giocosi tentativi del facoltoso pigmalione Enrico Maria Salerno di creare, da una servetta un po’ tonta (la Carati), una gran dama. L’uomo vi riesce al punto di non potere più fare a meno di lei, cede alle sue trappole, accetta di sposarla ma muore prima di infarto.
I personaggi sono di cartapesta, le loro psicologie fasulle o inesistenti e il film si trascina pertanto noiosetto, quasi tutto in interni, anticipando un po’ l’universo del Brass anni ottanta. Rimane all’attivo del racconto un bravo Enrico Maria Salerno e l’illustrazione della vita diurna di una casa chiusa, evidentemente ispirata a variopinte fantasie felliniane. Il successo fu solo discreto.
Le modeste pellicole di Festa Campanile hanno tuttavia il merito di ricordare al pubblico dei favolosi anni settanta che ogni forma di femminismo è un’astrazione illogica. Le donne di questo cinema sanno perfettamente quali sono le loro doti più ricercate e se le fanno pagare profumatamente, al meglio e a seconda di quello che hanno da offrire. In tal senso la contadinotta Lilli Carati impara presto come soggiogare il suo presunto padrone e come renderlo schiavo delle sue voglie. La dialettica servo-padrone di hegeliana memoria viene ben spiegata al pubblico “illuminato” di quegli anni e lo scambio dei favori sessuali in cambio di prestazioni relative a un benessere complessivo, attraversa ogni dialogo, ogni gesto e ogni transazione presente nelle vicende di Gegé e della ragassa.
Il trittico Sabato, domenica e venerdì (ott.1979; 120 min.) è invece tra le cose più scadenti del periodo. Assistiamo a un Banfi fantozziano che, liberatosi dell’asfissiante fidanzata Milena Vukotic, amoreggia con una Fenech giapponese (regia di Sergio Martino). Poi è la volta di un triste remake di Quattro passi tra le nuvole (Blasetti, 1942) con il camionista perennemente addormentato Michele Placido che si finge marito di Barbara Bouchet per tranquillizzare i genitori di quest’ultima (regia Festa Campanile). Infine un Celentano insopportabile amoreggia con una delle ballerine della sua compagnia di spettacolo (regia Castellano e Pipolo).
L’anno successivo Festa Campanile tenta un film ambizioso con Il ladrone (feb. 1980, 110 min.) in cui racconta le peripezie del ladrone Montesano in quel di Gerusalemme negli anni di Gesù. Il protagonista, abile truffatore che conosce mille trucchi, vede in Gesù un incredibile concorrente, capace di imprese apparentemente incredibili ma di cui, lui ne è certo, ci deve essere una spiegazione razionale. L’idea è originale ma la realizzazione è abbastanza modesta. Coadiuvato da una Fenech nel prevedibile ruolo di meretrice elegante e furba, Montesano mette in scena una infinita serie di truffe, rendendo il film ripetitivo e in fondo trasportabile anche nella Roma contemporanea quanto a macchinazioni furbesche. La presenza di Gesù (Claudio Cassinelli) è lasciata totalmente nello sfondo e il finale semidrammatico con Montesano sulla croce con il Messia è piuttosto fiacca.
L’opera ebbe un discreto successo commerciale.
La novità del papa polacco, il quale ha già palesato le proprie intenzioni patriottiche e politiche (viaggio in Polonia 2-10 giugno 1979), diviene centro di interesse in un paio di significativi film di quel 1980. In Qua la mano (mar.1980, 125 min.), diretto da Festa Campanile, pellicola divisa in due episodi, il punto di incontro delle due storie consiste proprio nella figura del papa. Nel primo racconto Orazio (Enrico Montesano), vetturino romano con la fissazione del papa, riesce a conoscerlo e addirittura a farci amicizia. Woytjla (P. Leroy) si dimostra non solo simpatico e accondiscendente, ma addirittura divertito e deciso ad approfondire la sua conoscenza dell’intraprendente giovane; gli chiede di insegnargli il romanesco...
Nel secondo episodio un prete ballerino (A. Celentano) sfida le convenzioni e viene costantemente redarguito dal suo vescovo. Dopo avere partecipato a una gara di ballo, nonostante i divieti della diocesi, il sacerdote viene trasferito per punizione in America del sud, senonché, in extremis, arriva proprio una telefonata del papa che ha gradito la gara di ballo (trasmessa in tv) e annulla il provvedimento punitivo del vescovo.
Il film è modesto e tirato molto per le lunghe; i due protagonisti comunque sono in piena forma e danno vita a personaggi briosi e quasi credibili. Attorno a loro è evidente l’enorme simpatia con cui si guarda al nuovo papa come a una figura attenta alle esigenze del popolo e aperto a tutte le novità. Il film fu un enorme successo, piazzandosi addirittura al secondo posto negli incassi della stagione.
Qualche mese dopo arriva la risposta a tanto entusiasmo. La compagnia di attori guidata da Renzo Arbore, celebre per i suoi spettacoli televisivi, gira Il pap’occhio (set. 1980; 100 min.) in cui, dietro un atteggiamento bambinesco e fanfarone, si annida una decisa presa di distanza nei riguardi del nuovo venuto da est.
Il papa (M. Freyberger) viene immediatamente descritto come un mezzo rimbambito. Si aggira per la Santa Sede (in realtà la reggia di Caserta) come un citrullo appassionato di qualunque sport e intento a imparare l’italiano sotto la direzione di uno spazientito e irrispettoso professore (il papa che studia la lingua sembra una diretta risposta a quello appassionato di romanesco del film con Montesano). Arbore e compagni, richiamati dal papa babbeo, devono mettere in scena uno spettacolo per la tv vaticana; cosicché il film diviene una noiosa passerella di numeri musicali e teatrali, spesso privi di relazione con il contesto sacro. Lo scontro tra teatranti atei e provocatori quanto a questioni sessuali e curia dà luogo a prevedibili piccoli conflitti senza che il film riesca mai ad essere realmente umoristico. Benigni si dilunga in monologhi senza senso mentre la Melato intona inutilmente un brano di D’Annunzio. Tra i tanti provini si distingue tuttavia quello intitolato Non correre Papà che rielabora una canzone dei primi anni settanta, mostrando un Dino Cassio che, sordo al monito della bambina, finisce ucciso in un incidente automobilistico. Ora può darsi che si tratti di una coincidenza ma se togliamo l’accento da papà, ci troviamo di fronte ad una velata minaccia di sapore squisitamente politico: non correre papa, potresti finire male. D’altronde mancano solo 9 mesi al fatidico 13 maggio 1981, alle ore  17.17 (quest’ultima una palese allusione alla Massoneria internazionale, fondata appunto nel 1717 e ovviamente nemica dei progetti restauratori di G. P II e di Reagan), in cui Alì Agca, quasi certamente inviato dal Kgb, tentò di ammazzare Woytjla.
Insomma l’altezzoso universo culturale italiano (di cui Arbore e compagni sono parte integrante), notoriamente egemonizzato dalle sinistre, lancia un preciso monito al nuovo papa re, monito che appare evidente nel prosieguo addirittura imbarazzante quanto a esplicita simbologia. Nel finale una enorme palla da demolizione irrompe in Vaticano, distrugge l’edificio simbolico di San Pietro e interrompe in modo brutale lo spettacolo. Si tratta di una citazione esplicita da un altro film fortemente politico ovvero Prova d’orchestra (Fellini 1978) in cui quella simile irruzione era l’inequivoco segno di un autoritario ritorno all’ordine dopo la morte di Moro (’arpista pugliese) e la fine delle sue utopie sinistrorse. In questo differente contesto la demolizione è opera di un Dio di cartapesta che però indossa una veste in cui risalta l’occhio massonico (peraltro presente nel titolo stesso del film) e guida una panda (ovvero l’universo fiat, da sempre legato a Massoneria e all’universo sovietico, suo importante cliente) di un rosso sgargiante. Insomma la Massoneria internazionale avvisa il papato: non correte troppo, se no farete una brutta fine.
Il sequestro subìto dal film, nel complesso abbastanza innocuo e appunto “bambinesco” come lo definì un candido Arbore (a patto di non essere in grado di leggere i sopracitati messaggi occulti), poche settimane dopo il suo apparire nelle sale conferma che intorno al film c’era una certa attenzione delle istituzioni (all’uscita nelle sale il Vaticano inoltrò una protesta ufficiale) intorno all’opera la quale, tuttavia, fu dissequestrata quasi subito e, per quanto sgangherata e insolita, divenne un grande successo commerciale.

A fine decennio Celentano collabora stabilmente con Castellano e Pipolo. Si comincia con l’imprevedibile Zio Adolfo in arte Fuhrer (set 1978; 95 min.) in cui si tenta l’impossibile e imbarazzante satira del leader nazista. Ridere sulle tragedie mondiali è un’operazione difficile, spesso destinata a fallimento; quando poi si tenta di farlo con una serie di episodi scollegati e demenziali, in cui abbondano le freddure il disastro è totale.
Il racconto si ispira a fatti reali - ci sono perfino lunghe sequenze d’epoca in bianco e nero - distorti in maniera sciocca. Così il molleggiato si cala nei panni di un anarchico (ispirato a Johann Elser) che cerca di ammazzare Hitler come pure di un mago (ispirato a Erik Hanussen) che diviene un fanatico seguace del nazismo. Gli incassi furono comunque buoni.
Pochi mesi dopo esce la seconda opera di Celentano regista ovvero Geppo il folle (dic. 1978; 100 min.) altrettanto brutta rispetto all’opera prima Yuppi Du (vedi), anche se meno predicatoria e più demenziale.
Il pretesto narrativo vede il nostro eroe impersonare senza fatica il ruolo di Geppo, superstar del rock italiano che sta prendendo lezioni di inglese dalla bella Claudia Mori al fine di potersi recare negli Usa a disquisire, non si sa di cosa, con Barbra Streisand. Celentano si autodipinge con evidente compiacimento nei panni di un cantante felice, sicuro di sé e ammirato da tutti (soprattutto da folle di ragazzine urlanti). Contento lui...
Per lo spettatore normale, al quale il molleggiato è (nel migliore dei casi) indifferente, la noia e l’imbarazzo, per l’esibita puerilità del tutto, sono sconfinati. I fan tuttavia accorsero numerosi e gli incassi furono addirittura ottimi.
La successiva fatica, all’opposto, ripiega su un soggetto più tradizionale anzi potremmo dire dozzinale. Mani di velluto (dic 1979; 100 min.), trionfo al botteghino, è l’ennesima commedia umoristica sull’amore impossibile tra un ricco industriale e una fiera borseggiatrice (Eleonora Giorgi). L’uomo, pur di conquistarla, entra nel suo mondo, diviene un ladro esperto e sfrontato, abbandona l’abitudine al rigore e cerca di accettare le usanze hippy del contesto dell’amata. Qualche gag, soprattutto nella prima parte, strappa qualche sorriso; poi tutto precipita in una grigia ripetitività. Lo scenario milanese è poco valorizzato (c’è anche una sequenza nel parco di Monza) mentre il disegno dei caratteri, con il solito maschio soccombente pur di compiacere la femmina folle di turno, è molto accentuato e rispecchia perfettamente la moda femminista egemone in quel fine decennio.
Sotto la direzione di Paolo Cavara al suo ultimo film, Celentano comincia a impostare il personaggio del misogino burbero e di buon cuore ne La locandiera (set.1980; 100 min.), versione Rai, regolarmente distribuita nelle sale, del noto testo teatrale (1753) di Goldoni.
La pellicola, ambientata in una Firenze che non si vede mai, si avvale di un sontuoso cast (Paolo Villaggio, Gianni Cavina, Marco Messeri,Claudia Mori, Milena Vukotich) che tuttavia non riesce a sollevare dal profondo tedio questa operazione scolastica e abbastanza insolita per il “molleggiato”. Anche Villaggio ripete, una volta di più, la propria maschera fantozziana in un contesto poco adatto.
Il film offre dunque il testo goldoniano senza riuscire ad aggiungervi alcunché di originale; inoltre l’inopportuno inserimento di balletti e canzoni rende il film molto simile a uno spettacolo televisivo. La grande popolarità di Celentano e Villaggio assicurò buoni incassi a questa pellicola ibrida.
Certamente più stimolante appare la libera versione di Brass Miranda (1985) che apparve sugli schermi a metà decennio.
Celentano torna qualche mese dopo con Il bisbetico domato (dic. 1980, 95 min.) di Castellano e Pipolo, pellicola che probabilmente costituisce il suo massimo successo commerciale.
Vagamente ispirato al testo di Shakespeare, il film è completamene incentrato sulla descrizione del burbero di buon cuore del titolo, fattore lombardo che vive isolato nella sua principesca tenuta dove tratta gli animali come fossero esseri umani e gli umani come fossero animali. Lo supporta, con ironia, una simpaticissima serva grassa e di colore, chiaramente ricalcata su quella celebre di Via col vento (1939). Poi giunge la bella Ornella Muti, cittadina raffinata e annoiata che si innamora immediatamente dell’orso e cerca di conquistarlo con ogni mezzo possibile. Nel finale otterrà finalmente di divenire mamma orsa...
Il film è tutto qua: una serie ininterrotta di tentativi della donna di farsi accettare dall’insensibile e gelido Celentano, il quale sfoggia tutto il proprio repertorio fisico e ideologico (o meglio ecologico). Insomma l’ennesima riproposizione dello strapaese dell’era fascista condito dal consueto disprezzo per la medioalta borghesia cittadina. Insomma un prodotto costruito per piacere soprattutto al pubblico femminile, in quel periodo soggiogato dalla maschera del talentuoso (per tutti gli altri il film risulta più che mediocre) e imprevedibile cantante e per offrire una commedia scacciapensiero nei mesi ancora opprimenti e insanguinati sia dal terrorismo di differenti colori, sia da nuove, incomprensibili stragi (Ustica e Bologna).

Un’altra trasposizione teatrale di cui non si sentiva il bisogno è Il malato immaginario (dic. 1979, 100 min.) di Tonino Cervi, pellicola che si avvale di un cast superbo ovvero Alberto Sordi e Laura Antonelli nei ruoli principali e poi Bernard Blier, Vittorio Caprioli, Giuliana De Sio e altri. Il pubblico, a sorpresa, decretò un enorme successo a questo sforzo che appare quanto mai scolastico e anacronistico.
Il film tratta il testo di Moliere con grande libertà: lo ambienta in una Roma secentesca, lo infarcisce di una volgarità stucchevole che sembra ripresa dalle peggiori commedie erotiche di Lino Banfi e Alvaro Vitali e soprattutto lo cala in un inatteso contesto terroristico che, ovviamente, deriva dalla realtà quotidiana dell’Italia degli anni di piombo. Così da un lato abbiamo le vecchie, noiose trame della commedia del Seicento con genitori avari e sermoneggianti, mogli avide e infedeli, figliole ribelli innamorate dei soliti scapestrati inutili e serve furbe e piacenti, capaci di manipolare gli anziani padroni e dall’altro bombe ed attentati contro lo stato ovvero inquisitori e cardinali. L’effetto è oltremodo ibrido e spiazzante. Certo si intuisce l’afflato umanitario e la sincera intenzione di ammonire quei numerosi giovani italiani che hanno abbracciato la lotta politica violenta e spesso criminale. Sordi, in questo senso, si spende in più di un accorato monologo a favore della pace, della vita quieta e pacifica - quasi un elogio della fuga - vita capace di sopportare anche qualche ingiustizia nella certezza che i metodi violenti, oltre che fare inutili vittime, finiscono sempre col ritorcersi contro coloro che li hanno messi in pratica. Ucciso un uomo potente e indegno, il sistema lo sostituisce con un altro magari peggiore. Questi semplici concetti, poco consoni al contesto di una brillante commedia secentesca, si fanno largo come possono in un contesto che sembra accademico e totalmente apolitico, generando una pellicola che forse poteva in parte interessare il pubblico dell’epoca ma che risulta oggi (2022) abbastanza indigesta.
Tonino Cervi farà meglio nelle successive due trasposizioni da opere letterarie di valore ovvero con Il turno (1981) da Pirandello, con Gassman, Villaggi, Turi Ferro e la Antonelli (la coppia di Malizia) e con L’avaro (1990) ancora da Moliere, sempre nella Roma papalina del Seicento e ancora con Sordi e la Antonelli, cui si aggiunge un insolito Cristopher Lee.

Maurizio Lucidi riprende un romanzo di Guareschi del 1944 e lo mette in immagini, aggiornando l’ambientazione ai giorni nostri. Il marito in collegio (feb.1977; 100 min.) è una commedia umoristica mediocre e certamente non aiuta il fatto di avere preso un romanzo tipico dell’era fascista ovvero carico di disprezzo per l’universo aristocratico e di ammirazione per la gente ordinaria (siamo negli anni della svolta antiborghese di Mussolini, connessa al fastidio per la monarchia dei Savoia che diverrà odio nella Rsi) e di averlo ambientato nella provincia veneta, con Montesano simpatico benzinaio Total (la sua presenza è l’unica cosa valida del film) alle prese con una famiglia di nobili nostalgici e squattrinati, il cui pensiero è costantemente rivolto a Cascais. Uno zio burlone (un Mario Carotenuto di maniera) obbliga la giovinetta di casa (Silvia Dionisio) a sposarsi entro pochi giorni se vuole continuare a fruire, con la famiglia, di una certa rendita finanziaria. Seguono le solite scenette tra il popolano e i nobili altezzosi e poi, addirittura, il nostro eroe esiliato in collegio per aggiornarsi...
Il film annoia e affonda nell’ovvio; l’inserimento di un diversivo semipoliziesco, con Pino Caruso finto aristocratico e rapinatore senza scrupoli, non aiuta. In ogni caso il film riscosse buoni incassi.
Altrettanto scadente è il seguente Tutto suo padre (ott.1978; 95 min.), che ottenne invece incassi solo discreti.
La partenza è stimolante e audace: Adolfo (E. Montesano), pizzaiolo di giorno e comparsa teatrale di sera, sogna di diventare un grande attore. Alla morte della madre scopre di essere addirittura il figlio di Hitler. Il film, discreto nei primi 30 minuti, poteva prendere molteplici direzioni, con un protagonista appassionato di cultura e convinto progressista (il suo sogno è recitare Brecht) che si ritrova a divenire possibile icona neonazista ma imbocca la più assurda e noiosa: una formazione di nostalgici bavaresi lo assume, lo trasferisce a Monaco e lo addestra (per interminabili 60 minuti) a divenire un sosia aggiornato del fuhrer. Il racconto affonda nell’ovvio, tra l’altro completato da un cast di supporto marionettistico e opaco.

Nello stesso periodo Montesano collabora con Giorgio Capitani in un trittico di pellicole anch’esse mediocri nonostante il comico romano reciti ora insieme a un cast di tutto rispetto. Il pubblico, in ogni caso, premiò questi lavori con incassi a volte realmente sorprendenti.
In Pane burro e marmellata (nov 1977, 100 min.) Montesano è un presentatore televisivo lasciato dalla moglie che impazzisce. Lo consolano tre vicine (Rossana Podestà, Claudine Auger, Rita Tushingham) le quali, a loro volta, hanno mollato i mariti spesso in maniera traumatica e violenta. Insomma quattro pazzi in una stanza. La vicenda è tutta giocata su un timbro eccessivo e farsesco che stanca presto. In particolare i numeri solistici di Montesano, imbranato e pasticcione oltre ogni attesa, appaiono di una pochezza imbarazzante, nonché vani tentativi di imitare il vecchio cinema slapstick di alcuni decenni prima. L’unico siparietto divertente è quello con il protagonista travestito da geisha e corteggiato da un irresistibile Adolfo Celi.
Nel secondo film, Aragosta a colazione (ott. 1979, 100 min.) viene in soccorso di Montesano Claude Brasseur e la sceneggiatura è meglio strutturata, riprendendo l’andamento a equivoci tipico delle pochade. L’incipit sembra migliore, con il comico romano sempre imprigionato nella macchietta lamentosa dell’incapace totale, poiché l’attore francese gli fa da spalla e lo argina. Capitani realizza abbastanza bene lo scontro tutto femminile tra la moglie (ancora Claudine Auger) e l’amante (Janet Agren) di un Brasseur terrorizzato il quale, temendosi scoperto, riesce a far credere che l’amante sia la moglie di Montesano. Poi tutto naufraga con Montesano che si esibisce nei suoi consueti numeri di scarsissimo interesse mentre la vicenda si esaurisce in una serie di episodi scollegati e fiacchi, legati insieme dal contesto di un elegante ricevimento nella sontuosa villa di Brasseur.
Il terzo film, Odio le bionde (ott.1980; 100 min.), replica sfacciatamente il secondo, sostituendo Jean Rochefort a Brasseur. Ancora equivoci e puerilità sostengono il difficile rapporto tra Montesano, sgangherato GhostWriter di gialli truculenti e Jean Rochefort scrittore nullafacente di successo. Il consueto ricevimento finale porta la confusione al parossismo (c’è anche la ladra Corinne Clery), applicando schemi narrativi prevedibili e pertanto fiacchi.
Oltre a non divertire quasi mai, questi film purtroppo hanno anche il grave difetto di essere statici e teatrali, in quanto quasi interamente girati all’interno di ambienti domestici più o meno sfarzosi.

Nell’opera prima di Maurizio Costanzo, Melodrammore (feb.1978; 95 min.), Montesano ripete per l’ennesima volta la sua macchietta dell’amante innamorato con alcune terribili varianti.
Nei primi trenta minuti rivediamo il film Appassionatamente (Gentilomo, 1954) e Amedeo Nazzari, qui al suo ultimo film, dialoga con il comico romano intorno alle differenze tra il cinema melodrammatico degli anni cinquanta e quello modernista e post ’68 in cui deve cimentarsi Montesano. Poi inizia la vera narrazione che riguarda le tediose peripezie di un commesso (si occupa di oggetti religiosi), perdutamente innamorato di una contessina, grassa, altera e squattrinata (Fran Fullenwider). Lei lo sposa per necessità, lo maltratta e infine, ingelosita da una rivale (Jenny Tamburi), lo rivaluta.
Si tratta, probabilmente del peggiore film di Montesano in cui comico e grottesco non riescono né a fondersi, né a offrire motivo di divertimento. Ripetere negli anni settanta, in maniera artificiosa, le situazioni del cinema di Matarazzo e Gentilomo di due decenni prima (l’amore che tutto travolge, comprese le barriere classiste... )  non ha alcun senso. A differenza di tutti gli altri film del periodo interpretati da Montesano, questo fu un meritato fiasco.

Tra i tanti brutti film del periodo, incentrati su Montesano, va ricordato anche Le braghe del padrone (mar.1978, 105 min.) di Flavio Mogherini.
Il comico romano interpreta il solito poveraccio rassegnato e senza ambizioni, in una versione fantozziana. E’ l’impiegato senza qualità di una potente casa editrice il cui presidente Adolfo Celi lo prende a ben volere e lo strumentalizza. Consigliato anche da un diavoletto invisibile (Paolo Poli), nello stile del Bogart di Provaci ancora Sam, l’uomo diviene furbo, cattivo e un po’ cinico, fa carriera, arriva al vertice della ditta e poi cade rovinosamente, denuncia tutte le ruberie e le malefatte e finisce in manicomio.
Il film, fiacco e prevedibile nonostante il buon cast, non diverte e non riesce ad essere corrosivo del caotico panorama politico italiano di quei giorni (il film esce nel mese in cui viene rapito Moro... ), inanellando una serie di luoghi comuni (il lungo digiuno a fini di protesta alla maniera di Pannella, il falso rapimento di Celi per non pagare dieci miliardi di tasse) senza riuscire a vivificarli con adeguate invenzioni narrative.
Gli incassi furono discreti.
Mogherini fornisce una prova migliore nel successivo Per vivere meglio divertitevi con noi (dic. 1978; 100 min.), pellicola divisa in tre episodi nei quali troviamo momenti realmente umoristici.
Monica Vitti, moglie complessata e frigida, viene “guarita” da un misterioso alieno alto e biondo (esplicito il rimando al recente Incontri del terzo tipo), in realtà un uomo inviato del marito. L’episodio, sciocco e prolisso, si avvale però di un’ottima Vitti.
Nel secondo episodio il modello è Il magnifico cornuto (Pietrangeli 1964). Johnny Dorelli è ossessivamente geloso e induce in tentazione la bella moglie Catherine Spaak, fingendosi un suo appassionato corteggiatore. La donna resiste (addirittura spara al presunto spasimante) ma quando capisce chi è l’artefice delle sue peripezie incomincia a guardare con interesse gli uomini che la circondano. Anche in questo caso l’idea di base è logora ma lo si dimentica grazie alla bravura dei due  interpreti.
Nel terzo invece Renato si atteggia ad artista della truffa (riesce a vendere una lamborghini a trenta milioni a un vecchio industriale che voleva solo una fiat ordinaria), abbandona per una volta i panni dell’imbranato cronico e dà vita a un personaggio simpatico e, a tratti, sorprendente.
Gli incassi furono buoni.

Tra i film a episodi di fine decennio c’è anche il pessimo Belli e brutti ridono tutti (mar 1979; 90 min.) di Domenico Paolella in cui si ricordano la bella Maria Baxa sedotta in treno da un finto cieco (Jack La Cayenne), l’industriale Luciano Salce alle prese con una sensuale donna delle pulizie (Germana Carnacina) e il sacerdote Walter Chiari e la contessa Olga Karlatos che si contendono, con ogni mezzo, un’ingente eredità. Il regista, alle sue ultime prove, ha ormai dimenticato come si dirige una commedia umoristica (da due decenni firma film avventurosi, western e poliziotteschi) e il risultato è un’opera inerte. Fu anche un fiasco commerciale.
La carriera registica di Paolella  termina ingloriosamente con un episodio inserito nel successivo 3 sotto il lenzuolo (ott. 1979; 90 min.) sempre con Walter Chiari, conduttore radiofonico di “moderne” vedute, alle prese con la invadente riapparizione del primo marito di sua moglie (Daniela Poggi). Durante le trasmissioni radiofoniche, gestite dal protagonista, Paolella riprende sfacciatamente l’episodio della ninfomane di Chiamate Roma 31-31 con Monica Vitti da Noi donne siamo fatte così (Dino Risi, 1971). Il film è completato da due episodi di Massimo Tarantini uno dei quali si limita a riproporre il ben noto La telefonata (da Le Bambole ) di Dino Risi, con Aldo Maccione al posto di Nino Manfredi. Nel secondo invece troviamo i fratelli Giuffré impegnati nei consueti equivoci erotici nelle stanze di un grande albergo. La pellicola è mediocre quanto la precedente e, in realtà, più che al filone della commedia umoristica appartiene a quello della commedia erotica, potendo sfoggiare le grazie di numerose attrici di sicuro fascino (Sonia Viviani, Lorraine de Salle, Orchidea De Santis). Gli incassi furono scarsi.

Johnny Dorelli e Renato si ritrovano nel film di Giulio Paradisi Tesoromio (dic. 1979, 105 min.) in cui ci si ispira palesemente al film d’esordio di Mel Brooks Per favore non toccate le vecchiette (1968).
Dorelli è uno scrittore di commedie di sicuro insuccesso. Il suo produttore, Enrico Maria Salerno, le finanzia senza dirgli che conta appunto sul sicuro fiasco dei suoi lavori per potere detrarre le ingenti spese dal bilancio di una ditta che segretamente lo finanzia. La primadonna Sandra Milo è, a tempo stesso, moglie del primo e amante del secondo. Gli equilibri insoliti del terzetto, intorno al quale si muove un insolito Renato nel ruolo di un cinico agente delle tasse pronto a sfruttare ogni debolezza della coppia protagonista, vengono infranti dall’arrivo della colf africana Zeudi Araya che si innamora di Dorelli e lo aiuta a scrivere una commedia insolita, destinata a piacere la pubblico...
Il soggetto favolistico è del tutto ordinario. Tuttavia i cinque attori principali, tutti in piena forma, riescono a rendere piacevole questo prevedibile canovaccio che tende a naufragare solo nello zuccheroso finale. Dietro l’apparente irreprensibile moralità dei personaggi, il loro amore per la cultura e per l’arte, si celano dunque le peggiori pulsioni appena mascherate. Il produttore è un gelido opportunista che sfrutta l’ingenuo Dorelli e gli ruba pure la moglie; Renato è un predatore che gode nel sequestrare i beni al fallito commediografo e e a insidiargli la disponibile moglie, mentre l’arte, fiore all’occhiello di una società altoborghese che si finge raffinata, è solo un paravento per traffici finanziari come comprende meglio di tutti il disincantato agente delle tasse. Per salvare l’ingenuo artista ci vuole appunto una colf africana, bella e ricchissima (possiede uno scatolone di diamanti) ovvero bisogna abbandonare il realismo e spostarsi nel mondo delle fiabe.
Gli incassi furono buoni.

Renzo Montagnani si trova a dover reggere da solo il modesto canovaccio de L’appuntamento (ago 1977; 95 min.) di Giuliano Biagetti, commedia umoristica con qualche venatura erotica che parrebbe derivata dal grande successo di Amici miei (1975) sia per l’ambientazione nella città toscana, sia per la paranoica centralità dell’argomento sessuale (Montagnani non era presente in Amici miei, ma ci sarà in Amici miei Atto II° e Atto III°).
Adelmo, maritato con tre figli, è riuscito a strappare un appuntamento alla bella Adelaide (Maria Pia Conti). Salutati i figli, che lo canzonano avendo intuito che si prepara a vivere un’avventura galante, troverà mille ostacoli nella Firenze indaffarata di un qualunque giorno feriale. Verrà anche distratto da due altre spasimanti (Orchidea De Santis e Barbara Bouchet) e, come si capisce fin dall’inizio, non combinerà niente di niente.
L’attore è simpatico e fa quello che può per rendere accettabile un copione insulso in cui le donne mature sembrano tutte rassegnate a venire tradite mentre quelle giovani sembrano tutte ninfomani.
Il film fu un mezzo fiasco.
Ancora peggio vanno le cose con Io zombo tu zombi lei zomba (nov. 1979; 95 min.) di Nello Rossati, tentativo soporifero di parodiare il capolavoro di Romero Zombi (1978) che aveva riscosso un notevole successo in Italia l’anno precedente.
Montagnani guida una compagine di attori svogliati (ci sono Duilio Del Prete, Anna Mazzamauro e Nadia Cassini con cui si occhieggia inutilmente al pubblico dei softcore, ormai abituati a ben altro) in questa rivisitazione singolare e a tratti imbarazzante in cui la studiata flemma con cui si muovono questi zombi nostrani si coniuga con una mortale lentezza narrativa.
Anche questa pellicola fu un fiasco.
Anche Scusi lei è normale? (ott 1979, 90 min.) di Lenzi nasce nel solco di recenti successi e appare privo di interesse.
Il magistrato Renzo Montagnani, a Spoleto, è impegnato nella repressione della pornografia come il Pino Colizzi de Il comune senso del pudore (Sordi, 1976). A Roma invece suo nipote Ray Lovelock è bisessuale e vive, more uxorio, con il simpatico travestito Enzo Cerusico. La bella Annamaria Rizzoli però si intromette, crea equivoci a non finire (Cerusico per ben due volte si fa passare per morto) e il culmine della vicenda si ha con la visita dello zio bacchettone a casa del nipote, situazione ovviamente copiata da Il vizietto (1978), grande successo al quale si ispira in maniera più seria il coevo La patata bollente.
Niente di nuovo dunque: un prodotto di mera derivazione abbastanza spento e del tutto inverosimile (Lovelock è fuori parte e anche Montagnani non convince nel ruolo del fustigatore di costumi) che non riscosse alcun successo.

Sempre nel campo del travestitismo si muove il pessimo L’importante è non farsi notare (set.1979; 100 min.) che sfrutta il momento di popolarità delle sorelle Bandiera, personaggi dell’universo televisivo di Renzo Arbore. La regia è affidata a Romolo Guerrieri, abile regista di thriller e polizieschi che appare a disagio con questo materiale pseudocomico.
Il pretesto narrativo riguarda il conflitto inerente tre spie russe (le sorelle Bandiera) e tre spie occidentali (Maria Grazia Buccella e altre). La trama è inesistente e la comicità è ora rozza, ora puerile. Il film fu un fiasco.
Questo “nuovo” genere di pellicole testimonia la sempre maggiore popolarità della comicità televisiva che tende ormai a invadere il cinema, creando prodotti ibridi e scadenti, basati su trame episodiche e sconnesse ovvero pensate già per il piccolo schermo. Il decennio dominato dalle televisioni berlusconiane è alle porte.

Alla fine del decennio il glorioso cinema softcore della liceali e delle professoresse è stato ormai ampiamente marginalizzato dall’invasione di film hardcore i quali, seppure con stratagemmi borderline, riempivano le sale a luci rosse della penisola. Perfino alla televisione, nelle ore notturne, si poteva assistere a spogliarelli di vario genere su emittenti secondarie. Pertanto i protagonisti di quella stagione, ben noti presso un ampio pubblico popolare, si ritrovarono a ripetere i loro numeri in contesti ora privi di sequenze erotiche spinte. In questa nuova stagione della commedia erotica si punta sulla simpatia e la bravura degli interpreti e su un prodotto che pretende di inserirsi nel solco della commedia umoristica italiana, mentre l’esposizione senza veli delle belle protagoniste si riduce a poca cosa. Ne è riprova il fatto che il divieto ai minori di 18 anni, vero marchio di garanzia per un film “spinto”, non si applica più a queste pellicole che sono spesso addirittura per tutti e quasi per famiglie (abbastanza moderne). E’ il caso de La moglie in vacanza... l’amore in città (ago 1980; 100 min.) di Sergio Martino in cui troviamo un cast stellare (pressoché tutti gli assi della commedia erotica) in un’opera sbiadita e inutile, anche se girata in maniera ineccepibile. In essa però rimangono tutti i riempitivi del vecchio cinema softcore, privati delle sequenze più ardite che tenevano in piedi l’operazione commerciale. Gli attori sono tutti in forma ma il canovaccio è troppo risaputo per riuscire divertente, pur non mancando qualche buon momento.
La moglie è Barbara Bouchet, l’amante è Edvige Fenech, il marito preso tra due fuochi è Renzo Montagnani mentre il suo dipendente Tullio Solenghi è l’amante della moglie. La cornice è Courmayeur mentre uno strepitoso Lino Banfi è un cameriere (molto effeminato se la situazione  lo richiede) che tenta invano di recuperare la pelliccia dei suoi padroni, presa in prestito dalla Bouchet. C’è infine la sempre brava Marisa Merlini.
Gli incassi furono comunque discreti.
Sergio Martino firma anche i tre episodi di Zucchero, miele e peperoncino (set. 1980; 110 min.) in cui ritroviamo attori e situazioni note, anzi riciclate in maniera sfacciata con esiti modesti. Il notevole successo commerciale della pellicola si motiva grazie alla buona interpreazione dei comici che appaiono tutti in buona forma.
La prima parte, la peggiore del ciclo, si basa su un ricorrente, banale equivoco: il tranquillo impiegato Lino Banfi viene scambiato da tutti per un pericolosissimo evaso; la giornalista Edvige Fenech, in cerca di scoop, ne facilita la fuga e inizia con lui una tumultuosa avventura che sembra presto divenire la parodia dei poliziotteschi (di cui Martino era stato uno specialista). Nel secondo racconto, il migliore, il regista romano ricicla la sempreverde trovata dell’uomo travestito da donna che vive beatamente in compagnia di belle donne sotto gli occhi di uomini tanto gelosi quanto ignari (vedi Il turco napoletano con Totò). Pippo Franco è perfetto nel ruolo della timida “cameriera” della bella e trascurata Dagmar Lassander, il cui manesco marito (Glauco Onorato) la tratta con brutalità e disinteresse. Quando, infine, se la ritroverà incinta un sospetto incomincerà ad affiorare...
Nell’ultimo episodio Renato è un tassista perdutamente innamorato della sua automobile. Un branco di “selvaggi” meridionali gliela fa a pezzi; poi, vista la sua disponibilità a sposare una ragazza “disonorata”, gliene regalano una ancora più bella.
Pippo Franco e Renato creano due personaggi interessanti: la dolce timidezza del primo e il lunare egocentrismo del secondo animano i due modesti soggetti narrativi e riescono a strappare più di un sorriso nella loro tenace e silenziosa lotta nei confronti delle storture che li circondano.

Johnny Dorelli, questa volta diretto da Sergio Corbucci, interpreta con la consueta bravura Mi faccio la barca (dic. 1980; 100 min.), commedia umoristica in cui però emerge a tratti una visione di stampo conservatrice che inaugura la fine delle illusioni e il ritorno al privato che sarà tipico degli anni ottanta.
Piero, un dentista agiato ma non miliardario, separato dalla bella moglie Roberta (Laura Antonelli) da cinque anni, porta i due figli in vacanza su una piccola barca, comprata per l’occasione. La madre invece, entrata a far parte di un giro di ricchi nobili alquanto snob, corteggiata da un presuntuoso e grottesco nullafacente (Christian De Sica), guarda l’ex marito con sufficienza e tuttavia sente la nostalgia della famiglia unita. Il mondo degli aristocratici è ritratto in maniera caricaturale (appaiono arroganti, sciocchi e ovviamente consumisti fanatici, annebbiati dal materialismo), esattamente come avveniva nel cinema fascista o in quello popolare degli anni cinquanta (si pensi alle due versioni del Conte Max...) mentre la vita vera e autentica sembra svolgersi altrove, nel rapporto armonioso e completo di una famiglia, animata da due ragazzini simpatici e molto aggiornati su tutto (dalla tecnica di guida delle barche alle questioni sessuali). Il racconto, tra alti e bassi, momenti di simpatica ilarità e situazioni francamente troppo inverosimili per risultare divertenti, inanella una serie di episodi per lo più centrati sulle scarse capacità del protagonista in quanto navigatore dilettante. Non manca, nel finale, un accenno drammatico con l’arrivo sulla barca di due evasi che sequestrano l’intera famigliola.
Tra inevitabili litigi, venati di risentimenti e vecchi rancori, la realtà familiare si ricompone, riesce a cancellare le animosità e a riprendere il cammino interrotto, incentivata soprattutto dalla presenza dei due ragazzi che finalmente ritrovano un contesto pacificato in cui crescere serenamente. Gli amanti occasionali della coppia - C. De Sica e Daniela Poggi - vengono liquidati senza sforzo, risultando, di fatto, solo dei compagni superficiali e transitori.
La pellicola ottenne un notevole successo commerciale, segno anch’esso evidente della mutazione ideologica in atto.

Nei suoi ultimi lavori Oscar Brazzi, fratello del noto attore Rossano, valorizza il talento comico di Ghigo Masino in opere calate nella realtà popolare toscana e fiorentina. Ne Il vangelo di San Frediano (ott. 1978; 90 min.) il regista riprende addirittura lo schema narrativo (una serie di episodi separate da ricorrenti sequenze ambientate in un bar quale luogo di ritrovo) e la sintonia umana con un certo sottoproletariato urbano presenti nel capolavoro pasoliniano Accattone (1961). Pertanto assistiamo alle gesta di don Firmino (G. Masino), nuovo parroco giunto nel quartiere popolare di San Frediano (Firenze), il quale si immerge nella complicata realtà locale fatta di povertà, truffe, gioco, prostituzione e piccole ruberie. Con il piglio deciso, spesso assai manesco, del don Camillo di Guareschi si inserisce in ogni contesa e riesce a migliorare la condizione di vita di tutti i suoi parrocchiani fino a divenire il loro beniamino. Nel finale addirittura piovono centinaia di milioni – premio assicurativo per una refurtiva ritrovata – sulle misere realtà dei compagni di strada del parroco.
Se la fattura complessiva del film è modesta (attori, dialoghi e inquadrature), la naturale simpatia che emana dal protagonista riesce a tenere desta l’attenzione. Gli incassi furono scarsi.
Il successivo Champagne e fagioli (nov. 1980; 90 min.) è il decimo ed ultimo film di Oscar Brazzi. Si tratta di una commedia dolceamara, con qualche tratto erotico, girata con mezzi amatoriali in cui si raccontano le attenzioni dello squattrinato conte Ghigo Masino per la “trovatella” Leonora Fani sullo sfondo di una Firenze indaffarata e indifferente.
La pellicola vorrebbe essere umoristica ma situazioni e battute sono quasi tutte di seconda mano. Il regista non riesce a ritrovare il tono accattivante e coinvolgente del film precedente. Gli incassi furono ancora scarsi. L’unico interesse della pellicola consiste nelle immagini di Firenze.

Sempre nel campo dei film eccentrici e a basso costo va ricordato Augh! Augh! (ago 1980, 90 min.) opera prima di Marco Toniato in cui si narrano le prodezze di Andrea Occhipinti, sorta di anacronistico vagabondo hippy che fa ritorno, dopo anni, in un imprecisato paesino del Veneto in cui vige un rigido rispetto dei valori tradizionali (religione e famiglia). Suo unico interesse è molestare e sedurre tutte le ragazze del paese, riuscendo facilmente a portasele a letto e provocando l’ira di tutti i maschi della zona. Al culmine del racconto il protagonista riesce a ottenere i favori di una giovane in abito nuziale, nel giorno delle sue nozze…
Il film, tra serio e comico, totalmente inverosimile quanto a personaggi e situazioni, costituisce il maldestro tentativo di far rivivere i valori di libertà e trasgressione di un decennio prima, quelli che fecero la fortuna di opere come Il laureato e Easy Rider, in un’epoca che, invece, si avvia verso gli anni ottanta ovvero un’epoca di restaurazione delle regole convenzionali seppur sulla base di equilibri più “avanzati” nel rapporto uomo-donna.
Il film ottenne scarsi risultati economici.

testo scritto nell’autunno 2022