Stage Fright

Man Running e Stage Fright: teatro nel teatro (1948-50)

                “... ho fatto in questa storia una cosa che non mi sarei mai
                     dovuto permettere... un flash-back che era una menzogna”
                Hitchcock parla di Stage Fright con F. Truffaut (1967)

Selwyn Jepson (1899-1989) era uno scrittore di thriller inglese, piuttosto noto in Gran Bretagan (assai meno in Italia) il quale aveva creato una giovane detective di nome Eve Gill, dotata di un simpatico padre, un po’ ubriacone, in perenne lite con la moglie. La serie inizia con Man Running (1948; t.it. Paura in palcoscenico, 1952) e si prolunga fino al 1964, per un totale di sei titoli.
L’intreccio del racconto d’esordio (raccontato in prima persona da Eve) è estremamente semplice: il giovane architetto Jonathan Penrose, amante dell’attrice Charlotte Inwood, scappa dalla polizia che lo ritiene l’assassino del marito della avvenente donna. Quest’ultima è, al tempo stesso, l’amante dell’ingenuo architetto e del violento Freddy Williams; in realtà è soprattutto succube di Freddy, riesce comunque a spingerlo al delitto e cerca poi di far ricadere ogni colpa su Jonathan (c’è in questo aspetto del romanzo un’eco dell’ambivalenza della gelida signora Paradine di Hichens, “padrona” del suo avvocato e “schiava” del suo amante, un domestico che la disprezza). Eve, segretamente innamorata di Jonathan, lo aiuta in ogni modo: riesce a divenire amica dell’ispettore Smith che conduce le indagini e riesce anche a farsi assumere come domestica in casa di Charlotte. Non impiega troppo tempo a scoprire l’identità dell’assassino e il complotto ordito dall’attrice. I tempi invece per farli uscire allo scoperto sono invece assai lunghi (il testo è infatti piuttosto prolisso) e portano la ragazza a rischiare la vita per il suo protetto (il quale - un notevole tonto - fino all’ultimo rimane innamorato della sua carnefice). Nel mezzo della vicenda anche il maggiordomo Grove, che aveva compreso le reali responsabilità della sua padrona, viene eliminato da Freddy. La polizia, alla fine, assicura alla giustizia la coppia assassina.
Il personaggio di Eve è, nel complesso, brillante e  riuscito come pure l’ambientazione tra gente di teatro, abituata a indossare differenti “maschere” a seconda delle situazioni. Anche la figura dello spavaldo e brutale Freddy funziona: in sua presenza Charlotte - abile “padrona” nei confronti dello sprovveduto povero Jonathan - si trasforma in docile agnellina. Il difetto del testo è nelle lungaggine descrittive ed in una serie di situazioni secondarie eccessivamente elaborate, che rendono fiacco il ritmo della narrazione. Trattandosi di un romanzo di suspence, è una mancanza non lieve.

Hitchcock conclude con Stage Fright (febbraio 1950; 111 min.; t.it. Paura in palcoscenico; uscita it. novembre 1950) un quinquennio di film d’impostazione teatrale, iniziato con Spellbound (1945; vedi). Non a caso la pellicola, girata a Londra (le prime imamgini sono quelle dei dintorni della S. Paul Cathedral, ancora segnati dalle rovine causate dai bombardamenti tedeschi), esordisce in modo solenne, con una cortina teatrale che si alza. Il regista inglese, dopo il colossale fiasco di Under Capricorn, torna a sentieri più noti e tranquilli: la storia di un innocente in fuga, aiutato da una fanciulla a districarsi da un’orribile matassa che lo vede accusato di omicidio (su tale binario si muovevano The Thirty-Nine Steps, 1935 e Young and Innocent, 1937). A questa formula aggiunge l’altra, utilizzata nel recente Paradine Case (vedi), che prevede una donna dalle strabilianti capacità seduttive la quale riesce a soggiogare e strumentalizzare gli uomini in cui si imbatte. Questa della dark lady è una tematica classica del noir, presente in modo intermittente nel cinema di Hitchcock, senza peraltro approdare ad esiti memorabili. Le figure femminili nel cinema del regista inglese sono più spesso vittime di complotti o inesauste detective (quasi sempre per amore), come nel caso di Eve Gill. Lo conferma il fatto che anche Stage Fright (come il mediocre Paradine Case) non diviene un classico e non genera, nel cinema dei decenni seguenti, precise imitazioni. I due film principali che negli anni ottanta rievocano con successo questo genere filmico - Brivido caldo (Kasdan, 1981) e La vedova nera (Rafelson, 1986) - non hanno relazioni con Paura in palcoscenico.
Il regista inglese, qui alla sua ultima trasferta europea prima del definitivo rientro a Hollywood (girerà un intero film a Londra - Frenzy - solo nel 1972), appare in piena forma e realizza una pellicola scoppiettante, perfettamente ambientata nell’universo del teatro, ricca di godibili figure di contorno e di situazioni originali. In particolare il gusto per la messa in scena e per la simulazione prende la mano all’autore che ci mostra personaggi tutti dediti ad impersonare caratteri “altri” a causa del meccanismo perverso attivato da
Charlotte Inwood (Marlene Dietrich). L’efficace suspense che attraversa numerose situazioni è generata proprio da questo gioco di specchi in cui sia Eve (Jane Wyman), sia Charlotte, sia Jonathan (Richard Todd) interpretano più ruoli e temono continuamente di venire smascherati. La paura che attraversa, palpabile, tutto il film non riguarda tanto un pericolo fisico (l’unico delitto presente nel racconto è già accaduto quando si solleva il “sipario” della narrazione) e per averne un altro dovremo attendere l’ultima immagine, con un altro sipario (perfettamente simmetrico al primo) che si abbassa vorticosamente sul colpevole, tranciandolo in due (ma anche questo evento rimane, in qualche modo, fuori scena...). Il terrore che attanaglia Eve riguarda la possibilità di venire scoperta e di dovere rivelare il proprio gioco: teme che Charlotte comprenda che non è una cameriera; che l’ispettore Smith (Michael Wilding) si accorga che è la cameriera di Charlotte; che sempre l’ispetore Smith si renda conto che nasconde Jonathan e che civetta con lui solo per conoscere lo stato delle indagini (almeno all’inizio del film).
Hitchcock si diverte parecchio con questo girotondo di maschere e finisce con l’inserire una brillante ed “inutile” sequenza nella quale Eve dapprima si trucca da cameriera dimessa e un po’ volgare e poi suona alla porta di casa propria per verificare - dalle reazioni della vecchia e bisbetica madre - se il travestimento funziona.
Nel cuore del racconto poi si trova la grande recita di Marlene Dietrich - una delle massime dive del cinema del periodo - la quale interpreta con intensa solennità il ritratto di dark lady che ci si aspetta da lei, inserendosi così nel solco della Barbara Stanwych di Double Indemnity (Wilder, 1947) e di Rita Hayworth di The Lady from Shangai (Welles, 1947). Hitchcock la fotografa con amore e le erige un piccolo monumento interno al racconto (le esibizioni canore a teatro, con l’interpretazione del brano The Laziest Gal in Town, composta da Cole Porter per il film). Anche il resto della colonna sonora, firmata da Leighton Lucas, è all’altezza del compito e offre anche un paio di interessanti Letimotive. In particolare, dopo che l’ispettore Smith si è esibito a casa Gill con un suadente “notturno”, questa melodia viene a identificarsi con il personaggio e finisce con l’intromettersi tra Eve e Jonathan (proprio come in un dramma wagneriano, dove i Leitmotive risuonano spesso per ricordare gli assenti ai personaggi in azione sulla scena), in una fase in cui la giovane appare ormai disamorata del fuggitivo e sedotta dal poliziotto.
Paura in palcoscenico è dunque una cinica ed umoristica meditazione sulla volubilità caratteriale degli umani e sulla loro capacità di calarsi in contesti e situazioni apparentemente lontani dalle loro corde, pur di trovare la via per soddisfare i propri impulsi più reconditi, quasi sempre relativi al potere (o ricchezza) e al desiderio sessuale (Charlotte vuole a tutti i costi aprire una scollatura nella veste nera che dovrà indossare al funerale del marito... ).
Il film avrebbe potuto essere uno dei capolavori del regista se questi si fosse maggiormente attenuto al testo di Jepson e non si fosse lasciato prendere la mano dal girotondo delle maschere e, nel desiderio di stupire a tutti i costi, non avesse commesso un “errore” nell’uso della grammatica filmica classica. Il film inizia come il libro: Jonathan racconta (con le immagini di un flashback) a Eve che Charlotte è piombata a casa sua con l’abito tutto sporco del sangue del marito; la donna si autoaccusa del delitto (in entrambi icasi - libro e film - non è l’autrice materiale ma solo l’istigatrice del crimine) chiedendogli aiuto; a quel punto Jonathan, sfidando la sorte, si reca nella casa della donna (dove giace il marito morto) per prenderle un abito di ricambio. Nel finale Hitchcock cambia le carte in tavola in modo radicale: il flashback, si afferma, è falso, un’invenzione del giovane per ottenere l’aiuto di Gill. A quel punto Jonathan si rivela una sorta di psicopatico (quasi un Norman Bates ante litteram) ed è a un passo dall’ammazzare la sua amica... Nel film la figura di Freddy è del tutto secondaria, Grove non viene ammazzato e Charlotte campeggia solitaria (non è succube di alcun altro amante; anzi non ha veri amanti, semplicemente strumentalizza Jonathan per liberarsi del marito), la qual cosa rende troppo rigido e statuario il suo personaggio.
Questo colpo di scena finale, per quanto un po’ sibillino e improvvisato, poteva anche funzionare ma a patto di evitare il lungo flashback iniziale. Girando in immagini il racconto di Jonathan, il regista - sorta di “divino” creatore di immagini - dona a quel racconto un contenuto di oggettiva verità (rafforzata - per i conoscitori del romanzo - dal fatto di essere del tutto corrispondente al testo di Jepson) che non può essere annientato per il gusto di sorprendere lo spettatore con una gratuita svolta narrativa. Tutti i personaggi di un racconto possono simulare, mettere in scena questa o quella recita mentre il regista-autore, punto fermo che imprime alle immagini un contenuto di verosimiglianza, non può farlo. Se viene meno questa segreta convenzione tra autore e spettatore, tra mittente e destinatario del racconto, allora crolla l’edificio della comunicazione filmica, lo spettatore è portato a diffidare di tutto e, alla fine, a disinteressarsi del racconto filmico in quanto racconto attendibile e, di lì a poco, del film in generale.
Hitchcock, coraggioso e brillante sperimentatore di novità filmiche, se ne accorge e ammette, questa volta, di essersi ficcato in un vicolo cieco.