Suspiria, Inferno e La terza madre: la trilogia esoterica (1977-2007)
“ Le streghe fanno il male. Nient’altro al di fuori di quello. Conoscono e praticano segreti occulti che danno il potere
di agire sulla realtà e sulle persone. Ma solo in senso maligno. Il loro scopo è ottenere vantaggi materiali e personali ma possono raggiungerli esclusivamente con il male degli altri.
Con la malattia, con la sofferenza, il dolore e non di rado con la morte di coloro che prendono di mira per una qualsiasi ragione… Si può benissimo ridere di tutte queste cose, anche della magia.
Comunque sappia che la magia è quoddam ubique, quoddam semper, quoddam ab omnibus creditum est ovvero la magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti è creduta” Suspiria: Susy e il professore
Dopo il grande successo di Profondo rosso (1975), Argento intuisce di avere momentaneamente esaurito le proprie idee nell’ambito del thriller e si avventura nella favola gotica, rivisitata attraverso il proprio personalissimo stile, freddo, aggressivo e deborbante. Nasce il capolavoro assoluto del regista:
Suspiria (feb. 1977; 90 min.). In una scuola di danza di Friburgo si nasconde una setta occulta guidata dalla strega Helena Markos (ovvero Mater suspiriorum). Susy, una giovane allieva (Jessica Harper, già stupenda
interprete de Il fantasma del palcoscenico di De Palma), giunge nella scuola proprio mentre sta per essere uccisa una delle ragazze, in fuga dalla medesima; quest’ultima, infatti, aveva scoperto il terribile segreto che
vi si cela. In seguito muoiono - per lo stesso motivo - il pianista cieco (Flavio Bucci) e Sarah (Stefania Casini), amica della protagonista alla quale aveva in aprte svelato i propri sospetti. Nel finale Susy scopre il
passaggio segreto che porta nelle stanze dedicate al culto stregonesco, si rende conto che l’intero staff della scuola è asservito alla orrenda strega e si salva miracolosamente, dopo avere pugnalato la Markos. Argento opta
immediatamente per una scrittura visionaria ed eccessiva da tutti i punti di vista e cerca di riequilibrare questa scelta attraverso le dolci figure femminili - soprattutto la protagonista - i cui volti infantili ed innocenti
confermano l’idea di essere di fronte ad una favola nera, una sorta di bizzarra versione horror di Alice nel paese delle meraviglie (Disney, 1953). Gli elementi caratterizzanti il nuovo stile argentiano sono
essenzialmente tre: i colori ridotti dalla favolosa fotografia ai fondamente blu, rosso e giallo, la musica dei Goblin il cui ossessivo leitmotiv delle streghe, coniugato in tutte le possibili maniere (ora affidato a una
strumentazione frastornante, ora ad una delicatissima), si insinua ovunque nel racconto, sempre utilizzato secondo la vincente tecnica dello stop and go (vedi Profondo rosso) che genera improvvisi, paurosi
silenzi, ed infine l’uso di sequenze dilatate oltre ogni attesa nel corso dei tre delitti (sopracitati) che punteggiano la narrazione. E’ quest’ultimo un vocabolo ripreso dallo stile di Sergio Leone (Argento era stato tra gli
sceneggiatori di C’era una volta il West... ), il quale, a sua volta, lo aveva inconsciamente ripescato dalla pratica del melodramma musicale (vedi quanto detto riguardo a Per un pugno di dollari): Argento
racconta le vere e proprie odissee di queste tre vittime in fuga da un assassino invisibile e potente, creando un clima di forsennata attesa dell’evento punteggiato da immagini pittoriche, di grande bellezza (la casa barocca
dell’inizio, la monumentale piazza Koenigsplatz di Monaco di Baviera per il cieco, le stanze dell’Accademia colme di imprevedibili trappole per Sarah) e commentato dal consueto tema musicale usato in modo intermittente. In
questo mondo fiabesco, erede del gotico degli anni sessanta (Bava e Freda) ed al tempo stesso lontanissimo da quello (uso della musica rock, miscela di racconti infantili e violenze sconvolgenti ed esplicite), Argento scatena i
propri fantasmi e genera visioni sospese, dotate di una magnifica forza espressiva. Da un lato il regista riafferma la propria sottile misoginia: nuovamente le donne sono le assassine, questa volta addirittura un’intera
congrega che fa riferimento alla figura più paurosa legata al gentil sesso, ovvero quella della strega dedita al male per il male. Argento allinea una serie di orrende figure femminili, dalla vicedirettrice (Joan Bennett) la
cui eleganza nasconde un’ovvia spietatezza, alla severa ed antipatica maestra di danza (Alida Valli), alle orribili serve slave fino alla mostruosa, centenaria Elena Markos il cui volto raccapricciante viene svelato solo nelle
ultime immagini. Questa galleria di figure femminili si accanisce sulle giovani, belle ed innocenti allieve: al di là del movente ovvio (la scoperta della vera natura della scuola di danza) si può intravedere un ben differente
motivo di odio, tutto femminile, ovvero l’invidia che l’età matura, priva di charme, prova nei confronti della fresca e seducente giovinezza delle allieve. I crimini delle streghe illuminano un rapace universo femminile,
dominato dal risentimento. Questo racconto di odio e orrore trova momenti altissimi nella realizzazione filmica. Oltre ai già citati tre delitti, abbiamo le magiche sequenze del dormitorio, della piscina e del dialogo di
Susy con l’esperto di stregoneria in cui il regista riesce a creare un clima di incubo nero grazie a movimenti di macchina, immagini aeree e insinuanti effetti sonori che finiscono col rendere tutti i personaggi nient’altro che
figurine marginali prigioniere di un pauroso scenario onirico, dominato dal Male. Si noti che l’aspetto inquirente e razionale ovvero le eventuali indagini poliziesche e tutto il mondo esterno alla scuola, non esistono: Suspiria approfondisce ed esplicita le tendenze argentiane presenti fin dalla trilogia degli animali (vedi) volte a creare universi astratti dalle regole della verosimiglianza e organizzati intorno al gusto per la creazione di mondi paurosi e brutali, ambientando quasi per intero la vicenda in una scuola coloratissima ed assai improbabile, situata ai margini di un fitto bosco, “ai confini della realtà” potremmo dire (ulteriore elemento onirico è costituito dalle maniglie delle porte, situate troppo in alto rispetto alla norma), mentre le uniche sequenze esterne ad essa sono ambientate in contesti fortemente irreali: l’aeroporto popolato di figure inquietanti, la corsa in taxi mentre infuria un violento temporale, la casa dormitorio dell’incipit in cui spazi, vetrate e colori rimandano alla scuola di danza, l’enorme piazza deserta dominata da palazzi solenni e minacciosi per la morte del cieco (evidente il riferimento alla pittura metafisica di De Chirico), l’edificio futuristico della BMW di Monaco per il dialogo sulle streghe.
Il successo internazionale di Suspiria (a tutt’oggi il film più noto di Argento nel mondo) convince il regista romano a filmare immediatamente il secondo capitolo di una ideale trilogia dedicata alle tre madri. In
Inferno (feb. 1980; 105 min.), la vicenda si muove tra Roma e New York, le altre due città che ospirano le residenze della strega delle lacrime e di quella delle tenebre. A New York Rose (Irene Miracle) indaga sulle
stranezze del solenne edificio (datato 1910) in cui vive. Intuisce che si tratta di una casa maledetta e lo comunica al fratello Mark (Mark McCloskey) che vive a Roma. Quest’ultimo, dopo avere in qualche modo assistito alla
atroce morte di un’amica (Eleonora Giorgi) e di un suo sfortunato conoscente (Gabriele Lavia), si affretta a raggiungere New York dove cerca invano la sorella, nel frattempo uccisa dalla onnipotente Mater tenebrarum che domina
il sinistro palazzo newyorchese. Entrambe le case stregate - la biblioteca romana di via Bagni e l’edificio di New York - portano il numero civico 49, numero che allude agli anni di vita di Maria Vergine, un riferimento di
sapore beffardo, certamente non casuale. Dopo numerose altre uccisioni - quella dell’antiquartio Kazanian (Sacha Pitoeff), di una contessa (Daria Nicolodi) e del suo seivitore (Leopoldo Mastelloni), scopre gli intimi segreti
dell’edificio e si ritrova di fronte alla spietata Mater Tenebrarum (Veronica Lazar) a cui riesce fortunosamente a sfuggire mentre l’edificio brucia (come nel finale di Suspiria).
Il racconto è scandito dalla geniale musica di Keith Emerson che lavora su un paio di Leitmotive: il primo (titoli di testa), dolce e avvolgente, è basato su un tema pianistico le cui tre coppie di accordi alludono alle
tre sataniche madri mentre il secondo Letimotiv, più vivace, rielabora un frammento della celebre melodia del coro Va pensiero (Verdi, Nabucco, 1842). Il capitolo finale è invece scandito da una rivisitazione del tema di Baba Yaga (Moussorgski, Quadri di un’esposizione,
composizione classica già rivisitata da Emerson, con Lake e Palmer, nel celebre album Pictures at an Exhibition, 1971), non a caso dedicato a una strega russa, unito a cori memori della pagina iniziale dei Carmina
Burana (Orff, 1937). Questa stupenda colonna sonora non possiede tuttavia l’immediatezza barbarica di quella dei Goblin di Suspiria così come il film, per numerosi aspetti eccellente, non offre la compattezza affascinante della pellicola ambientata a Friburgo. Va infine ricordato che il celebre manifesto di Inferno riprende la suggestiva immagine del teschio femmineo (creato da HR Giger) che occupa la copertina di Brain Salad Surgery (1973), il quinto album degli Elp.
Inferno allinea numerose sequenze ricche di magia visionaria e sonora che vanno però a costituire un caledidoscopio che soffre di una certa ripetitività. Se si osserva con attenzione lo schema narrativo si scopre che esso è privo di una storia attentamente elaborata (manca la compatta coralità di Suspiria)
cui si sostituiscono una serie di uccisioni, tutte perfettamente orchestrate e calate in un contesto di raro fascino pittorico il quale, però, non sorprende quasi mai nelle sue svolte narrative. Con l’eccezione di Mark, lo
sbiadito protagonista, i personaggi entrano in scena solo per venire uccisi poco dopo dalle malefiche streghe, adirate dalla curiosità delle loro vittime. Le uccisioni posseggono una gratuità che spiazza lo spettatore e forse
anche finisce con lo stancarlo; non resta, dunque, che ammirare la fantasia coloristica, l’attenta costruzione delle inquadrature, la spesso ripugnante presenza di cani, gatti e insetti nonchè le numerose sorprese insite nella
messa in scena dei singoli delitti mentre ogni tentativo di seguire una logica, per quanto fantastica, degli eventi viene frustato dall’andamento anarcoide del racconto. Possiamo dire che Inferno è la pellicola più vicina ai racconti stravaganti e ripetitivi di Bava, anch’egli un autore capace soprattutto di allineare macabri delitti senza riuscire a creare intrecci narrativi consistenti. Inoltre la colonna sonora, a tratti lirica e rilassata di Emerson, di carattere taroromantico, offre un ulteriore legame con i soundtrack ciaikovskiani
delle pellicole di Bava. Tutto ciò spiega l’insuccesso commerciale della pellicola e l’interruzione del progetto argentiano relativo alle tre madri, progetto che verrà ripreso solo nel 2007 (La terza madre). Inferno rimane un’opera notevolissima con pagine da antologia. La sequenza d’apertura con la lettura del minaccioso testo di Varelli accompagnato dalle note di Emerson, l’utilizzo “orrorifico” delle misteriose e frastornanti sonorità dell’introduzione del Va pensiero verdiano nella sequenza della lezione di musicologia, il medesimo tema utilizzato con la tecnica dello stop and go durante la truculenta eliminazione di Eleonora Giorgi e di Gabriele Lavia, l’uccisione di Kazanian in un favolistico Central Park popolato da centinaia di orribili topi (la sequenza occupa il medesimo posto di quella dell’uccisione del pianista cieco in Koenigsplatz), la scoperta dei cunicoli e l’entrata nell’antro della strega. Inoltre la realizzazione dell’edificio maledetto con i suoi sospiri misteriosi e i suoi mille ripostigli polverosi, rimanda alle abitazioni maledette di Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano (Polanski 1968; 1975).
Come in Suspiria la violenza delle streghe è quella di figure femminili spaventose in cui si incarna la nota misoginia del’autore, reazione stizzita di fronte ad una realtà politica in cui il trionfo del femminismo ha reso il gentil sesso troppo autonomo e alquanto minaccioso (se ne è parlato discutendo la trilogia degli animali); tale violenza stregonesca, messa in atto da figure spesso anziane, prende di mira soprattutto belle donne dai volti infantili e innocenti ed esprime, come già detto, il risentimento tutto femminile nei confronti della bellezza giovanile. Con Inferno si aggiunge un esplicito taglio allegorico che, per una volta nel cinema argentiano, sembra formulare una metafora politica del reale: il Male - organizzato come una setta segreta - pervade e controlla il mondo; esso si annida tra i cunicoli e nei labirinti sotterranei dove nessuno riesce a individuarlo; da questa posizione privilegiata governa le cose con spietatezza e compiacimento. Questo potere metafisico elimina qualunque “profano” tenti di conoscere i suoi segreti. Ad esso Argento sembra associare nientemeno che il Risorgimento italiano (la scelta del Va, pensiero quale soundtrack dell’apparizione
di Mater lacrimarum, la strega romana), in quanto movimento storico-politico guidato, dietro le quinte, dalla massoneria internazionale. Insomma Inferno sembra, timidamente, alludere alle tante sette e lobby (la massoneria innanzitutto le cui sedi decisive sono ora negli Usa ovvero New York; la chiesa cattolica ovvero Roma) che comandano senza essere conosciute e percepite dall’uomo qualunque. In tal senso è significativo anche l’ossessione per il numero tre - centrale dapprima nella visione cattolica, poi. per imitazione, in quella massonica - che serpeggia nel film: non solo sono tre le madri e le loro residenze; tre sono anche le protagoniste femminili (Rose, Sara e la contessa), tre le chiavi dell’enigma iniziale, tre i principali personaggi maschili (Mark, Kazanian e Varelli), tre le copie del libro di Varelli nel negozio dell’antiquario.
Si tratta delle medesime tematiche che, in quello stesso 1980, Kubrick andava accennando nel magnifico Shining e che avrebbe esplicitato nel suo capolavoro postumo: Eyes Wide Shut. Nel 2007, trent’anni dopo Suspiria, esce l’ultimo capitolo della saga,
La terza madre
(100 min.), decisamente inferiore ai primi due ma non così scadente come la critica in generale ha sanzionato. la pellicola si agganca con coerenza ai precedenti capitoli di cui ripete numerosi passi tipici (la corsa in taxi, la presenza di sinistre biblioteche, i colloqui con esperti in occultismo, il finale nella casa maledetta con morte della strega e distruzione dell’edificio); alla prevalenza colori rosso-blu si sostituisce una suggestiva e insistente colorazione bruna mentre la bella colonna sonora di Claudio Simonetti non è di troppo inferiore a quella di Emerson di cui riprende il taglio solenne e minaccioso.
La pellicola rimanda sopratutto a Suspiria proponendo una protagonista unica, innocente e smarrita (Asia Argento), perseguitata da orde di streghe. Il ritmo invece è quello di un moderno videoclip, serrato e incapace
di approfondire situazioni e psicologie. Ciononostante il film tiene realmente in uno stato di perenne suspense, indovina tutti i personaggi di contorno (spiccano Udo Kier e Philippe Lorey) ed offre scene raccapriccianti quasi
insostenibili per il pubblico del nuovo millennio (abituato a effetti orrorifici più fumettistici). Ovviamente tutto poteva essere migliore e l’opera rimane tra quelle secondarie dell’autore (lo sfondo di una Roma impazzita è
delineata in modo troppo approssimativo e quasi dilettantesco) come pure mancano riferimenti allegorici a sette segrete ed a questioni storico politiche attuali che sembravano far capolino in Inferno. L’idea di una
“seconda era” delle streghe che si cerca, in qualche modo, di mettere in scena, assomiglia alla metamorfosi della realtà caratteristica del cinema degli zombie di Romero e non possiede punti di contatto con la pilotata
mutazione antropologica che, da alcuni decenni, sta trasformando la realtà europea in una sorta di moderno matriarcato. Anche la presenza del Vaticano, nemico ideale dell’universo stregonesco, è alquanto generico e sbiadito.
L’insuccesso commerciale non è tanto la conseguenza del presunto scarso valore del film (che, al contrario, è tutt’altro che disprezzabile); in realtà tutti i film di Argento, a partire da Trauma (1993), vendono salutati in modo oltremodo tiepido da un pubblico delle sale che è, anch’esso, antropologicamente mutato: prevale ora la presenza femminile (i giovani passano più tempo alle playstation) e la connessa egemonia di soggetti domestico-amorosi. Il cinema sanguinario ed onirico di Argento, venato, tra l’altro, di una evidente e nota misoginia, è quanto di più lontano dai gusti del nuovo pubblico cinematografico; se anche l’autore realizzasse un nuovo Profondo rosso,
esso verrebbe proiettato, quasi certamente, in sale semideserte. E’ sintomatico il fatto che il recente Giallo (2009), altra pellicola di valore medio, non abbia trovato nessuna distribuzione cinematografica in Italia e
si sia dovuto accontentare del mercato homevideo.
testo scritto nel giu. 2016
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