Todo modo, Il caso Moro e Piazza delle cinque lune

Todo modo, Buone notizie, Scherzo del destino... , Il caso Moro, L’anno del terrore, Piazza delle cinque lune, Buongiorno notte, Aldo Moro il presidente, Se sarà luce sarà bellissimo, Il divo e Aldo Moro il professore: il delitto Moro al cinema e in televisione (1976-2018)


                Moretti:“Ogni uomo un giorno deve morire, ma non tutte
                le morti hanno lo stesso significato. Io credo che
                la nostra superiorità consista in questo: noi siamo
                disposti a morire per le nostre idee, i comunisti
                sono così."
                Moro:"Anche i primi martiri cristiani. In fondo la sua
                è una religione come la mia, anzi è molto più severa;
                per esempio disprezza il corpo, più di quanto
                facciamo noi cattolici. Un tempo il Cristianesimo era così,
                ma ora non più. L'ultima crociata è del 1270, l'ultima
                strega è stata bruciata in Svizzera, pensi,
                alla fine del Settecento."
                dialogo da Buongiorno notte

Elio Petri si ispira liberamene al romanzo (1974) di Sciascia e firma Todo modo (apr. 1976; 125 min.), uno dei film più controversi del cinema italiano.
In uno scenario da incubo, mentre un indefinito virus sta diffondendo una temibile epidemia, i notabili democristiani (tra gli altri Ciccio Ingrassia) di chiudono nell’eremo Zafer dove, guidati dall’inflessibile don Gaetano (Marcello Mastroianni), si dedicano agli abituali esercizi spirituali. Li guida il presidente alias Aldo Moro (Gian Maria Volontè) che è accompagnato dalla moglie (Mariangela Melato) e da una sinistra guardia del corpo/autista (Franco Citti). Compare, per una breve visita, anche il politico più potente del partito, definito semplicemente Lui, ovvero Giulio Andreotti (Michel Piccoli); appena quest’ultimo lascia il convento, iniziano le misteriose uccisioni che gettano tutti i partecipanti, rapidamente, nel panico. Giunge il commissario Scalambri (Renato Salvatori) che obbliga i democristiani a rimanere rinchiusi in quel luogo fino a quando la situazione non verrà chiarita. Nel frattempo il sicario uccide a ripetizione: cadono sotto i suoi colpi dapprima i democristiani più in vista, poi don Gaetano, e infine tutti gli altri. Al culmine di questa macelleria l’autista uccide Moro.
La pellicola attacca la classe dirigente italiana con un astio e una cattiveria particolari: l’opera risulta immediatamente scandalosa e indigeribile, come in fondo era stato Indagine (Petri, 1970); solo che Todo modo, pellicola plumbea e ripetitiva, verbosa e visionaria, non possiede la vivacità narrativa del celebre film sul commissario assassino ed è, fin dall’inizio, un fiasco commerciale. Quando poi l’opera viene sequestrata per vilipendio (circa due mesi dopo l’uscita nelle sale), anche se il procedimento giudiziario termina rapidamente con un’assoluzione, il film viene rapidamente dimenticato.
Siamo alle soglie di decisive elezioni politiche in cui il Pci trionferà, arrivando al 34% dei consensi mentre la Dc dovrà accontentarsi del 38%: dopo una lunga marcia di avvicinamento del partito di Berlinguer a quello di Moro (il famoso compromesso storico), ora la situazione prelude a un accordo di governo di fronte al quale, in genere, il cinema italiano filocomunista plaude (si veda su tutti Novecento, 1976; di Bertolucci). Petri, invece, aveva preso posizioni estremistiche fin da Indagine; con La classe operaia (1971) aveva apertamente abbracciato posizioni ribellistiche di Autonomia operaia, contro quelle “revisioniste” dei sindacati e del Pci. Ora, nel momento più delicato della politica italiana, piazza questa “bomba mediatica” sul cammino dell’accordo politico più discusso del dopoguerra, che contava su numerosi e potenti oppositori a destra e a sinistra. Sia l’America di Nixon/Ford, sia la Gran Bretagna di James Callaghan, sia l’Urss di Breznev tramavano per far fallire quell’accordo, movimentando numerose frange estremiste e differenti servizi segreti, spesso in accordo tra loro. Il film di Petri, profondamente suggestivo e ammirevole in se stesso, fa parte di questo schieramento ostile all’accordo Dc-Pci, trovando addirittura l’appoggio finanziario della Warner Bros. americana (che lo distribuisce).
Petri riparte dal Pasolini di Salò (di cui il film riprende lo schema narrativo a stazioni e il clima oppressivo e claustrofobico) e dal celebre articolo dello scrittore friulano in cui chiedeva un processo pubblico per la Dc accusata di tutte le peggiori nefandezze, tra cui la complicità nelle stragi e nella strategia della tensione. Non a caso il sicario che sembra uccidere i notabili e soprattutto che ammazza Moro è Franco Citti, ovvero l’emblema stesso del cinema pasoliniano. Partendo da questa visione apocalittica e facendo perno essenzialmente sulla questione morale, Petri dipinge una classe dirigente malata e infantile, dedita solo a sporchi traffici votati a uno smisurato arricchimento nel totale disinteresse per il benessere della nazione. Il presidente, figura femminea e complessata, incapace di gestire con autorevolezza la massa dei notabili, sembra solo governare con infinita pazienza un esercito di piccole e sgradevoli figure le quali sanno di potere occupare il potere in maniera anarchica e amorale in quanto protetti dal Vaticano (la figura autoritaria di don Gaetano) e dal fatto di essere insostituibili alla guida del paese (il Pci , in quanto partito di Mosca, non può accedervi). Petri coglie questa verità politica e la dipinge con colori brutali e blasfemi, creando un teatrino di marionette disgustose e inverosimili, a capo delle quali c’è la figura di Moro che costituisce, non a caso, il principale bersaglio del film.
Moro, come noto, era il principale artefice della politica di compromesso con il Pci ed era a tutti evidente che la sua eventuale scomparsa avrebbe affossato quel tipo di accordo sgradito alle superpotenze. Erano in molti a criticarlo in maniera spesso aggressiva e violenta: sulla sua rivista OP, Pecorelli (iscritto alla P2), conduceva una serrata battaglia contro il presidente, spesso intitolando articoli con giochi di parole sul fatto che Moro doveva morire (“Il santo del compromesso: vergine, martire e...dimesso”, gen. 1976; “Aldo senza speranza: morire di smentite” mar.1976 ecc.) mentre Andreotti scrive un libro sulla morte di Pellegrino Rossi (ucciso il 15 nov. 1848 mentre andava a inaugurare il proprio nuovo governo), intitolato Ore 10: il ministro deve morire (1974), titolo che Pecorelli riprende in un noto articolo su Moro (Ore 13: quale  ministro deve morire, set 1974; Ore 13: il ministro deve morire, giu 1975 ecc.). Certamente anche il libro di Andreotti poteva essere letto come una sinistra minaccia all’amico/nemico Moro, tanto più che il sequestro in via Fani finisce con l’assomigliare al delitto di Pellegrino Rossi, ucciso da estremisti, probabilmente mazziniani, che non volevano un governo di compromesso moderato a Roma, delitto politico che apre le porte alla fuga del papa e alla instaurazione della repubblica romana (1849).
Alla luce di tutto ciò, appare evidente che Todo modo non è un fulmine a ciel sereno (il testo di Sciascia non prevede la figura di Moro: accanto a un don Gaetano satanista c’è un pittore....); il problema è che mentre gli articoli di Pecorelli e le allusioni andreottiane erano messaggi in codice per pochi, il film esplode all’interno della cultura popolare e può essere realmente efficace (soprattutto se si trasformasse in un grande successo come quello di Indagine) nel condizionare almeno parte del voto politico del giugno 1976. L’immediato boicottaggio di tutte le forze culturali, politiche e infine giudiziarie del paese condanna l’opera al silenzio (anche nei decenni successivi resterà un film quasi invisibile, fino al restauro dl 2015), con grande rabbia di Petri che vedrà la sua opera, comunque meritevole di attenzione, snobbata e relegata in un angolo come un animale infetto.
Petri e l’estremismo politico, cui in qualche modo si legava, volevano invece la morte di Moro (e di fatto anche di Berlinguer), considerato un ostacolo sul cammino”inevitabile” della rivoluzione marxista in Italia.
Il film coniuga scenari degni di un film di fantascienza (memori de La decima vittima, 1965), musiche inquietanti assolutamente perfette (di Morricone) e un atteggiamento ferocemente grottesco che discende da Indagine e da La proprietà non è più un furto (Petri, 1973) e che approda a pagine esilaranti e memorabili. Tutta la parte del cosiddetto enigma relativo alla frase di Loyola Todo modo para buscar la voluntad divina mostra un Volontè scatenato nel disegnare un inedito Moro detective, dedito ad improbabili anagrammi al fine di scoprire le future vittime del killer.  Da un lato il sicario sembra uccidere per punire i democristiani dello loro eccessiva avidità e soprattutto della loro politica statalista che invade ogni campo della economia nazionale. Dunque si potrebbe dedurre che il mondo anglofono del capitalismo privato accusa la classe politica italiana di non lasciare sufficiente spazio alle multinazionali (paradossalmente proprio quelle citate come Sim nei comunicati delle Br): “cercare la volontà divina” potrebbe essere allora proprio questo ovvero eliminare gli ostacoli al potente capitalismo angloamericano eliminando Moro, il compromesso storico e una classe politica statalista. D’altronde con tangentopoli, la nostra rivoluzione “soffice”, sarà proprio questo ad accadere: nel nuovo orizzonte, privo della minaccia comunista, la Dc non serve più e viene liquidata senza troppi scrupoli mentre le principali banche e aziende italiane vengono privatizzate (1992-94). Cercare la volontà divina significa anche questo: permettere agli angloamericani di affermare la propria filosofia economica e ideologia, liquidando una classe politica incapace e servile nei confronti di un Vaticano arcaico, dedito ancora a ridicole pratiche di autoflagellazione (la figura di Ciccio Ingrassia) e attraversato da una omosessualità dilagante (Moro stesso viene descritto come impotente, effeminato e segretamente attratto dal mondo omosessuale), mentre il nuovo corso prevede le più ampie libertà sessuali connesse con un’economia capace di vendere qualunque prodotto, senza curarsi di inutili freni morali. Insomma i notabili Dc hanno tutte le colpe: si attardano in posizioni clericali antiquate (gli esercizi spirituali sono il segno stesso del loro anacronismo) e antieconomiche, proteggono corruzione e deviazioni omosessuali e alcuni di loro, guidati da Moro, flirtano perfino con i comunisti, al fine di coinvolgerli nel loro sottobosco economico, sganciandoli dalla sottomissione a Mosca. I fautori dell’opposizione netta e inconciliabile tra sistemi antagonisti (capitalista e comunista) si esprime perfettamente in questa pellicola apocalittica e rabbiosa che va intesa (anche per il dispendio di energie e di denari che essa ha implicato; si pensi al superbo cast) come una esplicita minaccia alla vita di Aldo Moro.
Negli scenari dello convento Zafer risaltano inquietanti statue di legionari romani che si accaniscono sulla figura di Cristo, esaltando un’idea neopagana (anglofona) e anticristiana che poi è quella che prende corpo durante la strage e di cui si fa carico innanzitutto il sicario Citti cui va affiancato lo pseudoAndreotti. La pellicola può anche essere intesa come lo scontro tra Massoneria (esplicitamente citata nel film) anglosassone, pragmatica e neopagana e universo cattolico, intesi come il nuovo e il vecchio a confronto, nella loro eterna guerra.
L’accusa a Moro di omosessualità appare del tutto infondata (al contrario era nota la sua passione per gli anagrammi, con i quali si cimenta per risolvere il mistero della strage, anagrammi che ancora oggi cerchiamo all’interno delle sue lettere spedite dal carcere Br) e funziona come un semplice ulteriore sfregio alla persona (quando pronuncia i suoi “comizi”, Moro è accompagnato da un allusivo colore rosa antico presente nel fondale dello scenario) e, forse, un’allusione, alla omosessualità dilagante nel Papato e in particolare a Paolo VI, la cui figura viene in qualche modo adombrata in don Gaetano. Quest’ultimo si atteggia a vero e proprio padrone della Dc ovvero incarna un potere che è, di fatto, quello del papa. La confidenza e l’antica amicizia che sembrano legare Moro e don Gaetano è pertanto un ulteriore conferma del carattere simbolico della figura di quest’ultimo quale rappresentante del capo della Chiesa. Paolo VI era stato oggetto di ripetute accuse, malignità e forse di ricatti sessuali per la sua presunta omosessualità e per i suoi presunti rapporti con figure anche note come quella dell’attore Paolo Carlini (i denigratori arrivavano a dire che la scelta del nome era stato un omaggio all’amante... ); per quanto semplici voci, va detto che Paolo VI ritenne di doverle citare e scusarsi durante un discorso pubblico (proprio nell’aprile 1976, mese di uscita di Todo Modo; egli parlò di ”cose orribili e calunniose dette sul suo conto”), finendo così col dare ancor maggiore rilievo a dicerie note solo in alcune cerchie. L’argomento è tornato di attualità recentemente, durante il processo di canonizzazione (2018) di Montini. Nell’inferno di Todo modo due soli personaggi si distinguono dagli altri ovvero lo pseudoAndreotti, determinato e autorevole, forse il mandante della strage per conto terzi, uomo di fiducia del mondo anglosassone e il gelido sicario, estraneo agli atteggiamenti puerilmente lamentosi dei notabili democristiani: sono loro il segno dei tempi nuovi che si apriranno, una volta tolti di mezzo gli ostacoli del “vecchio mondo”. Sono i segni di un pragmatismo ateo destinato ad affermarsi su tutto il resto in cui possiamo intravedere - due anni prima di via Fani -  da un lato l’opera discreta e invisibile dei servizi e dall’altro la gelida freddezza assassina delle Br.
Tre anni dopo Petri firma la sua ultima pellicola, Buone notizie (ott. 1979; 100 min.), film enigmatico che, a un esame attento e informato, risulta essere un’inquietante continuazione di Todo modo.
Il protagonista è un uomo ordinario e senza nome (Giancarlo Giannini), pettinato come il commissario di Indagine e, come quello, portatore di idee conservatrici o quanto meno qualunquiste. E’ un funzionario televisivo che lavora in un ufficio popolato di schermi sui quali scorrono le “buone” notizie di un universo sconvolto da rapine, attentati e da misteriose epidemie, notizie che tuttavia lasciano del tutto indifferente il protagonista, simbolo di quella ampia zona grigia che, in quegli anni, rimase indifferente alle esplosioni di violenza di ogni genere senza prendere posizione per nessuno e rimanendo anzi morbosamente interessato esclusivamente a questioni individuali relative al proprio soddisfacimento sessuale (unico argomento di cui si occupa con zelo). E’ un segno cui Petri guarda con grande sconforto, quale emblema stesso del fallimento di tutta l’attività estremistica di quegli anni (Br in primis). Il contesto esterno in disfacimento, solo accennato in Todo modo, viene ora illustrato in una Roma ove i rifiuti di ammassano ovunque e la gente è iperaggressiva. Quello che conta, tuttavia, è la quantità di criptici riferimento al caso Moro. Si parte con notizie relative ad alcuni blackout telefonici ed elettrici che avrebbero favorito alcune rapine (un blackout delle linee telefoniche garantì al commando Br e amici di potere agire in maggiore sicurezza in via Fani); si parla poi di un’esecuzione avvenuta con undici colpi di pistola (come i proiettili nel corpo di Moro). Lo spettatore dunque è avvertito: il contesto è quello del rebus Moro. Poco dopo si presenta al protagonista un vecchio amico Gualtiero Milano (Paolo Bonacelli), un professore ebreo (e il ghetto ebraico romano è, fin dall’inizio, un luogo in cui si sospetta che potesse esserci una delle prigioni fondamentali di Moro, soprattutto relative agli ultimi giorni) di sinistra, vagamente somigliante al regista che chiede aiuto al funzionario televisivo: qualcuno vuole ucciderlo. L’uomo non spiega il motivo anche se si intuisce che ne sia perfettamente consapevole e chiede all’amico di conservare una misteriosa pistola. Sembra trattarsi di una Walther PPK ovvero di una delle due armi (allora introvabile) che avevano sparato allo statista democristiano (fatto di cui, ovviamente, non si parla nel film). Gualtiero, che ha una svitata moglie francese (Aurore Clement), viene rinchiuso in manicomio dove qualcuno lo uccide con gli allusivi undici (forse dodici) colpi di pistola. Gualtiero lascia al funzionario una busta con scritto “non aprire”...
Anche le presenze degli attori hanno un senso preciso: Ninetto Davoli e Paolo Bonacelli rimandano nuovamente al cinema pasoliniano (come già Todo modo) e c’è anche un’aperta citazione del finale di Salò (non a caso un film su una strage di innocenti) allorché Bonacelli e Giannini si impegnano in un ballo tutto maschile; Angela Molina, moglie del protagonista, ha appena dismesso i panni di una terrorista compagna di Gian Maria Volontè in Ogro (Pontecorvo, 1979), pellicola spagnola che racconta l’attentato al capo del governo Carrero Blanco e che parve a molti inopportuna nell’anno successivo al delitto Moro.
Petri sembra dunque volerci parlare del delitto Moro, forse del suo senso di colpa per avere “ucciso” in anticipo l’uomo politico pugliese o forse, frequentando gli ambienti dell’estremismo (l’uomo è vicino alla cerchia di Autonomia operaia fin dai tempi de La classe operaia va in paradiso, 1971) ha saputo o visto qualcosa di scottante e ora si sente in pericolo, fino al punto di lanciare complicati messaggi (soprattutto relativi alla pistola e alla esecuzione della vittima, ma potrebbero essercene altri meno immediati) a qualcuno: la busta finale del professore (che contiene decine di altre buste, da aprire in caso di sua morte) è un evidente tentativo di avvertire coloro che forse lo minacciavano, alludendo a decine di documenti imbarazzanti inviati a uomini politici di destra e di sinistra (Gualtiero al manicomio ha, come vicini di stanza, importanti politici appunto di destra e di sinistra... ).
Gli incassi del film furono modesti.

La prima pellicola a occuparsi del delitto Moro, seppure in maniera simbolica e surreale, è Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante di strada (set. 1983; 100 min.) di Lina Wertmuller.
Vi si narrano le peripezie di un potente ministro dell’interno (Gastone Moschin), vagamente somigliante a Francesco Cossiga ma, in realtà, controfigura di Moro, il quale rimane prigioniero all’interno della sua auto blindata (la stessa 130 fiat di Moro, vista in via Fani, la quale, tuttavia, non era blindata sebbene il presidente democristiano e il suo caposcorta Leonardi chiedessero da mesi, appunto, un’auto blindata... ): la modernissima chiusura ermetica, di fabbricazione giapponese, non consente all’uomo e al suo autista di uscire dalla vettura. Come in un contrappasso dantesco il ministro dell’interno, simbolo di quello stato che aveva mandato allo sbaraglio Moro negandogli l’auto blindata, diviene ora ostaggio di quel congegno. L’amico e parlamentare De Andreiis, anch’egli democristiano, lo ospita nel garage della sua lussuosa villa al Gianicolo mentre un trio di carabinieri (tra cui Renzo Montagnani) monta una ferrea guardia: nessuno deve sapere della ridicola situazione. Intanto, con molta calma e in un clima di generale lassismo, si alternano i migliori tecnici che, invano, cercano di liberare l’uomo politico. La moglie (Piera degli Esposti) di De Andreiis, invece, coltiva da anni una relazione con il terrorista Gigi Pedrinelli che, proprio in quei giorni, è evaso dal carcere (come Prospero Gallinari, uno dei presunti carcerieri di Moro) e si nasconde nei sotterranei della villa, popolata da enigmatiche statue romane (memori di quelle del convento Zafer). Non solo. La bizzarra coppia decide addirittura di preparare un volantino in cui si rivendica il sequestro del ministro dell’interno... Nel bunueliano finale tutti i personaggi di questa Italia grottesca e pirandelliana finiscono prigionieri della vettura e vengono dissolti...
Sebbene piegata a una narrazione simbolica e allusiva, spesso fiacca e monocorde, la vicenda esprime una satira coerente intorno alla tragica vicenda Moro: il De Andreiis (il nome rimanda a un affiliato P2, il giornalista Stefano De Andreis ma anche, ovviamente, ad Andreotti il quale aveva chiara simpatia per Gelli e la sua loggia), rivale del ministro democristiano verso il quale nutre soggezione e antipatia, di fatto lo tiene segregato nel proprio garage, con la complicità attiva delle forze dell’ordine e anche di un brigatista evaso, figura sbiadita e inoffensiva (quasi a esemplificazione del detto paradossale secondo cui a via Fani c’erano anche le Br) il cui legame con la ricca e insulsa signora De Andreiis testimonia della ben nota vicinanza esistente tra certa “borghesia ricca e “illuminata” e i protagonisti della lotta armata. Tuttavia, mentre De Andreiis, la moglie, i carabinieri e il brigatista sono figure necessarie ma accessorie, ciò che realmente tiene bloccato l’uomo politico è la blindatura perfetta, di manifattura straniera ovvero l’implacabile complotto internazionale dei servizi che spadroneggiano nella nostra repubblica notoriamente a “sovranità limitata”: è questo il destino in realtà poco scherzoso che attende Moro in agguato dietro l’angolo, come un brigante di strada (ossia un brigatista).
Lo sguardo della Wertmuller è cinico e leggero: gli Italiani vengono dipinti come commedianti irresponsabili, accecati dalle proprie esigenze individuali (di potere o di arricchimento) e incapaci di governare il proprio futuro.
Gli incassi furono molto modesti.

Il primo film ad affrontare di petto la tragedia di via Fani è Il caso Moro (nov 1986; 105 min.) dello specialista Giuseppe Ferrara (già autore di Cento giorni a Palermo, 1982. sulla figura di Carlo Alberto Dalla Chiesa), basato sul libro I giorni dell’ira (1980) dell’americano Robert Katz, poi rivisto in una sceneggiatura firmata dal regista con Armenia Balducci (tra l’altro moglie di Gian Maria Volontè).
La pellicola ripercorre in maniera fedele e documentata i 55 giorni, dall’agguato di via Fani al momento del ritrovamento del cadavere in via Caetani, si attiene sostanzialmente alle risultanze del primo processo (concluso nel 1983) e mette in scena un Moro di eccezionale spessore umano e politico (Gian Maria Volontè) intorno al quale si muovono marionette senza vita ovvero i politici ridotti a manichini come in certo cinema didattico di Rossellini (soprattutto Anno Uno, 1974), e i brigatisti rappresentati come volonterosi, infervorati giovani protesi nel tentativo di migliorare una società che non li ascolta... Infatti mentre questi ultimi vengono guardati con evidente simpatia dal regista, fino al punto da prospettare una stravagante, umana sintonia con il sequestrato, i veri cattivi risultano essere gli uomini dei servizi segreti (in particolare la figura ispirata al celebre colonnello Camillo Guglielmi che era in via Fani, senza un ragionevole motivo,la mattina del 16 marzo) i quali manovrano le Br a loro insaputa e ovviamente il gelido Andreotti al quale - risulta chiaro anche se non viene detto in modo esplicito - si imputano le maggiori responsabilità nell’avere sabotato tutte le possibili vie d’uscita (ovvero le molteplici trattative in corso).
Ferrara ha certamente il merito di illuminare con spregiudicata chiarezza il ruolo dei servizi, veri protettori dei terroristi i quali ”lavorano” in favore di Andreotti e della destra democristiana senza saperlo. In questo senso il film anticipa il celebre testo di Sergio Flamigni La tela del ragno (1988) e la sua lucida visione cospirazionista. I servizi agiscono nelle sedi ministeriali a contatto con il premier ed è evidente che solo da lui essi possono ricevere il benestare per agire in quel modo terribile, di fatto affrettando l’esecuzione del sequestrato nei giorni finali. Questo è certamente il merito maggiore del film che, infatti, fu fortemente osteggiato dalla Dc.
Il ritratto dei brigatisti è però inverosimile e falso: avere ridotto a teneri idealisti, tra l’altro ridicolmente preoccupati, in modo quasi servile, del benessere del loro prigioniero, dopo che hanno trucidato la scorta di Moro senza il minimo dubbio e la minima pietà (e che continueranno a uccidere negli anni seguenti), appare una grossa ingenuità ed è uno scotto che un regista di sincera fede comunista come Ferrara paga alla propria mentalità, in un’epoca in cui l’utopia marxista è ancora in vita (seppure alle sue ultime battute). Tra l’altro i pochi indizi che abbiamo relativamente al modo in cui fu detenuto Moro, parlano di catene ai polsi (tali e quali a quelle usate dalle Br per l’armatore sequestrato Pietro Costa nel 1977, tenuto su un giaciglio per 81 giorni): così appare in un video visionato per pochi secondi da alcuni poliziotti e sequestrato nel covo di Giovanni Senzani nel 1982 (si veda il recente libro di Marcello Altamura su Senzani), video fatto immediatamente sparire e di cui, di tanto in tanto, si torna a parlare (secondo le necessità ricattatorie di qualcuno verso qualcun altro). D’altronde la Braghetti, e in seguito l’enigmatico Germano Maccari (arrestato nel 1993, morto in carcere nel 2001) affermano di non avere mai parlato con Moro in via Montalcini e quindi tutta la ricostruzione della vita “domestica” in quell’appartamento appare oggi fasulla. Sappiamo ormai con quasi totale certezza che quella di via Montalcini è stata una commedia inscenata dai brigatisti (in accordo col Potere) per avere sconti di pena; sappiamo che Moro fu quasi certamente portato subito in via Massimi 51, poi forse a Fregene o in altra prigione sulla costa laziale e infine nel ghetto ebraico (si vedano i testi di Flamigni e Cucchiarelli sull’argomento); già allora, negli anni ottanta, tuttavia erano molte le perplessità su quel covo che Ferrara invece accetta pedissequamente.
Il regista ha certamente ragione nel proporre una manovalanza Br convinta e ingenua; egli però evita di approfondire la figura di Moretti e di una sua eventuale segreta alleanza con i servizi; in ogni caso Ferrara non afferma neanche l’opposto e lascia il capo ufficiale delle Br in una sua indefinita ambiguità. Anche la rappresentazione del garage in cui viene ucciso Moro è del tutto incongruente con il vero garage di via Montalcini che era di una grandezza standard (ci stava solo la Renault 4). Invece il garage del film somiglia a quello descritto da Cucchiarelli (testo del 2018) del ghetto ebraico, ampio e idoneo all’esecuzione. E’ una delle ambiguità della pellicola che, a tratti, sembra volere infrangere i luoghi comuni della versione ufficiale. Ad esempio Moretti saluta gli uomini della moto Honda in via Fani, mentre il vero Moretti ha sempre detto che non c’erano Honda durante l’agguato: è un altro punto oscuro del film che, se da un lato, riduce l’agguato all’opera di soli brigatisti (più la Honda “arruolata” tra le Br), dall’altro mette in scena con puntigliosa precisione l’evento (anche se l’incrocio di via Fani appare singolarmente deserto, quasi fossimo in una mattinata di agosto e non di marzo), posizionando la Mini Morris  (che da qualche anno sappiamo essere stata nella disponibilità dei servizi segreti) nell’esatto punto in cui era, alla destra della Fiat 130 di Moro, lì parcheggiata al fine di impedire la svolta a destra dell’auto del presidente. La semplice presenza di questa auto stabilisce, una volta per tutte in maniera inequivocabile, che l’azione di via Fani fu un’azione sponsorizzata da settori importanti dello Stato (quelli piduisti che, in quei mesi, detenevano il potere) animati da sicura fede conservatrice e altrettanto certa fedeltà atlantica; certo non da tutti i settori della vita politica e neppure da tutte le componenti della Dc che, come noto, era un arcipelago di correnti divise, distinte e spesso in guerra tra loro.
Le Br furono attori largamente inconsapevoli in questa tragedia: quando la protezione nei loro confronti andrà scemando (nel corso della prima metà degli “spensierati” anni ottanta) i terroristi verranno arrestati uno dopo l’altro, cominceranno a comprendere l’odioso labirinto in cui erano finiti e cercheranno di uscirne contrattando col potere il proprio silenzio (su numerose questioni essenziali, a partire dagli scritti di Moro) in cambio di sconti di pena. La posizione soccombente dei terroristi viene perfettamente illustrata dal film anche se tutti i dettagli (dal finto covo ai ritratti dei brigatisti-“boy scout”) sono imprecisi e accomodanti.
La pellicola riscosse un buon successo commerciale.

Cinque anni dopo il film americano (targato Columbia/Sony) di John Frankenheimer L’anno del terrore (The Year of the Gun; 1991; 110 min; uscita in Italia nov. 1992), ispirato al libro omonimo (1984; inedito in Italia) di Michael Mershaw, rovescia totalmente la visione delle Br.
Nel febbraio 1978, in una Roma lacerata da scontri di piazza, sequestri e rapine arrivano David e Alison, due giornalisti americani (Andrew McCarthy e Sharon Stone) decisi a indagare sul fenomeno delle Br. Fa loro da tramite Italo Bianchi, un ambiguo professore universitario (John Pankow) che sembra avere segreti contatti con la banda armata. Nel frattempo David, su suggerimento di un editore americano, forse della Cia, si inventa un romanzo in cui le Br rapiscono Moro; la faccenda giunge alle orecchie del capo dei terroristi, Giovanni (Mattia Sbragia; è curioso, forse non casuale, che si tratti dell’interprete di Mario Moretti nel film di Ferrara), il quale decide di eliminare tutti coloro che, in qualche modo, sono venuti a sapere di questo romanzo il quale, senza volerlo, anticipa la realtà. I terroristi, un gruppo di figure sinistre e scostanti, quasi certamente di derivazione medio-alto borghese, picchiano e ammazzano senza pietà chiunque si trovi sul loro percorso. Il film termina con l’agguato di via Fani (ritratto in maniera più generica rispetto alla ricostruzione attenta anche se incompleta di Ferrara) e con la “grazia” concessa ai due giornalisti il cui compito è documentare e amplificare le gesta delle Br.
L’anno del terrore è innanzitutto un ottimo thriller che tiene avvinti gli spettatori, sebbene racconti eventi in buona parte noti. La cosa sconcertante del film, probabilmente la ragion d’essere dell’intera operazione poco fortunata quanto a esito commerciale, consiste nel descrivere l’ambiente dei terroristi come relativo a una borghesia intellettuale, invasata dalla ideologica marxista e pronta a qualunque crimine in nome dell’utopia comunista. In particolare la figura del capo non è Moretti (che si intravede tra i terroristi di seconda fila) ma è Giovanni (non a caso, si è detto, l’attore che, altrove, interpretava Moretti) il cui aspetto fisico non può che rimandare a Giovanni Senzani, figura ambigua che tutti i processi e le Commissioni Moro si sono ben guardati dall’incolpare del sequestro Moro. Lui stesso si professa estraneo alla operazione (ma sarà l’ideatore di altri sequestri molto simili come quello dell’assessore campano Ciro Cirillo e quello di Roberto Peci, durato anch’esso 55 giorni circa e finito in maniera cruenta come quello dello statista democristiano). D’altronde anche nel celebre fumetto di Metropoli (1979) il compagno Blasco che guida le Br altri non è che Senzani. Siccome quest’ultimo era un stimato professore universitario con conoscenze ad alto livello nei ministeri italiani, nei servizi segreti militari e presso le rappresentanze americane in Italia, la sua eventuale presenza alla guida del commando di via Fani e nella delicata questione degli interrogatori di Moro, porrebbe l’intera operazione in un contesto ideale ambiguo e prossimo ai servizi segreti italiani e americani. Insomma Senzani in via Massini 51 si collocherebbe nel solco della Mini Morris parcheggiata abilmente allo stop di via Fani da persone dei servizi. D’altronde ormai da più parta nella pubblicistica si individua nel professore fiorentino un profilo adeguato a spiegare il tipo di interrogatorio particolareggiato e competente subito dal prigioniero (e documentato nel famoso Memoriale), del tutto incompatibile con le figure poco “preparate” dei brigatisti noti (da Gallinari a Moretti, dalla Braghetti a Maccari). Il film non esita a calcare la mano sull’indicazione di Senzani: nelle strade di Roma ci sono sinistri manifesti Br che mostrano l’esecuzione spietata di presunti delatori, evento pressoché fantasioso nel febbraio 1978 che però anticipa la tragedia di Roberto Peci, sequestrato e giustiziato dopo una lunga prigionia, da Senzani e da alcuni suoi sodali nel 1981.
La corrente di velata simpatia per i terroristi che attraversa le pellicole dedicate a via Fani da registi di sinistra (Ferrara, 1986; Bellocchio, 2003) è radicalmente assente in questo film americano in cui l’eroe è il tipico giornalista ingenuo, solitario e generoso che si trova stritolato in una crudele macchinazione mossa da gente disumana e fanatica, annebbiata dalle ideologie. Questi terroristi rossi non sono differenti dai tanti terroristi islamici ritratti con feroce antipatia nel cinema di Hollywood. David somiglia dunque al celebre Condor (Robert Redford) in quello che è, forse, il film più emblematico degli anni settanta (I tre giorni del condor, Pollack, 1975), trovatosi, senza volerlo, a conoscere segreti pericolosi e a divenire un bersaglio in movimento di forze occulte e spietate. Le Br di Frankenheimer si muovono agevolmente in mezzo alla borghesia illuminata di Roma (basti vedere i lussuosi ambienti in cui si aggirano) e contano su conoscenze e protezioni importanti; si intuisce la loro appartenenza a settori più o meno coperti del Potere, così come nel film di Pollack c’era una Cia segreta dentro la Cia.
Il film offre un modello interpretativo radicalmente differente, pone in imbarazzo l’universo culturale italiano (come noto egemonizzato dalle sinistre) e viene sommariamente liquidato dalla critica come una pellicola inutile e fantasiosa, girata da uno straniero che “non capisce” la realtà italiana. Invece, proprio perché nato all’infuori del contesto italiano, L’anno del terrore sembra contenere importanti rivelazioni (su Senzani come pure sulle metodologie semplicemente criminali che albergano nelle Br) che, nella penisola, tutti (destra e sinistra per motivi opposti ma, in fondo, convergenti) preferiscono non vedere.

Renzo Martinelli, già autore del coraggioso Porzus (1997), firma con Piazza delle cinque lune (mag. 2003; 125 min.), il migliore film sul caso Moro, opera che, non a caso, si avvale della consulenza di Sergio Flamigni (probabilmente il maggiore studioso dell’argomento) e della approvazione della famiglia dello statista.
La vicenda è impostata come un thriller retrospettivo. A Siena (la città, ritratta in maniera eccessivamente turistica, occupa largo posto nell’opera, non a caso finanziata anche dalla banca del Monte dei Paschi) Rosario (Donald Sutherland), un magistrato in pensione, coadiuvato dalla ex assistente Fernanda (Stefania Rocca) e dalla ex guardia del corpo Branco (Giancarlo Giannini), indaga sul sequestro Moro. Un ex brigatista gli ha fornito un filmato in superotto dell’agguato di via Fani e perfino il Memoriale completo e autografo. Tra minacce, rapimenti e omicidi il cammino del terzetto viene ostacolato in ogni modo da misteriosi sicari. Infine Rosario viene convocato a Roma, in Piazza delle cinque lune (dove c’è un ufficio dei servizi segreti) per consegnare ad autorità che crede affidabili il frutto delle sue ricerche; invece, come nell’enigmatico finale di Indagine (Petri, 1970), si trova di fronte un gelido schieramento di autorità al centro delle quali figura Branco...
La pellicola inizia in maniera magnifica con l’idea del filmato clandestino di via Fani in cui, tra l’altro, si dice con chiarezza che i sicari spararono anche da destra e sono ben visibili sia la coppia sulla moto honda, sia il colonnello Guglielmi. I brigatisti operano in lontananza in questo film (come in quello di Frankenheimer), si parla poco di loro presi singolarmente mentre si indaga solo sui livelli alti, si manovratori che stanno nelle stanze del potere. Certo la parte centrale del film è inutilmente verbosa e didattica: siamo di fronte a un efficace riassunto delle tesi di Flamigni, in cui si sente l’esigenza di spiegare tutto (forse troppo; perfino la storia iniziale delle Br, il passaggio dalla gestione Curcio a quella Moretti, la morte di Pecorelli ecc.) con esiti utili per una generica divulgazione di tesi, comunque, poco note ma scontate per lo spettatore informato. Dopo questa sezione documentaristica, la storia riprende e trova un altro momento alto nel dialogo parigino tra il magistrato e l’Entità (Murray Abrahams), un passo filmico chiaramente ispirato a quello centrale di JFK (Stone, 1992), laddove il giudice Kevin Costner incontrava il misterioso uomo politico interpretato proprio da Donald Sutherland. Con tale incisiva sequenza Martinelli illustra la “disumana” realtà della scuola Hyperion, copertura per un’agenzia della Cia che coordina gli sforzi soprattutto europei volti a frenare l’avanzata del comunismo al di qua della cortina di ferro. Si chiarisce anche la coincidenza di interessi Usa-Urss nel fermare Moro la cui politica avrebbe giustificato una differente concezione del marxismo-leninismo rispetto alla sua tesi centrale, relativa alla obbligatorietà della rivoluzione per il passaggio alla fase comunista della storia; avrebbe insomma creato un secondo polo di attrazione della Internazionale comunista e, probabilmente nel lungo periodo, uno sganciamento del Pci da Mosca. L’episodio finale (la sconfitta di Rosario) è anch’esso efficace e serve a chiarire come sia impossibile venire a capo dei misteri protetti dal potere, un potere che non esita ad ammazzare chiunque, anche una coppia di bambini (i figli di Fernanda), per mantenere se stesso in sicurezza.
Il quadro complessivo è notevole, non tanto e non solo per le poche novità aggiunte (ovviamente non si azzardano “spiegazioni” intorno al Memoriale completo che scompare subito nei labirinti del Potere; sulle lotte e i ricatti politici esplosi intorno a questo scottante documento, oggi sempre incompleto dopo i ritrovamenti del 1978 e 1990 in via Montenevoso a Milano di un testo parziale attentamente “selezionato” dai poteri occulti, si veda il definitivo studio di Miguel Gotor del 2011) quanto per il fatto che il racconto illustri con forza la consapevole certezza che è impossibile accedere alla verità da parte della gente comune. C’è dunque un fossato incolmabile tra coloro (non pochi - duecento/trecento persone affermava lo specialista De Lutiis) che sanno e coloro che non sanno e non devono sapere. L’intera verità ufficiale sul caso Moro, quella che in parte viene confermata perfino da film (di Ferrara e Bellocchio) che si vorrebbero coraggiosi e di rottura, viene considerata da Martinelli/Flamigni come una recita fasulla volta ad accontentare masse distratte, che si accontentano di una qualunque spiegazione, anche se piena di incongruenze e inverosimiglianze. Su via Montalcini ad esempio, lo scetticismo è totale come sulla figura stessa della “sfinge” Moretti, definito un “capo anomalo” (ovvero consapevole e probabilmente complice dei servizi), ritratto peraltro sempre in lontananza. A Martinelli non interessa la retorica sui compagni che sbagliano e sul contesto sociale che avrebbe causato la scelta armata, tematiche giustificazioniste che aleggiano nei film di Ferrara e Bellocchio; come JFK (Stone, 1991), Piazza delle cinque lune cerca solamente di svelare il complicato meccanismo criminale - in cui si fondono servizi di destra, criminalità mafiosa e manovalanza di sinistra - che ha prodotto l’annullamento di Moro e della sua pericolosa politica filocomunista dal quadro nazionale. E’ in definitiva lo stesso quadro che si trova dietro alle stragi (piazza Fontana e piazza della Loggia) con l’unica differenza che la manovalanza è in quei casi di destra (dopo il tentativo, presto dissolto dalle indagini, di implicare Valpreda nella strage del 1969 al fine di potere attribuire la bomba alle sinistre anche se si trattava di un anarchico, lontano dall’ideologia comunista tradizionale; peraltro Cucchiarelli, ne Il segreto di piazza Fontana del 2009, ha sollevato il dubbio che gli anarchici abbiano realmente messo una bomba nella banca dell’Agricoltura, anche se pensata come dimostrativa e incruenta, una bomba che doveva esplodere a banca realmente chiusa e deserta).
Il film di Martinelli è stato un fiasco commerciale.

La complessa ed intensa pellicola Buongiorno notte (set 2003, 100 min) di Marco Bellocchio costruisce una fantasia inquieta intorno al sequestro Moro. Ispirandosi liberamente alle memorie della brigatista Anna Laura Braghetti all’inizio l’autore sembra avvalorare la versione ufficiale (lo statista democristiano imprigionato in via Montalcini ed ucciso da Mario Moretti), ma poco a poco inserisce un numero tale di digressioni fantastiche ed allusive da rendere il contesto solo probabile, trasformandolo in un fondale per una riflessione a tutto tondo sulla storia italiana tra terrorismo, Resistenza e melodramma.
Certo nel suo complesso la pellicola delude: con la scusa di ispirarsi al testo della brigatista, probabilmente fantasioso e concordato (così lo considerano anche i massimi specialisti della caso, da Flamigni a De Lutiis a Cucchiarelli), e acconsentendo a realizzare un film su commissione per la Rai (ente che ha sempre sponsorizzato soprattutto la versione ufficiale e raramente ha dato spazio, in orari proibitivi o su reti secondarie, alle versioni alternative), pellicola che sembra anche volere essere una risposta polemica nei confronti delle tesi del coevo film di Martinelli e, in sostanza, tranquillizzante (nei confronti dell’opinione pubblica). Il regista più ribelle del cinema italiano, i cui Pugni in tasca (1965; vedi) avevano inaugurato in anticipo la stagione del ’68, si ritrova ora, sul caso Moro, in compagnia dei fautori della conservazione. Diremo però che l’autore accetta il tutto con molte riserve e finisce col corrodere dall’interno quelle tesi, in maniera subdola e criptica.
Il racconto è visto con gli occhi della giovane Braghetti rinominata Chiara (Maya Sansa), terrorista austera ma anche sensibile al brutale destino del sequestrato e si svolge quasi interamente all’interno dell’appartamento di via Montalcini. Intorno a lei Maccari e Gallinari (con nomi differenti per riaffermare una certa lontananza dalla realtà storica) appaiono, chi più chi meno, ligi alla disciplina imposta dal capo Moretti e da un misterioso direttivo nazionale. Bellocchio descrive i suoi terroristi con grande indulgenza e simpatia, come già aveva fatto Ferrara: sono “compagni che sbagliano”, infervorati dallo Zeitgeist del periodo, dal mito del marxismo-leninismo e di una rivoluzione russa immaginata attraverso le immagini dei documenti sovietici e dalla certezza di rappresentare le avanguardie di una rivoluzione alle porte. Certo conciliare questi “bravi ragazzi”, sensibili e pieni di dubbi con gli assassini spietati di via Fani e di tante altre brutali esecuzioni in strada è pressoché impossibile. Tuttavia è il prezzo da pagare allorché si affida a registi di sinistra (spesso estrema; Bellocchio fu sempre critico anche col Pci negli anni settanta) il compito di narrare questa storia. In ogni caso l’autore ne approfitta per creare una ammirevole riflessione sulle conseguenze di quella propaganda rivoluzionaria acritica e martellante, soffocante e fasulla, importata meccanicamente nella penisola da realtà esterne assai diverse, che si era insinuata in numerose menti come in quella della giovane Chiara. Le parti migliori del racconto sono dunque quelle fantastiche, in cui il regista dà corpo alle visoni notturne della sua protagonista, totalmente immersa in un universo astratto, popolato da eroi della rivoluzione russa e vittime del fascismo della Rsi; in nome di queste astrazioni ella decide di divenire un’assassina anche se di fronte alla mitezza disarmata di Moro prigioniero il dubbio comincia a corrompere le sua certezze. Lo smarrimento di fronte alle folle che sostengono Lama (contro di loro) e alle parole taglienti di Moro sulla loro filosofia fanatica, degna dell’epoca delle crociate cristiane, segnano la sua mente (quella di una figura simbolica di un’epoca, non quella della reale Braghetti che continuerà, anche dopo il 1978, a operare in maniera sanguinosa dentro le Br) e la portano a desiderare la salvezza per il suo acerrimo nemico, ora visto come un semplice uomo in pericolo. Insomma il fanatismo ideologico, vera malattia brigatista che non permette loro di comprendere che qualcuno li sta usando, tende a dileguare nella giovane. La sua ribellione a Moretti mette in luce anche le ambiguità di quest’ultimo e insinua, in alcune blande espressioni, che forse anch’egli è coinvolto con i piani alti del Potere. Ma in questa direzione Bellocchio non poteva spingersi troppo oltre, per non deludere la sua committenza statale e conservatrice. Egli allora si serve di qualche immagine enigmatica per alludere ai veri autori del sequestro: la più interessante è certamente quella in cui, alle spalle della protagonista che compra i giornali, compaiono affiancate e le insegne Snack Bar e Mosca insieme a un cartello relativo al Papa. Il regista sembra dirci che le due superpotenze (Usa e Urss) sono, in modo concorde, i mandatari del crimine, affiancate ai settori più conservatori del Papato; quest’ultimo, di fatto, non fece nulla ed anzi, forse concesse, in via Massimi 51, un appartamento di proprietà dello Ior quale prima prigione di Moro, evento che, se appurato con certezza, aprirebbe scenari devastanti e complicità esplicite della destra vaticana (forse guidata dall’americano Marcinkus, già molto influente nell’era di Paolo VI).
Bellocchio prende le distanze dai suoi zelanti terroristi anche nella scelta del titolo del film, la bella poesia di Emily Dickinson il cui significato è “buongiorno orrore” e con la figura del bibliotecario, amico di Chiara ovvero un giovane che rappresenta quelle idee tradizionali di sinistra che continuavano a condannare, in modo netto, la violenza brigatista. L’ironia del regista si esercita anche su questo personaggio: l’unico spiegamento di forze dell’ordine lo vediamo impegnato nell’inseguire proprio lui (sospettato di avere disegnato un simbolo Br), figura inoffensiva ed anzi schierata con le sostituzioni, mentre in via Montalcini tutto procede nella massima tranquillità. Il sistema mostra una efficienza da parata mentre si guarda bene dal disturbare i veri brigatisti che “stanno lavorando” per il sistema come dirà, nelle ultime battute, una lacerata Chiara, nel tentativo estremo di salvare Moro.
Il rifiuto dell’orrore della “notte” trova anche una magnifica dimensione musicale con il brioso Momento musicale (pianistico, ma qui in versione sinfonica) di Schubert, composizione che commenta tutti i momenti onirico-utopici del racconto, compresa la fuga all’alba di Moro la cui “felice passeggiata”, comunque, va a infrangersi sulla immagine monolitica del palazzo dell’Eur (1942), architettura simbolica dell’era fascista. Fondamentali appaiono inoltre il perfetto utilizzo delle musiche dei Pink Floyd: il vago e poetico incipit della lunga suite Shine on You Crazy Diamonds (da Wish You Were Here, 1975, pagina che non a caso esprime rammarico e nostalgia per una figura assente) accompagna più di una volta i dubbi della protagonista mentre solo nelle ultime immagini, allorché la decisione di uccidere Moro è stata presa, l’incipit si prolunga fino a lasciar risuonare il drammatico, scolpito tema della Part III, a sottolineare l’affermarsi di un evento tragico. Altrove l’uso del magnifico vocalizzo che domina The Great Gig of the Sky, da The Dark Side of the Moon (1973) funziona come un commosso requiem (la pagina di sapore soul affidata alla voce della cantante di colore Clare Tory, si innalza con un'intensa campata melodica la quale, nel suo faticoso salire ed inevitabile ridiscendere, comunica, con un calore degno del melodramma italiano, un sentimento di profonda tristezza) e commenta con suggestiva coerenza sconvolgenti immagini di morte (esecuzioni di partigiani, in parte riprese dal finale di Paisà di Rossellini, in parallelo con le ultime, dolenti parole di Moro). Bellocchio arriva ad avvicinare l’esecuzione dello statista a quella dei partigiani, prendendo le distanze in maniera radicale dalla lotta armata.
Il lirismo quieto e disperato dei Pink Floyd è un commento sonoro ineccepibile, che esprime il dissidio che anima una generazione insoddisfatta, tesa al cambiamento e, a tal fine, capace di intraprendere strade orribili. Inoltre tale scelta musicale possiede quasi certamente un significato nascosto: in una sequenza si rievoca una ben nota seduta spiritica durante la quale personaggi eccellenti (tra i quali compare lo stesso Bellocchio al fine di dare maggiore importanza all’episodio), interrogando uno spirito burlone sul luogo della prigionia di Moro, ottengono come risposta “la luna” (e non Gradoli). Anche nel soundtrack dei Pink Floyd compare la luna ed essa implica un “lato oscuro” come oscuro è a tutt’oggi il luogo in cui fu realmente tenuto prigioniero il dirigente democristiano e misteriose rimangono numerose altre questioni connesse a quel rapimento (al punto che appare corretto parlare di un vero e proprio labirinto Moro). Anche con questo sottile rimando musicale il regista emiliano prende le distanze dalla comoda versione ufficiale. In definitiva egli sembra smentire il suo stesso film quale pretesa ricostruzione realistica per farne un oggetto assai più sfaccettato, allusivo e complesso.
La pellicola ottenne un buon successo commerciale.

In occasione del trentennale del delitto, Tavarelli gira per Mediaset la miniserie Aldo Moro Il presidente (mag 2008; 170 min.), un lavoro che. come si poteva immaginare, rimane fedele alla versione ufficiale in maniera ferma e implicitamente polemica. Gi attori in campo in questa ricostruzione, peraltro professionale e adeguata nell’insieme (ambientazione, recitazione, ritmo narrativo... ), sono rigorosamente due: il fronte brigatista totalmente italiano, autonomo e preparato sotto ogni aspetto (come recita il noto libro-intervista di Mario Moretti del 1994, a ribadire la curiosa “sintonia” tra terroristi e destra conservatrice impersonata, in questo caso, da Mediaset) e il livello istituzionale debole, sorpreso e incapace di reagire. Manca qualunque collegamento tra i due fronti: mancano il colonnello Guglielmo, l’elicottero senza insegne e la Honda in via Fani, manca un qualunque controllo dei servizi su via Montalcini, ovviamente sede unica della prigione di Moro (tesi, come si è detto, screditata fin dagli anni novanta) mentre si mette in scena la goffa versione di Morucci e Faranda relativamente al triplo trasbordo del prigioniero dentro un’ingombrante cassa in differenti punti di Roma, al fine di arrivare da via Fani (nord di Roma) a via Montalcini (Magliana, zona sud). Moretti cerca perfino di spiegare (implicitamente ai “dietrologi”) che Moro non fu sequestrato nella chiesa dove si recava ogni mattina (si sarebbe evitata la strage della scorta) per svariati (e opinabili) motivi.
Nella seconda parte, relativa alla prigionia dell’uomo politico, il film diviene maggiormente problematico: appare evidente che lo stato, incarnato dal solo, gelido e potente Andreotti (al quale si contrappongono, per senso umanitario, non solo Zaccagnini e Fanfani ma perfino Cossiga) vuole che Moro esca di scena mentre sul fronte brigatista la durezza di Morucci, Faranda e Maccari nelle contestazioni alla linea dura di Moretti si ammanta di qualche lieve sospetto intorno alla buona fede di quest’ultimo. Molto poco, comunque, in una pellicola televisiva che possiamo classificare come quella più aderente alla ipocrita verità ufficiale.
Dal punto di vista filmico il lavoro si avvale degli ottimi contributi di Michele Placido (un Moro attivo e decisionista, che non fa rimpiangere Volontè) e di Marco Foschi (Moretti), mentre  la seconda parte offre anche qualche spunto originale come gli scontri tra l’indisciplinato Maccari (che freme per rivedere, di tanto in tanto, la sua fidanzata) e il rigido Gallinari (conflitto documentato dalle dichiarazioni in tribunale di Maccari) e dalle indagini, ritardate ad arte dalla burocrazia filoandreottiana, sulla tipografia di Triaca, complice delle Br.
Infine il garage della esecuzione risulta nuovamente ampio e irrealistico (come già nel film di Ferrara, al quale, in definitiva, somiglia molto la fiction di Tavarelli) al fine di rendere credibile la versione dell’omicidio conclusivo di Moretti e Gallinari; pertanto il box standard della Braghetti si trasforma in una sorta di garage doppio.

Agli antipodi di tutta la produzione sul caso Moro si pone Se sarà luce sarà bellissimo (2008; 85 min.) di Aurelio Grimaldi, pellicola semisconosciuta che sembra fosse pronta già intorno al 2004. Il film viene ospitato in alcuni festival minori per poi uscire solo in dvd.
Grimaldi sembra proporre le medesime situazioni di Buongiorno notte, viste però da un’ottica rovesciata in quanto il film evita qualunque sentimentalismo e non indulge ad alcun giustificazionismo; i personaggi sono tutti ugualmente sgradevoli ed è impossibile identificarsi con chiunque: sequestratori e sequestrato sembrano appartenere a dimensioni umane e ideologiche inconciliabili.
Grimaldi è l’unico regista a non mettere in scena l’agguato di via Fani (forse anche per ristrettezze produttive: il film si svolge tutto in interni) e a iniziare il racconto con Moro (Roshan Seth) già prigioniero in via Montalcini dove il solito quartetto di brigatisti (anche se con nomi cambiati) lo interroga con modalità scostanti e violente; i brigatisti si interrogano anche sul fatto se sia il caso di usare la tortura per estorcere a Moro segreti che egli cerca di non volere confessare. D’altro lato il sequestrato è ritratto con evidente disprezzo, come un politico potente e cinico, poi anche piagnucoloso; verso di lui l’autore, che sembra aderire a posizioni di estrema sinistra (comunque non favorevoli alla lotta armata), non mostra alcuna simpatia ed anzi lo ritiene un abile “incantatore” che aveva saputo prima annullare il Psi (negli anni sessanta) ed ora il Pci di Berlinguer. Per Grimaldi non esiste Jalta, né il divieto alle forze comuniste di accedere al potere; non esistono neppure servizi segreti invasivi e operanti dentro la realtà brigatista. In questa insolita visione, aliena da tutta la letteratura “dietrologica” che si è dipanata fin dai primi anni ottanta con esiti sorprendenti e chiarificatori, il caso Moro è il semplice contrapporsi di due realtà rigidamente divise e contrapposte: il sistema politico e i rivoluzionari comunisti, questi ultimi situati al di là dell’arco costituzionale, della vasta area controllata dal Pci e dai sindacati; vi è l’interessante struttura a storie parallele a confermare tale visione, visione che illuminando due realtà entrambe brutali e scostanti, sembra volere illustrare il celebre slogan “né con lo stato né con le Br”.
Infatti numerosi sono i militanti comunisti e sindacalisti, fedeli al marxismo che, pur mostrando poca simpatia per l’operazione brigatista, odiano la politica di Moro e vengono emarginati o espulsi da Pci e da Cgil revisionisti. Sull’altro versante invece l’ispettore Crollo (Gaetano Amato; figura in parte clonata dal già citato commissario di Indagine, 1970), a capo di una piccola banda di torturatori e in accordo con giudici compiacenti, sevizia i malcapitati (un sospettato brigatista ispirato alla figura del tipografo Triaca) per estorcere loro informazioni utili. La presenza di questa ignobile pratica fu più volte denunciata e discussa sia appunto dal detenuto Triaca, sia poi negli anni ottanta (e se si vuole si può giungere fino allo scempio della scuola Diaz di Genova, 2001) anche se una legge speciale del 1978 la ammetteva in casi eccezionali (allorché ci fosse pericolo per le istituzioni del sistema democratico). Va inoltre rilevato che Grimaldi, mentre mostra queste realtà quasi insopportabili per una persona comune (che dunque diviene consapevole del fatto che l’orrore alberga anche nelle istituzioni, un orrore che può investire chiunque, anche un innocente), si guarda bene dal pronunciarsi intorno alle pratiche terroristiche che ammazzavano a tradimento chiunque, senza dargli modo di difendersi né verbalmente, né materialmente. Il dibattito è antico e risale ai fatti della Resistenza (1943-45) quando l’ala socialcomunista difendeva questa pratica, mentre quella conservatrice (Dc, liberali e monarchici) la rifiutava. Questa violenza trasformava i terroristi degli anni settanta in giustizieri, in fondo speculari ai tanti giustizieri della cosiddetta maggioranza silenziosa (quelli esaltati nei poliziotteschi dell’epoca): in tal senso il ricorso alla tortura non è che una terribile conseguenza di una realtà politica fuori controllo nella quale, tra l’altro, non si può far valere l’indiscutibile deterrente della pena di morte (strumento non a caso tuttora presente in numerosi stati degli Usa). Possiamo affermare, come già detto altrove, che come il fascismo, nelle sue differenti accezioni (militari e non, da Mussolini a Pinochet), è un deprecabile e brutale “rimedio” (a difesa dello stato liberale di cui mantiene le fondamentali libertà personali e di iniziativa economica, pur abolendo quelle politiche) suscitato dalla ideologia comunista e che non avrebbe ragion d’essere se non ci fosse una forte e incombente minaccia marxista, allo stesso modo la pratica della tortura (segnalata durante il caso Moro per la prima volta) non avrebbe ragion d’essere senza la diffusa presenza di terroristi che ammazzano gente inerme sulla base di gratuiti giudizi politici, creando un allarme sociale che potrebbe portare a svolte politiche imprevedibili e disastrose.
E’ evidente che questa (inaccettabile) visione politica del caso Moro confligge con la presenza di servizi segreti agguerriti che avevano da tempo infiltrato le Br e che le controllavano da lontano; va detto tuttavia che lo Stato non è un monolite, bensì un arcipelago complesso in cui spesso gli abitanti delle singole isole vivono isolati, senza sapere cosa dicono e fanno i loro vicini; pertanto si può tranquillamente immaginare che le forze (minoritarie) che volevano ritrovare Moro (la sinistra democristiana innanzitutto, ma anche il gruppo di carabinieri di Dalla Chiesa, non a caso incaricato dal ministro degli interni Rognoni, di fede morotea e perfino Mino Pecorelli confidente del generale) abbia potuto accettare simili metodi che, ripetiamo, avevano allora una minima anche se discutibile copertura legale. Completano il complicato e stimolante quadro narrativo del film  le vicende di una professoressa arrestata perché sostiene il solito slogan sopracitato in una assemblea di studenti e la si sospetta di qualche complicità con la lotta armata (i capi d’accusa non vengono chiariti; viene umiliata in differenti modi da Crollo) e la presenza di un’esperta americana (ispirata alla figura del famoso Priebcznick) al ministero degli interni che ordina ai politici (nel film non vengono neppure mostrati, segno del disgusto di Grimaldi per un ceto politico che si ritiene totalmente asservito agli Usa) di attenersi alla linea della fermezza, asserendo che la vita di Moro è senza importanza se confrontata alla esigenza di salvaguardare le istituzioni repubblicane.
Nell’insieme il film costituisce un documento importante poiché mostra una realtà cruda e verosimile (nei suoi dati di cronaca immediata), priva di infingimenti e di indulgenze per chiunque; mostra anche il fatto che i brgatisti seppero indagare sui segreti di stato (si parla del sostegno della Dc ai golpe sudamericani degli anni settanta, dei finanziamenti illegali alla Dc, del sostegno di Moro a faccendieri spericolati, tutti argomenti ben presenti nel Memoriale) “confessati” da un Moro che addirittura si definisce, cinicamente, un mediocre come tutti i suoi colleghi, dediti ai peggiori compromessi. Questi rivoluzionari gelidi, assorbiti da una sinistra esigenza di purezza, risultano in definitiva dei pericolosi fanatici: sebbene abbiano alcune astratte ragioni di ordine semplicemente morale (soprattutto su questioni di corruzione e indebito arricchimento), essi non hanno nessun progetto credibile e praticabile da contrapporre al sistema dei partiti (peraltro essi non citano mai l’orrendo sistema sovietico, di gran lunga peggiore di quello americano) e vivono con il forte e fondato sospetto (lo ripetono spesso) che alle masse tutto ciò non interessi minimamente poiché l’unica preoccupazione del popolo è di essere messo in condizioni di vivere dignitosamente. Il credo dei terroristi è un vangelo inutile al quale essi si sono votati come i credenti fanatici di una qualunque setta religiosa, credo che, dopo averli costretti a gesti criminali, finirà col perderli, obbligandoli a vivere un’esistenza tragica e marginale.

Di Moro si parla molto nella pregevole pellicola che Sorrentino ha dedicato a Giulio Andreotti ovvero Il divo (mag. 2008; 110 min.), opera che ottenne un buon successo commerciale.
Il regista napoletano racconta l’ultima stagione del potere andreottiano nel periodo 1989-93. L’uomo politico più potente d’Italia (interpretato da Toni Servillo) diviene presidente del consiglio per l’ultima volta e gestisce l’ordinaria amministrazione insieme agli uomini della sua corrente: Franco Evangelisti (Flavio Bucci), Paolo Cirino Pomicino, Salvo Lima e Vittorio Sbardella. L’uccisione di Salvo Lima e l’attentato di Capaci (1992) minano per sempre il sogno del politico romano di coronare la propria carriera diventando presidente della repubblica. Al contrario proprio nell’autunno 1992 inizia il suo definitivo crepuscolo: egli viene accusato sia di complicità con la mafia, sia di essere il mandante dell’omicidio Pecorelli (1979). Il racconto termina con l’inizio del processo che sancisce l’inizio di una differente stagione della vita di Andreotti e dell’Italia politica: d’ora in poi dovrà pensare anziché a comandare, a difendersi.
Sorrentino si ispira a Todo modo di cui Il divo è l’unico vero erede sia dal punto di vista stilistico, sia contenutistico. Il racconto è totalmente virato in modalità grottesche e sinistre: su Andreotti, ritratto come un concentrato di cinica malvagità e di gelida indifferenza, vengono riversate tutte le ben note accuse; dalla complicità con gli stragisti di piazza Fontana alla fredda decisione di lasciare morire Moro, dall’appoggio sfrontato alle speculazioni di Sindona fino al rapporto diretto con Riina (il famoso bacio viene messo in scena) e ai conseguenti omicidi su commissione (Ambrosoli, Pecorelli e Dalla Chiesa), numerosi dei quali volti a coprire ricatti, spesso relativi alle misteriose e introvabili carte di Moro.
La pellicola possiede un fascino sinistro: a differenza dello statico, claustrofobico Todo modo, interamente ambientato in un unico luogo, Il divo spazia su differenti piani storici e geografici, mette in scena eventi di grande forza spettacolare insieme alle loro conseguenze nelle stanze del Potere (il parlamento e gli uffici della politica), la qual cosa dona grande incisività al racconto, rafforzato da magnifiche scelte musicali.
Come sempre accade in questi casi il personaggio che si voleva “crocifiggere” risulta alla fine meno antipatico e meno condannabile di quanto creda il regista, avendo avuto l’accortezza di lasciare che quest’ultimo potesse esprimere le sue ragioni, ragioni che sono tutt’altro che incomprensibili. Mentre la corrente dei suoi alleati appare come un circo grottesco e sciocco, assai poco difendibile, la figura di Andreotti che, da solo, sembra dovere risolvere ogni problema della complicata situazione italiana, risulta quasi eroica. Solitario, schivo, privo di interesse per qualunque forma di arricchimento e di mondanità (vive in un ordinario appartamento e disdegna feste e inutili lussi), egli sembra dovere difendersi da tutto e da tutti, al fine di potere “sopravvivere” e, in parallelo, di potere garantire continuità alla repubblica. In particolare proprio le durissime parole del Memoriale di Moro rieccheggiano più volte ad accusare il protagonista di spietata disumanità e lo stesso Andreotti continua a dolersi proprio del delitto Moro come dell’unico rimorso che lo perseguita. D’altro canto però appare evidente, dal punto di vista del politico romano, che ogni gesto criminoso che ha, forse, commesso, lo ha dovuto compiere, costretto dalle circostanze. Nel punto cruciale del racconto dirà infatti:
“Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di Centro come la Democrazia Cristiana l'hanno definita "Strategia della Tensione" – sarebbe più corretto dire "Strategia della Sopravvivenza". Roberto, Michele, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta”.
Anche per ciò che riguarda la mafia Sorrentino finisce quasi per discolparlo (almeno di fronte a un pubblico lucido e insensibile alla inutile questione morale) allorché fa dire a un boss che se la Dc non si sottomette ai voleri della mafia, al sud non la voterà più nessuno e gli resteranno solo i voti del nord “dove sono tutti comunisti”. Con poche frasi il film mette a fuoco la situazione obbligata in cui si trovò il partito di governo, costretto a legarsi alla criminalità del sud la cui visione politica ordinata e patriarcale offriva un importante salvagente a un partito che altrimenti sarebbe stato travolto dal nord socialcomunista. Anche su questo punto Andreotti, più che  soddisfatto del proprio operato, sembra costretto; a tratti sembra perfino un martire e certamente tale si sente.
Sorrentino crea una sorta di brillante bigino in cui tutte le accuse tipiche che si potevano rivolgere ad Andreotti vengono messe in campo (soprattutto da un moraleggiante Scalfari); però il problema non è la morale quando si affrontano le scelte politiche di fondo cui deve sottoporsi un partito di governo (altrimenti non esisterebbero, al mondo, i servizi segreti e le censure in nome della “ragion di stato”). Il problema è certo quello dei notabili corrotti: questi ci sono in tutte le epoche storiche e sotto tutti i cieli; utilizzare la sola questione morale per affossare una classe dirigente che, nel bene e nel male ha garantito quasi mezzo secolo di sostanziale pace e benessere al paese, è stupido (ma è quanto è avvenuto in Italia nel 1992-94); ed è sempre e solo questo l’addebito che le forze socialcomunste, in ogni campo (artistico o politico), hanno messo in campo contro la Dc. Sorrentino, come Petri, si dilunga su questi temi e ridicolizza oltre il lecito quella classe dirigente. Tali accuse sono inconcludenti poiché non solo non chiariscono quale sia l’alternativa reale a questa Dc e al sistema capitalistico-liberale, ma soprattutto dimenticano regolarmene di raccontare che mentre i notabili Dc (come pure Psi, Psdi ecc.) si arricchivano (forse) con ruberie, un identico flusso di denaro illegale giungeva al Pci da Mosca e arrivava in Italia al fine di traghettare, sul lungo periodo, la penisola verso il pessimo sistema politico sovietico, capace di produrre solo miseria (come dimostra inequivocabilmente la gioia sfrenata dei popoli alla caduta dei regimi dell’est e la loro rapida riconversione al sistema liberale). Prigionieri del falso pensiero “progressista” che poneva stoltamente il sistema comunista in un presunto “futuro migliore” rispetto a quello capitalista, centinaia di intellettuali ed artisti hanno continuato a sermoneggiare un falso discorso per decenni, fino al fatidico 1989 quando la storia “ha fatto dietrofront” e in pochi mesi ha annullato decenni di illusioni fasulle (si vedano, al riguardo, i fondamentali scritti di Francois Furet). Non è solo il comunismo a cadere in quel frangente: è soprattutto l’idea evoluzionistica della storia a scomparire nelle rovine dei regimi dell’est; dal 1990, a sinistra, tutti fingeranno di non ricordarsi quel verbo progressista, quella assurda visione storica dei popoli “in cammino” verso il sole dell’avvenire  la sostituiranno con un altrettanto astratto e sbagliato terzomondismo con cui ci stanno ammorbando da alcuni decenni. La storia torna indietro, cancella e restaura il passato; di fronte a questo scenario anche la figura di un implacabile e cinico conservatore come Andreotti assume colori differenti, in quanto difensore di un sistema politico corretto di fronte a tutti coloro che volevano subdolamente trascinarlo verso la deriva delle democrazie popolari, anticamera di un comunismo autoritario e pauperista in cui la gente, privata delle libertà di iniziativa economica (oltre che politica), avrebbe finito per vivere come in una prigione.
Il terrorismo brigatista fu in tal senso uno degli errori più madornali del periodo: giovani intelligenti e capaci, spesso animati da una sicura idea umanitaria furono sedotti da un’ideologia grigia e violenta, furono plagiati e pensarono di unire il brivido di una vita pericolosa all’idea di essere stati investiti dalla Storia di un compito ineluttabile; dentro a questo errore di marca “evoluzionistica” - un errore che, in parte, risaliva fino al positivismo e a Darwin - hanno sprecato gli anni migliori della loro esistenza e a quelle idee alcuni di loro sono rimasti legati poiché è probabilmente troppo doloroso ammettere di essere stati ingannati da un certo Denkstil
e, a volte, di avere ucciso in suo nome.
Andreotti o Moro: come dice Bellocchio (in Buongiorno notte) “ai posteri l’ardua sentenza”.

Il modesto, recente film televisivo Aldo Moro il professore (mag. 2018; 90 min.), firmato da Francesco Miccichè, alterna documentario e fiction (si analizza il rapporto tra Moro professore universitario e alcuni suoi affezionati allievi). E’ rilevante, tuttavia, perché contiene gli interventi di rappresentanti della recente Commissione Moro (2014-18) come Giuseppe Fioroni e Gero Grassi e perché, per la prima volta in un film prodotto dalla Rai, si rifiuta la versione brigatista di via Montalcini, si parla delle “altre” e assai più probabili prigioni dello statista ovvero via Massimi 51 e Fregene e soprattutto si mette in scena Moro prigioniero in un normale appartamento (con le finestre sbarrate) in cui può muoversi liberamente. Anche il vero, piccolo garage di via Montalcini (sempre rappresentato in maniera accomodante e fallace nelle altre pellicole) viene mostrato nella sua dimessa realtà, rafforzando così la convinzione che le versioni dei brigatisti relativamente al momento della esecuzione, siano solo accomodanti fantasie.

testo scritto nel giu.2019