Topaz, Il giorno dello sciacallo e Il serpente

Topaz, Lo sciacallo e Il serpente: l’invenzione artistica nella trama delle difficili relazioni politiche tra Francia e Stati Uniti nel periodo 1966-73

                     “Se nel mondo accadono certe cose,
                         bisogna ricercarne i motivi e gli scopi”
                A. Christie, Passeggero per Francoforte (1970)

Nel 1967 esce negli USA il romanzo Topaz di Leon Uris. Ispirandosi a fatti veri, l’autore racconta la defezione di un alto dirigente del KGB il quale rivela alla Cia l’esistenza di una potente organizzazione spionistica sovietica soprannominata Topaz all’interno delle alte sfere francesi. Questo gruppo di traditori, ampiamente sovvenzionato da Mosca, opera per condizionare de Gaulle (nel romanzo La Croix) ad allontanarsi dagli USA e a entrare nell’orbita sovietica.
Gli avvenimenti sono datati 1961-63 e hanno come cornice la crisi dei missili a Cuba; tuttavia questa cornice è irrilevante: il vero bersaglio del romanzo è la Francia, de Gaulle e la sua politica di autonomia dalla Nato.
E’ cosa nota che il generale opera in direzione ferocemente antistatunitense e antiinglese nel periodo 1962-69 ed è noto che egli mira a una nuova Europa, libera dagli anglosassoni, che si estenda dall’Atlantico agli Urali. Il presidente infatti lavora alla ricostruzione dell’asse francotedesco, elemento fondamentale di questo ambizioso disegno (giunto in eredità fino ai giorni nostri). Nel periodo in questione inoltre tira calci negli stinchi agli USA in ogni modo: viaggiando in Messico, Sudamerica e nel Canada francese, incitando questi stati a prendere le distanze dal naturale predominio di Washington; recandosi al di là della cortina comunista, ovunque accolto in modo solenne dai marxisti che si tenevano caro questo strano “simpatizzante” occidentale.
Topaz (
vedi foto) esce nel 1967 ovvero l’anno dopo il micidiale e più clamoroso strappo di de Gaulle: l’uscita dalla Nato e il conseguente abbandono forzato delle forze armate anglosassoni dal territorio francese.
Uris descrive con evidente astio una Francia arrogante e fatua, ingenerosa nei confronti di chi l’aveva salvata dal nazismo due decenni prima; una Francia, tra l’altro, dominata da “La Croix” in modo totalitario: la polizia segreta francese viene descritta in modo simile a quella cubana - entrambe guidate da odiosi macellai - fino al punto di mettere in scena il sequestro e l’omicidio di un giornalista francese la cui colpa è di criticare apertamente, su quotidiani di rilevanza nazionale, la politica antiUSA di de Gaulle.
Raramente si è avuto modo di leggere un romanzo americano tanto ostile alla Francia, fino al punto da descriverla come un luogo illiberale e cupo, non dissimile dall’impero sovietico.
Topaz è un testo imbarazzante, dotato peraltro di una scrittura dura (non vengono risparmiati i dettagli realistici delle torture inflitte alle spie catturate dai cubani), efficace e coinvolgente, un testo che è parte integrante della guerra mediatica scoppiata negli anni sessanta tra l’amministrazione Kennedy - Johnson e il presidente de Gaulle.

Alfred Hitchcock, dopo Il sipario strappato (1966), un film assai critico nei confronti dei regimi comunisti, completa un proprio dittico politico mettendo in immagini Topaz (1969; vedi foto). Dapprima commissiona la sceneggiatura allo stesso Uris, ma poi - per motivi ignoti - la rifiuta e ne commissiona una nuova a Samuel Taylor (già sceneggiatore di Vertigo).
La prima perplessità che sorge è: come può un autore di fama internazionale, filmare un testo così profondamente antifrancese. Probabilmente il copione di Uris viene rifiutato perché eccessivamente virulento nei confronti di Parigi. Il nuovo testo - sulla base del quale viene filmato Topaz - abolisce completamente tutta la polemica contro De Gaulle. Il personaggio di La Croix ovviamente non esiste nel film; il giornalista filo americano (tra l’altro genero del protagonista francese André Devereaux) non viene mai disturbato da nessuno, né tanto meno ucciso; non esiste neppure una temibile polizia segreta francese.
Anche gli altri toni estremisti inerenti alla guerra fredda vengono largamente ridimensionati: i cubani sono gente pericolosa e un po’ fanatica, ma in fondo Rico Parra (il dirigente vicino a Castro, protagonista della spy story) è uomo relativamente garbato. Tra l’altro mentre in Uris, Rico Parra è una sorta di Scarpia bavoso, che attende da anni di potere infilarsi nel letto della fascinosa Juanita de Cordoba, la quale si sacrificherà solo per salvare la vita all’amato Devereaux, in Hitchcock Parra è fin dall’inizio l’amante accettato della donna. Quest’ultima, personaggio in vista della rivoluzione, è in realtà un agente dello spionaggio francese e finirà uccisa dai servizi segreti di Castro. Ma se nel romanzo il tutto avviene tra scene di bassa macelleria (che coinvolgono lo stesso Parra, torturato ed eliminato dal suo aiutante Munoz), nel film è invece Parra a uccidere in modo “poetico” la donna nella famosa inquadratura dall’alto durante la quale l’allargarsi del sontuoso vestito viola della donna allude alla chiazza di sangue che si sparge al suolo mentre Juanita, uccisa, crolla a terra.
La Universal dunque non vuole creare un caso politico e non se la sente di attaccare direttamente de Gaulle. Il film evita i riferimenti internazionali, si limita a parlare in modo quanto mai generico della crisi dei missili a Cuba e anzi cerca goffamente di inserirsi nel solco della imperante moda James Bond: il protagonista André Deveraux (un legnoso Frederick Stafford; tra l’altro si sceglie un attore austriaco per interpretare un francese...) imita Sean Connery (cui vagamente somiglia) mentre il tentativo di inserire alcuni rudimentali marchingegni spionistici (speciali macchine fotografiche ecc.) appare alquanto penoso.
Hitchcock appare incapace di aderire ai nuovi canoni del realismo cinematografico di fine anni sessanta e racconta spie da fumetto che recitano in studi hollywoodiani. Tutta la parte cubana è risibile da questo punto di vista (ci sono perfino macchine fotografiche nascoste dentro panini al prosciutto... ) così come la lunga sequenza newyorchese del furto dei documenti a Parra è totalmente inverosimile (strano per un autore che aveva sempre difeso l’attenzione alla credibilità delle situazioni che metteva in scena) trattandosi di un’operazione evidentemente troppo azzardata che finisce nel sangue laddove nel romanzo viene raccontata secondo modalità certo meno “spettacolari” ma anche più credibili e ingegnose che infatti non approdano ad alcuna sparatoria: il segretario corrotto non sottrae la valigetta a Parra, bensì fotografa i documenti mentre è intento a lavorare su essi per ordine dello stesso Parra, non prima di essere riuscito a liberarsi di un altro cubano che aveva l’ordine di sorvegliarlo.
Il romanzo è dunque meglio costruito, è più avvincente e possiede ambizioni di ampio respiro cha vanno dalla questione di Suez (1956) fino alla rivoluzione castrista, alle esitazioni di Kennedy (l’episodio della baia dei porci) fino al grande affesco della politica di piccola, arrogante (secondo Uris) neopotenza nucleare condotta da De Gaulle. Il film, che peraltro segue passo a passo gli eventi principali del testo letterario, taglia ogni respiro di riflessione internazionale (per quanto manichea e allineata con la destra più intransigente americana, quella del texano Lyndon Johnson insomma), offre magnifiche sequenze se valutate come pezzi di cinema astratto (l’intera sequenza newyorchese; numerosi passaggi nella residenza cubana di Juanita; le sottili schermaglie finali a Parigi, con due grandi “traditori” quali Michel Piccoli e Philip Noiret) all’interno di un film datato nello stile e inverosimile in quasi tutti i suoi passaggi narrativi.
Il colmo si raggiunge con la questione dei tre finali, uno peggiore dell’altro: un duello all’antica tra Devereaux e la spia Granville (Piccoli) per motivi sentimentali oppure le due spie che ripartono una per New York, l’altra per Mosca sorridendosi a distanza e infine quello più frettoloso (inserito nelle copie ufficiali dopo che gli altri due avevano suscitato giudizi negativissimi durante le anteprime), ma in fondo più accettabile, in cui Granville si suicida. Il finale del romanzo è invece più aperto e soprattutto più antifrancese: i tentativi di smascherare Topaz cadono nel vuoto a causa dell’ottusità di de Gaulle e Deveraux, la spia francese che ammira gli USA, si dimette, accettando il proprio fallimento.
Hitchcock dunque rivela la propria natura di grande artigiano del cinema e di scarso conoscitore delle cose politiche e spionistiche che pretende di raccontare. Topaz è tra i suoi film meno riusciti, proprio perché esce dall’ambiente racchiuso e semplice del giallo per illustrare vicende che trascendono il privato e si inseriscono nel corso della Storia.

La guerra mediatica tra USA e Francia aveva conosciuto nel 1965-68 un caso altrettanto clamoroso: il film La battaglia di Algeri (una coproduzione italoalgerina) realizzato da Gillo Pontecorvo e Franco Salinas nel 1965-66, sollevando le proteste ufficiali del governo francese fin dal nascere dell’operazione.
Il potere politico francese, che aveva praticamente proibito ai suoi cineasti di occuparsi dell’argomento (in effetti mancano del tutto interventi sull’argomento da parte della cosiddetta nouvelle vague i cui autori appaiono invece tanto zelanti nel preoccuparsi del dramma vietnamita), ora deve fronteggiare questa provocazione d’oltralpe in cui la politica coloniale di Parigi viene rievocata in grande stile da autori italiani. L’evento, già di per sé molto irritante (circola la tagliente battuta francese che invita i cineasti italiani a occuparsi della “loro mafia”), diviene intollerabile quando pellicola viene presentata, con grande solennità e pieno successo, al festival di Venezia del 1966 dove la giuria internazionale, presieduta dallo scrittore Giorgio Bassani, le assegna addirittura il massimo riconoscimento, preferendola al capolavoro Au hazard Balthazar del francese Bresson. Al colmo dell’irritazione l’intera compagine francese a Venezia abbandona il lido e non partecipa alle premiazioni, mentre la critica francese giudica negativamente il film di Pontecorvo e la censura lo vieta in Francia fino al 1971, anno politico appartenente ormai a un’era differente, successiva alla morte di de Gaulle.
Al contrario la critica e il pubblico americani sono “entusiasti” e il film (“strano ma vero”, trattandosi di un’opera dal sapore docimentaristico e quasi neorealistico) ottiene una buona distribuzione negli USA, numerosi riconoscimenti e premi minori nonché viene candidato all’oscar per il film straniero nel 1967 e poi addirittura nuovamente all’oscar in due categorie principali (migliore regia e migliore sceneggiatura) nel 1969.
La battaglia di Algeri è dunque un ulteriore, valido strumento per rispondere agli infiniti “sgarbi” della politica di de Gaulle.

In questa piccola storia dei rapporti francoamericani, visti attraverso alcuni eclatanti episodi dell’universo culturale, va notato il clamoroso cambio di rotta successivo al ritiro di De Gaulle e più ancora alla morte del generale (novembre 1970). Goerge Pompidou, braccio destro di De Gaulle negli anni sessanta e suo successore dalla metà del 1970, appare diversamente intenzionato. Amico da sempre dei circoli artistici del paese (note le sue predilezioni per Alain Delon e Pierre Boulez) egli apre un’era di distensione con l’amministrazione Nixon - Kissinger, la quale aveva già dato segnali di apertura nel 1969 a de Gaulle.
Va però aggiunto che ampi settori del gollismo considerano negli anni sessanta Pompidou un ”passeggero clandestino” (l’O.A.S. addirittura lo aveva liquidato come servo del capitale israelita, essendo stato nel periodo 1956-58 direttore della banca Rothschild) e che lo stesso de Gaulle sembra voler silurare il suo delfino allorché permette l’esplosione dello scandalo Markovic negli ultimi mesi del 1968. Come noto si tratta dell’assassinio della guardia del corpo di Alain Delon, assassinio che finisce col coinvolgere - a torto o a ragione - i coniugi Pompidou: si vocifera che la coppia abbia partecipato a orge sessuali nell’ambito dell’entourage del celebre attore; si parla di foto scabrose (che ritrarrebbero Claude Pompidou, la giovane moglie del futuro, anziano presidente) che circolano nelle redazioni dei giornali ma che non vengono pubblicate anche perché si sospetta si tratti di fotomontaggi. In ogni caso i rapporti tra de Gaulle e Pompidou si guastano definitivamente nel 1969 e quando, nel giugno 1969, Pompidou viene eletto, non lo si può più considerare un candidato del presidente.
D’altronde la politica successiva di Pompidou appare assai più morbida verso gli anglosassoni: in particolare la Gran Bretagna, per lungo tempo tenuta fuori dal mercato europeo per il veto di de Gaulle, vi entra a far parte proprio nel 1971-72.

In ambito cinematografico il caso più evidente del nuovo clima politico internazionale è costituito dalla collaborazione tra la Universal (ancora quella di Topaz) e l’amministrazione francese durante la realizzazione del film The Day of the Jackal (Zinnemann, 1973; t. it. Il giorno dello sciacallo). Questo magnifica spy story - uno dei migliori film del grande regista ebreo-austriaco (emigrato  Hollywood negli anni trenta), derivata dall’omonimo romanzo (1971) dello scrittore inglese Frederick Forsyth - è in fondo un grande omaggio “postumo” a de Gaulle e soprattutto all’intera macchina statale francese, descritta in modo estremamente elogiativo nel corso dell’intero racconto.
Vi si narra l’immaginario tentativo di un killer (probabilmente) inglese di uccidere il presidente de Gaulle, su mandato dell’O.A.S., durante una manifestazione pubblica dell’estate 1963. L’accanimento e la bravura degli investigatori francesi e, in generale delle istituzioni della repubblica, compatte intorno al proprio capo, permettono di sventare, per un soffio (e con molta fortuna), il perfetto congegno posto in essere dall’abile sicario.
Mentre durante le riprese di Topaz (nel 1968) l’amministrazione francese aveva quasi proibito alla troupe di Hitchcock di lavorare a Parigi (la qual cosa è ben visibile nei pochissimi esterni presenti nel film), al contrario per Zinnemann e per il suo gradito progetto il governo Pompidou offre una collaborazione ampia, fino al punto di generare le proteste del mondo cinematografico parigino. La troupe americana può girare al Ministero degli interni, all’Eliseo, vengono forniti materiali d’archivio (per la cerimonia finale) e addirittura il quartiere Montparnasse viene chiuso per tre giorni (a Ferragosto 1972) per permettere di filmare le fondamentali sequenze conclusive.
Lo “sciacallo” è un segno esemplare dei nuovi rapporti esistenti tra Washington e Parigi.
In ambito filmico - sebbene non sia questa la sede per esaminare il film di Zinnemann - va ricordato che si tratta di un’opera assolutamente antitetica a Topaz: quanto quest’ultimo appariva ancora prigioniero dell’estetica polverosa degli studios e dipendente da una visione fumettistica dello spionaggio, tanto Day of the Jackal è un film di un realismo documentario minuzioso e quasi didattico, che affascina lo spettatore per oltre 140 minuti. Ogni dettaglio dell’attentato viene minuziosamente illustrato e immerso in un sorprendente “bagno di realtà”, senza dimenticare proprio le regole base del suspense (quel po’ di informazioni in più che lo spettatore sempre possiede rispetto ai personaggi del racconto), in larga parte rese universali dai capolavori hitchcockiani degli anni quaranta e cinquanta.  

Nel 1973 i francesi infine “rispondono” all’affronto Topaz con un film che ne rovescia completamente l’assunto. Ne Il serpente di Henri Verneuil - tratto dal romanzo Le 13e suicidé (1971) di Pierre Nord - ancora una spia russa (Y. Brinner) tradisce, si consegna agli americani e rivela i nome dei principali doppiogiochisti europei interni alla Nato. Ne seguono una serie di veri o presunti suicidi che approdano però a una terribile scoperta: si è trattato di una perfida montatura in quanto la spia russa non è tale e il piano è stato ideato dal “serpente” inglese Dirk Bogarde (in una delle sue migliori interpretazioni), dirigente di alto rango del MI5, al fine di far uccidere una serie di fedeli collaboratori dell’Occidente. Tra questi ritroviamo proprio il Philip Noiret di Topaz, da spia sovietica a martire della causa Atlantica. Insomma Le serpent è l’antiTopaz: i traditori ora si annidano tra le fila dell’odiata Gran Bretagna, da sempre considerata in Francia come l’ancella europea degli USA (soprannominata perfino “cavallo di Troia”), e i solerti funzionari francesi sono le vittime di un colossale raggiro che tende a screditarli.
La pellicola ben confezionata dello specialista Verneuil (al suo attivo il buon giallo Il clan dei siciliani, 1969) rovescia alcune scelte del film hitchcockiano: anziché volti tutti anonimi, un’incredibile parata di stelle internazionali, da Henri Fonda a Dirk Bogarde, da Virna Lisi a Yul Brynner, da Farley Granger a Michel Bouquet. Lo stile è serrato e ricco di colpi di scena (molti però prevedibili) e alterna sequenze spettacolari a lunghi dialoghi, sostenuti però dall’evidente bravura degli interpreti. Il film di Verneuil, oggi totalmente dimenticato, fu un notevole successo commerciale negli anni settanta.

Per concludere qualche indicazione intorno a un altro possibile, colossale raggiro: il maggio ‘68. Nel pieno dello scontro tra Usa e Francia, questa artificiosa sollevazione studentesca che sovverte l’ordine a Parigi e porta alle soglie di un possibile golpe militare, appare fortemente sospetta. Perfino il PCF, seguendo il comando di Mosca che aveva un occhio di riguardo per l’ “alleato” de Gaulle, prende le distanze dai moti stuedenteschi e vi partecipa più per irregimentarli che per spingerli verso ignoti lidi. Portare la Francia al caos totale, causando le dimissioni dell’odiato generale e la sua probabile sostituzione con l’ “amico” Pompidou, era soprattutto interesse degli americani. Si può dunque ipotizzare un pieno appoggio (nei modi classici dei servizi segreti) statunitense ai futili movimenti studenteschi che chiedono innanzitutto la cacciata di de Gaulle. Il generale, con geniale mossa a sorpresa, convoca le elezioni straordinarie del 23 giugno 1968 e distrugge quell’inesistente movimento (i gollisti ebbero circa i due terzi dei voti, sbaragliando tutte le sinistre, moderate, rivoluzionarie e sovietiche) che infatti scompare come neve al sole (ne rimangono tracce solo nelle bibliografie sul periodo, in dibattiti accademici e in tediosi documentari).
Nal 1970 la grande scrittrice Agatha Christie firma il suo romanzo più bizzarro: Passenger to Frankfurt. Non si tratta di un giallo e neppure di una vera spy story (cui a tratti vorrebbe assomigliare); è invece un’acuta riflessione sul ‘68, sulle confuse contestazioni giovanili francesi e italiane, sui poteri occulti che le guidano. Vi compaiono anche brevemente de Gaulle (ovvero il Maresciallo) e il suo rivale Pompidou (Grosjean). L’arguta ottantenne, creatrice di Hercule Poirot, vi dipana riflessioni inoppugnabili sulla stoltezza giovanile e sulla saviezza senile, pone sull’avviso i lettori riguardo al carattere artificioso di tutti i grandi movimenti di massa, compara più volte le adunate naziste a quelle studentesche, dice con chiarezza che anche la dirigenza nazista era composta da attori eteroguidati da oscuri finanzieri e potenti industriali. Insomma come il nazismo, grande sciagura europea, fu un movimento falso che ingannò le masse, così il ‘68 è una nuova apparizione dei medesimi fantasmi: cerchie potenti che, da dietro il “palcoscenico”, manovrano masse credulone. Parlando di questi caotici fenomeni di massa la scrittrice fa dire al suo protagonista quanto segue: “Non c’è niente di vero, in tutta questa storia. E’ solo un gigantesco spettacolo. Uno spettacolo inscenato da un abile regista... forse da un gruppo di registi” mentre il leader di turno che soggioga le folle viene definito “un attore di prima classe, superbamente addestrato, ma pur sempre un attore”.
La Christie non si spinge troppo oltre nella “soluzione” di questo enigma politico (il romanzo, incredibile ma vero, non ha uno scioglimento, non offre alcuna spiegazione conclusiva e risulta pertanto un caso unico nella sterminata bibliografia della scrittrice), anche se più volte allude a emissari e finanziatori (oltre a “cattivi maestri” come Marcuse, esplicitamente citato) che si trovano soprattutto negli USA o meglio in California e in Baviera (riferimento obbligatorio quando si parla di nazismo).
La scrittrice insomma non crede nel ‘68 come movimento giovanile spontaneo e si interroga su chi stia devastando l’ordine europeo e per quali finalità.