Il vero e il falso, Milano calibro 9 e Torino nera

5 bambole per la luna d’agosto, Il rosso segno della follia, L’interrogatorio, Lo strangolatore di Vienna, Il piccolo testimone dell’Orient Express, Concerto per pistola solista, Un uomo da rispettare, Il tuo dolce corpo da uccidere, Le foto proibite di una signora perbene, Il delitto del diavolo o Le regine, L’uomo dagli occhi di ghiaccio, La vittima designata, Un posto ideale per uccidere, Gli occhi freddi della paura, La lunga spiaggia fredda, Un’anguilla da 300 milioni, La controfigura, Un omicidio perfetto a termini di legge, Colpo grosso grossissimo... anzi probabile, La verità secondo Satana, Il sorriso del ragno, L’occhio del ragno, Io non vedo tu non parli lui non sente, Alla ricerca del piacere, Il sorriso della jena, Un uomo dalla pelle dura, Il diavolo a sette facce, L’occhio nel labirinto, Milano calibro 9, La mala ordina, Blood Story, Il diavolo nel cervello, Il vero e il falso, Terza ipotesi su un caso di perfetta strategia criminale, La rossa dalla pelle che scotta, I familiari delle vittime non saranno avvertiti, L’assassino è al telefono, Casa d’appuntamento, La mano lunga del padrino, Camorra, La morte scende leggera, Torino nera, Amore e morte nel giardino degli dei, Al tropico del cancro, L’ora l’arma il movente, Afyon oppio: le differenti vie del thriller non argentiano (1970-72)

                                                                             “Delinquenti si nasce”
                                                                                                         il commissario di Milano calibro 9 (1972)

Il sopravvalutato Mario Bava gira con 5 bambole per la luna d’agosto (feb.1970; 85 min.) una variazione sul tema dei 10 piccoli indiani (Christie, 1939), variazione segnata da venature erotiche e da un tono indeciso tra dramma e commedia pop (nel solco del recente e assai migliore Diabolik, 1968), thriller e satira, approdando ad una pellicola singolarmente noiosa. Lo stesso autore detestava questo lavoro e qualche buona sequenza (che non manca mai ne lavori del regista di Sanremo) non salva l’insieme.
Su un’isola deserta ed isolata cinque coppie (tra di loro Ira Furstenberg, Edwige Fenech e William Berger) si fanno la pelle: al centro del contendere la formula chimica di un nuovo tipo di resina industriale. Con cadenza regolare l’assassino (ma si scoprirà che si tratta di una coppia stranamente assortita) elimina gli ospiti; nel “duello finale” anche i due colpevoli si eliminano a vicenda. Si salva una ragazza (Edy Galleani), estranea alla decina.
Fumetto coloratissimo, popolato da figure senza psicologia definita e da dialoghi di rara banalità, 5 bambole non può né coinvolgere, né affascinare lo spettatore che assiste - disinteressato quasi quanto le figure sullo schermo - alla progressiva ecatombe. Anche i motivetti pop di Piero Umiliani non riescono a supplire al disastro.
Pochi mesi dopo esce Il rosso segno della follia (giu 1970; 85 min.), thriller più convenzionale in cui Bava miscela, senza particolare fantasia, Psycho (Hitchcock, 1960) ed Estasi di un delitto (Bunuel, 1955).
In una Parigi invisibile (la pellicola è tutta girata in interni), John (Steve Forsyth) è il padrone indolente di un atelier di moda. La sua unica passione è ammazzare (a colpi di mannaia) fanciulle che stanno per sposarsi, possibilmente vestite con l’abito nuziale. Un trauma infantile lo perseguita (scopriremo che, da bambino, ha ammazzato la madre in camera da letto) ed il suo forzato distacco da qualunque donna nasconde una probabile impotenza sessuale. Anche la moglie (Laura Betti) attende invano di poter consumare il matrimonio. Le vittime si succedono rapidamente poiché John le sceglie tra le sue modelle (Femi Benussi); inoltre, esasperato dalla bisbetica moglie, la fa a pezzi e le brucia in un forno crematorio (come l’impotente “sognatore” di Estasi di un delitto). L’ultima vittima designata (Dagmar Lassander) è invece la sorella di una sua precedente vittima (come in Psycho) la quale si è fatta assumere proprio per indagare su di lui: riuscirà a tendergli una trappola ed a farlo arrestare.
Nella seconda parte del racconto, Bava, non sapendo come riempire il tedioso film composto da interminabili tempi morti (c’è, di fatto, un solo personaggio in scena, dall’inizio alla fine; mancano esterni, personaggi secondari, indagini poliziesche serie e vicende collaterali), innesta sul thriller una situazione da film gotico: la moglie, uccisa, torna sotto forma di spettro e perseguita, in vari modi, il suo assassino.
La pellicola, pur potendo annoverare numerosi passaggi visivamente interessanti, è un totale fallimento: gli attori sono come inebetiti, i dialoghi inesistenti, l’ambientazione (tutta all’interno dell’atelier) è prevedibile (ripete quella del certo migliore 5 donne per l’assassino, Bava, 1964) e gli omicidi sono tutti identici, meccanici e privi di qualunque suspense. La colonna sonora si avvale, come sempre in Bava, di motivi tardoromantici che invecchiano il racconto e creano un impasto di immagini gotiche e sonorità dense, oltremodo pesante.

Vittorio De Sisti, giunto al proprio terzo lungometraggio, opta per un giallo con venature politiche piuttosto insolite e coraggiose. Ne L’interrogatorio (lug. 1970; 90 min.) racconta la sfortunata venuta a Roma di un candido provinciale (Benjamin Lev), anche un po’ scemo per la verità, il quale gira a zonzo per la metropoli in cerca di un qualunque lavoro. Affascinato da un paio di belle ragazze che hanno in programma di denudarsi su un terrazzo condominiale per prendere il sole, sale sul tetto della casa di fronte per godersi lo spettacolo e, nel farlo, entra proprio nell’abitazione di una donna (Brigitte Skay) che è appena stata uccisa. Arrestato, il giovane viene lungamente interrogato da un piccolo esercito di poliziotti, tra cui il capo della squadra omicidi, che è fermamente determinato nel volerlo incastrare. Si vuole archiviare il delitto come opera di un vagabondo inaffidabile, esemplare negativo di una gioventù in preda ad un ribellismo senza senso. Numerosi dialoghi sono fin troppo espliciti (perfino goffi e didascalici) al riguardo. Nel finale il poveretto, come impazzito dopo due giornate di interrogatorio privo di soste, si immedesima nel ruolo dell’assassino e, riportato sul luogo del delitto, si getta dalla finestra.
La pellicola è abilmente giocata su una narrazione parallela - si inizia dalla fine e si ripercorre gradualmente, in flashback, tutta le misteriosa serie di eventi - che tiene lo spettatore sulla corda, fino all’inattesa conclusione. De Sisti guarda da un lato al recente Indagine su un cittadino... (Petri, 1970) di cui riprende il clima kafkiano e il delitto di una bella donna di facili costumi; dall’altro mette in scena una sorta di interpretazione personale del caso Pinelli, il ferroviere anarchico che, a Milano, cadde dalla finestra nel dicembre 1969, dopo tre giorni di pesante interrogatorio inerente la strage di piazza Fontana. La pellicola è, dunque, un forte atto d’accusa contro forze dell’ordine asservite ad un disegno politico reazionario, volto a ristabilire l’ordine in una realtà che, si teme, vada fuori controllo. La ricerca della verità è l’ultima preoccupazione di questo ottuso staff di poliziotti: hanno messo le mani su un giovane ribelle, anche se non politicizzato e un po’ troppo ingenuo, e vogliono strumentalizzarlo. Peraltro gli indizi a suo carico sono abbastanza pesanti anche se manca qualunque movente sensato. Nella soluzione De Sisti, però, non si allinea con la sinistra militante che accusò sempre Calabresi e collaboratori di omicidio bensì si colloca in una posizione centrista e riprende la tesi del malore o incidente, rimodulato in una sorta di accesso di follia, dovuto però al trattamento disumano cui è stato sottoposto il protagonista.
L’interrogatorio è un’opera ben condotta, originale, audace per i contenuti in cui, secondo uno schema assai diffuso in quegli anni, il meccanismo del poliziesco si coniuga con riflessioni tipiche del cinema politico di denuncia. Non a caso anche il film successivo di De Sisti - Spogliati, protesta e uccidi - ambientato tra i giovani contestatori di San Francisco, conferma questa momentanea svolta politica nel produzione di un autore che opterà poi (a partire da Fiorina la vacca, 1972; vedi) per il cinema erotico.
Il film fu un fiasco commerciale.

Guido Zurli firma con Lo strangolatore di Vienna (ott. 1970; 85 min.) una bizzarra commedia nera, ispirata nello stile al celebre M (Lang, 1931), nonché attenta ad alcuni recenti successi hollywoodiani quali Lo strangolatore di Boston (Fleischer, 1968) e Non si maltrattano così le signore (Smight, 1969).
Un macellaio pazzo (Victor Buono), dopo tre anni di manicomio, torna alla sua bottega dove ammazza dapprima la seccante moglie (Karin Field) e poi una bella prostituta. Di entrambe fa salsicce che vende con successo per le vie di Vienna. Il cerchio, però, si stringe e l’uomo è costretto ad ammazzare il cognato, nonché a imprigionare una vicina di casa (Franca Polesello). La polizia arriverà in tempo per salvarla mentre il protagonista finirà dissolto nell’acido solforico.
Ambientato negli anni trenta, la pellicola, girata con mezzi assai scarsi, si limita a mostrare i principali monumenti della capitale viennese (il Parlamento, il Rathaus, il monumento a Johan Strauss... ) mentre ambienta gli eventi in polverosi interni teatrali. Lo stile (tra dialoghi insulsi ed attori impacciati) è realmente antiquato; ciononostante la bravura di Victor Buono e la beffarda colonna sonora di Alessandroni riescono a catturare l’attenzione ed a rendere abbastanza piacevole l’insolito film.
Vi si ritrova la sottile misoginia che attraversa numerose pellicole poliziesche del periodo, il cui culmine è, ovviamente, costituito dal filone argentiano degli animali. L’idea di liberarsi in modo spiccio di figure femminili conformiste ed asfissianti e, addirittura, di farne polpette, costituisce l’ennesimo esempio di quella fantasiosa rivalsa maschile nei confronti di un pianeta femminile in rivolta, sempre meno sottomesso e sempre più ansioso di collocarsi su un piano di parità.
Disastroso appare invece il film girato da Zurli a Istanbul due anni dopo. Il piccolo testimone dell’Orient Express (apr. 1972; 85 min) racconta l’inverosimile storia di un ragazzino burlone (Yumurcak nell’originale turco) che assiste a un delitto e non viene creduto; in compenso la coppia di assassini cerca di ammazzarlo in ogni modo. Solo dopo che un paio di tentativi, assai maldestri, sono falliti, la madre e la polizia si accorgono della verità.
Recitato male da attori dilettanti e scritto ancora peggio, approssimativo ed inverosimile in ogni suo dettaglio, questo film “turco” sembrerebbe destinato a quel pubblico giovanile che affollava gli oratori nelle proiezioni domenicali di quegli anni se non fosse per alcune sequenze più audaci che ne causarono i divieto ai minori di quattordici anni. Al suo attivo rimangono solo alcune belle immagini dei panorami di Istanbul. Perfino il titolo italiano è insensato poiché non si scorge alcun Orient Express durante il racconto; il più veritiero titolo turco è Yumurcak kucuk sahit ovvero Yumurcak piccolo testimone.

Il modello di Agatha Christie (già presente nelle 5 bambole di Bava) è invece alla base di Concerto per pistola solista (ott 1970; 100 min.) di Michele Lupo (la sceneggiatura è di Sergio Donati ed altri) con esiti piacevoli, anche se certamente non memorabili.
Siamo in presenza della consueta elegante ed isolata dimora di campagna nella quale un gruppo di infidi parenti si contendono l’eredità dell’anziano capofamiglia defunto. La meno sospettabile (Anna Moffo), in quanto unica erede testamentaria a danno di tutti gli altri, assiste ad una serie di omicidi intorno a lei che la sfiorano senza mai colpirla. Non ci vuole molto a comprendere che è proprio lei l’artefice dei delitti secondo una modalità estremamente complessa (un fucile che, inserito in un speciale congegno, spara da una torre ad un’ora prefissata), degna dei romanzi della grande scrittrice inglese. Se gli attori sono tutti all’altezza del compito (ci sono anche Evelyn Stewart, Giacomo Rossi Stuart e Marisa Fabbri), l’elemento realmente divertente è costituito dal poliziotto di campagna (un ottimo Gastone Moschin, doppiato) che, fingendosi fesso, riesce a dipanare la contorta matassa davanti ad un imbranato ispettore (Lance Percival) della centralissima Scotland Yard.
Il gioco è condotto con mano ferma e buon ritmo da un Michele Lupo che sa abilmente miscelare dramma e commedia, delitti e risate in un girotondo che non si prende troppo sul serio. Intendimenti umoristici erano forse anche presenti nella sciagurata colonna sonora di Francesco de Masi che varia in maniera goffa il celebre Concerto n.1 per pianoforte di Ciaikovskij, le cui sonorità, in ogni caso maestose, poco si addicono al contesto narrativo.
Meno riuscito è il dramma criminale Un uomo da rispettare (set. 1972; 110 min.) girato ad Amburgo, con una star hollywoodiana quale Kirk Douglas.
Vi si racconta, con dovizia di tediosi particolari, la lunga preparazione di un colpo, anzi un doppio colpo: quello importante ad una compagnia di assicurazioni e quello di copertura a un banco di pegni. Il protagonista Steve si occupa del primo mentre l’amico Marco (Giuliano Gemma), un ex acrobata alle prime armi come scassinatore, pensa al secondo la cui unica funzione è fornire un alibi a Steve. La variabile inattesa è costituita dalla parte sentimentale del racconto: Marco si innamora della moglie di Steve, Anna (Florinda Bolkan) e cerca di incastrare l’amico per poter fuggire con la donna. Il piano fallisce, Steve ammazza l’ex amico e viene arrestato.
La pellicola si avvale dell’apporto positivo di Kirk Douglas e di una buona ambientazione autunnale in una Amburgo fredda e distante (si vede soprattutto la zona portuale), accentuata dalla cupa colonna sonora di Morricone. Tutto il resto però fa acqua: l’intera parte sentimentale tra Steve e Anna è banale e rallenta il ritmo del poliziesco, l’inserimento di scazzottate varie (tra Marco e un suo antagonista malavitoso) e di un lungo inseguimento d’auto (evidentemente “copiato” da quello, assai più brillante, de Gli scassinatori, Verneuil, 1971) appare un mero espediente per riempire una sceneggiatura povera (i personaggi in scena sono sempre e solo i tre sopracitati) e lacunosa; inoltre questi episodi, centrati su Gemma, posseggono un tono goliardico che confligge con lo stile generale del racconto. Infine anche la maniera ieratica con cui Lupo descrive tutto ciò che gira attorno a Steve (i preparativi del colpo, la sua esecuzione... ) appare evidentemente ispirato al recente capolavoro di Melville I senza nome (1970), senza peraltro riuscire a replicare con successo le suggestive atmosfere del film francese che si avvaleva di attori assai più convinti e convincenti (Alain Delon, Gian Maria Volontè e Yves Montand).
Un uomo da rispettare costituisce il tentativo fallito, anche se per più aspetti degno di nota, di inventare un noir italiano.

Alfonso Brescia firma con Il tuo dolce corpo da uccidere (ago 1970; 100 min.) un’onesta imitazione dei fortunati gialli lenziani.
Ambientato in una anonima Madrid, il film narra le peripezie di Clive (Giorgio Ardisson), un addetto all’ambasciata inglese, perseguitato dalla tirannica e ricca moglie Diana (Francoise Prevost). L’uomo, scoperto di essere anche tradito con quotidiana regolarità dalla consorte, decide di farla ammazzare proprio dal suo amante (Eduardo Fajardo), un ex criminale nazista, facilmente ricattabile. Così, come in Psycho, la protagonista esce di scena a metà film. Rinchiuso il corpo sezionato della vittima in due grosse valigie diplomatiche, il nostro eroe si avvia a Tangeri per farle sparire dentro alcune vasche di acido di sua proprietà. Giunto a destinazione però le cose si complicano: una valigia è stata addirittura scambiata, la polizia locale non lo perde d’occhio e, quando, finalmente, crede di aver risolto ogni problema, si ritrova davanti nientemeno che la moglie la quale ha architettato la propria morte con l’amante tedesco per incastrare il marito...
Per quanto totalmente inverosimile e viziato da una serie di sequenze oniriche (in cui il protagonista sogna di torturare o ammazzare la moglie in differenti modi) dannose poiché inseriscono un elemento semiumoristico, difficile da armonizzare con il resto, la vicenda possiede una propria rapidità narrativa e una certa sua originalità che non consente distrazioni cui va aggiunta l’ambientazione, di una certa efficacia, in una Tangeri caotica. Gli attori riescono a rendere sufficientemente credibile la vicenda e un’atmosfera felicemente hitchcockiana (il connubio tra poliziesco e commedia, la trovata delle valigie scambiate e la corsa contro il tempo per ritrovare quella con il cadavere) si può notare in numerose sequenze. Anche il colpo di scena finale non è del tutto scontato e viene orchestrato con abilità dal regista. Il modello del poliziesco messo a punto dal grande regista inglese rimane il modello evidente di tutto il filone lenziano, precedente e coevo all’entrata in scena di Dario Argento e della sua trilogia degli animali.

Sempre in ambito lenziano si muove Luciano Ercoli con il suo film d’esordio, Le foto proibite di una signora perbene (nov. 1970; 95 min.), basato su una sceneggiatura di Ernesto Gastaldi.
Al posto di Carroll Baker troviamo Dagmar Lassander, moglie giudiziosa di un industriale (Pier Paolo Capponi) a un passo dal fallimento, la quale viene perseguitata da un ambiguo ricattatore (Simon Andreu) che riesce dapprima a possederla e poi a spingerla al suicidio. L’uomo ovviamente agisce per conto di altri - si sospettano parimenti il marito e la bella amica e confidente (Susan Scott) della protagonista. Nella penultima sequenza scopriamo che il colpevole è il marito, ansioso di incassare la ricca polizza sulla vita della consorte.
La pellicola si dipana in maniera piuttosto lenta e scontata, quasi tutta in interni (si intuisce, dai pochissimi esterni, che siamo a Barcellona) e mostra un evidente povertà di mezzi; tuttavia una buona qualità visiva media, alcune sequenze ricche di tensione e la bravura di Susan Scott e Simon Andreu rendono comunque la visione interessante. Inoltre va detto che Ercoli si dimostra assai influenzato dalla recente opera prima di Argento, L’uccello dalle piume di cristallo. Appare evidente che la figura del persecutore è modellata su quella dell’omicida argentiano (l’uomo minaccia con un coltello la vittima, con movenze clonate da quelle del film di Argento) mentre Susan Scott sfoggia nel finale capigliatura e vestiario simili a quelle dell’assassina (Eva Renzi) del film citato. Infine Morricone prepara per Ercoli una colonna sonora simile a quella argentiana, non tanto nel tema melodico,decisamente meno suggestivo, bensì nelle sezioni atonali che accompagnano le sequenze più drammatiche o violente.
Il film non riscosse alcun successo.
Nei due successivi gialli di Ercoli, La morte cammina con i tacchi alti (1971) e La morte accarezza a mezzanotte (1972; vedi), la dipendenza dai modelli argentiani diverrà più esplicita anche se mai esclusiva poiché l’impianto narrativo rimarrà sempre quello dell’intrigo criminale classico.

Con il suo secondo lungometraggio, Il delitto del diavolo o Le regine (nov. 1970; 95 min.), Tonino Cervi crea una favola thriller di notevole pregio.
Un motociclista vagabondo (Ray Lovelock), stretto parente dei protagonisti di Easy Rider (1969), incontra di notte il diavolo ovvero un anziano, ricco e distinto signore (Gianni Santuccio) che, con una serie di stratagemmi, lo spedisce verso una casa isolata nella foresta. Qui incontra tre donne meravigliose (Haidèe Politoff, Evelyn Stewart e Giulia Monti), alias tre streghe che gradualmente lo circuiscono. Più volte il giovane sembra intenzionato a riprendere la propria esistenza libertaria, alla ricerca di un mondo migliore, più giusto (leggi egualitario) e più armonioso (sono parole sue), ma ogni volta qualcosa finisce per trattenerlo. Le tre donne seducono a turno il malcapitato e lo portano a una sinistra festa nel castello del diavolo, in mezzo a figure potenti ovvero i padroni del sistema politico liberal-capitalistico (ovvero il sistema delle diseguaglianze per eccellenza); allorché l’uomo, ormai annichilito, ammette di avere totalmente perso la propria personalità e le proprie convinzioni per abbandonarsi totalmente alle tre fanciulle, queste si trasformano subitaneamente in tre iene e lo fanno a pezzi. La favola nera termina con il funerale del giovane durante il quale il diavolo pronuncia un inatteso sermone: tutti questi hippy, che sognano la libertà e una maggiore giustizia, vanno sedotti ed eliminati.
La pellicola è un curioso esperimento ideologico che tende a rovesciare i luoghi comuni del pensiero conservatore di tipo cristiano. Quest’ultimo, dagli anni sessanta ad oggi, inquadra, nella rivoluzione sessuale del ’68, un disegno satanico di sovversione del’ordine divino: amore libero, rifiuto delle convenzioni e di ogni nazionalismo, ugualitarismo radicale e tenero pacifismo ovvero il pensiero illuminista spinto al suo estremo, costituisce un presuntuoso rovesciamento dell’ordine naturale (famiglia e nazione) e perciò divino delle cose. Al contrario nel film di Cervi le forze occulte difendono il sistema capitalistico delle disuguaglianze mentre il giovane ribelle, che vive e professa una armoniosa sintonia con la Natura (e il divino), va perseguitato e soppresso. Il mondo tradizionale (capitalistico) diviene allora il prodotto di un disegno satanico, come nella tradizione gnostica (eretica) ovvero un luogo di sofferenza governato da un’oligarchia potente e brutale, che non disdegna il sacrificio rituale del singolo se necessario. L’originale invenzione ideologica trova una realizzazione quasi perfetta grazie a un’ambientazione suggestiva, musiche inquietanti (di Lavagnino) di forte impatto, interpretazioni intense e dialoghi ben calibrati. Cervi dimostra anche di sapere comporre immagini di notevole qualità figurativa, tutte indirizzate a creare un clima di sinistra minaccia, inserite in un abile crescendo di tensione. Il film rappresenta un perfetto documento dello spirito poetico degli anni settanta: l’ansia di libertà, il desiderio di conoscere, il disprezzo per ogni forma di consumismo e di legame convenzionale calati in un contesto velato da una dolce malinconia (segno di una complessiva insoddisfazione per l’esistente) sono elementi essenziali del racconto. La disavventura del protagonista, che finisce brutalmente ammazzato come i motociclisti di Easy Rider, è generata dalla sua ricerca di un senso compiuto del suo essere nel mondo e dalla sua conseguente ingenua disponibilità nei confronti dell’altro.
Lo spirito poetico di quel decennio costituisce un totale rifiuto nei confronti della Tradizione e si incammina verso orizzonti nuovi e inesplorati attraverso una rivoluzione che la cultura hippy (estranea al marxismo-leninismo) pensava dolce e incruenta; si tratta comunque di un deciso e quanto meno simbolico parricidio. Non è un caso allora che il volto del diavolo abbia notevoli somiglianze con quello di Gino Cervi, padre di Tonino.
La pellicola non ebbe alcun successo; ciononostante era probabilmente nota a Kubrick poiché non solo vi ritroviamo il disegno narrativo di Shining (il luogo maledetto, infestato da presenze sataniche) e Eyes Wide Shut (la festa dei potenti), ma vi sono perfino idee visive (la prima apparizione spaventosa della coppia di streghe) che verranno riutilizzate dal maestro americano (la coppia di bambine dell’Overlook Hotel).
Per ciò che riguarda l’impianto ideologico, esso tornerà abbastanza simile nel mediocre Hanno cambiato la faccia (Farina, 1971; vedi) e nell’ottimo, enigmatico La corta notte delle bambole di vetro (Lado, 1971; vedi) in cui la setta dei potenti, segnata dalla più crudele delle diseguaglianze, vive nascosta nella Praga comunista. Entrambi i film - di Cervi e Lado - posseggono un evidente debito con il Rosemary’s Baby di Polanski. Invece le due citate pellicole kubrickiane si limitano a esteriori somiglianze con la narrazione de I delitto del diavolo: per Kubrick la politica è solo una delle maschere possibili e l’incolmabile abisso è semplicemente quello che separa la mediocre gente comune dalla cinica, potente oligarchia che governa il mondo.

Alberto De Martino, abile direttore di polizieschi (si vedano Roma come Chicago e Femmine insaziabili), gira nel New Mexico L’uomo dagli occhi di ghiaccio (mar. 1971; 90 min.), dignitoso thriller che si snoda con un ritmo serrato e si avvale di attori convincenti e di una ambientazione insolita. Purtroppo i presunti colpi di scena finali sono favcilmente intuibili fin dall’inizio.
Eddie Mills, un ambizioso giornalista (Antonio Sabato), indaga sull’assassinio di un potente senatore; il messicano Valdes, il perfetto colpevole, viene subito arrestato e il nostro reporter contribuisce non poco a farlo condannare a morte, dando credito alla testimonianza di una spogliarellista (Barbaba Bouchet). Nella seconda parte, che si svolge qualche mese dopo gli eventi, Mills, coadiuvato dal capo redazione John Hammond (Victor Buono), capisce di essere stato raggirato, identifica il vero killer (“l’uomo dagli occhi di ghiaccio”) e, nonostante il frenetico susseguirsi di omicidi (da parte del killer che si sente braccato), riesce a bloccare l’esecuzione negli ultimi minuti. Il mandante, in accordo con la spogliarellista, era proprio il padrone del giornale (infastidito dall’attività politica del senatore), il quale aveva tanto incoraggiato l’ingenuo Mills per la sua “eccezionale” inchiesta sull’omicidio...
De Martino azzecca il contesto, collocando l’azione tra le strade umili e quotidiane di Albuquerque, mette in campo caratteristi sempre interessanti (Victor Buono, Corrado Gaipa nel ruolo di un occultista che predice più volte la morte di Mills), delinea un tipo di reporter sprovveduto e coraggioso che, senza esitare, si scontra con bande di messicani (che difendono l’innocente Valdes), insegue un killer senza scrupoli, cattura una prostituta d’alto bordo ed infine sfugge ai colpi mortali di un uomo ricco e potente, addirittura il proprio datore di lavoro. De Martino mette in scena la tipica favola americana in cui il singolo di buona volotnà e talento riesce a sconfiggere una potente macchinazione, a salvare un innocente ed a mandare in galera criminali nascosti dietro le sembianze di uomini importanti e rispettabili. Quasi certamente il Pollack de I tre giorni del condor, uno dei film migliori del regista americano, ha ritagliato la figura del suo modesto dipendente dei servizi di sicurezza (Robert Redford), in fuga da una incredibile piano criminoso della Cia, sul modello di Mills: entrambi i film si aprono con il personaggio principale che si aggira su un piccolo motorino tra grosse auto ed in entrambi si ritrova una sequenza di ottima tensione ambientata in un ascensore in cui salgono il protagonista ed un presunto killer (Max von Sydow nel film americano del 1975).
Non mancano neppure suggestioni dal recente Gatto a nove code: un giornalista che indaga, un doppio finale (prima la cattura del killer, poi quella del suo mandante), un assassino misterioso che minaccia al telefono; ma si tratta pur sempre di somiglianze esteriori. L’uomo dagli occhi di ghiaccio rimane un solido poliz
iesco all’americana, girato da un cast quasi completamente italiano.
Il film possiede inoltre il merito di ricordare allo spettatore comune che la carta stampata appartiene al novero degli strumenti del Potere e serve, più che a informare, a formare ed indirizzare l’opinone pubblica. Infatti il padrone del quotidiano, in cui lavora con entsiamo il candido Mills, è di proprietà di un criminale che passa il tempo nei consigli di amministrazione dei principali gruppi bancari della città. Pertanto l’opera propone anche qualche riflessione di carattere politico, riflessione che verrà amplificata ed approfondita nel citato film di Sidney Pollack.

Vent’anni dopo Delitto per delitto (Strangers on a Train, Hitchcock, 1951), il regista Maurizio Lucidi firma un insolito remake del film americano con La vittima designata (aprile 1971; 105 min.). Nei titoli di testa numerosi sono i nomi dei soggettisti e degli sceneggiatori mentre, inspiegabilmente, manca qualunque riferimento alla Highsmith (autrice del romanzo Strangers on a Train, 1950) e a Delitto per delitto.
La vicenda è ambientata tra Milano e Venezia: nella città lombarda risiede Stefano Augenti (Tomas Milian), pubblicitario di successo con amante al seguito, che odia la moglie; in quella veneta invece abita il conte Matteo Tiepolo (Pierre Clementi) che parla di un crudele fratello che lo tormenta. Su un motoscafo nella città lagunare (anziché su un treno) quest’ultimo propone all’amico lo scambio di delitti e non viene preso sul serio. Nel giro di pochi giorni Tiepolo si installa a Milano, perseguita l’amico, gli ammazza la moglie senza troppo badare ad alibi e indizi ed incatena a sé lo sbigottito Stefano il quale (come il Guy di Hitchcock, ma a differenza del personaggio della Highsmith) si ritrova assediato dalla polizia. Sempre più disperato decide di ammazzare realmente il fratello di Tiepolo, senza sapere che il suo colpo di fucile ucciderà il conte Tiepolo il quale ha architettato questo insolito “addio alla vita”.
La trovata finale non sorprende nessuno: il tono cinico-nichilista dell’aristocratico lascia intendere fin dall’inizio chi sia la vera “vittima designata”. Per il resto il film è un mezzo fallimento: Lucidi tira in lungo la situazione chiave senza aggiungervi nulla in quanto intorno ai due protagonisti c’è il vuoto (mancano cioè quelle importanti e definite figure di contorno che animano il romanzo e il film hollywoodiano). Inoltre anche i due attori principali, sulle cui spalle pesa il carattere ripetitivo e fiacco della sceneggiatura, sono poco convincenti mentre gli esterni milanesi e veneziani appaiono del tutto prevedibili. La musica di Bacalov, in puro stile morriconiano, aggiunge qualcosa ma certo non salva il film; il bel motivo principale diventerà il tema dell’adagio del Concerto grosso (1971) dei New Trolls.
In particolare tutta la parte finale è assurda: inseguito dalla polizia, Stefano non trova di meglio che salire sulla cima della chiesa di Santa Maria della Salute per sparare con un fucile a canocchiale (nessuno tra l’altro gli ha chiesto se sia un buon tiratore... ), praticamente sotto gli occhi delle forze dell’ordine. Il complicato marchingegno della Highsmith, già messo a dura prova dalla sceneggiatura superficiale di Hitchcock e compagni, viene ora fatto a pezzi. Rimane all’attivo lo stralunato tono mezzo hippy che Pierre Clementi e Tomas Milian si portano dietro e l’insistenza sul gioco del doppio, in questo caso evidenziato addirittura dalla somiglianza dei due attori, nonché dal fatto che il pubblicitario alla fine cede, passa al “lato oscuro” e diviene anch’egli un assassino (almeno in ciò rispettando il romanzo della Highsmith).
Va infine notato che anche un altro momento del film deriva da reminiscenze legate alla scrittrice texana: Stefano si esercita lungamente ad imitare la firma della ricca moglie così come Alain Delon/Tom Ripley studiava il complicato autografo dell’amico ucciso nel film In pieno sole (Clement, 1960), tratto da The Talented Mr. Ripley (Highsmith, 1955).

Dopo sei western e un film bellico, Castellari esordisce nel poliziesco con il mediocre Gli occhi freddi della paura (apr. 1971; 95 min.), un dramma da camera ricalcato sul classico hollywoodiano Ore disperate (Wyler, 1955).
Una coppia di criminali sequestrano il figlio (Gianni Garko) di un magistrato (Fernando Rey) in compagnia di un’amante occasionale (Giovanna Ralli) nella sua lussuosa villa; il più anziano (Frank Wolff) dei due malviventi, appena uscito di galera, vuole vendicarsi per l’iniquo trattamento subìto durante il processo (pur ammettendo la propria colpevolezza). Il film verboso e teatrale, ambientato in una Londra invisibile (a parte i titoli di testa), si dipana stancamente, dando fondo a tutti gli stereotipi del racconto inerente sequestratori e sequestrati. Termina con una prevedibile e sanguinosa ecatombe.
La rumoristica e tesa colonna sonora di Morricone imita, inutilmente, quella composta per Il gatto a nove code (Argento, 1971) così come gratuita appare la sequenza iniziale, clonata da L’uccello dalle piume di cristallo (Argento, 1970), in cui Karin Schubert affronta un maniaco sessuale nella finzione di uno spettacolo di spogliarello.
Nel periodo 1973-76, superata questo modesto episodio, Castellari firmerà film di tutto rispetto nell’ambito del cosiddetto poliziottesco (vedi).

Giunto al proprio terzo film, Ernesto Gastaldi firma La lunga spiaggia fredda (mag 1971; 95 min.), thriller con risvolti politico-sociali che si vorrebbe ambientato negli Usa e che riformula, a suo modo, episodi celebri (in quegli anni) di Easy Rider (Hopper, 1969) e Arancia meccanica (Kubrick, 1969).
Una coppia di borghesi (Mara Maryl e Walter Maestosi) tradizionalisti e annoiati vanno a passare il weekend su una spiaggia isolata dove vengono notati da quattro motociclisti vagabondi i cui ideali hippy si sono ormai stemperati ed hanno lasciato il posto ad una serie di risentimenti e di frustrazioni. Il quartetto si introduce con la violenza nella casupola dei due turisti e, mentre a turno il marito viene tenuto prigioniero, alcuni di loro violentano al donna. Accade però un evento inatteso: la giovane, già evidentemente stanca del rapporto matrimoniale, si innamora del leader (Robert Hoffman) del quartetto e quest’ultimo, a sua volta, sembra darle corda, opponendosi ai desideri brutali dei suoi compagni. Mentre il marito si ritira in buon ordine, tra il capo e gli altri tre esplode una guerra senza limiti che termina con alcuni cadaveri. Nella confusione che si è venuta a creare la coppia riesce a farla franca, riprendendo la via di casa, come pure la propria esistenza abituale.
La pellicola, pur tra lungaggini e dialoghi spesso banali, possiede una propria originalità. Innanzitutto, negli anni di Fragole e sangue (Hagmann, 1970) e de L’impossibilità di essere normale (Rush, 1969), riesce a descrivere con disincantata durezza l’universo hippy: seppur partiti dagli ideali di libertà totale, questi quattro personaggi hanno finito per divenire semplicemente dei selvaggi pericolosi, emarginati, privi di una vera e propria ragione di vita e, nel loro intimo, invidiosi della vita comoda che sembrano fare i due malcapitati, emblemi di una normalità vagamente ottusa ma anche determinata e certa dei propri valori. Il marito infatti, pur subendo ogni sorta di sopruso, rimane fedele alla propria idea di esistenza che non esita ad esporre ai propri torturatori (non manca qualche battuta sferzante sulle marce pacifiste per il Vietnam, fiore all’occhiello di gente che, ora, non esita a sequestrare, pestare e violentare) insieme ad un evidente disprezzo per la loro condotta esistenziale, ormai precipitata in un settore secondario ed ininfluente del tessuto sociale. Il racconto cerca di rimanere oggettivo: Gastaldi non sembra voler prendere posizione in modo netto, anche perché i suoi personaggi sono tutti dei perdenti, segnati dalla mediocrità. Ciononostante la sorprendente scelta di rendere equivalenti le bande di teppisti di Arancia meccanica con quelle di questi anziani hippy motorizzati dimostra tutta la disillusione dell’autore nei confronti della cosiddetta rivoluzione del ’68 e delle maschere che ha prodotto. Non a caso è proprio nel tentativo di recuperare una normalità perduta (attraverso l’amore per la donna, dapprima violentata) che il leader del quartetto tradisce, in certo modo, gli ideali dei suoi amici e scatena l’esplosione della violenza che gli costerà la vita.
Gastaldi immagina gli Usa ma gira su una spiaggia del Lazio e riflette sulle aspre divisione sociali che stanno lacerando la convivenza civile in Italia e nel farlo, in definitiva, condanna gli estremisti, i vagabondi, gli emarginati e i rivoluzionari ed assolve i “normali”, pur non nascondendo il loro grigiore e i loro banali egoismi. Ancora una volta, e in questo caso in modo esplicito, il cinema di genere si conferma allineato con la visione tradizionale e conservatrice del mondo, mostrando un evidente diffidenza nei confronti di coloro che si professano rivoluzionari e portatori di confuse ambizioni di una rivolta egualitaria, da realizzarsi nel sangue.

Dopo i disastrosi Cuore di mamma (1969) e Uccidete il vitello grasso... (1970), con Un’anguilla da 300 milioni (mag 1971; 110 min.) Samperi abbandona il racconto esplicitamente politico per ripiegare su una commedia d’ambiente, miscelata con un’inverosimile trama criminale.
A Caorle il simpatico pescatore di frodo Bissa (Lino Toffolo), ex partigiano che vive di espedienti, si ritrova a custodire la figlia (Ottavia Piccolo) di un vecchio amico (Gabriele Ferzetti) e compagno d’armi. La ragazza, così viene raccontato al pover’uomo, deve disintossicarsi dalla droga. Qualche giorno dopo l’amico però sembra morire in un incidente d’auto e si scopre che la ragazza è, in realtà, una sequestrata. Quest’ultima fa amicizia con il pescatore ed insieme continuano la commedia criminale: riescono a riscuotere il riscatto, ma poi la giovane ammazza Bissa e si ricongiunge con il padre, vero artefice dell’intero complotto. Una poliziotto locale (Mario Adorf), amico del pescatore, farà giustizia.
Il film si avvale di una magnifica ambientazione veneta, tra zone lagunare e suggestivi squarci urbani; bravissimi anche i due protagonisti, Toffolo e Adorf, che danno vita ad un magistrale ed ininterrotto duetto. Tutta la parte poliziesca invece è artificiosa ed inverosimile, come pure il ritratto della giovane criminale, cinica, consumista (tra droghe, dischi e articoli di bellezza) e spietata. Invano Samperi cerca di mettere in scena l’ennesimo siparietto politico che contrappone gli onesti partigiani di una volta (ossia Bissa), gli opportunisti che hanno dimenticato gli ideali della Resistenza (Ferzetti) e le amorali generazioni di oggi (la giovane), nel tentativo di dipingere un’Italia caotica e nichilista. Tutto suona falso come pure le dilettantesche indagini di una polizia da avanspettacolo. Inutile anche il personaggio di Senta Berger, una contessa vedova e ninfomane che cerca, invano, di animare il quadro narrativo (alquanto povero e ripetitivo): anche questa trovata appare fasulla e tende a spostare il racconto nell’ambito della commedia erotico-farsesca, creando una miscela di stili molto difficile da amalgamare in qualcosa di coerente e godibile.
La pellicola, il cui titolo invano cerca di richiamare il filone argentiano degli animali, realizzata con mezzi modesti, fu un mezzo fiasco.

Lenzi, indifferente al nuovo corso argentiano, firma Un posto ideale per uccidere (lug. 1971; min. 90), pellicola in cui le componenti del consueto misterioso intrigo offrono due sole novità: la presenza di Irene Papas al posto di Carroll Baker e l’inserimento della tematica hippy.
Una coppia di spregiudicati vagabondi, una danese (Ornella Muti) e un inglese (Ray Lovelack), dopo un prologo a Copenhagen, vanno a zonzo per l’Italia (Pisa, Firenze); quando terminano i denari, vendono foto erotiche o riviste pornografiche (comprate in Danimarca). Finiscono per caso nel posto sbagliato al momento sbagliato ovvero in una villa isolata in cui la proprietaria (Irene Papas), in accordo con l’amante, ha appena ammazzato il marito. L’arrivo dei due giovani la induce a tentare di imbastire una perfetta tragedia: due ragazzi senza morale si sarebbero introdotti a casa sua dove, dopo aver ammazzato il padrone di casa, avrebbero rubato ed approfittato della padrona. I giovani però si accorgono del piano ed inizia un lungo duello tra i tre personaggi. Nel finale le forze dell’ordine credono alla rispettabile signora ed inseguono i due fuggiaschi che, presi dal panico, muoiono in un incidente d’auto.
La pellicola è nel complesso discreta pur soffrendo di numerosi difetti quali i troppi tempi morti iniziali (le scorribande introduttive dei due ragazzi sono senza interesse) e una trama totalmente prevedibile, con l’unica eccezione del beffardo finale che premia i colpevoli e punisce gli innocenti. Tuttavia gli attori sono abbastanza convincenti e soprattutto c’è l’inedita invenzione di far scontrare in un racconto tematiche di destra e di sinistra, della Tradizione e della Modernità. I due giovani sono i simboli della modernità: spregiudicati e disinteressati alle regole della convivenza civile vivono una sessualità libera e si muovono con ingenuità in un mondo che invece è infido e pieno di trappole. Dapprima vengono derubati da alcuni napoletani cui avevano concesso la loro fiducia, poi finiscono nelle maglie di questo intrigo criminale dal quale credono di potersi facilmente districare. Invece il sistema gioca contro di loro, non li prende sul serio mentre dà ascolto alla commedia degli assassini e pertanto il finale tragico è nell’ordine delle cose.
Guardando, ovviamente, al modello Easy Rider (Hopper, 1969), di cui per certi aspetti questo film è un ricalco (in entrambi i casi due hippy scambiano il mondo per un luna park e ne pagano le conseguenze), Lenzi descrive con distacco questi due giovani senza patria e senza famiglia, prova per loro una certa simpatia ma li descrive anche come due fessi destinati a soccombere. Nella visione di questo cinema poliziesco che rappresenta in fondo la Tradizione, lo stile di vita dei cosiddetti “figli dei fiori” è solo una forma di infantilismo prolungato nell’età adulta e, come tale, nella sua confusionaria illogicità, destinato ad essere fatto a pezzi dal ben più razionale ed avido “mondo degli adulti”.

Guerrieri, iniziatore con Lenzi del giallo all’italiana (si veda Il dolce corpo di Deborah, 1968), vi fa ritorno con La controfigura (lug. 1971; 90 min.), intrigo erotico-criminale abbastanza riuscito.
Ambientato, nella prima parte, in Marocco, il racconto si snoda intorno all’insolito triangolo tra Giovanni (Jean Sorel), la sua giovanissima e capricciosa moglie Lucia (Ewa Aulin) e la bella suocera Nora (Lucia Bosè) di cui, in breve tempo, il protagonista si innamora in modo folle. Nella vicenda si inserisce Eddie, un hippy il quale sembra corteggiare le due donne; in realtà egli è interessato a Giovanni e viene ucciso da un suo misterioso innamorato deluso che si aggira intorno ai personaggi e che, per vendetta, finirà per ammazzare anche il protagonista.
La pellicola è organizzata secondo uno schema narrativo assai moderno, largamente ripreso dal cinema sperimentale del periodo (Godard, Resnais), cosicché il racconto inizia con l’assassinio di Giovanni cui segue la rievocazione dell’intera storia secondo liberi salti temporali, costringendo lo spettatore ad un lavoro di ricostruzione mentale del corso degli eventi. Questo stile libero e creativo, aiutato dalla bravura degli interpreti, dalla suggestione degli scenari marocchini e dalla bella colonna sonora di Trovajoli che alterna temi lirici e sonorità enigmatiche (non manca l’efficace utilizzo del battito cardiaco), perviene ad un film che, sebbene alquanto sbrigativo nel disegno dei personaggi, appare interessante e coraggioso nello disegno complessivo.
Come nel coevo film di Lenzi, l’inserimento di personaggi hippy (qui più blando) causa un cortocircuito narrativo e porta alla tragedia: le libertà sessuali di Eddie sono foriere di violenza poiché altri (il suo corteggiatore respinto) non accettano quella logica libertaria ed anarchica. Anche in questo caso la rivoluzione dei fiori è destinata al fallimento. Il tema è approfondito anche dalla presenza in Marocco di una coppia di amici (Silvano Tranquilli e Marilù Tolo) che professano idee moderne e sembrano voler irretire Giovanni in un gioco di scambio delle coppie.
Il giallo italiano rimane saldamente legato ad una visione tradizionale del mondo: vagabondaggi, libertà sessuali, trasgressioni di varia natura sono peccati che si pagano.

Tonino Ricci firma con il suo secondo lungometraggio Un omicidio perfetto a termini di legge (ago 1971; 95 min.) una scialba imitazione dei gialli lenziani.
In una località indefinita (praticamente mancano esterni urbani) una moglie di nome Monica (Elga Andersen) e il suo amante (Ivan Rassimov) manovrano per liberarsi del ricco marito Marco (uno spaesato Philippe Leroy); gli fanno credere di essere impazzito e di avere addirittura ucciso la consorte (ed altri), la quale torna in scena a sorpresa (senza sorprendere, però, gli spettatori... ). Marco sembra scegliere il suicidio. Si scopre poi che anche l’amante ha un’amante, anzi una segreta moglie (Rosanna Yanni), con la quale ha tramato tutto fin dall’inizio e in gran segreto. La cosa non sembra gradita a Monica che, scoperto il complotto dietro il complotto, ammazza Marco e compagna. Finirà male anche lei...
Il tedioso film di Ricci, girato senza alcun estro, tra tempi morti e dialoghi assurdi, cerca di mantenersi vitale attraverso una sequenza inarrestabile di colpi di scena; ma il troppo stroppia e rende il tutto indigesto e, a tratti, ridicolo. Al confronto i complottistici thriller lenziani, dai quali Ricci e i suoi sceneggiatori ricopiano l’impianto narrativo, appaiono dei capolavori. Il film è girato con mezzi esigui, al punto che non esiste una reale collocazione urbana del racconto il quale è ambientato quasi interamente in interni (le abitazioni dei protagonisti, una discoteca, uno studio medico...).
Qualche mese dopo Ricci firma un’altra pellicola scadente, Colpo grosso, grossissimo... anzi probabile (mar 1972; 95 min.), che, fin dal titolo, appare un’evidente ripresa della fortunata tematica dei Sette uomini d’oro (Vicario, 1965) e del fortunato filone che ne era derivato. Il film di Ricci risulta anacronistico nei contenuti e soporifero nella realizzazione. Il ritorno in auge dei film incentrati su importanti e complesse rapine è generato dal successo internazionale di alcuni validi film francesi (Il clan dei Siciliani, esplicitamente citato nel film, Gli scassinatori e I senza nome). La presente versione è una parodia con ambizioni umoristiche, nella quale l’unica cosa degna di nota è la bravura di Luciana Paluzzi.
Il solito gruppo di ladri sgangherati (tra essi Therry Thomas e Umberto d’Orsi) vuole impadronirsi degli incassi di una catena di supermercati; a tal fine la bella Jacqueline (Luciana Paluzzi) cerca di sedurre il figlio (Nino Castelnuovo) della padrona miliardaria (Linda Sini) di quei magazzini. Dopo tentennamenti ed equivoci da pochade, il giovane entra nella banda, ma solo per rifilare un solenne bidone ai gangster improvvisati. La conclusione è comica: diverranno tutti impiegati in quella catena di magazzini.
La trama è risibile (il modello rimane I soliti ignoti di Monicelli), la comicità è inesistente e le situazioni, già poco originali, vengono tirate per le lunghe. Anche gli esterni, tra Parigi e Roma, si limitano alle solite vedute da cartolina.

Polselli firma con La verità secondo Satana (set. 1971; 90 min.) uno dei suoi peggiori film. Interamente ambientato in una casa, il film racconta il rapporto servo-padrone che lega Roberto (Sergio Ammirata) e Diana (Rita Calderoni). Il primo farnetica intorno ai massimi sistemi, sevizia l’amichetta, finge di uccidersi, “resuscita” e, alla fine, viene realmente ammazzato da un amico. Un gioco al massacro di una noia mortale in cui compaiono le possessioni di un’epoca: balli psichedelici, emancipazione sessuale, perversioni sadiche e lesbiche, scioperi, lotta di classe. Un guazzabuglio indigesto il cui unico interesse sta nel documentare le assurde e pretenziose elucubrazioni presenti in un’epoca in cui una parte consistente della società italiana credeva di essere alle soglie di una rivoluzione globale. Satana, il grande nemico e il simbolo del rovesciamento di tutto viene, non casualmente, citato nel titolo.

Massimo Castellani gira il proprio unico film, Il sorriso del ragno (set. 1971; 90 min.), riutilizzando uno schema narrativo assai logoro, quello della “caccia al tesoro” ovvero il recupero di un’ingente refurtiva da parte del solito agente (Thomas Hunter) delle assicurazioni. La spavalda sicurezza di quest’ultimo e lo schema del racconto - l’eroe si infiltra nel covo dei banditi, viene scoperto, acciuffato, imprigionato; poi fugge ed elimina i malvagi - rimanda invece ai western italiani ed alle pellicole di James Bond.
Il sorriso del ragno possiede belle ambientazioni greche (Atene e Rodi), e una insolita ed elegante colonna sonora (firmata da Daniele Patucchi) che, nel ricorso a sontuose ed inquiete fasce sonore, ricorda le coeve sonorità dei Popol Vuh (fasce sonore che, nel 1972, accompagneranno le gesta dell’herzoghiano Aguirre). Tolti questi due pregi, il resto è noia: tempi morti, attori ordinari, dialoghi pessimi e nessuna sorpresa narrativa. I colpevoli si nascondono all’interno di una presunta equipe archeologica, guidata da Leopoldo Trieste.
Il titolo del lavoro, totalmente immotivato, cerca di far rientrare la pellicola nel fortunato filone argentiano degli animali. Il pubblico però non abbocca e il film passa inosservato.

Roberto Montero firma L’occhio del ragno (ott.1971; 90 min.), un film di gangster che costituisce uno dei prodotti peggiori del periodo.
Vi si racconta una vicenda quanto mai dozzinale: Paul (Antonio Sabato), arrestato durante una rapina, viene fatto evadere da un furgone della polizia (come nell’incipit de Il clan dei siciliani; Verneuil, 1969) affinché recuperi il bottino intascato dai suoi due complici (Goffredo Unger, Klaus Kinski). L’organizzatore dell’evasione, Krueger (Van Johnson), è colui che aveva, a suo tempo, progettato la rapina dalla quale, però, non ha ricavato nulla. Paul, accompagnato da Gloria (Lucretia Love), visita gli ex complici, li ammazza, recupera i soldi, riesce ad evitare di essere ucciso da Krueger ma poi viene eliminato dalla polizia.
Pellicola soporifera dove l’azione si svolge secondo schemi stereotipati mentre la lenta narrazione cerca di raggiungere i fatidici 90 min.inserendo sequenze aeroportuali ed alberghiere, nonché qualche modesto intermezzo erotico. L’ambientazione (Vienna e Marsiglia) è scadente (pochissimi gli esterni, privi di qualunque interesse), deprimenti i dialoghi e penosa anche la qualità dell’interpretazione nonostante si sia in presenza di attori capaci.
Il titolo, del tutto privo di legami con la vicenda, cerca di inserire il lavoro nel fortunato filone argentiano con il quale non ha nulla a che spartire. Nella seconda metà del decennio, dopo che Sabato è divenuto una star del poliziottesco, la pellicola verrà riciclata col titolo, altrettanto assurdo, di Caso Scorpio: sterminate quelli della calibro 38.

Il successo dei gialli lenziani e poi degli originali thriller di Argento innesca un fiorire di pellicole poliziesche come non si era mai registrato nell’intera storia del cinema italiano. Non poteva dunque mancare anche qualche forma di parodia; se ne incarica Mario Camerini il quale, giunto al proprio penultimo film, decide di riproporre il suo Crimen (1960) con attori e scenari mutati. Io non vedo, tu non parli, lui non sente (ott 1971; 95 min.) racconta nuovamente le tragicomiche vicende di tre coppie le quali si trovano, loro malgrado, implicate nell’assassinio di una ricca signora veneziana. I coniugi romani (Enrico Montesano e Francesca Romana Coluzzi) debbono riportarle il cagnolino e si attendono una forte ricompensa, ma della donna rinvengono solo il cadavere; la coppia di Forlì (Gastone Moschin e Isabella Biagini), giunta a Venezia per giocare al casinò, si ritrova tra le mani la valigia con il corpo mutilato della signora mentre nella coppia lombarda (Alighiero Noschese e Janet Agren), l’uomo viene sospettato dell’omicidio sulla base di un’esilarante coincidenza: alcuni testimoni hanno notato l’uomo (in realtà si tratta dell’amante della moglie), in precipitosa fuga dal balcone della sua stanza d’albergo, situata nelle immediate vicinanze della villa della defunta. La soluzione, che scagiona tutti i protagonisti, arriva nelle ultime battute del film.
Camerini propone una commedia divertente e abbastanza movimentata grazie al notevolissimo cast, costituito da tre comici in gran forma. Noschese, spiritato industriale di Monza che odia i “terroni” (ossia tutti quelli nati sotto al Po), perde enormi fortune al gioco e commenta con sufficienza il tradimento della moglie, è una figurina che resta impressa come pure quella del popolano romano succube della enorme ed autoritaria consorte. L’intreccio poliziesco si rivela presto un evento secondario, la cui unica funzione è quella di calare in situazioni estreme i sei personaggi del racconto, due dei quali sono in stato di evidente sudditanza nei confronti della moglie. Venezia è un fondale poco valorizzato (prevalgono gli interni) mentre la ricchezza dei dialetti (romano, lombardo, romagnolo) costituisce un elemento di indubbio divertimento.
Il film non riscosse alcun successo.
Nel 1991 negli Usa Dino De Laurentis, produttore dei due film cameriniani, appronta una nuova, mediocre versione ideata per il mercato americano. Il nuovo titolo è Once Upon a Crime (t.it. Sette criminali e un bassotto; 95 min:), la regia è di Eugene Levy e il cast comprende James Belushi, John Candy, Giancarlo Giannini, Cybill Shepherd e Ornella Muti. In Italia il film passa inosservato.

Silvio Amadio firma un modesto sexy-thriller con Alla ricerca del piacere (nov.1971; 90 min.). A Venezia Greta (Barbara Bouchet) si fa assumere da una ricca famiglia per scoprire che fine ha fatto la precedente segretaria (Patrizia Viotti), un tempo sua amica e quasi amante. La donna si trova impigliata nelle atmosfere morbose di una famiglia (Farley Granger e Rosalba Neri) che ama soprattutto inscenare orge collettive, qualcuna a sfondo sadico (come quella in cui è stata uccisa la donna scomparsa). Greta sta al gioco finché può: quando tentano di ammazzarla (per ben due volte) si ribella. Nel finale si salva per un soffio.
Appare evidente, fin dal titolo, che il primario interesse del regista consiste nell’offrire allo spettatore scene erotiche, assai spinte per l’epoca. L’intreccio poliziesco è trattato in modo distratto e risulta alquanto scontato nella soluzione (sono tutti colpevoli; in particolare c’è di mezzo un giardiniere imponente e un po’ scemo che agisce a comando, come il mostro di Frankenstein). Si nota anche Umberto Raho nel ruolo del cameriere.
Gli incassi furono discreti.
Pochi mesi dopo esce Il sorriso della jena (apr.1972; 85 min.), sempre diretto da Amadio, film decisamente peggiore e alquanto  tedioso. Si tratta di un “giallo da camera” interamente ambientato in una villa isolata.
Il marito (Silvano Tranquilli) di una donna ricchissima la fa eliminare dalla spietata amante (ancora Rosalba Neri). La polizia crede al suicidio. Arriva però, inattesa, una presunta figliastra (Jenny Tamburi) della vittima la quale scopre la verità, seduce il patrigno e la sua amante, li mette l’uno contro l’altra e li ricatta. Nello scontato finale sopraggiunge la vera figliastra...
Il titolo cerca di ammiccare al filone degli animali argentiano mentre il racconto, non sapendo come arrivare ai fatidici novanta minuti, inserisce innumerevoli sequenze erotiche di scarso interesse. Inutili risultano anche le musiche briose e sbarazzine di Roberto Pregadio in una pellicola che si trascina stancamente, senza trovare una propria cifra stilistica.

Franco Prosperi, dopo la discreta prova fornita con il film d’esordio Tecnica di un omicidio (1967; vedi), conferma le proprie qualità di autore di solidi polizieschi con Un uomo dalla pelle dura (gen. 1972; 90 min.), pellicola di genere gangsteristico come la precedente e come quella ambientata negli Usa. Il racconto illustra l’universo pugilistico (un argomento insolito nel cinema italiano), le scommesse truccate che lo regolano e la lotta senza quartiere che si scatena intorno al controllo dei risultati degli incontri.
Il protagonista (Robert Blake), un pugile onesto e sfortunato, finisce al centro di una ragnatela di interessi criminali: anziché perdere, vince un match generando una sequela infausta di omicidi volti a vendicare lo sgarbo. Muoiono il suo attuale manager (Gabriele Ferzetti), un suo vecchio amico che cercava informazioni e una coppia di giornalisti televisivi che aveva scoperto qualcosa di importante (la sequenza del doppio omicidio ricalca quella celebre del fotografo ammazzato ne Il gatto a nove code, Argento, 1971). Il solito commissario fesso (Ernest Borgnine) crede colpevole il protagonista e gli dà la caccia mentre un giornalista (Orazio Orlando) e la figlia  (Catherine Spaak) del primo morto, lo aiutano. Intorno a loro si muove un sinistro faccendiere dall’aspetto hippy (Tomas Milian). Finisce con un’ecatombe dalla quale si salva solo il pugile.
Nel tortuoso finale, come si poteva prevedere,si scopre che il giornalista era, in realtà, colui che aveva messo in piedi l’intera macchinazione.
Ambientato in un grigio e quotidiano New Mexico, il film corre veloce e possiede una buona dose di suspense pur non essendo particolarmente originale ed offrendo l’ennesima variazione sul tema hitchcockiano del falso colpevole. Gli attori sono tutti convincenti, le sequenze degli omicidi girate con perizia e l’atmosfera complottistica, in qualche modo legata all’America di quegli anni (l’omicidio Kennedy, il caso Watergate), resa con buona efficacia. Prosperi illumina un universo minaccioso, retto dalla violenza e dalla paura, nel quale l’amicizia è una trappola e le illusioni libertarie dell’universo hippy vengono derise attraverso la figura sinistra del sicario hippy (colui che tira le fila dell’interno quadro criminale) così come attraverso la caricatura, abbastanza scontata, della coppia di giornalista gay.

Anche Civirani prova ad imitare i gialli lenziani ne Il diavolo a sette facce (dic. 1971; 95 min.), racconto complicato e spesso incoerente che gira intorno all’immancabile Carroll Baker. Va detto subito che una serie di presunte assurdità trovano giustificazione nel colpo di scena conclusivo.
Ad Amsterdam Julie è perseguitata da più persone: alcuni criminali la minacciano, un assicuratore le intima di confessare dove ha nascosto un certo diamante (soprannominato “il diavolo a sette facce”), qualcuno la difende - l’avvocato Dave (Stephen Boyd) e l’amico Tony (George Hilton) - mentre la polizia appare piuttosto latitante. Ovviamente quasi nessuno è ciò che dice di essere a cominciare da Julie che in realtà è Mary, la sorella gemella che aveva rubato il diamante alcuni mesi prima e che ha preso il posto della sorella morta. Tony è addirittura il marito di Mary e, sebbene le dia la caccia da tempo, non si accorge di trovarsi di fronte proprio all’ex moglie... Tra inseguimenti, omicidi e sequestri (Julie/Mary viene rapita e rinchiusa in un mulino come ne Il prigioniero di Amsterdam, Hitchcock, 1942) si giunge al beffardo scioglimento: Julie/Mary e Dave, unici sopravvissuti, fuggono in aereo dall’Olanda con il diamante senza sapere che è una miserabile copia.
La pellicola, girata con scarsi mezzi, possiede però un buon ritmo, un andamento misterioso e hitchcockiano sostenuto da interpreti accettabili. Se le sorprese finali sono abbastanza prevedibili, esse però giustificano una serie di precedenti inverosimiglianze come l’ostinazione di Julie nel non volersi rivolgere alla polizia e l’incredibile fuga dalle coppia Julie/Tony di fronte all’arrivo di un paio di poliziotti, evento che, tra l’altro, li salva dall’ennesima aggressione della banda criminale, decisa a ritrovare il famoso diamante.
Mentre nelle sale italiane furoreggiano i paranoici gialli argentiani, Civirani si attiene alle vecchie formule del film gangsteristico innestato sullo schema lenziano del complotto e dell’incubo, con esiti ordinari. In entrambi i generi tuttavia gli autori continuano a disegnare una realtà sociale precedente le mutazioni sociali in corso nell’ambito della tipologia femminile: nel mondo filmico ricreato da Civirani, Lenzi, Brescia e colleghi, gli uomini continuano a detenere il potere e le donne, in eterna attesa di un ricco consorte, vengono corteggiate, adulate e protette (si veda, in particolare, la figura, tutt’altro che secondaria, disegnata da Lucretia Love, la segretaria di Julie). Il giallo italiano oltre ad essere un genere di mero intrattenimento - come tale indifferente alle tematiche “importanti” del cosiddetto cinema dell’impegno civile - costituisce una della ultime isole del conservatorismo nell’ambito dell’universo dello spettacolo.

Nell’ambito del thriller psicologico di muove Caiano con L’occhio nel labirinto (feb 1972; 90 min.), pellicola poco riuscita in cui una dolce fanciulla, Julie (Rosemary Dexter), cerca l’amante Luca (Frank), nonché proprio psicanalista, in una grande villa popolata da gente poco raccomandabile. In questo universo a parte, di cui si contendono il comando Gerda (Alida Valli) ed un ex gangster (Adolfo Celi), universo popolato da artisti in disarmo, opportunisti e gigolò, tutti sembrano essere i colpevoli: come in un romanzo della Christie, ognuno aveva un buon motivo per ammazzare Luca. La soluzione, anticipata in un enigmatico quadro (come già ne L’uccello dalle piume di cristallo) e alquanto inverosimile, svela in Julie l’unica colpevole e ce la mostra nella inedita veste di squilibrata, pericolosa ed inconsapevole dei propri gesti. Questo finale (come pure l’intreccio nel suo complesso) appare ispirato a Il terzo segreto (Crichton, 1964), pellicola decisamente migliore di questa, in cui la figlia di uno psicanalista ucciso indaga su vari sospettati per poi rivelarsi la vera e insospettabile colpevole del delitto.
Caiano gira in modo più che dignitoso, inserisce alcuni sogni traumatici della protagonista realizzati con immagini suggestive, valorizza i magnifici scenari dell’isola d’Elba, sceglie un’elegante sonora di matrice jazzistica (firmata Roberto Nicolosi) e riesce così a rendere piacevole un racconto abitato da stereotipi senza vita. Inoltre in qualche modo reinventa la favola della fanciulla pura, bella e ingenua che si è persa in un mondo di mostri - tra cappuccetto rosso e la bella e la bestia - efficace schema narrativo che, di lì a poco, verrà ripreso da Polanski in Che? (1972) e soprattutto da Suspiria (1977, dove ritroveremo Alida Valli) di Argento la cui protagonista Jessica Harper, persasi in una casa di streghe, è assai somigliante a Rosemarie Dexter.

Fernando Di Leo, giunto al proprio sesto film, dirige Milano calibro 9 (feb. 1972; 100 min.), un poliziesco vagamente ispirato alla raccolta omonima di racconti di Scerbanenco, destinato a divenire un piccolo classico. Si tratta certamente di un notevole passo avanti rispetto ai lavori precedenti e, sebbene il film possegga notevoli qualità, appare tuttavia sopravvalutato.
In una magnifica Milano autunnale, dove prevalgono la Darsena e i navigli, l’ex detenuto Ugo Piazza (un monolitico Gastone Moschin) cerca di discolparsi dall’accusa di avere sottratto un’ingente somma all’organizzazione criminale dell’Americano (Lionel Stander).  Quest’ultimo lo fa pestare più volte dai suoi uomini, guidati dall’esagitato Rocco (Mario Adorf) senza ottenere soddisfazione e decide, pertanto, di riprenderlo nella banda, così da poterlo controllare meglio. Ci sono poi un rude commissario (Frank Wolff) convinto che i criminali nascono tali, un vicecommissario (Luigi Pistilli) che invece crede si tratti di vittime delle disuguaglianze sociali, una spogliarellista (Barbara Bouchet) che consola Ugo ed il sicario Chino (Philippe Leroy), che si trova in conflitto con l’Americano. Nel finale quest’ultimo stermina la banda criminale, Ugo recupera il malloppo (di cui si era realmente impossessato anni prima) ma viene tradito dalla sua amica e ammazzato a tradimento.
La pellicola, condotta con buon ritmo e commentata da un’ottima colonna sonora di Bacalov cui collabora il gruppo rock degli Osanna, coinvolge non tanto per le situazioni, quanto per la capacità di creare personaggi ed ambienti. In particolare la figura del protagonista, freddo, imperturbabile e misterioso (evidentemente ricalcata sui personaggi interpretati da Alain Delon nei recenti film di Melville quali Frank Costello e I senza nome) riesce a tenere costantemente desta l’attenzione. Intorno a lui gli altri personaggi appaiono spesso sopra le righe, in un contrasto abbastanza efficace. Soprattutto Rocco appare fin eccessivo nel suo prevedibile sadismo che sconfina a tratti nel comico involontario, così come eccessiva e fumettistica appare tutta la scena iniziale con le torture ai tre corrieri, poi fatti saltare in aria in una grotta. Il rapporto tra Ugo e Rocco, sostanzialmente il vero asse narrativo del racconto, sembra riproporre quello classico che contrapponeva Clint Eastwood e Ely Wallach ne Il buono, il brutto, il cattivo (Leone, 1966).
Anche il commissario appare decisamente troppo agitato (certamente memore dell’indimenticabile commissario disegnato da Gian Maria Volontè in Indagine su un cittadino... ); tuttavia è proprio attraverso questo personaggio che Di Leo evidenzia la propria nichilistica visione del mondo ed irride agli stereotipi di sinistra ovvero alla consueta visione rousseauiana e marxista dell’uomo buono, corrotto dalle condizioni sociali, sbandierata, a più riprese, dal suo vice Mercuri (Luigi Pistilli). In Milano calibro 9 non vi sono personaggi realmente positivi, l’esistenza appare una spietata lotta per la vita, il carismatico protagonista è anch’egli un infido traditore che però possiede una debolezza sentimentale che lo perderà. Questa visione cinica e malinconica dell’umanità viene condotta con abile senso dello spettacolo dal regista, come dimostra il costante conflitto esistente tra la durezza dei personaggi e la dolcezza crepuscolare della musica e degli scenari urbani autunnali. Per tutto quanto sopra detto Milano calibro 9 si apparenta al nascente filone del cosiddetto poliziottesco di destra.
Il film avrebbe potuto divenire un reale classico se Di Leo avesse rinunciato o meglio calibrato le sequenze violente del racconto (come avviene, ad esempio, nell’elegante cinema di Melville), rendendole più omogenee al contesto fortemente realistico del racconto. Inutili e stupide appaiono le torture ai corrieri, le bombe utilizzate per eliminare alcuni componenti dell’organizzazione e la stessa carneficina finale alla villa appare abbastanza generica, più adatta a un western che a un poliziesco urbano.
Il buon esito commerciale del film convince Di Leo a replicare con La mala ordina (set. 1972; 100 min), nel quale il ruolo principale è affidato a Mario Adorf.
La mafia americana spedisce due killer (Henry Silva e Woody Strode) a Milano per eliminare Luca Canali (Mario Adorf), un poveraccio che vive alle spalle di alcune prostitute. Il boss locale Tressoldi (Adolfo Celi) ha fatto credere agli americani che Luca è il colpevole di un ingente furto di droga perpetrato ai danni dell’organizzazione, furto di cui è invece colpevole proprio Tressoldi. Inizia un’estenuante caccia all’uomo durante la quale Luca Canali si difende in modo brillante ed inatteso, ammazzando numerosi criminali. Nelle ultime sequenze egli riesce perfino ad eliminare Tressoldi e i due killer americani.
La pellicola, pur mantenendo lo stile brillante ed enfatico di Milano calibro 9, perde l’apporto fondamentale dello ieratico Gastone Moschin e si affida alla mimica sofferente e perennemente sopra le righe di Adorf. Intorno a lui, tutti gli altri personaggi sono figure di cartapesta, poco realistiche quando non grottesche, a un passo dal ridicolo. Manca completamente la polizia mentre le scene di violenza si sprecano, generando un effetto di saturazione. I dialoghi sono scadenti e la colonna sonora è alquanto generica. Rimangono all’attivo del film la bella ambientazione milanese (ancora una volta soprattutto ai navigli), un eccezionale inseguimento (quello in cui Luca riesce ad acciuffare e sopprimere il sicario che gli ha ammazzato moglie e figlia) e un Mario Adorf da antologia. Mancano questa volta veri riferimenti cinematografici (a Leone o a Melville) mentre permane la visione nichilistica dell’esistenza che si esprime in un universo di figure tutte uniformemente malvage, pronte a qualunque bassezza per soddisfare i propri interessi. La realtà si configura come scontro tra uomini per il controllo del territorio mentre in questa visione arcaica e patriarcale le figure femminili sono relegate nel fondale, in ruoli tutti legati alla propria sessualità.
Il film si avvale, inoltre, del contributo di un piccolo esercito di star dell’epoca quali Femi Benussi, Sylva Koscina, Francesca Romana Coluzzi e Luciana Paluzzi, tutte confinate in ruoli marginali.

Anche Amasi Damiani si cimenta con il pessimo Blood Story (mar. 1972; 90 min.) in un film di gangster, ambientato però negli anni venti, in un’America di cartapesta. Il modello evidente e irraggiungibile è Gangster Story (Penn, 1967) in questo film tedioso, interamente ambientato in una città fantasma (in realtà il set dismesso di un western) in cui due bande di manigoldi prima si affrontano, poi fanno amicizia. In seguito giunge una strana coppia - un presunto pastore (Tony Kendall) e sua moglie (Femi Benussi) - a muovere le acque. Infine sopraggiunge la polizia e fa una strage. Non si salva quasi nessuno.
La pellicola non possiede una vera e propria trama: allinea una serie di luoghi comuni (scontri a fuoco, partite a poker, scazzottate, contese per la bella di turno) condite da dialoghi inqualificabili.

Dopo il notevole Città violenta (1970), Sollima gira Il diavolo nel cervello (mar. 1972; 105 min), thriller psicologico che si colloca nell’ambito del giallo lenziano, con evidenti riferimenti a Hitchcock.
Oscar (Keir Dullea, l’astronauta di 2001) indaga su Sandra (Stefania Sandrelli), suo amore giovanile, la quale viene tenuta segregata dalla madre, la ricchissima contessa Claudia (Micheline Presle). Una tragedia si è abbattuta sulla giovane donna: il figlioletto sembra avere ucciso il padre (Maurice Ronet) e la donna, già fragile di nervi, è impazzita. Lo aiuta nelle indagini il medico Bontempi (un ottimo Tino Buazzelli, reduce dai cicli televisivi del 1969-71 in cui impersonava Nero Wolfe), il quale non tarda a capire che si tratta di una matassa assai aggrovigliata. In un crescendo di colpi di scena, ben orchestrati dal regista, dapprima scopriamo che il defunto marito - squattrinato e desideroso di diventare il “padrone di casa” - aveva indotto nella moglie uno stato di semifollia (secondo i consueti canoni del giallo lenziano) e poi aveva richiamato dal Venezuela l’amico di un tempo, proprio Oscar, per affidargli l’omicidio della moglie (come in Delitto perfetto di Hitchcock). All’ultimo però questi aveva desistito ed aveva invece ammazzato il suo “datore di lavoro” mentre Sandra precipitava in un abisso di follia...
La pellicola, di buon valore sebbene ignota ai più, possiede ambientazioni insolite (Mantova e il lago di Garda), atmosfere sospese e continui cambi di prospettiva in tutti i personaggi (basti pensare che, come nel Roger Ackroyd della Christie, il narratore e pseudo detective è anche l’assassino). Pur rimanendo in un ambito semplicemente domestico (la polizia non viene mai coinvolta), essa riesce a creare una notevole e continua tensione grazie all’ambiguità che avvolge tutti i personaggi (come nei migliori testi della già citata Christie), dal bambino morbosamente attaccato alla madre, a Sandra la cui follia potrebbe essere una commedia, alla contessa legata da una forte attrazione al genero. Sollima inoltre inserisce in questo elegante e sinistro dramma familiare un elemento di “leggerezza” con l’inserimento del simpatico Buazzelli che attenua il carattere noiosamente monolitico e troppo melodrammatico di Keir Dullea. Le musiche di Morricone invece aggiungono poco, limitandosi a una bella ma un po’ generica melodia vocale.

Giunto al proprio quarto lungometraggio, Eriprando Visconti si cimenta in un complicato poliziesco di ambiente giudiziario, Il vero e il falso (mar.1972; 95 min.), basato su una sceneggiatura scritta con Luigi Malerba.
A Latina, nel 1964, Luisa Santini (Paola Pitagora) viene accusata di avere ucciso Norma (Shirley Corrigan), amante del marito (Adalberto Maria Merli). Il procuratore Turrisi (Martin Balsam), ansioso di fare carriera con un caso importante, la incastra facilmente, evitando di approfondire una serie di contraddizioni. Sette anni dopo Luisa esce dal carcere e scopre che Norma, ancora viva,  abita a Roma con suo marito. Sconvolta la uccide. Viene nuovamente processata, praticamente per lo stesso delitto, avendo al proprio fianco l’avvocato Manin (Terence Hill) che si è invaghito di lei. Durante il dibattimento si scoprono le reali colpe del marito (aveva ucciso una ricattatrice e l’aveva fatta passare per Norma, ingannando polizia e magistratura), nonché le colpe di Turrisi, procuratore frettoloso e disinteressato alla verità. In ogni caso la donna non può evitare una nuova condanna.
La pellicola, ben recitata e scritta con ottimo senso del ritmo, riesce a tenere desta l’attenzione per l’intero corso del racconto, sebbene i numerosi colpi di scena siano tutti ampiamente prevedibili. Terence Hill cerca di accreditarsi come attore drammatico dopo i due Trinità, mentre Martin Balsam conferma la propria autorevolezza attoriale. Il film, interamente ambientato nelle aule di tribunale (di Latina e di Roma non si vede nulla), al punto che se ne potrebbe fare una riduzione teatrale, sembra avere un preciso scopo secondario: quello di attaccare una magistratura potente e spregiudicata la quale appare disinteressata alla scoperta della verità. Sia il procuratore Turrisi, sia i suoi superiori, appaiono figure meschine e pronte a sacrificare qualunque realtà fattuale ad un effimero successo giudiziario mentre la controparte avvocatizia risulta debole ed incapace di fronteggiare lo strapotere della casta dei giudici. Si tratta di una visione agli antipodi della visione odierna (2015) e legata al clima culturale dei primi anni settanta in cui una parte rilevante della magistratura - ben lungi dall’indagare il sistema politico e le sue estese corruzioni - veniva considerata come una componente di quel potere reazionario che era in prima linea a reprimere le frange estremistiche della contestazione di sinistra. E’ certamente questo l’aspetto più originale della pellicola nella quale una persona inerme ed innocente finisce stritolata nei meccanismi del potere giudiziario, viene condannata ingiustamente e spinta al delitto allorché scopre da sola una facile verità che gli inquirenti avevano colpevolmente trascurata. Si intravede, in quella donna comune, l’aspirazione ad una società più giusta ed attenta ai valori umani che proprio la magistratura, assorbita dalle proprie interne problematiche, finisce per non considerare. Una magistratura autoritaria, inoltre, che applicava ancora norme del fascismo e che, di lì a poco, con l’approvazione della legge Reale (1975) che limitava alcune libertà personali ed ampliava i poteri delle forze dell’ordine, si troverà in prima linea a combattere il terrorismo di destra e di sinistra. Sebbene, esteriormente, non si tratti di un film politico, Il vero e il falso finisce con l’avere una sua forza polemica nei confronti di un sistema giudiziario che appare, evidentemente, poco democratico.
Indovinate suonano le malinconiche musiche di Gaslini le quali, unite a scenari autunnali, conferiscono una patina intensa e crepuscolare all’inconsueto racconto.
Va infine ricordato che negli anni settanta ed ottanta la magistratura non indagava, se non saltuariamente, il sistema politico (la Dc e i suoi alleati) poiché non esisteva alcuna alternativa possibile al sistema politico imperniato sul partito unico della Democrazia Cristiana; dopo la caduta del muro e la fine del comunismo le cose cambieranno radicalmente e si giungerà alla ben nota stagione di tangentopoli (1992-94).
Il successo del film fu appena discreto.

Giuseppe Vari, regista poco presente nel genere poliziesco, gira il discreto Terza ipotesi su un caso di perfetta strategia criminale (mar 1972; 95 min.), titolo impegnativo dietro il quale si cela un insolito connubio di giallo tradizionale e thriller argentiano.
Si parte da una delle situazioni chiave de Il gatto a nove code (a sua volta memore di Blow Up): un fotografo (Lou Castel) e la sua compagna (Beba Loncar) fotografano per caso un’esecuzione di stampo mafioso che ha come vittima un procuratore della repubblica. La giovane coppia, aiutata da un amico più esperto (Massimo Serato), cerca di vendere prima ad un ‘organizzazione mafiosa, poi ad un settimanale le scottanti foto; intanto un misterioso killer ammazza a ripetizione gente implicata nel delitto e, poi, nel ricatto. La polizia, guidata da un brillante commissario (un ottimo Adolfo Celi) capisce che la pista mafiosa è errata e tende una trappola al vero colpevole, non prima che questi abbia massacrato l’amica del fotografo in una lunga sequenza di taglio argentiano.
Pur basandosi su una vicenda abbastanza scontata, la pellicola possiede un buon ritmo, interpreti adeguati, un’ambientazione verosimile (in una Roma grigia, periferica e poco riconoscibile) e una serie di colpi di scena non del tutto prevedibili. Nel film ritroviamo anche la tipica, sottintesa misoginia dell’autore de L’uccello dalle piume di cristallo in un racconto che ritrae le figure femminili tutte in ruoli di passivi oggetti del desiderio sessuale, quando non di vittime di una cieca violenza.

Nel suo ultimo film Renzo Russo si cimenta con l’ennesima variante di Vertigo (Hitchcock) in La rossa dalla pelle che scotta (mar.1972; 90 min.). A Istanbul un pittore squattrinato (Farley Granger) scopre che la sua affascinante modella e compagna (Erika Blanc) sta per abbandonarlo. In preda ad un raptus la uccide. Molto presto se ne ritrova in casa una perfetta copia la quale, come la precedente, amoreggia con chiunque la corteggi. Quando anche questa scompare, la polizia indaga senza trovare alcunché. Forse queste donne sono solo dei prodotti della mente malata del protagonista.
Il racconto si snoda in modo noioso e ripetitivo, affidandosi esclusivamente alla bravura dei due interpreti. I numerosi riferimenti cinematografici - oltre a Vertigo, la pellicola rimanda a La donna del ritratto (Lang, 1944) e a Un tranquillo posto di campagna (Petri, 1968) - non sono sufficienti a rendere interessante una pellicola girata con mezzi poverissimi e priva di reali momenti di tensione. Russo punta innanzitutto sulle grazie di Erika Blanc e di Krista Nell (un altro dei fantasmi del pittore) per tener desta l’attenzione del pubblico e scivola verso il più scontato racconto erotico.

Nell’ambito del più tradizionale filone gangsteristico - quello che risale allo Scarface (1931) di Hawks - si colloca I familiari delle vittime non saranno avvertiti (apr. 1972; 100 min.) diretto da Alberto De Martino.
Antonio Caruso (Antonio Sabato) riesce a scalare la mafia: dopo essersi offerto come sicario a Milano, riesce ad entrare nella famiglia del boss don Vincenzo (Telly Savalas) riportandogli la droga perduta da alcuni suoi sottoposti ad Amburgo (in realtà raggirati dallo stesso Caruso, tramite un agguato complicato e totalmente inverosimile). Il protagonista diviene sincero amico del capo di cui però disapprova alcune scelte, scambiandole per errori e debolezze; si ribella così al padrone e d’accordo con le altre famiglie, lo ammazza ad Amburgo, mentre è ricoverato in una clinica. Nel finale, futuro marito della nipote (Paola Tedesco) del vecchio boss, è diventato il nuovo padrino al quale tutti rendono omaggio.
La pellicola è girata con mano sicura: ottime e varie risultano le ambientazioni (Milano ed Amburgo particolarmente grigie ed autunnali, Palermo e Roma più luminose e colorate), abbastanza credibili gli attori e vivaci le sequenze d’azione. Il film si avventura anche nell’infido terreno della politica e racconta le amicizie importanti del boss con politici di governo: la mafia ricatta un uomo di potere, usando un giornalista di sinistra al quale si comunicano, in modo strumentale, notizie su un importante omicidio politico (ci si riferisce al caso Mattei); ottenuto ciò che voleva dal politico, la mafia scarica il giornalista e lo fa saltare in aria. E’ un meccanismo illustrato con cinica lucidità nel quale ritroviamo, in fondo, la storia dell’Italia delle misteriose stragi e degli omicidi eccellenti, le fughe di notizie che aprono improvvisi squarci di luce cui seguono lunghi, assordanti silenzi. I media vengono utilizzati, insomma, per ricattare piuttosto che per informare, pratica usuale negli anni settanta come ai giorni nostri. La verità appare pertanto irraggiungibile, sepolta dietro a potenti clan e gruppi d’interessi che si scontrano quotidianamente, utilizzando il mondo delle informazioni come arma minacciosa, nel massimo spregio per i destinatari ultimi della carta stampata, della comunicazione radiotelevisiva ovvero il grande pubblico. Il film di De martino, sebbene si tratti di una pellicola gangsteristica rivolta ad un pubblico poco esigente, illustra in modo sottile questo perverso meccanismo.
Il film inoltre mostra legami con due pellicole importanti: De Martino sembra già conoscere Il padrino di Coppola (uscito nel mar. 1972 negli Usa; arriverà nelle sale italiane solo nei giorni del Natale 1972), di cui imita alcune situazioni nella descrizione della famiglia mafiosa, delle sue residenze e delle sue cerimonie (la sequenza conclusiva del funerale con l’investitura del nuovo padrino); anche l’episodio del boss in ospedale può ricordare quello con Marlon Brando in ospedale. Al di là delle singole situazioni, nel film di De Martino si respirano atmosfere simili a quelle, certamente più eleganti e rifinite, presenti nel capolavoro hollywoodiano.
Infine la sequenza finale, nella seconda parte ambientata ad Amburgo, con il protagonista che corre verso il porto in compagnia del fratello ferito a morte su una macchina dei pompieri esclamando “ce l’abbiamo fatta”, non può non ricordare il poetico finale de L’amico americano (Wenders, 1977), pellicola ambientata ad Amburgo, con Dennis Hopper che, a bordo di un’autoambulanza in fuga da una sparatoria, viaggia verso il mare aperto: non solo la situazione è simile; anche Hopper esclama la frase di rito (“ce l’abbiamo fatta”) ed entrambi i gangster si liberano della loro ingombrante vettura dandole fuoco.
Nonostante le buone qualità complessive, gli incassi de I familiari delle vittime... furono modesti.

Del tutto differente e decisamente poco riuscito è il successivo L’assassino è al telefono (set. 1972; 95 min.), sceneggiato con Adriano Bolzoni ed altri, in cui si raccontano le peripezie di un’attrice (Anne Heywood) che ha perso la memoria dopo aver assistito, cinque anni prima, all’omicidio del suo fidanzato. La donna vaga in preda a ricordi confusi che si mischiano con fantasie ed apparizioni minacciose. In particolare la donna si trova spesso di fronte l’assassino (Telly Savalas) di allora ma, ovviamente, non viene creduta da amici, familiari, nonché dal marito. Il film gira a vuoto con tempi lentissimi e affida il proprio fascino agli scenari di Bruges e Ostenda ed alle suadenti musiche di Cipriani. Il thriller però non decolla mai, neppure quando il killer (incaricato non sappiamo da chi), ammazza, per errore, la sorella della protagonista. Il finale truculento avviene in teatro con il sicario stritolato dalle macchine di scena e dal sipario. La soluzione è quanto mai assurda e improbabile (un amore lesbico si cela dietro a tutte queste violenze).
Gli attori appaiono poco convinti, le situazioni vengono dilatate senza motivo mentre tutti i personaggi - figure sfocate e poco interessanti - appaiono sospettabili. Il film possiede inoltre evidenti somiglianze con il bellissimo Images (apr. 1972) di Robert Altman, pellicola in cui si raccontano le allucinazioni di una donna insoddisfatta (Susannah York) che immagina intorno a sé, oltre al marito, i suoi vecchi amanti in un crescendo di follia. E’ possibile che De Martino si sia ispirato a quel testo, assai più sperimentale e creativo, per inventare il proprio personaggio all’interno però di un contesto narrativo più convenzionale e prevedibile.
Gli incassi furono modesti.

Casa d’appuntamento (mag 1972; 90 min.) è il secondo, disastroso film di Fernando Merighi. Vi si narra l’interminabile serie di omicidi che avvengono in un elegante bordello. C’è un indiziato, un probabile colpevole e un commissario che indaga in una Parigi invisibile (a parte uno sgangherato inseguimento sull’immancabile torre Eiffel). Pur sommando reminiscenze del citatissimo Bella di giorno (Bunuel 1966), di 6 donne per l’assassino (Bava, 1964) e perfino de L’uccello dalle piume di cristallo (Argento, 1970), il film non possiede alcun reale pregio: trama sconclusionata, attori modesti, omicidi ripetitivi nella messa in scena, dialoghi stereotipati e noiosa prevalenza di interni, tipica dei film a basso costo. Appare sprecato il cast che si avvale, tra gli altri, di Anita Ekberg, Barbara Bouchet e Rosalba Neri. L’assassino, alquanto prevedibile, è il solito scienziato folle che sembra uscito da un film gotico della Hammer Film.
Gli incassi furono irrisori.

La mano lunga del padrino (giu. 1972) è l’unico lungometraggio firmato da Nardo Bonomi. Il titolo e l’argomento anticipa il grande successo italiano del famoso film di Coppola (uscito negli Usa nel marzo 1972), mentre il protagonista Peter Lee Lawrence cerca di imitare Alain Delon.
Vincenzo (Peter Lee Lawrence) si impadronisce di un carico d’armi, uccide buona parte dei complici e tenta di ammazzare anche il capobanda, il padrino Don Carmelo (Adolfo Celi). Quest’ultimo sopravvive e lo insegue fino a un porto della Tunisia dove Vincenzo, in compagnia della bella Sabina (Erika Blanc) cerca di vendere la refurtiva ad un emiro locale. Sparatorie ed inseguimenti, per terra e per mare, si susseguono nel suggestivo scenario mediterraneo. Il nostro protagonista si salverà per miracolo.
La pellicola procede stancamente, mettendo in scena stereotipi senza valore, situazioni scontate e dialoghi inverosimili. Si salva solo l’ambientazione tunisina.

In Camorra (ago 1972; 100 min.), quarta fatica di Pasquale Squitieri, si racconta, senza troppa fantasia, l’ascesa e caduta del piccolo criminale Tonino (Fabio Testi). Orgoglioso e divorato dall’ambizione, diviene il braccio destro dell’importante boss don Mario Capece (Raymond Pellegrin); dopo avergli rubato la donna (Jean Seberg) ed essere divenuto il rispettato proprietario di alcune case da gioco, vorrebbe prendere il posto del capo il quale, nel frattempo, cerca di farlo eliminare. Nella sanguinosa conclusione, sulle pendici del Vesuvio, Tonino ammazza Capece e poi si consegna alla polizia.
Il film ricalca il recente I familiari delle vittime non saranno avvertiti (De Martino), con Fabio Testi nel ruolo di Antonio Sabato, Jean Seberg invece di Paola Tedesco (si tratta però dell’amante del boss anziché della nipote) e Raymond Pellegrin in quello di Telly Savalas; al posto della mafia siciliana troviamo invece la camorra.
La pellicola, pur dotata di un buon cast (c’è anche un ottimo Charles Vanel), di una valida ambientazione napoletana e di un ritmo serrato, si dipana senza vere sorprese e non lascia traccia nella memoria. L’intento del regista era, probabilmente, quello di inserirsi nel fortunato filone del cinema antimafioso (da Il giorno della civetta e Confessione di un commissario di polizia... ); ne è riprova il quadro a tutto campo che la pellicola si sforza di offrire dell’organizzazione criminale e dei suoi interessi (nel film la camorra controlla mercato della carne e del pesce, case da gioco, contrabbando, prostituzione e soprattutto l’edilizia); ciononostante questi differenti contesti rimangono del tutto sfocati e funzionano come cornici suggestive delle numerose sequenze d’azione che costituiscono, di fatto, l’unica ragion d’essere del lavoro. L’episodio più forte e significativo - quello in cui si delinea una critica sociale più netta e coraggiosa - risulta essere il pestaggio di un sindacalista che cercava di ottenere condizioni di lavoro migliori per i lavoratori del macello della carne: l’intervento violento di Tonino e dei camorristi mette fuori gioco l’ingenuo oppositore mentre i compagni del sindacalista, intimoriti, riprendono subito il lavoro.
La pellicola ottenne un buon successo.

Leopoldo Savona si cimenta per la prima volta nel giallo all’italiana con il mediocre La morte scende leggera (ago. 1972; 80 min.), pellicola sceneggiata con Luigi Russo.
Il criminale George (Stelio Candelli), di ritorno dagli Usa, trova nel suo letto la moglie sgozzata (così almeno racconta) e va nascondersi, insieme con la sua amante (Patrizia Viotti), in un hotel disabitato, nel quale, gradualmente, appaiono una serie di insoliti, stralunati personaggi, quasi dei fantasmi. La coppia precipita in un vortice di terrore che genera altri morti. La soluzione di questo giallo claustrofobico è abbastanza scontata: il colpevole è proprio l’amante di George che aveva ucciso dapprima la rivale, poi uno dei presunti fantasmi che minacciava di sedurre il suo uomo. Le apparizioni, invece, erano inscenate da una compagnia di attori, assoldata dalla polizia che voleva indurre George alla confessione.
La pellicola, evidentemente imparentata con il filone lenziano in cui realtà e apparenza si confondono all’interno di complicati disegni complottistici, si perde in un affastellarsi di situazioni improbabili e tediose, in bilico tra poliziesco e film gotico. Savona mostra di non sapere padroneggiare la complessa situazione e cerca di riempire i tempi morti con sequenze erotiche. Il cast è poi del tutto ordinario e incapace di aggiungere interesse alla pellicola. Insolita invece la discreta colonna sonora rock di Lallo Gori, con atmosfere che riecheggiano quelle dei Pink Floyd di Ummagumma (1969).
L’unico elemento di interesse consiste nell’anticipazione di situazioni del futuro capolavoro Shining (Kubrick, 1980): non solo è identica la situazione complessiva, ma vi sono anche singole immagini (l’apparizione di una pallina in corsa in un corridoio altrimenti deserto) che torneranno nel film dell’artista americano che, probabilmente, conosceva questo ed altri film italiani (ad es. Un tranquillo posto di campagna, Petri, 1968) basati su soggetti simili a quello del romanzo di Stephen King da cui deriva Shining.

Con il pregevole Torino nera (set. 1972; 100 min.), Lizzani completa una sorta di tetralogia del dramma criminale. Come per Svegliati e uccidi, Banditi a Milano e Barbagia, anche in questa pellicola Lizzani è molto attento al contesto sociale in cui inserisce l’insolita vicenda, fino al punto di dedicare circa un terzo del film ad un’attenta ricognizione di luoghi e personaggi di una Torino povera, laboriosa e razzista. Pur non mancando i consueti eccessi propagandistici e le numerose inverosimiglianze, soprattutto in relazione alla condotta dei due giovanissimi protagonisti, il quadro semidocumentaristico possiede una sua pregnanza e riesce a calare lo spettatore nel differente e malinconico universo degli anni settanta.
L’operaio siciliano Rosario (un inedito Bud Spencer) si trova coinvolto in un omicidio allo stadio. Egli è certamente innocente ma qualcuno lo ha incastrato in modo perfetto: il tribunale lo riconosce colpevole, ma i due giovanissimi suoi figli, come pure Mancuso, un simpatico avvocato (Nicola Di Bari), non si danno per vinti e indagano. I testimoni, che al processo hanno dichiarato il falso, in evidente accordo con i colpevoli, vengono eliminati e numerosi sono pure  tentativi di far fuori l’avvocato e i due giovani “aiutanti”. La polizia è lassista, i giudici sono disattenti e nonostante appaia evidente che qualcosa non torna nella condanna di Rosario, niente si muove realmente. Quest’ultimo dovrà farsi giustizia da solo: fuggito in modo rocambolesco dalla prigionia, egli ammazza i due colpevoli, uno dei quali divenuto ormai un rispettabile costruttore torinese.
Il film illumina una presunta realtà mafiosa che controlla il lavoro edile, racconta lo sfruttamento selvaggio cui sono sottoposti gli immigrati ad opera di altri immigrati più potenti e legati in patti criminali e la difficoltà di chi vorrebbe rimanere onesto in quel contesto. Il capomafia Mariano (Marcel Bozzuffi), nella sua ascesa da capo operaio a rispettabile costruttore, decide addirittura di eliminare il proprio braccio destro Trotta (Guido Leontini) il quale era a conoscenza di troppe malefatte e chi, come Rosario, si ostinava a infastidire la gestione dei cantieri, ricorrendo costantemente ai sindacati. Se il disegno è chiaro e credibile (il film si ispira a fatti reali avvenuti però in Sicilia), quello che stupisce è da un lato la descrizione della mala giustizia (ma quelli erano giorni in cui il Pci e i magistrati non avevano o fingevano di non avere il “feeling” dell’epoca posteriore alla caduta del Muro di Berlino) e dall’altro la decisione di trasformare Rosario da vero eroe a tutto tondo degli ideali solidaristici della sinistra a giustiziere spietato (sebbene giustificato dal massacro subito da uno dei suoi ragazzi). La pellicola, forse senza rendersene conto, finisce con l’abbracciare valori e modi di pensiero tipici della destra conservatrice e del suo cinema “poliziottesco”, in quei giorni ancora agli inizi. Non a caso Lizzani, in alcune interviste posteriori, sembra disprezzare questa pellicola, definendola un lavoro minore e di nessun conto. In realtà il film è assai migliore del mediocre Barbagia ed anche dei sermoneggianti Banditi e Milano e Svegliati e uccidi. Infatti in Torino nera l’intreccio di affresco socio-politico e vicenda criminale è quasi perfetto, grazie soprattutto ad una sceneggiatura ben calibrata ed attenta a dipanare l’intricata matassa passo dopo passo, senza fretta. Inoltre appare evidente che Lizzani e i suoi collaboratori i sono ispirati alla felice trilogia degli animali di Argento: hanno scelto come protagonista Bud Spencer, che aveva avuto un ruolo serio già in 4 mosche di velluto grigio, hanno poi affidato i compiti investigativi ad un dilettante (un avvocato) come ne L’uccello dalle piume di cristallo ed hanno infine fatto ruotare il mistero intorno ad una misteriosa fotografia che ritrae casualmente l’assassinio, come ne Il gatto a nove code.
Torino nera è un dramma criminale di buon valore, anche grazie al ricco e perfetto cast che allinea, in ruoli differenti, Francoise Fabian, Marcel Bozzuffi, Guido Leontini e i due recenti protagonisti del Pinocchio (1972) di Comencini. Lizzani ha fatto muovere i suoi attori in una Torino variegata, dalle eleganti piazze centrali (piazza Castello) ai dimenticati bassifondi popolati di piccoli bar e strade semideserte, dai cantieri pullulanti di manovali al lavoro ai piacevoli panorami del parco del Valentino.
Il regista prende in esame il problema della mafia e delle sue tentacolari capacità di sopprimere chiunque si opponga ai propri disegni: in tal senso il film prosegue anche l’opera di Damiani (soprattutto il trionfo commerciale di Confesssione di un commissario di polizia... 1971) e va notato che, allorché gli autori della sinistra militante affrontano il loro principale nemico (in tal senso più pericoloso e decisivo perfino della DC), essi perdono il loro rigido autocontrollo morale e tendono a giustificare maggiormente la giustizia individuale, tanto più in un’epoca in cui la polizia (soprattutto dopo la morte di Pinelli, 1969) era considerata una componente della macchina repressiva dello stato. Rosario quindi uccide esasperato, per vendicare i torti subiti e per denunciare una situazione di insostenibile ”dittatura” mafiosa e non certo per soddisfare un principio d’ordine, come capita ai protagonisti del cinema poliziesco della destra. In tal senso Torino nera rimane coerente con un certo cinema militante e manicheo in cui male e bene sono rigidamente separati e si fronteggiano, consci che nessun accordo negoziale è possibile tra due mondi ideali tanto distanti.

Di nessun interesse è invece Amore e morte nel giardino degli dei (set. 1972; 100 min.), unico film di Sauro Scavolini il quale si attarda a descrivere per i primi due terzi del racconto il presunto rapporto incestuoso tra Azzurra (Erika Blanc) e Manfredi (Peter Lee Lawrence); in realtà il secondo è stato adottato e dunque è fratello solo anagraficamente della donna. Nell’ultima parte Manfredi si rivela un pericoloso psicopatico e, divorato dalla gelosia, ammazza Azzurra. Poi tenta di uccidere un professore, attuale affittuario nella sua sontuosa abitazione, il quale, consapevole del pericolo, dissemina il giardino di grosse tagliole. In una di queste rimane ferito a morte il folle protagonista (idea efficace, “rubata” però al recente Cane di paglia, Peckinpah, 1971).
La pellicola abbonda di inutili tempi morti e dilata oltremodo una sceneggiatura adatta a un modesto mediometraggio. Inoltre tutto vi appare artificioso, inverosimile e tedioso: dialoghi, recitazione e ambientazione in uno spazio sostanzialmente astratto e teatrale (solo in un paio di sequenze viene mostrata la “vita reale” della vicina Spoleto).
La pellicola è un prevedibile fiasco commerciale.

Scadente risulta anche Al tropico del cancro (set. 1972; 90 mi.) diretto da Edoardo Mulargia e Gian Paolo Lomi, strano innesto di thriller e film esotico. In una Haiti divisa tra cattolicesimo e riti voodoo, memore de Il dio serpente (Vivarelli, 1970), si scontrano differenzi fazioni alla ricerca della misteriosa formula scientifica di una nuova droga allucinogena. Qualcuno uccide a ripetizione (i delitti seguono i nuovi moduli stilistici argentiani) mentre lo scienziato (Anthony Steffen) al centro del girotondo fa finta di nulla. Tra gli altri attori ricordiamo Gabriele Tinti, Anita Strindberg e Umberto Raho. Come in un film di Bava (Cinque bambole, Reazione a catena) non sopravvive quasi nessuno.
Il film non possiede né la grazia poetica del film di Vivarelli, né la tensione minacciosa del cinema di Argento e Bava; inoltre la trama appare poco approfondita e pretestuosa. Il film passò inosservato.

Nel suo unico lungometraggio Francesco Mazzei si cimenta con un giallo di ambientazione insolita: ne L’ora, l’arma, il movente (nov. 1972; 100 min.) quasi tutto ciò che conta avviene tra le mura di un convento romano.
Don Giorgio (Maurizio Bonuglia) ha addirittura due amanti, entrambe sposate: Orchidea (Bedy Moratti) e Giulia (Eva Czemerys). Poco dopo aver lasciato la prima, il prete viene ucciso in chiesa. Il trovatello Ferruccio vede la scena ma non parla mentre lo scanzonato ispettore (Renzo Montagnani) sospetta Orchidea. Poi i cadaveri si ammucchiano: muore Giuli che ricattava l’assassino e sembra suicidarsi il marito di Orchidea. Intanto Ferruccio riesce a farsi adottare da Orchidea con la quale stabilisce un pericoloso gioco fatto di piccoli ricatti. E’ proprio lei la spietata assassina la quale tenta anche di uccidere il bambino ma viene scoperta proprio il giorno delle sue nozze con l’ispettore, un poliziotto simpatico ma abbastanza tonto.
In questa insolita e interessante pellicola, Mazzei miscela giallo tradizionale (whodonit) e affresco religioso semiblasfemo nella scia del grande successo scandalistico de I diavoli (Russell, 1971). Il ritmo è serrato, numerosi sono i colpi di scena (anche se l’identità dell’assassino è subito evidente) e i riferimenti letterari (in particolare quello al delitto in camera chiusa, imitato brillantemente dall’assassina). Bravissima poi la Moratti intorno al cui sinistro fascino ruota e si regge l’intera vicenda: seduttrice senza scrupoli e spietata assassina, l’attrice disegna una figura chiaramente ispirata alla psicopatica de L’uccello dalle piume di cristallo, di cui rievoca anche la figura fisica. Una sottile vena misogina accomuna, infatti, il film di Mazzei alla trilogia degli animali argentiana e lo inserisce nel panorama di quel cinema che, negli anni del femminismo, propone figure femminili minacciose e quasi demoniache, la cui mostruosità caratteriale costituisce una sorta di reazione maschile (confinata al mondo del fantastico) alla rivoluzione antropologica in atto. Non dimentichiamo che Orchidea uccide poiché non accetta di venire rifiutata dal sacerdote, sul quale, invece, ambisce ad avere un totale controllo. In seguito cerca di soggiogare il commissario, seducendolo ed addirittura sposandolo dopo avere abilmente eliminato l’insignificante marito. Orchidea uccide tutti coloro che non riesce più ad assoggettare.
L’esito commerciale fu modesto.

Ferdinando Baldi, esperto regista di western e film d’avventure, esordisce nel poliziesco con il modesto Afyon oppio (dic. 1972; 90 min.) nel quale si coniugano documentario, intreccio internazionale alla James Bond e racconto di mafia.
Joseph Coppola (Ben Gazzara), misterioso trafficante italoamericano, acquista in Turchia, ad Afyon (cittadina situata nel cuore dell’Anatolia), un ingente quantitativo di oppio e lo fa trasferire in Sicilia per farlo raffinare (ossia per ricavarvi morfina ed eroina). Qui entra in rapporto con il potente padrino Calogero (Corrado Gaipa) il quale esige una grossa percentuale della droga in cambio del suo trattamento e della sua spedizione, lungo canali collaudati e segreti, a New York. Il protagonista finge di accettare: a New York recupera da solo, dallo scafo della nave al quale era attaccato, la droga e si scontra con differenti bande criminali. Nel finale, tutt’altro che inatteso, scopriamo che Joseph è, in realtà, un agente del governo americano.
La prima parte del racconto è interessante per gli scenari turchi (Istanbul e l’Anatolia) ben fotografati e per il taglio documentaristico che spiega al grande pubblico come si ricava l’oppio, come viene trattato e quale percorso compia intorno al globo. A livello narrativo invece Baldi allinea noiosi stereotipi e li cala in un racconto dal ritmo lento e soporifero. Le cose peggiorano in Sicilia dove l’autore inserisce improbabili ed inutili siparietti amorosi del protagonista con la vedova (Malisa Longo) di un boss mentre tutta la parte finale a New York procede in modo abbastanza goffo e caotico. L’unico attore che riesce a suscitare un certo interesse è Gazzara, grazie alle sua ben note mimiche simpatiche e stralunate. Afyon oppio conferma l’estraneità del regista a questo genere narrativo; anche nella filmografia successiva di Baldi non compariranno più racconti polizieschi.
Gli incassi furono discreti.

testo pubblicato nel feb. 2015; ultimo aggiornamento: ott. 2019