Travolti da un insolito destino e Colpita da improvviso benessere

Sistemo l’America e torno, Tutto a posto e niente in ordine, Travolti da un insolito destino...,  Le farò da padre, La poliziotta, L’Italia s’è rotta, Febbre da cavallo, Il bestione, Di che segno sei, Signor Robinson, A mezzanotte va la ronda del piacere, Attenti al buffone, Colpita da improvviso benessere, Geometra Prinetti selvaggiamente Osvaldo, Basta che non si sappia in giro, Quelle strane occasioni: proletari e borghesi nelle commedie di metà decennio (1974-1976)

                “Sì ti prego amore, tu sei il mio primo vero
                 uomo…sodomizzami!”
                “Senti un po’, brutta fitusa borghese carugnona:
                ma tu lo fai apposta per farmi sentire ignorante
                con ‘ste parole difficili! Ma questa cosa che porcheria è,
                che nun te capisco? ! Che caspita sarebbe?”
                dialogo tra la borghese e il marinaio (Travolti...)

Dopo avere esagerato con il paradossale Detenuto in attesa di giudizio, Nanni Loy gira Sistemo l’America e torno (feb. 1974; 100 min.) in cui propone la medesima formula denigratoria nei confronti degli odiati (da parte dei socialcomunisti) Usa. Il regista si inserisce nella tradizione del film semituristico volto a ilustrare le differenze radicali che separano Italia e Stati Uniti (si vedano Un italiano in America di Sordi, 1966, e Una moglie americana di Polidoro, 1965) aggiungendovi però un atteggiamento inutilmente caustico (che era già presente nel pessimo Permette Rocco Papaleo, Scola, 1970) con un unico ed evidente scopo: fare propaganda antiamericana. Verrebbe facilmente da dire al bravo regista che, in ogni caso, aveva potuto girare in lungo e in largo gli Usa, creando le immagini che preferiva e che ora si attendeva un lavoro simile sull’Unione Sovietica, un “paradiso” in cui nessuno straniero poteva liberamente circolare (con l’eccezione delle solite due o tre metropoli, rigorosamente all’interno di tour concordati con le autorità).
Dunque quella di Loy è un’occasione mancata anche perchè disponeva di Paolo Villaggio nel ruolo di un ragioniere di Lambrate, nostalgico di casa e soggiogato da un feroce e potentissimo capo che lo insulta quotidianamente e gli dà ordini come a uno schiavo. Loy aveva tra le mani Fantozzi, un anno prima, e non se ne è accorto, lasciando il protagonista ai margini di una narrazione tutta volta a mostrare all’italiano medio come malamente vivono e sopravvivono gli americani. Di fatto le uniche parti godibili del racconto sono proprio quelle “telefoniche” che vedono il ragioniere alle prese col proprio inflessibile superiore. Per il resto Loy riprende scenari americani (New York, Detroit, Reno, New Orleans) sempre in campo lungo, spesso senza musica al fine di creare un finto documentario deprimente e uggioso in cui si spiega come sia ottuso e razzista l’americano medio e come altresì ogni speranza di rinnovamente sia affidata al movimento delle Black Panther che, ovviamente, contesta radicalmente il sistema. Si tratta di costruzioni filmiche faziose in cui l’americano è sempre ritratto a distanza, semimuto e in atteggiameni odiosi, cosa che non rispecchia l’esperienza di qualunque viaggiatore che abbia girato gli Usa, trovandovi per lo più persone cordiali e disponibili.
In questo girovagare, sempre ai margini dei contesti sociali più ordinari, Loy ha il pregio di illustrare anche i ghettti neri e la loro teribile povertà in alcune sequenze molto intense ed espressive (commentate da un’appropriata, triste musica jazzistica di Bacalov), che certamente non avremmo visto nei film di Hollywood, nemmno in quelli della nuova Hollywood di Pollack e Peckinpah. Ma rimane un piccolo frammento di verità in un mare di “bugie” filmiche.
La vicenda è un mero pretesto senza interesse: il ragioniere deve portare in Italia un campione di basket il quale però è anche un attivista delle Black Panther; finirà male.
In particolare la lunga sequenza finale, basata su feroci scontri tra neri e bianchi e poi tra neri e polizia, dopo una partita, appare evidentemente ricalcata su quella famosa e ben altrimenti efficace che conclude Fragole e sangue (Hagmann, 1970).
Gli incassi furono modesti.

Dopo una coppia di film di notevole successo (Mimì e Film d’amore e d’anarchia, 1972-73), la Wertmuller si avventura in un insoltio lavoro che coniuga neorealismo e commedia farsesca nel mediocre Tutto a posto e niente in ordine (feb. 1974; 110 min.), forse influenzata dal tentativo “neorealistico” di Scola intitolato Trevico-Torino (1973; vedi). Pertanto sceglie una serie di volti poco noti (da Claudio Volontè e Isa Danieli, da Giuliana Calandra a Luigi Diberti) e li scaraventa in una Milano indaffarata (prevale ovunque un traffico opprimente) e ritratta con efficacia (Piazza San Babila, la Stazione Centrale, piazza Cinque Giornate, piazza Oberdan) nel ruolo di un piccolo esercito di immigrati con cento problemi.
Il film commete l’errore di unire una cornice fortemente realistica con personaggi tutti caricaturali, di felliniana memoria, pieni di problemi assurdi (uno di loro ha addirittura sette figli, tutti neonati o quasi e la moglie è ancora incinta...) e agitati dalle passioni più differenti. Ci sono alcuni lavoratori rassegnati, un aspirante ladro, uno coinvolto in oscure trame politiche (non poteva mancare un bomba fascista nella Milano di piazza Fontana, oltre alle solite manifestazioni di piazza e scontri con la polizia), donne che si prostituiscono segretamente, altre che mirano al benessere della classe media, sancito da un buon matrimonio. Dunque un film corale, popolato da personaggi tutti estremi e “vocianti” che saturano rapidamente la pazienza dello spettatore, angustiati da problemi facilmente risolvibili con un po’ di buon senso. Il problema del film è costituito dall’approssimazione di tutte le storie e di tutti i caratteri psicologici, grave pecca in una pellicola che si vorrebbe fortemente realistica, almeno quanto a fondale e situazione di partenza (che è poi quella di Rocco e i suoi fratelli; non a caso il film inizia con il classico arrivo dei meridionali alla Stazione Centrale). La simpatia è ovviamente per questi diseredati anche se la maniera di descriverli - tra ladre e prostitute, scioperi immotivati e padroni filofascisti - non aiuta la causa. All’atttivo del film rimane solamente il ritratto della città lombarda.
Lina Wertmuller appare affezionata a questa pellicola poichè ha intitolato la sua interessante autobiografia Tutto a posto e niente in ordine (Mondadori, 2012).
Gli incassi furono modesti.
Dopo questo insuccesso Lina Wertmuller ritorna alla coppia che gli aveva garantito i due sorprendenti esiti di inizio decennio (Mimì e Storia d’amore e di anarchia) e firma lo stravagante Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (dic. 1974; 110 min.) in cui la bravura e il fascino di Maringela Melato (mai così bella) e Giancarlo Giannini, perfettamente diretti dalla regista, rendono la commedia piacevole e quasi memorabile nonostante i numerosi difetti di sceneggiatura. Non a caso si tratta del più grande successo della Wrmuller (insieme a Mimì) e del suo ultimo film in grado di riscuotere un vero e proprio trionfo al botteghino. La fama internazionale di Travolti da un insolito destino porterà a un mediocre remake - Travolti dal destino (Swept Away; G. Ritchie, 2002) con Madonna e Adriano Giannini, che passerà del tutto inosservato.
Durante una vacanza nel mar di Sardegna una ricca milanese snob e un marinaio siciliano di simpatie comuniste finiscono naufraghi su una magnifica isoletta. Ci restano a lungo, quanto basti perchè l’odio si trasformi in un travolgente amore. Tornati alla realtà, risucchiati dalla routine familiare (entrambi sono sposati, l’uomo ha anche dei figli), si lasciano tra lacrime e rimpianti.
La storia è poca cosa e riduce la narrazione ai due soli protagonisti nella cornice di una natura sontuosa e magica. Non è gran cosa neppure il percorso psicologico di rovesciamento dei ruoli (la padrona diviene una felice schiava mentre il servo si trasforma in orgoglioso capofamiglia), quanto mai prevedibile e neppure i dialoghi, ripetitivi e spesso sciocchi, aiutano. La bellezza incantatoria del film è tutto nelle sue dolci imamgini e nella incredibile partecipazione emotiva degli interpreti ai quali la regista riesce a strappare una performance indimenticabile, fatta di intensi primi piani e di strepitosi corpo a corpo, ora violenti, ora erotici.
Venendo a discutere la parte simbolico-politica del racconto, ci si trova di fronte a un guazzabuglio poco perdonabile e del tutto inverosimile. Una ricca signora del nord, colta e altera (la tipica radical chic che, in genere, votava socialista) si trasforma in un’accanita e reazionaria padroncina mentre un siciliano brutale e intriso di cultura patriracale del sud, deciso assertore della superiorità maschile, da far valere anche con la forza (infatti la Melato viene più e più volte pestata), diviene uno schietto rappresentante del comunismo di rigida osservanza. E’ evidente che la costruzione dei personaggi è astratta e libresca: un simile marinaio era, semmai, un tipico rappresentante della cultura conservatrice meridionale che votava DC e che guardava con grande sospetto al progressismo socialista. Attribuirgli tutte le rivendicazioni sindacali ed economiche del periodo non ha molto senso. Se poi la Wertmuller pensava di celebrare, a suo modo, il compromesso storico (che muoveva i suoi primi passi nell’autunno 1973, dopo il golpe cileno) con un racconto simbolico, i limiti apparivano evidenti per quanto detto sopra e il finale amaro e inconcludente (entrambi i personaggi tornano al punto di partenza) mostrava il forte scetticismo che accompagnava quell’ardito progetto, progetto che in effetti si infrangerà sul delitto Moro (mag. 1978). In ogni caso la brutalità insistente di Giannini, oggi certamente la parte più caduca del racconto, risultava già in se stessa una sconfessione di quell’accordo paritario tra forze politiche tanto diverse, tanto più che nella realtà politica era piuttosto il Pci a interpretare il ruolo di forza politica soccombente e disposta (in realtà solo a livello tattico per la parte più intransigente dei suoi dirigenti) ad accettare le dure regole imposte da una prepotente DC.
Nello scenario naturalistico in cui la strana coppia deve lottare per la sopravivenza, l’uomo può imporre nuovamente il proprio assoluto predominio e la donna finisce con l’accettarlo ed anzi sembra addirittura chiedere di venire ulteriormente brutalizzata; in realtà la vicenda assorbe tutta un’altra serie di umori che provengono dalla cultura libertaria e hippy che aveva segnato soprattuto la seconda metà degli anni sessanta. Così alcune immagini della coppia nuda, distesa sulla sabbia, rimandano apertamente a Zabriskie Point (vero e proprio omaggio alla cultura della trasgressione libertaria) mentre il punto culminante della storia erotica tra questi due semisconosciuti (la richiesta di venire “sodomizzata” della milanese chic) deriva direttamente da Ultimo tango a Parigi al quale, per certi aspetti, il film rimanda (una storia erotica, accesa e transitoria, tra due estranei, decisi ad infrangere ogni convenzionale barriera per potere sperimentare tutte le possibilità del piacere sessuali, inibito nei normali contesti di un’assestata routine matrimoniale). Su questo versante, più libertario e meno politico, il film funziona meglio e rimane uno degli ultimi esempi (più  meno consapevole) di cinema della trasgressione.
Il trionfo commerciale situa la pellicola al quinto posto degli incassi della stagione 1974-75.

Alberto Lattuada, specializzato nel raccontare amori trasgressivi e impossibili (da I dolci inganni a L’amica, Da Venga a prendere il caffè da noi a Bianco rosso e... solo per citare qualche titolo) firma Le farò da padre (lug. 1974; 105 min.) ovvero film tanto audace quanto brutto.
Nella prima parte, più convenzionale e godibile, assistiamo all’irrompere nella pace aristocratica del Salento, a Lecce, di un affarista milanese (il romano Luigi Proietti) che cerca di corrompere la famiglia degli Spina, guidata dalla contessa Raimonda (Irene Papas) affinchè gli conceda una serie di terreni sul mare per una grande operazione di speculazione edilizia. Poi però prende a cuore Clotilde, la figlia sedicenne (Therese Ann Savoy), bella e ritardata, degli Spina, fino ad innamorarsene. Prima la fa rapire, per indurre  Raimonda a cedere, poi ne viene sedotto fino al punto da dimenticare tutti i propri impegni affaristico-criminali: la seconda parte del film, alquanto imbarazzante, ritrae l’uomo e la ragazzina semiscema, ma costantemente eccitata, che amoreggiano dimenticandosi di tutto e di tutti. Raimonda scopre il fatto, comprende il punto debole dell’uomo e, in qualche modo, lo incastra concedendogli Clotidle e nient’altro.
Lattuada inizia una commedia di costume di carattere politico, poi passa a un mezzo thriller (la decisione del rapimento) e termina con una sorta di variante di Ultimo tango (Bertolucci, 1972) coniugato con Lolita (Kubrick, 1961). Nessuno delle tre differenti parti vale qualcosa; soprattutto però il terzo episodio appare totalmente improbabile poichè ben altro era il sottile fascino della capricciosa Sue Lyon kubrickiana; perdere il senno per una ragazzina mezza matta, bella ma non bellissima, suona totalmente inverosimile e impedisce una qualunque condivisione dell’ultima parte, quella decisiva, del film. Ancora più assurda è poi l’interpretazione, adombrata a tratti dal racconto, secondo cui la follia di Clotilde sia indotta dall’ambiente conservatore (meridionale) che la circonda, sorta di “bella addormentata” risvegliata dal progressismo nordico del dinamico affarista. Certo Lattuada sembra voler suggerire questa sciocchezza basagliana, tipica peraltro di una cinematografia “impegnata” che ha fatto dell’odio verso le culture meridionali un proprio elemento distintivo.
Certamente l’intento rivoluzionario del testo era più che ovvio ed in linea con la visione libertaria degli anni settanta: Eros vince su Thanatos, l’amore libero, istintivo e puro, sotterra il cinismo calcolatore del capitalista che riscopre se stesso... Purtroppo però la realizzazione è talmente modesta che rende inutile e perfino ridicolo il sermone ed il Denkstil ribelle che comporta. Le stesse cose erano stato espresse in ben altro modo dai citati film di Bertolucci e Kubrick o se si preferisce da Teorema e dal Decameron pasoliniani, da La grande abbuffata di Ferreri e perfino da La califfa di Bevilacqua.

Steno, coadiuvato dagli sceneggiatori Sergio Donati e Luciano Vincenzoni, firma La poliziotta (ott. 1974; 100 min.), un’ottima commedia in cui umorismo e critica sociale sono perfettamente miscelati. Il film riprende da un lato la situazione chiave de Il vigile (Zampa, 1960; vedi), sebbene tralasciando gli atteggiamenti cinici e vendicativi del protagonista (A. Sordi), e dall’altro la struttura narrativa del terzo episodio di Signore&Signori (Germi, 1965: vedi) in cui una ragazzina metteva sotto scacco i notabili di Treviso. Riguardo a quest’utimo film va ricordato che Luciano Vincenzoni figurava tra gli sceneggiatori mentre tra gli attori c’erano Albeto Lionello e Gigi Ballista.
Giovanna (un’ottima Mariangela Melato), stanca di essere l’eterna fidanzata di un volgare negoziante di scarpe (uno strepitoso Renato Pozzetto; i negozianti erano il fulcro dell’episodio de Signore&Signori), decide di guadagnarsi una propria rispettabile autonomia divenendo poliziotta (un po’ come accadeva allo sfaccendato Sordi, ansioso di vendicarsi delle angherie subite dal vicinato). A quel punto prende in parola i suoi superiori (in particolare uno spassoso Mario Carotenuto) e infligge multe a tutti, senza guardare in faccia nessuno. Allorchè, per punizione, viene allontanata dalla viabilità e spedita a controllare il macello cittadino (siamo in una Bergamo rinominata Rovedrate, anche se le immagini iniziali ritraggono la piazza centrale di Terni... ), scopre illegalità ancora più gravi che riguardano l’intera giunta (tra cui primeggia l’assessore Alberto Lionello). Lo scandalo finisce sui giornali nazionali mentre un timoroso procuratore (Orazio Orlando), invaghitosi della bella poliziotta, le dà corda mentre i notabili le tendono una trappola erotica: l’assessore, per il quale Giovanna nutre un segreto amore, la invita a casa sua al fine di comprometterla, ma la donna rovescia la situazione e ottiene ulteriori prove delle malefatte dei politici. Scendono in campo senatori e servizi segreti per fermarla cosicchè alla giovane e all’amico magistrato, non resta che l’esilio in un’isola a sud della Sicilia...
La pellicola offre una notevole interpretazione della Melato che crea un personaggio fondamentale della propria carriera, al punto che verrà in seguito riportato sullo schermo dalla Fenech, sempre in collaborazione con Mario Carotenuto ed Alvaro Vitali (che qui ha una piccola, simpatica parte) in tre differenti episodi (1976-81) diretti da Tarantini. La figura della donna moderatamente oppressa, sessualmente sfruttata e decisa ad acquisire un nuovo status sociale è perfettamente in linea con l’atmosfera degli anni settanta e col suo esasperato femminismo. Anche la critica sociale, che dipinge l’intera classe politica, evidentemente democristiana (si parla spesso di un amico vescovo...), come un covo di affaristi disonesti e senza scrupoli (non solo ladri, ma anche colpevoli dell’inquinamento del fiume posto nelle vicinanze) è quanto di più scontato e aderente al clima politico del periodo. Va detto che in fondo questi notabili non sono meno esecrabili di quelli del film di Germi di un decennio prima e va notato che, in fondo, per quanto cafoni e arricchiti essi appaiono complessivamente simpatici (non a caso i ruoli sono affidati a comici bonari come Lionello e Carotenuto) e finiscono perciò con il mitigare il generale clima di condanna, evitando qualunque fanatismo. Insomma non siamo dalle parti del cinema arrabbiato di Petri e Rosi bensì in quello centrista, moderatamente critico, di Steno, attento a non invocare rivoluzioni politiche e apocalissi salvifiche. Non a caso mancano totalmente gli oppositori socialcomunisti ovvero figure abitualmente positive poste in antitesi ai protagonisti ovvero figure tipiche del cinema politico più duro e determinato; i peccati addebitati alla classe dirigente sono quelli ben noti a tutti e di cui nessuno si stupisce (in fondo molti di coloro che votano per i partiti di centro probabilmente si comporterebbero come loro negli stessi ruoli istituzionali) mentre le vendette nei confronti della poliziotta sono misurate e le consentono, in ogni modo, di coronare la sua faticosa vicenda sentimentale con il procuratore, sebbene “al confino”. Steno dunque pone in essere una forte critica sociale, che mette all’indice i consueti peccati italiani, senza esagerare e senza rendere eccessivamente brutali e dannosi i rappresentanti del partito di maggioranza relativa.
I caratteristi del racconto, tutti ineccepibili (Alvaro Vitali, Gigi Ballista, Umberto Smaila e Renato Scarpa), contribuiscono a rendere il racconto efficace in tutti i suoi snodi narrativi. Notevoli anche le musiche fdi Ganni Ferrio che, di tanto in tano, citano ironicamente le atmosfere morriconiane di Per un pugno di dollari.
La poliziotta
ottenne un enorme successo commerciale.
L’Italia s’è rotta (mag 1976; 110 min.), sempre di Steno, è invece una commedia realmente mediocre, che ricopia schemi, idee e personaggi da una miriade di film precedenti.
La pellicola racconta il viaggio di ritorno di due siciliani, Antonio e Peppe (Mario Scarpetta e Teo Teocoli), uniti alla bella Domenica (Dalila Di lazzaro) di origini venete, da Torino verso il loro paesino d’origine in Sicilia. Il film è dunque un road movie scandito in distinti differenti episodi che cercano di offrire un affresco della disastrata penisola. L’idea generale ripropone quella di Paisà (1946) alla rovescia (il film di Rossellini iniziava in Sicilia e terminava sul Po), mentre l’argomento relativo a due immigrati delusi dalle durezze del nord e decisi a tornare al paesello era stato recentemente trattato in numerose pellicole, anche se di minore importanza (Gli amici degli amici hanno saputo, Marcolin 1973; vedi). La sceneggiatura (di Donati, Vincenzoni e Steno) appare, fin dal titolo, un vero e proprio piagnisteo intorno a tutti i consueti mali italiani: scioperi selvaggi, povertà diffusa, criminalità senza freni, sfruttamento dei lavoratori, faide meridionali e magistratura moralista, il che sembrerebbe inserire il film nel campo opposto a quello conservatore che aveva caratterizzato le precedenti commedie di Steno. Ciononostante il taglio iperfarsesco e scadente che segna tutti gli episodi, rendendo le figure del racconto totalmente inverosimili e irrilevanti, finisce col neutralizzare qualunque potere di denuncia della pellicola. In mano a un regista di sinistra questo polpettone antiitaliano si sarebbe prestato a divenire un esempio di propaganda antisistema di taglio progressista (si parla di lavoratori licenziati e sfruttati che vivono di espedienti, di magistrati che perseguono la libertà d’espressione, di mafie che controllano la vita dei paesi meridionali... ); nelle mani di Steno tutto finisce in una bolla di sapone. Sembra quasi che il regista abbia voluto scientemente manomettere la sceneggiatura creando un film talmente brutto da divenire irrilevante (gli incassi furono infatti modesti) e inefficace.
I nostri eroi, dopo avere liberato Domenica dal suo magnaccia in una sequenza già vista decine di volte nei poliziotteschi, si mettono per strada. Trovano una famiglia di borghesi scemi e reazionari (guidata da Mario Carotenuto), un parente lussurioso (Alberto Lionelo) di Domenica, un rapinatore maldestro (Enrico Montesano) a Roma in un episodio che costituisce un’evidente caricatura di alcune scene ricorrenti nei polizieschi, un magistrato (Duilio Del Prete) assatanato, in lotta con la pornografia e un paesello siciliano in cui le faide rimangono obbligatorie per ristabilire l’onore della casata (è di gran lunga l’episodio peggiore).
All’attivo del film rimangono solo alcuni squarci urbani di Torino e Roma e qualche momento di ilarità, grazia al talento di Montesano. Tutto il resto è noia.
Al contrario un’ottima commedia è Febbre da cavallo (ott. 1976; 95 min.), di poco inferiore a La poliziotta.
A Roma un trio di scommettitori accaniti e squattrinati - Mandrake (Gigi Proietti), Er Pomata (Enrico Montesano) e Felice (Francesco De Rosa) - vivono praticamente all’ippodromo. Perennemente in cerca di denaro da sperperare in puntate sempre fallaci, mettono in scena una serie di truffe a ripetizione al solo fine di procurarsi soldi che perderanno. Quando poi l’eterna fidanzata (Catherine Spaak) di Mandrake gli consegna il denaro per una tris vincente (i nomi dei cavalli, tre brocchi assoluti, sono stati ricavati dai consigli di una astrologa) questi la snobba, punta su altro e perde trenta milioni. Ne seguono situazioni imbarazzanti e complicate che portano il terzetto a mettere in atto una truffa “da codice penale”: Mandrake si sostituisce a un fantino famoso al fine di causarne la sconfitta alla corsa; poi, però, preso dall’ebbrezza del momento non riesce a trattenersi e vince, causando un enorme danno a tutto il gruppo di balordi; finiscono in tribunale dove trovano un giudice (Adolfo Celi) compiacente in quanto più fanatico di loro quanto a cavalli...
La pellicola è evidentemente modellata su Amici miei e nasce con l’intento di replicarne il successo che invece, all’epoca, fu modesto. Nel tempo, però, la fama del film crebbe enormemente fino a giustificare il moodesto sequel, La mandrakata (2002), di Carlo Vanzina. Se l’opera non possiede il carattere sofisticato del modello (Amici miei) e non vanta presenze attoriali di primissimo livello, tuttavia possiede un ritmo invidiabile ed evita le lungaggini e i momenti ripetitivi che segnano alcune parti del film di Monicelli. In entrambe le pellicole l’attenzione si focalizza in maneira esclusiva su una compagine maschile (le figure femminili hanno funzione ornamentale, anche se Steno può contare su un’ottima Catherine Spaak) dedita a scherzi e piccole truffe che si susseguono a ritmo votrticoso. Proietti replica la figura del conte Mascietti senza sfigurare (l’episodio della pubblicità e poi della falsa multa sono molto divertenti, risultando un evidente omaggio alla bravura di Tognazzi), Adolfo Celi possiede la medesima autorevolezza che caratterizzava il celebre primario Sassaroli mentre Montesano rappresenta la componente più sfortunata e lacrimosa del gruppo (memore del Melandri di Moschin). C’è poi un piccolo esercito di caratteristi tutti perfetti nei loro ruoli: Gigi Ballista, Mario Carotenuto, Ennio Antonelli (il macellaio truffato) ed infine una colonna sonora eccezionale (firmata da Bixio-Frizzi-Tempera) i cui spassosi effetti vocali (che rievocano il nitrire dei cavalli) sopra un temino ripetuto in maniera ossessiva sono quasi più vivaci ed esilaranti delle trovate dei protagonisti.
Febbre da cavallo esce nell’autunno 1976, dopo le fatidiche elezioni politiche del “compromesso storico”, in un’atmosfera di grande tensione politica che scompare totalmente dal racconto (si pensi all’abissale differenza rispetto a L’Italia s’è rotta): Steno sembra volere cancellare di forza le aspre problematiche quotidiane (di cui resta solo un velato accenno alla frequenza dei sequestri di persona) per ofrire agli italiani una favola spensierata in cui i poveri sono poveri (gli scommettitori) e i ricchi sono ricchi (i macellai e i gestori di piccoli esercizi commerciali) e dove i primi vogliono diventare come i secondi ma senza spargere sangue e senza inutili sermoni sulla coscienz adi classe e sui diritti unviersali dell’uomo, ma semplicemente, in barba a Rousseau e a Marx, inseguendo la fortuna e magari “aiutandola” con piccole, divertenti illegalità.

Sergio Corbucci arruola Giancarlo Giannini, fresco dei successi con Lina Wertmuller (Mimì, Storia d’amore e d’anarchia) quale protagonista de Il bestione (lug. 1974; 105 min.) e gli affianca il francese Michel Constantin. La vicenda, insolita per il cinema italiano, narra l’amicizia di due camionisti cui ne succedono di tutti colori. Una sorta di road movie dolce-amaro che si ispira a modelli francesi (Vite vendute, Clozout, 1953, su tutti).
L’esperto Colautti (M. Constantin) si trova ad avere a che fare con il giovane Nino (G. Giannini) e agli inizi sono numerosi i contrasti. Il primo è lombardo, pignolo e squadrato mentre il secondo è un siculo immigrato a Torino, amante dell’azzardo e dell’improvvisazione. Tra i due però viene stabilendosi un’empatia che diviene amicizia piena dopo numerose disavventure. La coppia finisce con il dividersi perfino le amichette e decide addirittura di mettersi in proprio, licenziandosi dalla ditta che li sfrutta e comprando (a debito) un proprio camion. L’esordio è difficile: a corto di rimesse, i due accettano di accollarsi l’espatrio clandestino di un criminale e la cosa li porterà a un passo dalla rovina. Nel bel finale, copiato dal celebre Vite vendute, Colautti e Nino salvano a fatica il camino (in bilico su un precipizio) e si avviano verso casa, fiduciosi in un avvenire complicato ma di cui sono ormai padroni.
La pellicola racconta il divenire credibile di due figure umane a tutto tondo, con le loro debolezze e i loro pregi, accanto a un preciso quadro dell’Italia e addirittura dell’Europa di quei giorni. Il film è uno dei pochi dell’epoca a fornire un ritratto credibile, grigio e incredibilmente triste, di una capitale del comunismo europeo ovvero Varsavia. In questa città buia e arretrata, fra casupole diroccate e paesaggi urbani desolati, Nino vive una serata di profonda solitudine mentre fotografa la silenziosa cupezza di un intero popolo, privato delle più elementari libertà economiche. E’ questo il senso sotteso alle immagini di una città spenta in cui nessuna attività economica notturna è concessa in nome dell’uguaglianza. Chiunque abbia frequentato i paesi comunisti in quegli anni comprende come questo ritratto di Varsavia sia veritiero e coraggioso, suonando come un preciso (anche se timido) monito anticomunista. Siamo dunque di fronte a una pellicola centrista, scettica intorno alle idoeologie socialcomuniste ed ai loro generici paradisi. Non a caso i protagonisti hanno numerosi scontri con un sindacalista Cgil, incapace di tutelare realmente le esigenze dei lavoratori (i camionisti a contratto) e, anche sulla scia di questa esperienza, essi decidono di rischiare, mettendosi i proprio ovvero divenendo dei “padroni” (la frase è citata più volte). Questo racconto che guarda con favore all’iniziativa privata e con perplessità agli scioperi, appare una novità nel panorama politico della commedia italiana di quegli anni.
Nell’insieme il film possiede un ottimo ritmo, comprimari tutti convincenti (ci sono anche una “polacca” Dalila Di Lazzaro e una Gabriella Giorgelli ostessa), episodi breve e incisivi (anche se non sempre originali come quando Nino cerca di ripetere i trucchi de Lo spaccone al biliardo) e mesti paesaggi invernali che fungono da prolungamento degli stati d’animo dei rassegnati protagonisti. Inoltre Corbucci è molto bravo nel miscelare episodi umoristici e amari, dando vita a una commedia di forte impatto realistico.
Gli incassi furono buoni.
Al contrario il successivo film a episodi Di che segno sei (ott. 1975; 130 min.) è assai scadente.
Nel primo episodio ambientato a Genova e interpretato da un Paolo Vilalggio reduce dall’enorme suiccesso del primo Fantozzi (1975) si raccontano le disavventure di un uomo che pensa (con timore) di dovere cambiare sesso. Il soggetto è noioso, privo di qualunque interesse e rovinato dal comico, incapace di rendere umoristica la vicenda. Il secondo episodio è incenttrato sulla coppia di ballerini Adriano Celentano e Mariangela Melato (quest’ultima reduce dalla magnifica prova di Travoti da un insolito destino, 1974) in una storia anch’essa tediosa e senza sostanza; non basta la bravura dei due attori per salvare il raccontino. Mediocre è anche l’incontro tra il muratore Renato e il miliardario Luciano Salce con bellissima amante Giovanna Ralli: il primo riesce ad avere un rapporto sessuale con la donna da copertina in cambio di una sigaretta...
L’ultimo episodio è il più interessante: Alberto Sordi riprende la figura di Nando Mericoni (Un americano a Roma, Steno 1954) e lo trasforma in una sgangherata guardia del corpo in motocicletta (il ricordo va anche a Il vigile): questi, a suo modo scrupoloso e pignolo, rende impossibile l’esistenza del miliardario Ugo Bologna senza peraltro riuscire a sottrarlo a una gang di rapitori. L’idea era interessante ma la realizzazione è piuttosto oridinaria, nonostante la consuteta bravura del mattatore romano. Quest’ultimo episodio è l’unico a contenere precisi riferimenti alla realtà del periodo, dominata dal terrore per l’anonima sequestri.
Nonostante la modesta qualità, il film fu uno dei campioni d’incasso della stagione 1975-76.
Fallimentare risulta anche Signor Robinson, una mostruosa storia d’amore e d’avventure (dic. 1976; 105 min.) in cui si rispolvera il canovaccio di Robinsn Crusoe affidandolo alle smorfie fantozziane di Paolo Villaggio. Così per metà film, un tempo infinito, assistiamo alle vicende solitarie e scontate del nostro eroe su un’isola sperduta (dopo il solito naufragio); poi egli incontra un’indigena (Zeudi Araya) che lo prende con sè e lo porta tra la sua gente dove rimane per un paio d’anni, prima che la moglie lo ritrovi. La pellicola si perde in situazioni e gag prevedibili che non appaiono mai realmente divertenti. Corbucci sfrutta l’enorme popolarità conseguita da Vilalggio dopo i primi due Fantozzi, ma isolandolo in un contesto naturalistico, gli toglie la possibilità di essere efficace. Ciononostante i film ottenne un enorme successo commerciale.
Il difetto consiste nell’avere esteso alla lunghezza di un lungometraggio una vicenda che avrebbe potuto funzionare se compressa in trenta minuti in uno dei tanti film a episodi di quegli anni. Nel film appare interessante la feroce satira sulla nostalgia del buon selvaggio e del contesto naturale (tipico della cultura hippy del periodo) poichè Robinson vive come una tremenda privazione la mancanza di tutte le più banali abitudini della società occidentale quali la televisione (l’indigena è obbligata da Robinson a mimare le trasmissioni Rai del periodo), il calcio, la coca-cola, le riviste di pettegolezzi e perciò, quando ricompare l’orribile moglie, preferisce lei e il suo contesto “vacuo” alla bellissima Zeudy Araya... Insomma “mogli e buoi dei paesi tuoi” a riconferma della collocazione intelligentemente conservatrice del cinemadi Sergio Corbucci.
L’unica cosa realmente simpatica è il riferimento a Mrs. Robinson (Il laureato, Nichols 1967): il simpatico motivetto dei fratelli De Angelis è una versioen umoristica di quello celebre di Simon e Garfunkel; d’altronde in entrambi i casi si tratta di storie d’amore decisamente insolite.

Il sesto e penultimo film di Marcello Fondato è A mezzanotte va la ronda del piacere (feb. 1975; 105 min.), commedia stereotipata di stampo teatrale (si svolge quasi tutta in interni e si fatica a comprendere in quale parte d’Italia siamo) che si regge esclusivamente sulla bravura degli attori.
Lo schema è quello ben noto delle due coppie alternative: quella dei ricchi altoborghesi Vittorio Gassman e Claudia Cardinale e quella dei popolani Giancarlo Giannini e Monica Vitti; in posizione defiliata troviamo Renato Pozzetto, corteggiatore imbranato della Cardinale. Il centro del racconto è uno stravagante processo che rievoca il burrascoso amore dei due popolani: Giannini riprende il consueto personaggio wertmulleriano del maschio focoso e manesco (si rifà principalmente a Travolti da un insolito destino) mentre la Vitti è una donna delle pulizie innamorata come pure disponibile a differenti avventure erotiche. Quest’ultima è accusata di avere ammazzato il marito ma è facile intuire che le cose stanno diversamente; la Cardinale invece è giudice popolare nel processo, parteggia per l’accusata e scopre alla fine che tra i numerosi amori passeggeri della donna c’è anche suo marito, l’affarista frenetico e mentitore abituale. Forte è la retorica intorno alla spontaneità delle classi popolari e alla freddezza annoiata di quelle benestanti, riprendendo luoghi comuni abbastanza banali mentre la ripetitività verbosa di dialoghi e situazioni rischia di rendere la pellicola assai noiosa. Per fortuna la perfetta aderenza degli attori ai personaggi (tra l’altro la coppia Giannini-Vitti parzialmente replica la situazione di Dramma della gelosia.... Scola, 1970) rende l’insieme abbastanza godibile.
La simpatia evidente per il mondo popolare e l’evidente antipatia per la figura dell’ipocrita Gassman (al suo ennesimo personaggio di affarista cinico e bugiardo; si veda soprattutto In nome del popolo italiano, Risi, 1972) colloca il racconto nell’ambito del cinema progressista di maniera, prigioniero di pregiudizi antichi, senza che il film possegga una vera e propria cifra politica. L’unico segno evidente della cornice particolare degli anni settanta consiste nella relativa tolleranza con cui Giannini e Vitti accettano i tradimenti altrui, in un contesto erotico titpicamente libertario mentre il carattere violento dell’uomo come quello remissivo e parzialmente masochista della donna ci dicono che gli stereotipi femministi non hanno ancora cancellato del tutto la distinzione dei sessi.
Gli incassi furono buoni.

Dopo i primi due film - La califfa e Questa specie d’amore - di ispirazione parzialmente autobiografica e di notevole intensità espressiva, Bevilacqua ripiega ,con il mediocre Attenti al buffone (dic. 1975, 100 min.), su un racconto ampiamente simbolico, teatrale e sermoneggiante.
Vi si illustra come il Potere in Italia, rappresentato dal perfido Ely Wallach, mantenga una perfetta continuità con l’epoca fascista (il protagonista è un nostalgico ed ex ufficiale che ha combattuto in Etiopia) e una stretta alleanza con un Vaticano ridotto a macchietta e a servo del potentati italici. Nel ruolo degli umili figura il musicista Nino Manfredi, appunto un artista simbolo della autenticità e del disinteresse materiale, al quale il ras in questione ruba la moglie (Mariangela Melato), una ex prostituta, e i figli dopo avergli devastato la casa; inoltre lo obbliga a divorziare presso una Sacra Rota completamente corrotta così da potere sposare la donna con una cerimonia sontuosa. Il musicista, simbolo dell’uomo comune, sconvolto dalle angherie ma anche distaccato e ironico, reagisce attraverso uan serie di buffonerie che spiazzano il potente e finiscono col rendergli la vittoria meno completa.
Attenti al buffone è quel genere di film totalmente assorbito da simboli e proclami che soffocano i personaggi reali, totalmente inverosimili e affondano la narrazione in una greve pesantezza tra verbosi e interminabili sproloqui privi di interesse anche a causa della evidente faziosità semplificatoria di chi li ha scritti. Dunque un film nato morto nonostante il notevole cast (ci sono anche Mario Scaccia, Francisco Rabal e inoltre Loredana Bertè, Cristina Gaioni e Erika Blanc nel ruolo di tre prostitue durante un festino di marca fascista). La visione manichea del Bene e del Male che attraversa il lavoro, dall’inizio alla fine, stanca presto, riduce le figure a semplici manichini e rende la visione a tratti realmente insopportabile.
Gli incassi furono discreti.

Franco Giraldi prosegue la propria serie di interessanti commedie (La bambolona, La supertestimone) con Colpita da improvviso benessere (feb. 1976; 95 min).
La pescivendola Elisabetta (una Giovanna Ralli in gran forma) lavora ai mercati generali di Roma e adotta ogni stratagemma, legale o illegale, per far soldi. Peraltro tutti i commercianti suoi colleghi, a cominciare dal perfido padre (Mario Carotenuto), vengono descritti come dei mezzi criminali del tutto disinteressati della salute altrui e pronti a vendere qualunque cibo avariato o contaminato. La donna convive con Luiso (Franco Ctti), un anarchico velleitario che rifiuta il lavoro e il sistema e si fa mantenere dalla pescivendola, peraltro chiedendole quattro soldi poichè l’uomo disprezza il consumismo e passa le giornate nei cinema a vedere film di Montaldo (Sacco e Vanzetti) e di Bergman. Tra questi due estremi, la donna avida e l’uomo disinteressato a tutto (non lo smuove neppure il tradimento conclamato della compagna), si coloca Gigino (Stefano Satta Flores) un rigido controllore statale che, alla minima irregolarità, sequestra interni banchi di pesce e denuncia chiunque protesti. L’uomo, emblema dell’Italia seria e comunista (legge Paese sera), è l’antitesi evidente dell’universo dei pescivendoli furfanti e spregudicati, non a caso amici di ministri democristiani che li proteggono (in cambio di voti). Gigino si innamora di Elisabetta e la donna gli dà corda, anche perchè pensa di poterlo manipolare, ma la relazione appare rapidamene impossibile per entrambi, due figure troppo differenti, l’una fedele alle regole e contenta con il poco che guadagna, l’altra ansiosa di arricchirsi oltre misura. Elisabetta, stanca anche dello svogliato Luiso Malerba (nome emblematico di un personaggio che è, tra l’altro, una vaga riedizione del celebre Accattone pasoliniano), lo caccia di casa. Nel finale aperto tutto è come all’inizio: forse Luiso tornerà da Elisabetta mentre i controlli di Gigino e di altri proseguono...
La pellicola esordisce con tratti di forte realismo  - le sequenze al mercato del pesce e in Campo dei fiori - ma molto presto ci si accorge di essere di fronte a una commedia simbolica e farsesca. Le illegalità dei commercianti e le decisioni drastiche del controllore sono talmente esagerate da risultare macchiettistiche e artificiose. Giraldi, con gli sceneggiatori Pirro e Carlo Vanzna, descrive le tre Italie in lotta tra loro: quella dei commercianti incolti e avidi che, tuttavia lavorano da mattina a sera e sembrano mandare avanti il paese ovvero la classe media centrista e democristiana; i burocrati severi e un po’ noiosi, emblematici di quella italia “onesta” e moraleggiante che guarda a sinistra e infine gli antisistema come Luiso (vive in una stanza tutta rossa e si veste con vestaglie rosse... ) che vivono ai margini, rifiutano lavoro e consumi e meglio di tutti rappresentano le velleità di una rivoluzione solo sognata e di un’epoca fantasiosa e attravesata da insensate, seducenti utopie. Sono proprio questi ultimi a segnare maggiormente l’originalità degli anni settanta.
In ogni caso il racconto mostra con chiarezza l’impossibilità del compromesso storico (vagamente citato nei dialoghi): esso appare impossibile come irrealzzabile è l’amore di Elisabetta e Gigino; al contrario la borghesia benestante sembra andare più d’accordo con l’estema sinistra fantasiosa che, a suo modo, mantiene e guarda con indulgenza (la relazione anomala tra la pescivendola e l’anarchico). Anzi, quando i comemrcianti, esasperati, fanno irruzione a casa di Gigino e, mascherati, lo picchiano, firmano con uno slogan fittizio delle Brigate rosse. Giraldi sembra dirci che, dietro le sigle del terrorismo rosso (le BR, il cui nome e la cui sigla molto raramente ricorre nei film del periodo; nel febbrao 1976 non avevano ancora ucciso.... ) e dell’estremismo extraparlamentare ci sono, in fondo, borghesi e benestanti che cercano, per tale via, di danneggiare la sinistra più “seria” (Pci).
Il fim di Giraldi, dunque, dietro una patina leggera e anche un po’ ripetitiva, illustra con una certa originalità le forze in campo a metà decennio. La centralità di piazza Campo dei fiori, una piazza poco vista nel cinema italiano, contribuisce ad arricchire le riflessioni ideologiche del film: non a caso Luiso porta rose rosse non alla donna che lo mantiene e lo ama, bensì alla statua di Giordano Bruno, simbolo di tutte le rivolte contro un’Italia da sempre (con la breve eccezione del periodo 1861-1929 a prevalenza massonica) soggiogata dal potere cattolico. Sebbene la ragione sembri indicare in Gigino la figura positiva, va detto che la simpatia e la carica umana della Ralli finiscono (come spesso accade in questi film ideologicamente impostati) per trascendere il presunto messaggio ideale: è lei la figura dirompente e simpatica e, di conseguenza, lo spettatore finisce con il guardare con maggiore simpatia al centrismo democristiano e al suo vitalismo rispetto al paralizzante e noioso burocrate filocomunista.
Gli incassi furono modesti.

Nella seconda metà degli anni settanta il film a episodi conosce una breve ed effimera rinascita che non produce capolavori. Nanni Loy, Luigi Comencini e Luigi Magni firmano due pellicole di questo tipo che escono nelle sale a breve distanza di tempo: Basta che non si sappia in giro (nov. 1976; 105 min.) sceneggiato da Age, Scarpelli e altri e Quelle strane occasioni (dic. 1976, 110 min.), sceneggiato da Rodolfo Sonego e altri. In quasi tutti gli espisodi si afferma l’idea di un maschio soccombente di fronte all’universo femminile, liberato dal femminismo e ormai privo di qualunque remora.
In Macchina d’amore (primo episodio di Basta che non si sappia in giro), Nanni Loy firma il peggiore dei sei episodi: uno sceneggiatore squattrinato (Johnny Dorelli) detta a una dattilografa ingenua (Monica Vitti) un orribile copione erotico basato sugli stereotipi del periodo; alla donna piace mentre lo scrittore termina con il solito sermone intorno alla superiorità di storie che affrontano i reali problemi della gente comune (rappresentata dalla sognante dattilografa che invece preferisce i polpettoni amorosi). A parte l’usurata contrapposizione tra cinema commerciale e cinema neorealista, il racconto inanella una serie di situazioni ordinarie, rappresentate in modo dozzinale. Loy fa molto meglio in Italian Superman (Quelle strane occasioni) in cui mette in scena l’assurda storia di un immigrato italiano (Paolo Villaggio che ha da poco dismesso i panni di Fantozzi) ad Amsterdam il quale si scopre superdotato e ottiene un lavoro in un night club in cui deve fare l’amore due o tre volte al giorno di fronte a un pubblico entusiasta. La moglie (Valeria Moriconi) lo scopre, pretende di divenirne la partner sul palco e alla fine, quando l’uomo appare ormai al collasso, continua a rimanervi mentre lui viene emarginato nel ruolo dell’imbonitore su strada. Villaggio è bravissimo nel ruolo dell’amatore controvoglia, sfiancato dall’eccesso di esibizioni mentre la vicenda del progressivo ribaltamento delle parti con la moglie che, invece, sembra divertirsi assai in quel ruolo, è trattato con incisiva efficacia.
Luigi Magni immette tematiche sociali e un preciso ritratto d’ambiente ne Il superiore (secondo episodio di Basta che non si sappia in giro), in cui si immagina un carcere di provimcia (siamo a Ceri, frazione di Cerveteri) popolato da detenuti decisi a far valere i propri diritti relativi alla necessità di incontrare saltuariamente persone dell’altro sesso. A tal fine i carcerati sequestrano una guardia (Nino Manfredi) e minacciano di sodomizzarla se non avranno risposte dal potere politico. A redigere i comunicati sono detenuti che appaiono assai più preparati dei carcerieri ed è evidente che tra loro ci sono terroristi di sinistra. In extremis ottengono un qualche riconoscimento da un sottosegretario che fa loro un discorso incomprensibile nell’astruso linguaggio democristiano dell’epoca. Tanto a loro basta: le rivendicazioni hanno ottenuto un riconoscimento dal Potere. La pellicola, tutta al maschile (ci sono anche Vittorio Mezzogiorno tra i detenuti e Lino Banfi come direttore del carcere), coniuga la misurata recitazione di Manfredi, che cerca in ogni modo di solidarizzare con i sequestratori fingendosi comunista, e la sguaiata sessualità dei prigionieri che pregusta il momento in cui gli “faranno la festa”. L’episodio ha il merito di fotografare l’Italia dell’epoca, con le sue tensioni politiche, le sue carceri piene di detenuti “politici” e le esigenze umanitarie che si spingono fino al riconoscimnto di una vita sessuale in carcere.
Di buona fattura è anche Il cavalluccio svedese (Quelle strane occasioni) in cui Magni racconta una situazione tutta domestica. Un architetto, assorbito dai propri impegni professionali (N. Manfredi che sembra riprendere il protagonista de Il padre di famiglia, N. Loy, 1966) si ritrova solo nella sua elegante villa con una ragaza svedese che aveva conosciuto anni prima in Svezia e che riesce a sedurlo (allontanando per una notte il fidanzato ufficiale con delle scuse). La giovane gli rivela anche che sua moglie (Olga Karlatos), in Svezia, ebbe una lunga relazione amorosa con suo padre, gettando lo zelante architetto nel panico. Al ritorno della moglie il marito non osa intavolare una discussione e preferisce far finta di nulla. La vicenda è esile ma raccontata con brio mentre la consueta antinomia tra gelosia e modernità (la coppia aperta... ) tiene banco, dando luogo alle consuete ipocrisie. Manfredi è bravissimo nel ruolo, a suo modo doppio, del professionista che si finge tollerante e aperto alle novità mentre nell’intimo si rode. E’ anch’egli una vittima dei tempi nuovi: assediato da donne molto affascinanti, preferisce soccombere di fronte al nuovo potere femminile e a donne sicure e decise, che sembrano non avere nulla da perdere nel loro intavolare relazioni sentimentali capricciose e disordinate.
Comencini riunisce Manfredi e la Vitti in un appartamento nell’episodio L’equivoco (posto in conclusione di Basta che non si sappia in giro). Il primo attende la visita di una squillo mentre gli si presenta una giovane bibliotecaria incaricata di riscuotere la rata relativa al pagamento di una enciclopedia. Inizia la classica catena di equivoci condotti con vivace umorismo da parte dei due ottimi interpreti che termina con un’inattesa intesa erotica. Si tratta di una vicenda stereotipata, più adatta ai palcoscenici della rivista (quasi un classico in questo campo) e come tale piuttosto slegata dalla realtà sociale che esiste fuori da quell’appartamento; tuttavia la bravura degli interpreti e la giusta scelta di tempi e dialoghi rende l’episodio piacevole, certamente il migliore del film.
Allo stesso modo Comencini riunisce due grandi attori - Alberto Sordi e Stefania Sandrelli - in uno spazio ancora più angusto ne L’ascensore (Quelle strane occasioni) ovvero un mondsignore e una allegra vacanziera bloccati in ascensore intorno a Ferragosto in un grande condominio romano deserto. Dapprima i due si sopportano male, poi solidarizzano; abilmente l’uomo di chiesa riesce a guadagnare la fiducia della giovane, quasi la confessa, ascolta le sue bravate erotiche (si parla addirittura di un rapporto orale) ed infine riesce a sedurla. Nell’esplosivo, divertente finale il monsignore dapprima nega tutto con sofisticate argomentazioni intorno al libero arbitrio e alla situazione costrittiva in cui erano rimasti troppo a lungo; poi però invita più volte la bella ragazza ad andare a trovarlo. Infine si scopre che il monsignore andava in visita proprio da una donna per finalità tutt’altro che lecite...
Questo episodio è un piccolo capolavoro: la distanza tra due mondi, quello modernista e quello arcaico conservatore della chiesa viene colmandosi poco a poco e mentre la ragazza appare la tipica femminista disinibita degli anni settanta (il suo racconto intorno al nuovo fidanzato imbranato è significativo e la apparenta a tutte le altre giovani aggressive di questo dittico a episodi), il monsignore risulta invece assai più furbo di lei e appare il simbolo di una classe dirigente che, pur mantenendo una facciata di perfetta rispettabilità, ha sempre saputo risolvere le proprie “necessità” con grande furbizia e che guarda con evidente sufficienza a questa nuova ondata libertaria.
Nell’insieme i due film a episodi mostrano un’Italia in fase di transizione politico-sociale in cui una sessualità più libera e disinvolta viene gestita dall’universo femminile con evidente sfrontatezza, riuscendo a guadagnare una sempre maggiore autonomia a scapito del potere maschile, ora in chiaro declino.

testo scritto nel set. 2018