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Da La Bataille de Marignan a A Saucerful of Secrets: le “Battaglie” musicali tra celebrazione popolare e propaganda politica

            “Spieghiamo la natura, la vita dell’animo la comprendiamo...
            Nella comprensione partiamo dal contesto totale
            che ci è dato in modo vivente per poter cogliere,
            in base a questo, l’elemento singolo.
            Proprio il fatto che noi viviamo nella coscienza
            della connessione totale ci permette di comprendere
            una singola proposizione, un singolo atteggiamento o
            una singola azione”
            W. Dilthey, Idee per una psicologia descrittiva e analitica (1894)(1)

            Peace is a Stream
            From the Heart of a man;
            Peace is a Man, whose breath
            Is the dawn...”.
            Peace - an End (King Crimson, 1970)

Breve premessa
Nella storia della musica il genere della “Battaglia” è quanto mai marginale: la sua presenza è sporadica e quasi sempre legata ad eventi bellici specifici. Le composizioni in questione sono concepite per celebrare il momento storico e non intendono, in genere, entrare a far parte di un duraturo repertorio. Di fatto il grande pubblico neppure conosce l’esistenza di questo genere secondario, il cui parente più prossimo (questo universalmente noto)  è ovviamente la Marcia militare con la differenza che quest’ultima descrive un atteggiamento militare che può preludere a un fatto bellico mentre la “Battaglia” si incarica di descrivere proprio quest’ultimo.
La spiegazione del carattere marginale di questo genere è facilmente intuibile: la Musica è, innanzi tutto, imparentata con l’Eros; essa tende a fondere in unico sentire compositore, esecutori e pubblico: affetti amorosi o pugnaci, malinconici o collerici, festosi o terrificanti animano la grande Tradizione sonora occidentale, operistica e strumentale e rendono significativa l’esperienza dell’ascolto in quanto momento di intima comunione emotiva (un tipo di situazione che appartiene di fatto anche all’intera tradizione teatrale, cinematografica e perfino televisiva, con riferimento specifico alle cosiddette fiction o serie tv). La “Battaglia” musicale, invece, tende ad appartenere all’universo di Thanatos ovvero a quel mondo bellico in cui l’apice o il trionfo è costituito dalla soppressione dell’altro poiché nel contesto storico il fatto militare è, come noto, una prosecuzione dello scontro politico tra gruppi o nazioni con mezzi più brutali e decisivi. Emanazione simbolica di questo universo è anche la dimensione dello sport in cui vittoria significa sconfitta dell’altro. E’ evidente che mondo sportivo/militare e mondo artistico sono realtà assai lontane, praticamente contrapposte per non dire antitetiche. Chi ama uno dei due o partecipa attivamente ad uno di essi, difficilmente si trova a proprio agio anche nell’altro: affermarsi sul nemico è cosa ben diversa dall’ambizione di fondere l’intera umanità in un unico sentire.
Di conseguenza possiamo affermare che la “Battaglia” è un genere musicale insolito poiché si trova a cavallo dei due mondi, utilizza gli strumenti della dimensione artistico-sonora per descrivere una realtà idealmente lontana e sostanzialmente incompatibile con la sua natura più profonda del linguaggio sonoro. E’ un genere che viene eseguito, spesso, in contesti pubblici celebrativi o di aperta commemorazione, sovente alla presenza di cariche politiche o figure istituzionali in qualche modo coinvolte (in genere in quanto vincitrici di un conflitto) con l’argomento della “Battaglia” musicale. E’ soprattutto a loro - al fine di lusingarli, compiacerli e confermarne la loro vincente posizione storica - che è rivolta la composizione ed è soprattutto da loro che essa viene apprezzata ovvero da figure che, di solito, si disinteressano dell’universo artistico.

In ossequio al Potere: la Battaglia prima di Beethoven

Negli anni che precedono il lungo periodo della Milano spagnola, la città era contesa tra Svizzeri e Francesi. Nella battaglia di Marignano (alias Melegnano - 1515) i Francesi guidati da Francesco I vinsero e protrassero il loro dominio sulla città lombarda per alcuni anni. Clement Janequin,compositore francese dalla biografia solo parzialmente nota, scrisse la sua chanson più famosa ovvero La Bataille de Marignan, un brano a cinque voci (circa 6 min.; edito a partire dal 1528; il titolo è addirittura successivo a questa data...) in cui probabilmente si inneggia al re francese e alle sue truppe che, dopo una sanguinoso scontro, hanno messo in fuga il nemico. L’abilità, tutta francese, di evocare una realtà fisica (per certi aspetti uno dei tratti più noti e frequenti della musica vocale e strumentale d’oltralpe) trova qui un perfetto esempio: in particolare colpisce la sezione centrale ricca di efficaci onomatopee (reso dallo strepitio un po’ ossessivo di quartine di semicrome) che dipingono lo scenario bellico, tra fanfare e cannoni cui fa da epilogo il prevedibile, solenne canto di vittoria (affidato a minime e semiminime). Il contesto rimane quello aspro della violenza e della morte, dipinto con gioia partigiana ma, in fondo, estraneo al contesto più autenticamente artistico. Queste singolari onomatopee troveranno, tre secoli dopo, una formulazione ben altrimenti appassionante nei surreali, umoristici finali d’atto dell’Italiana e del Barbiere di Rossini quando quei “colpi di cannon”, anziché evocare un truculento tumulto guerriero, serviranno a descrivere i tumulti dell’animo. A testimonianza della popolarità di questo brano si può ascoltare La battaglia per sonar a 8, versione strumentale di Andrea Gabrieli, edita postuma nel 1587.
Nel secolo successivo il brano più noto di questo genere è Battalia a 10 (1673) di Heinrich Biber (1644-1704), musicista boemo che lavorò dapprima a Kromeriz e, poi (dal 1670) a Salzburg dove giunse a ricoprire l’incarico di Kapellmeister. La composizione (circa 8 min.), destinata ai soli archi, si divide in otto brevi frammenti, quasi tutti dotati di precise indicazioni programmatiche. Dopo l’iniziale Allegro, di carattere marziale, ascoltiamo un brano dissonante e  politonale di notevole originalità, volto a illustrare l’ubriachezza dei soldati la sera prima della battaglia. Il titolo Allegro: Die liederliche Gesellschaft von allerley Humour precisa che si tratta di una allegra compagnia in vena di scherzare, intonando brani popolari in maniera rozza e sguaiata. Tutto è concesso a chi si appresta, forse, a morire. Il seguente Presto varia il tema dell’Allegro iniziale, collocando così lo sperimentale brano “ubriaco” all’interno di un’ideale tripartizione.
L’attesa è conclusa ed è tempo di prepararsi allo scontro; si passa pertanto ad una marcia di avvicinamento intitolata Der Mars in cui in una scrittura ridotta a due sole voci, gli archi imitano i tamburi e i flauti. Dopo altri due brevi episodi, il secondo dei quali venato di malinconia (una sorta di addio), il cui materiale tematico deriva ancora da quello dell’Allegro iniziale, si giunge a Die Schlacht illustrata con un pagina brevissima (la durata non arriva al minuto) ricca però di “effetti speciali” con tremoli, ribattuti, progressioni energiche e pizzicati brutali che rievocano colpi di cannone. La composizione termina su una nota mesta ovvero Adagio: Lamento der verwundeten Musquetierer, un brano dolente che colloca l’intera opera sotto il segno della riflessione più che in quello della festosa commemorazione.
Di fatto questa Battalia non appare ispirata da eventi vicini o lontani e pertanto essa si presta a offrire una visione più completa del fatto d’arme in se stesso: la preparazione tra gioia virile e paura esorcizzata nel vino, la marcia priva di eccessiva solennità, lo scontro espresso con concisi stereotipi privi di compiacimento e poi il lamento dei feriti ovvero una chiusura del tutto antieroica. In questo senso la composizione di Biber cerca di superare la banale contingenza per offrire un momento di meditazione più ampia, che cerca di toccare l’essenza del problema. La guerra sembra concepita, in questo caso, non tanto come sopraffazione spavalda dell’altro, bensì come episodio terribile della vicenda umana: l’ultima parola è quella di chi è prossimo alla morte.

Spostandoci di secolo in secolo giungiamo nella Francia del Settecento dove Francois-Joseph Gossec, prolifico autore di sinfonie, compone intorno al 1770 La Bataille (circa 8 min.) per sestetto di fiati (2 clarinetti, 2 corni, 2 fagotti), un lavoro brillante diviso nelle canoniche quattro sezioni: l’Arringa ovvero un brano solenne in cui prevalgono i corni, cui segue una Marcia melodiosa e quieta, affidata ai clarinetti; l’Attacco è invece innervato da ritmi convulsi (prevale il ritmo anapestico) e sfocia nel carattere gioioso e fermo del brano conclusivo che dipinge la vittoria. L’opera venne creata dal compositore negli anni (1762-70) in cui era maestro di cappella del principe di Condé a Chantilly.
Negli anni della rivoluzione francese fiorirono le battaglie musicali, evidente riflesso della furia illuministica che animava la travagliata vita di quei giorni. Si pensi che la battaglia di Jemappes (località del Belgio) del novembre 1792, che vide trionfare l’esercito di Dumouriez sulle forze conservatrici austriache guidate dal duca Alberto di Sassonia Teschen, avrà non meno di tre versioni sinfoniche a cura di Francis Devienne, Pierre Antoin Cèsar e Daniel Steibelt. Questo evento bellico rifonda l’identità francese dopo il 1789 e dopo la caduta della monarchia; si può comprendere che i compositori, quelli fedeli al nuovo verbo rivoluzionario e repubblicano, creassero opere patriottiche in un’epoca di scontro ideologico globale, non troppo differente da quello che animerà i due conflitti mondiali del Novecento. Il lavoro orchestrale di Devienne segue i canoni consueti, dividendo l’opera in episodi circoscritti, perfettamente definiti; ci sono pertanto i preparativi, i colpi di cannone, la Marsigliese, l’arringa ai soldati, la battaglia, il pianto dei feriti, l’urlo della vittoria, la Carmagnola (che ritroveremo nel testo beethoveniano, ma dalla parte degli sconfitti) e Ah Ca ira. L’opera viene eseguita nei primi mesi del 1794 a Parigi, nei giorni del Terrore. Di questa “battaglia” comparvero numerose fedeli trascrizioni per pianoforte o per pianoforte accompagnato dagli archi, a testimonianza della discreta popolarità della composizione.
La Bataille de Gemmapp di Cèsar compare nel novembre 1794 ed è un lavoro dedicato al solo pianoforte: ritroviamo la marcia, l’assalto, i colpi di cannone, il lamento dei feriti e le fanfare per la vittoria.
La Bataille de Gemmapp (composta, probabilmente, negli stessi mesi del 1794) di Steibelt è anch’essa per pianoforte e contempla una scrittura basata ora sulla forma sonata nella prima parte Andante, ora sulle variazioni (sul tema della Marsigliese), nella seconda ed ultima parte; per il resto gli ingredienti sono sempre i soliti anche se utilizzati in maniera più libera e meno rigidamente programmatica.

In terra inglese il brano più noto del genere in questione è The Battle of Praga (1788) creato dal compositore boemo Francis Kotzwara (1750ca-1791), probabilmente residente a Londra a partire dalla metà degli anni settanta e, in seguito, morto nella capitale inglese.
La composizione citata, edita a Dublino, rievoca la battaglia del 6 maggio 1757 (all’inizio della Guerra dei Sette anni) che contrappose l’esercito prussiano a quello austriaco, vedendo trionfare il primo anche se si trattò di una vittoria fragile che venne capovolta già nel mese successivo dalle forze nemiche che obbligarono i Prussiani ad abbandonare Praga. Pur non partecipando a questo evento gli inglesi erano alleati dei Prussiani, il che spiega il carattere patriottico della composizione in cui compare addirittura l’inno God Save the King.
All’origine The Battle of Praga (circa 10 min.) è una sonata per pianoforte; l’enorme popolarità del brano, soprattutto in terra angloamericana (lo ritroveremo citato addirittura in Adventures of Huckleberry Fynn, Twain, 1884) ne permise un’ampia diffusione, spesso in brillanti versioni orchestrali. Di piacevole ascolto l’opera non denota meriti speciali, ripercorrendo tutti gli stereotipi del genere. Dopo una marcia introduttiva e i richiami “trombettistici” alla battaglia, la pagina più ampia della prima parte è The Attack ovvero la consueta illustrazione dello scontro  tra le opposte fazioni reso con scale e scariche accordali su bassi albertini che evocano i colpi dei cannone e il sibilo dei proiettili. Il successivo Grave Cries of the Wounded fa da spartiacque tra prima e seconda parte e, in un espressivo Fa minore, evoca brevemente le sofferenze dei feriti. Subito dopo la vittoria viene celebrata dapprima con la presenza dell’inno God Save the King, poi con un Finale Allegro basato su un motivo saltellante e gioioso.

In terra tedesca la Sinfonia op.11 “La bataille” (edita nel 1794; circa 25 min.) di Franz Cristoph Neubauer (1760-95) costituisce una delle opere più vaste all’interno del genere. Il compositore, piuttosto noto tra i contemporanei, aderisce allo stile classico di Haydn e Mozart e propone un’opera di largo respiro, innervato da una vivace invenzione melodica in cui, pur essendoci un preciso programma esplicativo, mancano quasi del tutto forzature “pittoriche” ed effetti onomatopeici. Dopo un Adagio introduttivo (tripartito) intitolato Le matin, basato su un tema sereno e cantabile si passa all’Allegro Allarme au camp dove l’agitazione prende corpo nelle classiche sequenze di quartine di semicrome e di energiche scale ascendenti. La terza parte è occupata da un suadente assolo del fagotto (anch’esso tripartito) che interpreta la Karangue aux gueriers ovvero il discorso del capo ai suoi soldati prima della battaglia. Poi le due compagini armate si schierano sul campo al suono di una marcia quieta e solenne (Allegretto. Le deux armées se rangent). Si giunge così all’Allegro La bataille (in re magg.) di gran lunga il brano più esteso ed elaborato. Oltre alle consuete salite e discese in quartine di semicrome, assistiamo a efficaci stop and go basati su armonie diminuite e momenti di sospensione lirica in cui compare il tipico vocabolo cromatico del dolore (molto usato da Haydn e Mozart): insomma una pagina che guarda al Mozart Sturm und Drang (quello ad esempio del Preludio del Don Giovanni, anch’esso in re magg.) e anticipa le violenze foniche beethoveniane (anche quelle del Wellington Sieg dove prevale la tonalità di re magg.). Il breve quinto brano è l’Andante - Retour au camp in ritmo di marcia cui segue il sesto movimento in forma sonata ovvero l’Allegro - Celebration de la victoire in cui prevale un tono giubilante senza eccessi, in stile mozartiano.
La sinfonia celebrava la battaglia di Rymnik (o Matinesti - oggi nel nord della Romania) del 22 settembre 1789 in cui le truppe austriache, guidate dal principe Federico Giosia di Coburgo-Sassonia-Gotha, unite a quelle russe del generale Suvorov, sconfissero l’esercito turco, battaglia che ebbe una larga eco nell’impero asburgico poiché sferrava un colpo importante al nemico più temuto ossia il confinante impero ottomano.

Il compositore boemo Johann Baptist Vanhal (1739-1813) si stabilisce a Vienna negli anni sessanta e acquista buona fama di sinfonista. Nel periodo 1769-71 fa il canonico viaggio in Italia.. Negli anni ottanta e novanta frequenta Haydn e Mozart e dedica ampia attenzione alla scrittura per pianoforte (72 sonate che riscossero un certo interesse) e per organo. Vanhal viveva in centro a Vienna, nelle vicinanze del duomo di S. Stefano ed era uno “zelante cattolico”. Al genere della battaglia per pianoforte Vanhal ha contribuito componendo Die Schlacht bei Würzburg (Vienna, 1796); Die grosse Seeschlacht bei Abukir (Vienna, 1800) e Die Seeschlacht bei Trafalgar (Vienna, 1806): in tutti e tre i casi il compositore celebra la sconfitta della Francia e delle idee anticristiane della rivoluzione, palesando una implicita posizione politica di carattere conservatrice.
La celebrazione, allo stesso tempo della vittoria e della morte di Nelson (autunno 1805), ricorda al pubblico austroungarico nel 1806 che le forze francesi, sebbene trionfanti in Europa (gli Austriaci erano appena stati sconfitti a Ulm negli stessi giorni della battaglia di Trafalgar e poi ad Austerlitz), sono tutt’altro che invincibili, soprattutto sul mare.
La composizione relativa a Trafalgar (circa 9 min.) è divisa in tre episodi che rievocano lo schema della sonata classica. La prima parte (circa 5 min.) comprende una marcia introduttiva e la battaglia la quale viene interrotta, a metà dall’episodio, della morte di Nelson: mentre marcia e battaglia vengono dipinte con i consueti vorticosi tremoli, scale che si inabissano e violenti arpeggi, il momento della morte del condottiero inglese blocca il frastuono e offre un lento meditativo che fa largo uso di recitativi. Questi ultimi, anche per la loro collocazione al centro di un allegro burrascoso, possono ricordare i recitativi beethoveniani inseriti nel primo movimento della Sonata op. 31 n.2 Tempesta. Segue la Marcia funebre (circa 2 min.) in onore di Nelson, un adagio dal carattere assorto, scandito dall’ordinato movimento dei bassi “staccati” che evocano il pizzicato degli archi. L’ultima parte è un vivace Rondò militare e Finale.(circa 2 min.) basato su fanfare, motivetti gioiosi e insistenti cadenze.

Beethoven tra Napoleone e gli Asburgo
Il contributo beethoveniano al genere della battaglia musicale viene abitualmente ristretto al solo Wellington Sieg (1813). In realtà possiamo affermare che anche le due celeberrime Sinfonie n. 3 “Eroica” e n. 5 sono, a modo loro, delle raffigurazioni di battaglie materiali e spirituali, perfettamente calate entro le strutture formali classiche. Tali composizioni si pongono in una sorta di continuità ideale con le citate battaglie francesi di Devienne e Steibelt e si collocano nel campo ideologico avverso a quello del suddetto Vanhal,
Le Terza sinfonia, composta tra il 1802 e il 1804, è ispirata alle gesta di Napoleone inteso come eroe massonico che esporta in Europa le libertà acquisite in Francia dopo il 1789. Bonaparte è soprattutto il “liberatore”: “il titolo vero della sinfonia è Bonaparte”, scrive alla Breitkopf nell’agosto 1804. Come ebbe a scrivere Schindler possiamo affermare che questa sinfonia appartiene “più alla sfera della politica che a quella della musica”.
Nell’Allegro con brio il celeberrimo tema permea quasi ogni episodio del movimento, appare ora deciso e virile, ora “nascosto” nel fondale, ora enfatizzato dall’intera orchestra e guida una lotta vittoriosa (nello sviluppo) che culmina nella famosa sequenza di urtanti dissonanze (lo Höhepunkt del brano: cinque accordi contenenti un’inattesa seconda minore). Di fronte a questo scatenarsi dell’eroica furia - pittura inequivoca degli sconvolgimenti bellici del recente lustro (1796-1801) - il riservato e “attonito” secondo tema, frammentato in differenti incisi e voci, sembra evocare il brusio smarrito e ammirato delle masse.
La presenza di una Marcia funebre va intesa come parte integrante della visione politica dell’autore: essa ricorda, in modo didascalico, che il nuovo ordine è nato da un bagno di sangue e intona dunque una sorta di funerale collettivo per tutte le vittime della rivoluzione francese prima (1789-94), napoleonica poi (1796-1801). Da quel cumulo si cadaveri è sorto il mondo degli uguali, dei fratelli solidali e “filantropici”, così come dalla lunga, lacerata sezione iniziale (in do minore) si trapassa al soave episodio centrale (in do maggiore) nel quale, su un tappeto si ipnotiche terzine, tre voci si innalzano una dopo l’altra, in perfetta, armonica sintonia: la folla, in precedenza vagamente perplessa (secondo tema dell’Allegro), ora celebra estasiata una sorta di Paradiso in terra.  
Dopo l’episodio riflessivo e meditabondo della Marcia, non resta che celebrare l’avvenuto approdo al “Paradiso”. Di ciò si incaricano i due restanti movimenti, un festoso Scherzo permeato dalle sonorità della caccia (d’altronde numerosi sono i “cacciati” - per usare un eufemismo - tra regnanti, aristocratici, vescovi, sacerdoti e monaci) e una serie di variazioni “danzanti” nel Finale che approdano, nell’episodio conclusivo, a una versione che evoca una grandiosa marcia trionfale la quale si lega, per antitesi, alla precedente Marcia funebre: ogni lutto appare ora dimenticato nella gioia solenne, una gioia epica il cui spirito anticipa quello del quarto movimento corale della Nona sinfonia (1824). 
Composta a partire tra il 1804 e il 1808, la Quinta sinfonia sembra una sorta di versione “senza parole” del Fidelio o, se si preferisce, una riedizione più sintetica ed esplicita della Sinfonia Eroica: un dramma oscuro viene posto agli inizi (Allegro con brio), sviluppato secondo le modalità consuete di un’aspra battaglia sonora nella quale si può decidere a piacere se il celebre tema iniziale sia il simbolo di un’oppressione tirannica o il manifesto di una forza nuova che si sta scatenando (magica ambiguità dei suoni). In ogni caso la continuità esistente tra la celebre cellula tematica fondamentale e l’irruenza bellicosa degli sviluppi che ne scaturiscono fanno prevalere l’ipotesi di un organismo tematico egemone (tra l’altro da esso discende - mediante ampliamento degli intervalli - perfino il più conciliante secondo tema), simbolico delle forze rivoluzionarie, non diversamente dal significato attribuibile al tema iniziale dell’Eroica
Nell’Andante con moto, impostato su una serie di variazioni, l’implorazione iniziale lascia presto il posto a esuberanti fanfare guerriere e a un andamento quasi danzante nel quale appare indubbio l’esito positivo della bruciante lotta testé avvenuta. Il successivo, ottimistico Allegro “dipinge” schiere in marcia di avvicinamento e genera una sorta di attesa (non dissimile da quella che pervade l’ultimo atto del Fidelio) e funge, in sostanza, da introduzione al giubilante Allegro finale mentre la vigorosa pagina centrale - con quell’euforico rincorrersi verso l’acuto di contrabbassi, violoncelli e violini - ribadisce la sensazione che un fatto epocale stia per verificarsi. Nel Finale si manifesta l’atteso evento nell’irrompere scultoreo e compiaciuto del tema “fanfara” cui si aggiungono due ulteriori temi dal carattere entusiastico e travolgente: è il sopraggiungere, “da fuori”, dei nuovi “luminosi” ideali.
La Quinta sinfonia costituisce insomma un poema sinfonico (è tale proprio nella sua struttura ciclica: si basa su un tema principale che unifica il materiale musicale dei movimenti; inoltre il terzo e il quarto tempo sono congiunti e nel quarto, fatto assai raro, torna come citazione subito prima della ripresa, il tema di marcia del terzo movimento) il cui “programma” ribadisce le certezze “progressiste” del Fidelio. Entrambi dovevano suonare “fuori luogo” alle orecchie del pubblico della capitale asburgica. Peraltro Arnold Schering - nella sua interpretazione della Sinfonia in do minore redatta nel 1934 per la “Zeitschrift für Musikwissenschaft”(2) affermava qualcosa di simile allorché proponeva il seguente schema di lettura: Primo tempo: Il tiranno e il popolo; Secondo movimento: Preghiera al cielo perché mandi l’eroe salvatore; Terzo tempo: Il popolo si domanda chi sarà questo eroe; Quarto tempo: L’eroe appare nel suo pieno splendore, acclamato dal popolo esultante.
Inutile aggiungere che l’eroe - per il Beethoven del periodo 1804-08, sempre più irritato e umiliato dalle autorità asburgiche - può essere solamente Napoleone mentre il sistema ideale che si propugna è quello dell’illuminismo massonico. E’ quasi pedante ricordare che la Quinta sinfonia (come la Terza) adotta un’armatura “massonica” (tre bemolli in chiave).
Per illustrare la posizione totalmente isolata di Beethoven nella Vienna asburgica ovvero la posizione di un cittadino di Bonn, infatuato di Napoleone e degli ideali del 1789, basta ricordare le sue difficoltà nel riuscire ad organizzare un solo concerto nel 1808 nel quale offrire alla città la prima esecuzione di capolavori quali il Quarto Concerto per pianoforte, la Quinta e la Sesta sinfonia. Il musicista infatti stenta ad ottenere il permesso delle autorità per avere una sala qualunque per un giorno qualunque. Nella lettera del marzo 1808 destinata a Heinrich Joseph von Collin traspare tutta la disperazione del musicista, tenuto ai margini della vita culturale della capitale; egli scrive: “...qui a Vienna mi sono ormai abituato a essere trattato come l’ultimo dei miserabili... Io ho 3 documenti che attestano la concessione del teatro per un giorno lo scorso anno e, considerando anche quelli della polizia, sono ben 5 documenti comprovanti il diritto di un giorno, che però non è mai stato concesso. Anche solo per il disturbo che mi sono preso per niente, mi dovrebbero dare un giorno che comunque mi spetta. Ripeto, il giorno che mi spetta perché se volessi potrei costringere la direzione teatrale a darmi questo giorno in virtù del mio diritto; anzi ne ho già parlato con un mio avvocato. - E perché non dovrei farlo? - Non mi hanno forse spinto agli estremi? - basta con i riguardi verso questi vandali dell’arte”(4).
Pertanto il suddetto “lotto” di creazioni sinfoniche e concertistiche viene eseguite “in massa” nello sciagurato concerto del 22 dicembre 1808, nel periferico Theater an der Wien, davanti a un pubblico scarso e con una compagine orchestrale e corale svogliata, che aveva limitato al minimo il numero delle prove. In quella fluviale serata vengono eseguiti Quinta e Sesta sinfonia, il Quarto concerto per pianoforte e orchestra, la Fantasia corale op. 80 e alcune parti della Messa op. 80. Significativo il commento di Johann Friedrich Reichardt, compositore e critico musicale ospite nel palco del principe Lobkowitz: “Sedemmo dalle sei e mezza a mezzanotte in un freddo polare e imparammo che ci si può stufare anche delle cose belle”(3).
Il caso di questo concerto è altamente significativo: mentre il sommo Beethoven, presunto massimo rappresentante della cultura musicale viennese, sta per proporre alla città il frutto di anni di lavoro ovvero due nuove sinfonie e un nuovo concerto pianistico (composizioni da collocarsi entro i generi più popolari e artisticamente rilevanti dell’epoca), nel più importante teatro di corte, il Burgtheater, quella stessa sera Salieri dirige un concerto dedicato alle vedove e agli orfani della società dei compositori. Non solo accade questa sfrontata manovra “asburgica” di evidente boicottaggio ai danni del musicista di Bonn; a sentire il Beethoven infuriato, che scrive alla Breitkopf di Lipsia (7 gennaio 1809), “per odio contro di me i promotori del concerto per le vedove, il signor Salieri in testa, hanno vigliaccamente minacciato di espellere dalla loro società gli orchestrali che avessero suonato per me”. Nella stessa missiva aggiunge che “nessuno ha qui più nemici di me”; con tono rassegnato afferma poi che è al Theater an der Wien “che ho dovuto dare il mio concerto ed è lì che l’intero mondo musicale ha cercato di ostacolarmi”(6). 
A Vienna per Beethoven le cose iniziano a cambiare a partire dal 1809, ovvero da quando diviene assiduo precettore dell’arciduca Rodolfo (il figlio minore di Francesco I, nato a Firenze nel 1788). L’attività di maestro di composizione del figlio dell’imperatore gli consente l’accesso “concreto” agli appartamenti reali: infatti nel 1810, dopo il ritorno del giovane Asburgo dall’esilio (30 gennaio), il compositore passa larga parte del proprio tempo a Schönbrunn (scrive all’amico Zmeskall: “Il mio Signore vuole che stia con lui e lo stesso vuole la mia arte. Io sto per metà a Schönbrunn e per metà qui” - 9 luglio 1810)(7). All’allievo ha già dedicato una magnifica sonata pianistica a programma - la celebre Op. 81a - in cui si racconta la partenza di Rodolfo da Vienna, se ne lamenta l’assenza e se ne festeggia il ritorno.
E’ un Beethoven assai accomodante quello che si relaziona all’arciduca: non solo negli anni seguenti egli compone musica più conciliante e spesso di intento celebrativo (cosa quasi senza precedenti nel catalogo del musicista), ma lo scorbutico autore di Bonn non protesta neppure quando l’arciduca gli chiede una composizione “per cavalli” (in vista dei caroselli equestri per i festeggiamenti, nell’agosto 1810, dell’onomastico della povera Maria Luisa) e scrive: “Noto che Vostra Altezza Imperiale vuole fare sperimentare gli effetti della mia musica anche sui cavalli. Benissimo. Voglio vedere se in questo modo i cavalieri riusciranno a fare qualche bella piroetta...  Anche in questa incombenza resto, finché vivrò, il Suo disponibilissimo servitore” (fine luglio/inizio agosto 1810)(8).
Il Concerto per pianoforte “Imperatore” (1809) è l’ultima opera apertamente napoleonica di Beethoven. Dopo di essa inizia una lenta “conversione” alla causa degli Asburgo che culminerà con le composizioni per il Congresso di Vienna. Come era accaduto a Mozart (il quale era però ben altrimenti protetto da Giuseppe II), anche al suo ideale successore capita di entrare nelle stanze del Potere, sebbene con un ruolo assai marginale. Si può comprendere che egli venga infine tollerato da Francesco I e dalla nomenclatura asburgica: sono gli anni più difficili e umilianti per l’imperatore, quelli della cessione di Maria Luisa a Napoleone e del forzato imparentamento di una della case aristocratiche più antiche d’Europa con l’ex generale italofrancese di origini ordinarie. Se Francesco I deve subìre questo disonore (che coincide tra l’altro con un sincero dolore in ambito familiare per la perdita della figliola) per motivi diplomatici (seguendo l’astuta strategia di Metternich - quella di blandire il vincitore in attesa di tempi migliori - che risulterà valida), sicuramente non farà molto caso alla presenza del musicista “giacobino” tra le mura di Schönbrunn. In fondo queste aperture “liberali” fanno parte della politica del “nuovo corso” che prevede appunto l’alleanza (come si è detto provvisoria e strumentale) con la Francia della Rivoluzione.
Nel periodo 1810-14 la corrispondenza tra il compositore e l’arciduca Rodolfo è assidua e mostra un Beethoven “impiegato” di lusso presso la casa Asburgo. Con buona pace degli stereotipi della musicologia tradizionale e di tutta la favola intorno al primo “libero professionista” della storia della musica, possiamo dire che Beethoven vive in quegli anni principalmente con lo stipendio fornitogli dalla “aborrita” casa regnante, in ottemperanza al celeberrimo e un po’ assurdo contratto del 1809 con il quale il trio nobiliare Rodolfo - Kinskij - Lobkovitz si impegnava a versare al musicista una rendita annua in cambio di nulla. In realtà gli Asburgo continuarono a pagare la cifra pattuita in cambio della quale però Beethoven fornì assidue lezioni di composizione a Rodolfo e divenne una presenza abitudinaria entro le mura reali; al contrario gli altri due nobili si dimenticarono presto della promessa (tra l’altro Kinskij muore nel novembre 1812 per una caduta da cavallo) e Beethoven non esita a ricorrere agli avvocati coi quali perseguitare i nobili e (nel caso di Kinskij) i loro eredi affinché paghino le annuali somme pattuite. E’ logico che stipendi regalati in cambio di nessun servizio vengano presto “dimenticati” da questi mecenati incostanti.
Beethoven continua a guadagnare discrete somme anche vendendo alle case editrici le sue composizioni, ma si tratta di entrate più saltuarie e meno consistenti. Egli finisce con l’assicurarsi un proprio introito costante, solo lavorando in modo continuativo per gli Asburgo. Lo stesso era accaduto a Haydn (con gli Esterhazy) mentre qualche maggiore autonomia economica l’aveva avuta Mozart in quanto docente, concertista e operista abbastanza ricercato.
Se proprio si vuole confrontare l’emancipazione economica dei compositori, allora ben maggiore risulta quella degli operisti italiani (e dei cantanti d’opera che erano le figure meglio retribuite fra tutti) fin dalla seconda metà del Settecento: infatti le loro partiture erano costantemente richieste dai teatri di tutta Europa (come dimostra la prolifica produzione), interessavano una vasta collettività borghese, nobiliare e perfino popolare e ciò garantiva loro remunerazioni alte e costanti, insomma li rendeva relativamente autonomi. Beethoven invece, occupandosi quasi esclusivamente di musica strumentale, dipendeva da un pubblico altoborghese e nobiliare assai più ristretto e si vedeva perciò costantemente costretto a ricercare un impiego fisso presso qualche corte o istituzione. Da questa situazione assillante il musicista esce solo con il contratto del 1809 quale preludio al proprio impiego fisso presso il figlio di Francesco I.
Sebbene Beethoven sembri entrato a far parte della cerchia asburgica, numerosi sono ancora gli indizi di una sua sostanziale estraneità a quell’ambiente il quale - infatti - continua a guardarlo con sospetto. Scrivendo al proprio editore Härtel da Teplitz nel settembre 1812 egli afferma: “Può darsi che io venga a Lipsia, però La prego di mantenere il più assoluto tacet in proposito perché, detto tra noi, in Austria non si fidano più tanto di me, ammetto con ragione, e non mi concederebbero il permesso... “(7).
D’altronde in una lettera del settembre 1813 all’amico conte Franz Brunsvik di Buda scrive: “Addio, amato fratello, sii un fratello per me, non ho nessun altro cui dare questo nome, fa’ attorno a te tutto il bene che ti consente quest’epoca malvagia”(9): il musicista rivela così il proprio senso di isolamento entro una realtà viennese che gli è ostile e nella quale cerca ancora di inserirsi. E’ questo un passo che si presta a una lettura massonica: di fratello (nelle logge) ormai non è rimasto nessuno nella capitale viennese e Beethoven sembra lamentarsene con l’amico ungherese, quasi a voler giustificare la propria condotta “collaborazionista” in un’epoca “malvagia” che non consente altre scelte.
Se questa lettura è solo probabile, un fatto certo e dirompente si profila però all’orizzonte e viene a confermare implicitamente il tipo di considerazioni sopra esposte: sebbene Beethoven sia il docente ufficiale del figlio dell’imperatore, egli continua a non riuscire ad ottenere la disponibilità dei teatri per tenervi un concerto. Alla fine del 1812 sono ormai completate la Settima e l’Ottava sinfonia e nella primavera seguente Beethoven si adopera con ogni mezzo per avere il permesso di tenere una nuova Accademia. Prega l’amico Rodolfo, di cui si dichiara “devotissimo servitore” al termine di quasi ogni missiva, affinché intervenga per “dire una parolina all’attuale rector magnificus dell”Università” (lettera 16-4-1813)(10) e, ciononostante, il rettore nega il consenso. Intorno a Beethoven permane quindi un’atmosfera di diffidenza e sospetto
Il concerto si farà (8 dicembre 1813) ma solo quando il pezzo forte della serata sarà Wellingtons Sieg, e si farà come concerto di beneficenza patriottico per i soldati austriaci e bavaresi, reduci dalla battaglia di Hanau (30 ott. 1813) in cui l’esercito napoleonico in rotta (dopo Lipsia) riesce a infliggere gravi perdite alle formazioni asburgiche. Solo allora, con un’aperta e indiscussa adesione di Beethoven alla causa asburgica, tramite un pezzo di tipo celebrativo, il musicista si vedrà finalmente accettato e festeggiato (il concerto avrà un enorme successo, verrà replicato e il brano in questione diverrà presto il suo pezzo più popolare). Durante l’esecuzione della trionfale battaglia, il compositore si troverà quale collaboratore (per la direzione delle percussioni), nientemeno che l’antico nemico Salieri, vero simbolo dell’ortodossia asburgica.
A quel punto - schieratosi con clamore dalla parte della coalizione antifrancese - al musicista si permetterà qualunque cosa, perfino di rimettere in scena il suo vecchio Fidelio, finalmente al Kärntnertortheater (maggio 1814) ossia in un teatro di corte.
Nel concerto del dicembre 1813 verrà eseguita anche la Settima sinfonia la quale mostra un compositore assai mutato rispetto alla poetica bellicosa e filonapoleonica che animava le principali creazioni del decennio precedente. La nuova sinfonia è un’opera interamente gioiosa - un po’ come lo era l’accademica Prima sinfonia - pervasa da ritmiche ossessive e da episodi contrappuntistici (si pensi ai temi principali di primo e quarto movimento, all’andamento di passacaglia e agli accenni di fugato nell’Allegretto) di tipo neobarocco. La Settima, insomma, può essere intesa anche come lavoro solennemente celebrativo: lo impongono i tempi nuovi e il differente contesto biografico dell’autore.
Il taglio “conservatore” della Settima sinfonia trova ulteriore e più esplicita conferma nelle  “antiquate” gaiezze haydniane della Ottava sinfonia nella quale Beethoven addirittura reintroduce l’aristocratico Minuetto mentre riduce le accensioni bellicose di tipo “napoleonico” - come quelle presenti nel marziale secondo tema dell’Allegro iniziale - a isolate reminiscenze di una poetica superata. Il lavoro - che non solleva particolari entusiasmi nel pubblico viennese - trova comunque immediata esecuzione (febbraio 1814) all’interno dei numerosi concerti che il compositore della Wellingtons Sieg può ora permettersi di dare.
Possiamo considerare Wellingtons Sieg l’apice del percorso di “rientro” del compositore nei confronti di casa Asburgo. Dopo il decennio “napoleonico, il docente dell’arciduca completa la propria presa di posizione firmando questo famoso e popolare pezzo nel quale si glorifica il coraggio e l’abilità delle truppe di Lord Wellington le quali avevano sconfitto l’esercito francese in Spagna - a Vittoria - il 21 giugno 1813. Dopo il disastro russo, si tratta della prima grande sconfitta della Francia e prelude alla disfatta finale di Lipsia (ottobre 1813).
La partitura beethoveniana (circa 15 min.), divisa in due parti - Battaglia e Sinfonia di vittoria - propone all’inizio i due inni  (Rule Britannia e Canzone di Marlborough) degli eserciti contrapposti, poi un’efficace illustrazione dello scontro (cavalli al galoppo, fucilerie e scoppi di cannone... ) e infine un inno per i vincitori inglesi. L’abilità del musicista nel trattare il materiale tematico di tipo marziale - abilità centrale in tutte le opere “filofrancesi” del decennio precedente - viene ora piegata all’encomio verso Gran Bretagna e Austria ovvero verso i principali nemici di quella rivoluzione liberale alla quale il compositore di Bonn si era sempre mostrato idealmente vicino. In Sinfonia di vittoria Beethoven utilizza un tema giubilante, ricco di ritmi puntati e sferzanti sonorità in contrattempo, interrotto per due volte dall’apparizione dell’inno inglese God Save the King in tempo moderato. Nella chiusa c’è spazio anche per un episodio in fugato in cui le singole voci gioiose si fondono in una totalità coerente e felice.
Il pezzo, di scarso interesse musicale, riutilizza in modo meramente effettistico una serie di vocaboli sonori - gli sforzati, i contrattempi, il crescendo a effetto, l’andamento di marcia, i ritmi puntati e le fanfare - che avevano impregnato sinfonie fondamentali come la Terza e la Quinta.
Finalmente Beethoven viene festeggiato senza remore da tutta Vienna, da quella ufficiale e da quella popolare (il brano avrà parecchie repliche e verrà edito a Vienna nel 1816 presso l’editore Steiner).
Un anno dopo la festa si ripete - e più sontuosa - con il grande concerto in onore dei regnanti vincitori, riuniti a Vienna per il Congresso restauratore. Nel novembre 1814 al Burgtheater, immediatamente “concesso” a Beethoven, viene eseguita la cantata per soli coro e orchestra Der glorreiche Augenblick op. 136 (Il momento glorioso) e si replica la Wellingtons Sieg. La nuova opera del compositore - il quale finge di dimenticare di essere stato un decennio prima il più convinto sostenitore, in ambito musicale, delle gesta napoleoniche - è un lungo inno ai vincitori della coalizione antifrancese e in particolare all’imperatore Francesco I e alla Vienna trionfatrice nei confronti degli “attacchi sacrileghi” che hanno a lungo minacciato la stabilità dell’Europa. Tutto ciò che Beethoven aveva mostrato di odiare nella prima parte della sua permanenza viennese (1792-1809) viene ora incensato senza remore, in una partitura “oggettiva” e a suo modo “neobarocca” nel ricondurre il discorso musicale alla arcaica, pura funzione celebrativa del Potere. La musica esalta dunque la funzione salvifica degli Asburgo (di Francesco I definito “l’essere sublime”), di Vienna (“Incoronata, prediletta dagli Dei... regina delle città”) e in generale “il momento glorioso” che l’Europa sta vivendo.
In quella solenne serata - davanti ai regnanti vincitori e a un vastissimo pubblico - il musicista trova la propria imprevista, finale consacrazione cantando i secolari valori della Tradizione monarchica che il Congresso si accinge a restaurare dopo la bufera napoleonica.
Sebbene Wellingtons Sieg divenga, dopo la morte di Beethoven, un’opera dimenticata, della quale la critica parla poco e con evidente imbarazzo, nel periodo 1813-16 è invece al centro dell’epistolario beethoveniano. Va rilevato che il compositore dimostra una grande considerazione per questa sua composizione che è anzi l’unica su cui si dilunghi in numerose missive di quegli anni. Non solo egli la definisce sempre con aggettivi positivi, quando non entusiastici, ma nei cataloghi di vendita agli editori, che popolano le lettere del periodo, è praticamente la partitura più costosa, eguagliata solamente dalla Settima sinfonia sulla quale, tuttavia, Beethoven raramente si esprime. Al contrario il compositore cerca innanzitutto di “vendere” questo bellicoso affresco in lode dell’Inghilterra, vanta il successo strepitoso che esso ha ottenuto in ogni sua esecuzione (viennese o londinese) e cerca di informarsi su dove e quando eventualmente l’opera sia stata eseguita a sua insaputa (anche per potere reclamare una qualche ricompensa). In una lunga lettera (giugno 1815), destinata quasi certamente al principe Paul Esterhàzy, egli definisce l’opera come un lavoro che “celebra un evento notoriamente glorioso della storia dell’Inghilterra, che è stato uno splendido contributo alla liberazione dell’Europa” e ricorda che nelle esecuzioni londinesi del febbraio 1815 al Drury Lane Theatre “tutti i tempi dovettero essere bissati ogni volta e ogni volta salutati con applausi scroscianti... Tutti i giornali erano pieni delle odi e dello straordinario successo che l’opera aveva ottenuto in Inghilterra...”(11). Colpisce l’espressione “liberazione dell’Europa” riferita proprio a quegli ideali che, per tutta la sua esistenza, egli aveva considerato centrali nel suo pensiero e nella sua poetica artistica e che torneranno ad esserlo nella sua ultima fase creativa (1817-27). Per quanto questa definizione si collochi in un testo destinato a un aristocratico vicino alla casa asburgica, per quanto Beethoven possa essersi in definitiva disamorato a causa di alcuni eccessi napoleonici, il radicale cambiamento di posizione politica - da progressista a conservatrice - suona come meramente opportunistico e transitorio, come dimostreranno gli eventi artistici dell’ultimo decennio. Se Wellington Sieg costituisce, in qualche modo, la formale ritrattazione del compositore dei propri ideali giovanili (una sorta di “8 settembre” rovesciato ovvero dall’ideologia delle libertà a quella della conservazione autoritaria) si può ben comprendere l’imbarazzo degli storici che dovrebbero dar conto del “tradimento” del loro beniamino e che, in genere, preferiscono minimizzare o addirittura tacere. Questo modo strumentale di discutere i fatti storici, giudicati a seconda dell’utilità che rivestono in relazione al rafforzamento (leggi propaganda) che si vuol ottenere nel presente di questo o quell’ideale politico, è una modalità stucchevole e anche fastidiosa. La Storia non dovrebbe essere ridotta a occasione per didascalici e spesso ipocriti sermoni. Al contrario lo storico più avveduto dovrebbe - seguendo il dettato di Wilhelm Dilthey e dello storicismo tedesco fondato sul concetto di Erlebnis (Introduzione alle scienze dello spirito, 1883) - cercare di rivivere dall’interno gli eventi storici così da riuscire a spiegarli nella loro complessità, non sempre riducibile a semplici schemi ideologici. Beethoven, dopo la sconfitta definitiva dei ”tempi nuovi”, si allinea al Denkstil prevalente, senza nascondere la propria nuova scelta di campo. Non se la sente più di sostenere, da solo in un contesto ostile, una visione per ora definitivamente tramontata nelle cose sociali e politiche anche se, nel suo intimo, permane quell’antico amore (difficile sfuggire alle proprie radici) che si manifesterà nuovamente, un decennio dopo, nel grande affresco della Nona sinfonia.

Negli anni successivi Beethoven mostra di non avere cambiato le proprie idee di fondo. L’esame dei Quaderni di conversazione (1818-1827) mostra che il compositore e la sua fedele cerchia continua a mantenere un totale distacco dalle istituzioni imperiali di cui dice tutto il male possibile. E’ esplicitamente per tale motivo ovvero per la presenza di inqualificabili insulti alla casa regnante e all’imperatore in particolare, che Schindler, il primo biografo beethoveniano, afferma di avere distrutto buona parte di tali quaderni. Anche in quelli rimasti, tuttavia, vi sono accenni inequivocabili in tale direzione.
Durante i moti europei del 1820-21, il cui principale bersaglio era l’assolutismo asburgico, sui quaderni compaiono cenni di evidente simpatia sia per i carbonari italiani, sia per i militari spagnoli che lottano per riconquistare le libertà e le costituzioni dell’epoca napoleonica. La figura del condottiero francese torna in auge e, al riguardo, nei quaderni si dice che “egli abbatté ovunque il sistema feudale e fu il difensore del diritto e della legge”(12). Sempre nei quaderni si trovava scritto: “Fra cinquant’anni si formeranno repubbliche dappertutto” e “la nobiltà che ci governa non ha imparato nulla e nulla ha dimenticato”(13) D’altronde se Beethoven si sentiva spiato e impossibilitato a esprimersi in maniera compiuta in difesa degli ideali universali dell’uomo, quegli stessi ideali egli li sta mettendo in musica nella sua ultima grande sinfonia (1824), commissionata nel 1817 dalla massonica Philharmonic Society londinese (che tra i suoi sostenitori radunava, tra gli altri, Johann Peter Salomon, Muzio Clementi, Giovanni Battista Viotti, Thomas Attwood, Johann Baptist Cramer), in cui l’inserimento del celebre testo di Schiller, con il suo richiamo alla fratellanza universale degli uomini, va a saldare la poetica del Beethoven eroico (Terza e Quinta sinfonia) con quella dell’ultimo “silenzioso” e più remissivo Beethoven, costretto a vivere in una città assai lontana dagli ideali dell’illuminismo francese.
Negli anni venti Beethoven torna a sentirsi isolato e separato dal mondo della Vienna ufficiale, come nel primo decennio del secolo. Nel 1822, a un visitatore di Lipsia, dice con tono sconsolato: “Non udrete nulla di mio qui. Cosa potreste udire? Fidelio? Non possono darlo e non lo vogliono ascoltare. Le sinfonie? Non ne hanno il tempo. I miei concerti? Ognuno macina solo ciò che ha scritto lui stesso. I brani solistici? Sono fuori moda da tempo e qui la moda è tutto. Al massimo ogni tanto Schuppanzigh rispolvera qualche vecchio quartetto”(14). Charles Rosen, che nel suo fortunato testo Lo stile classico cita queste parole di Beethoven, parla erroneamente di compositore giunto al termine della carriera e incompreso perché troppo complesso. Scrive: “Alla fine della sua vita Beethoven era decisamente fuori moda”(15). Al contrario, come si è visto, Beethoven è sempre stato “fuori moda” a Vienna: il problema non era tanto stilistico quanto politico. Una ulteriore conferma della distanza che di nuovo (dopo il breve periodo filoasburgico di cui si è detto) separa Beethoven dalla nomenclatura imperiale è costituita dal concerto del 7 maggio 1824: un decennio dopo le fortunate esecuzioni della Settima sinfonia e della Wellington Sieg, al Teatro di Porta Carinzia il compositore di Bonn presenta il suo ultimo, grandioso sforzo creativo (la Nona sinfonia oltre a una parte della Missa Solemnis) ma i palchi imperiali sono completamente vuoti; nessuno degli Asburgo e della loro cerchia si è sentito in dovere di essere presenti a un simile evento che, nella ricostruzione storica a posteriori, diventerà una tappa fondamentale (e tra l’altro l’ultima) del Beethoven popolare e pubblico. D’altronde i resoconti della serata appaiono discordi: si parla sempre di folla oceanica e di travolgente entusiasmo e subito dopo si afferma che la serata finì quasi in perdita quanto a incassi. Probabilmente aveva ragione l’attento osservatore Joseph Carl Rosenbaum che nei suoi diari scrisse: “Molti palchi vuoti, nessuno della corte. Scarso effetto presso il grande pubblico. I sostenitori di Beethoven applaudirono rumorosamente, la maggior parte del pubblico rimase in silenzio, molti non aspettarono la fine”. (16) Il concerto viene replicato lunedì 24 maggio e questa volta è un mezzo fiasco quanto a pubblico e incassi; i sostenitori del maestro se la prendono col bel tempo e con l’abitudine dei viennesi di trasferirsi già in quel periodo nelle località di vacanza che circondavano la capitale; si tratta, evidentemente, di argomentazioni inconsistenti.
Nella carriera di Beethoven la Wellington Sieg, l’ode dedicata al proprio storico nemico, rimane un intermezzo isolato e insincero, dettato da motivazioni opportunistiche e transitorie. In qualche modo questa composizione funziona da spartiacque tra il Beethoven illuminista e napoleonico, tedesco residente in un conteso austriaco differente ed ostile e il Beethoven dell’ultimo periodo che, pur non avendo cambiato le proprie idee, non sembra avere più l’occasione di esprimerle poiché immerso in un contesto politico sostanzialmente statico (con l’eccezione dei moti falliti del 1820-21) e tornato agli equilibri di natura assolutistica precedenti alla fase dei conflitti con la Francia napoleonica. D’altronde, come noto, nel periodo 1815-20 e oltre la biografia beethoveniana è completamente assorbita dalla questione del nipote Karl, una vicenda imbarazzante che ha poco a che spartire con le questioni musicali dell’autore ma che ce lo riconferma illuminista radicale e fanatico. C’è pertanto stretta continuità tra il musicista massonico che voleva imporre ad una riluttante e sorda società asburgica gli ideali del 1789 e il compositore famoso e divenuto esteriormente un conservatore (negli anni del Congresso), ormai amico dei potenti (l’arciduca Rodolfo), che riesce a strappare il povero Karl al proprio naturale contesto familiare (la madre Johanna) imponendogli, con metodi autoritari, percorsi di istruzione umanistica (la frequentazione dell’università con scarsi risultati) e musicale (le lezioni di pianoforte col povero Czerny che, a più riprese, cercherà di spiegare all’insigne Maestro che il ragazzo non possedeva alcun talento per il linguaggio dei suoni); al contrario quando Karl, seguendo semplicemente le proprie naturali inclinzioni, abbandonerà gli studi e tenterà la carriera militare, Beethoven cercherà di opporsi in ogni modo. E’ una vicenda triste che termina addirittura con un tentativo di suicidio di un disperato Karl, perseguitato da uno zio-tutore che pretende di applicare meccanicamente le proprie rigide idee educative e la propria sopravvalutazione dell’universo artistico-culturale al nipote (sopravvalutazione tipica di numerosi, celebri autodidatti; oltre a Beethoven un caso classico sarà quello del regista francese Francois Truffaut, fervente adoratore di libri eretti a divinità neopagane come dimostra il suo film Fahrenheit 451, 1966). Anche in questa delirante iniziativa (quella di strappare un figlio alla propria madre naturale e al proprio naturale destino), dalla quale invano numerosi suoi conoscenti e amici cercarono di dissuaderlo, Beethoven rimane fedele agli assurdi ideali massonici dell’uguaglianza assoluta degli individui, come tali considerati plasmabili dalle circostanze (nel caso di Karl la circostanza, tutt’altro che fortunata, è di avere uno zio importante come Ludwig... ) e non si accorge del profondo disagio in cui ha scaraventato il ragazzo (al quale, peraltro, è sinceramente affezionato) e sua madre. D’altronde è tipico di questi personaggi, preoccupati dei destini dell’Umanità, non valutare correttamente gli eventi più banali con cui entrano in contatto, soprattutto quando questi ultimi confliggono con il loro castello ideologico (lo stesso vale per Mozart, padre inetto ma serio cantore di un’Umanità fraterna e illuminata nel Flauto magico) (17).
Negli ultimi anni della sua esistenza Beethoven appare sempre più chiuso entro una cerchia di fedelissimi. Le memorie di Gerhard von Breuning (Aus dem Schwarzspanierhause. Erinnungen an L. van Beethvenaus meiner Jugendzeit) registrano questo finale “in modo minore” dell’artista e soprattutto, nel racconto circostanziato dei solenni funerali (29 marzo 1827) e della enorme folla che vi prese parte, hanno il merito di indicare, per sottrazione, la totale mancanza di qualunque personaggio della cerchia degli Asburgo a quel significativo appuntamento. Breuning ricorda inoltre che sulla “Wiener Theaterzeitung”, la più popolare rivista del’impero relativa al mondo teatrale e musicale, bisognò attendere il 10 aprile perché ci si occupasse della notizia della morte (26 marzo) di Beethoven e dei suoi funerali. Tutto ciò conferma, una volta di più, la forte estraneità che permaneva, perfino in questa solenne occasione, tra l’illuminista di Bonn e l’universo conservatore  della Vienna asburgica.

In ossequio al Potere: la Battaglia dopo Beethoven

Liszt valorizza il genere della battaglia allorché decide di comporre Hunnenschlacht o La battaglia degli Unni (1857), composizione (circa 15 min.) ispirata all’omonimo (1850 circa) grande affresco di Wilhelm von Kaulbach A differenza della maggior parte dei casi esaminati, quella di Liszt è una composizione autonoma e non occasionale che il musicista ungherese inserisce nella serie dei suoi dodici poemi sinfonici.
Il tema è quello del confronto tra barbarie e civiltà attraverso il conflitto che contrappone gli Unni di Attila e l’esercito imperiale capeggiato dal generale Ezio durante la battaglia di Chalons (451): vinsero quest’ultimo senza, però, riuscire a debellare in maniera definitiva la minaccia degli Unni.
Liszt illustra la battaglia nella sua natura simbolica più che nel suo decorso storico: egli infatti contrappone due antitetici nuclei tematici abbastanza estesi e liberi. La prima parte vede l’affermarsi di un tema concitato e cupo, una spinta inesausta verso l’altro che non riesce ad approdare a un motivo sereno e cantabile; con essa il compositore illustra la battaglia ricorrendo ai consueti stereotipi del genere ovvero l’onnipresenza dei ritmi puntati unito a un abbondante uso di scale organizzate in quartine di semicrome. Durante questa immaginaria cavalcata selvaggia comincia a comparire il tema della redenzione cristiana nella forma del noto motivo gregoriano Crux Fidelis (570 circa), un canto gregoriano che viene adattato alla scrittura ritmica moderna. Questo tema, da semplice apparizione saltuaria, dietro o sopra le “orde al galoppo”, diviene via via più definito fino a contrapporsi nettamente all’altro, silenziandolo. Esso compare dapprima all’insieme fiati (con organo), interrompe la cieca violenza del tema barbarico per condurre il discorso sonoro verso un canto luminoso e implorante che volteggia nell’aria, memore della sua origine modale. Il tema Crux Fidelis diviene sempre più solenne,occupando progressivamente l’intera scena mentre l’altro tema, a suo modo demoniaco, “borbotta” nel fondale, sottomesso alla perentoria luminosità della fede cristiana,
Non diversamente da quanto accadeva in Beethoven (e di quanto accadrà in 1812 di Ciaikovskij) l’idea iniziale aggressiva, dinamica, popolaresca e priva di una vera bellezza, un’idea che possiede tra l’altro i caratteri del Leitmotiv wagneriano, si infrange di fronte al solido muro rappresentato da un’idea musicale antica, solenne e statica, addirittura di impianto modale. 
La battaglia, celebrativa e non, si conferma un genere conservatore, che mostra tutta la propria diffidenza nei confronti del nuovo e tutto il proprio radicamento nell’antico. In tali composizioni spesso gli autori, accantonati gli ardori giovanili, si pongono nel campo politico della Tradizione, rinnegando le spregiudicate passioni giovanili. Liszt ha dimenticato l’epoca (1834-44) in cui era un progressista entusiasta, seguace di Lamennais e del suo cristianesimo liberale e rivoluzionario così come ha archiviato la propria trasgressiva relazione amorosa con la contessa maritata Marie D’Agoult (la quale, a sua volta, lo rinnega, dipingendolo come una sorta di arrampicatore sociale nei suoi scritti polemici tra cui il romanzo Nelida, 1846)(18); ora egli si accompagna ad una principessa, Carolyne zu Sayn-Wittgentstein e vive con lei in completa agiatezza dopo avere accettato, nel 1848, il tranquillo incarico di Kapellmeister a Weimar.

Ciaikovskij accolse con ben poco entusiasmo la commissione relativa alla composizione di un brano di natura celebrativa da eseguirsi in occasione della consacrazione della chiesa neobizantina di Cristo Salvatore (situata a Mosca nelle vicinanze della Kremlino), per i settant’anni della vittoria russa sugli invasori francesi. La chiesa era stata iniziata proprio dopo la disfatta napoleonica, come segno di ringraziamento divino.
Nasce la celebre Ouverture 1812, di fatto un brano pienamente ascrivibile al genere della battaglia, verso il quale il compositore nutre sentimenti contrastanti. In una lettera a Nadežna von Meck scrive : “L’ouverture sarà molto solenne perciò, presumibilmente, non vi saranno pregi artistici”(19). Essa venne eseguita per la prima volta a Mosca nell’agosto 1882, nella piazza antistante la cattedrale
Il compositore russo non si sottrae alla questione estetica esposta in apertura: percepisce con chiarezza che la composizione di un brano descrittivo e commemorativo è un lavoro di mera illustrazione storica, privo di quei valori artisitco-musicali capaci di fondere compositore, esecutori e ascoltatori in un tutto unitario. A questo genere di manifestazioni musicali il pubblico assiste in maniera esteriore come potrebbe fare osservando uno spettacolo di fuochi d’artificio, impressionanti fin che si vuole ma, di fatto, incapaci di penetrare nel fondo dell’animo umano. Ciononostante Ciaikovskij, comprendendo l’importanza dell’evento sociopolitico e la possibilità di rendere la propria figura e, di conseguenza, la propria musica più conosciute, si adattò di buon grado al compito. L’opera dovette comunque essergli tutt’altro che sgradita (infatti contiene almeno un motivo musicale di grande bellezza) al punto che, in anni seguenti (1887-88; 1893), anzichè lasciare cadere il lavoro nell’oblio, egli lo ripropose (sotto la sua direzione) in numerosi concerti come brano di chiusura, ottenendo dal pubblico sempre un felice riscontro.
L’argomento dell’Ouverture 1812 (circa 15 min.) coincide, sostanzialmente, con quello del celebre romanzo di Tolstoj Guerra e pace (1869). In apertura un sommesso canto religioso, ripreso dalla tradizione cristiano-ortodossa, annuncia il ripiegamento del popolo russo all’annuncio della guerra da parte di Napoleone. Il conflitto inizia con l’apparizione (Allegro giusto) de La Marseillaise (1792), un canto di guerra il cui esplicito ritmo di marcia allude alla visione aggressiva ed espansiva del 1789 e della sua ideologia antiassolutista, basata su una visione universale delle libertà individuali coniugate con una concezione ugualitario-solidaristica (la ben nota triade libertà - uguaglianza - fratellanza). A questo vocabolo sonoro di squisita matrice massonica, emblematico allora ed oggi dello spavaldo espansionismo occidentale, risponde la statica tradizione russa, basata su motivi dal carattere fermo e antico, a tratti addirittura arcaico-modale: sono i segni della tradizione assolutistico-religiosa che sbarrano la strada all’entusiasmo astratto e un po’ fanatico dei discendenti di Cartesio. Il tema irruente e bellicoso degli invasori viene bloccato per due volte da un duplice motivo ovvero una seducente melodia lirica che allude alla pace successiva la battaglia e un tema folcloristico; questo blocco tematico armonioso e statico - in qualche modo la parentesi “artistica” all’interno della composizione - di carattere antitetico rispetto a quello movimentista “francese”, espone nuovamente l’antitesi tra le pretese aggressive degli uni e la difesa della propria terra e delle proprie tradizioni degli altri. L’oasi incantata non riesce a placare gli animi ed entrambe le volte  viene “cancellata” dal riapparire della Marsigliese:  la battaglia riprende e sfocia in alcuni colpi di cannone che indicano la sconfitta e la ritirata francese cui segue l’epilogo festoso in cui un frastuono di gioiose campane e l’intonazione dell’inno zarista (1833) sancisce la vittoria russa. Anche quest’ultimo tema, con la sua scrittura statica influenzata dal corale luterano, esprime la più completa antitesi ideale nei confronti della bellicosa marcia francese.
Giova ricordare che Ciaikovskij professava ideali conservatori e sinceramente zaristi; nel 1882 ovvero proprio nei giorni in cui componeva 1812, riguardo alla situazione politica russa (dopo la morte dello zar Alessandro II ucciso in un attentato nel marzo 1881) scriveva alla von Meck: “noi possiamo aiutarlo [lo zar] a sradicare la sovversione e decidere insieme che cosa è necessario affinché la Russia sia forte e felice... Avete letto Taine?... molto di ciò che dice dei francesi del 1793 e del significato della cricca infima di anarchici che hanno commesso delitti innominabili... è perfettamente applicabile ai nostri nichilisti” (20).
In definitiva anche 1812 esprime la contrapposizione tra Modernità e Tradizione ovvero il conflitto che ha attraversato la storia dell’Ottocento e del Novecento. Dopo che il sistema politico russo verrà travolto dai fatti del 1917 ovvero dal trionfo della Modernità, l’inno zarista verrà sostituito, in epoca sovietica, da un coro tratto dall’opera Una vita per lo zar (Glinka, 1836). Anche l’imponente cattedrale seguirà il tragico flusso della storia: consacrata nel 1883 in occasione dell’incoronazione dello zar Alessandro III, verrà fatta saltare in aria dai sovietici nel 1931 per volere di Stalin che voleva costruire, in quel luogo, un grande palazzo commemorativo del 1917 che poi non si farà. Dopo la fine del comunismo la chiesa ortodossa inizierà la ricostruzione della cattedrale che,  completata nell’agosto 2000, è tornata a dominare lo scenario moscovita..
Tutte queste considerazioni confermano il genere della battaglia come discorso sonoro dalle implicazioni preminentemente politiche. Il caso vuole che entrambi questi esempi ottocenteschi (Liszt e Ciaikovskij) si collochino nel perimetro del patriottismo nazionale di marca conservatrice, antiilluminista e antimassonico.

La pagina musicale più famosa del Novecento che evoca esplicitamente scenari di guerra è probabilmente il primo movimento della suite The Planets (1918) di Gustav Holst. Il brano Mars, the Bringer of War (circa 7 min.), posto significativamente in apertura, offre un violento quadro sonoro (certamente memore di alcuni passi del recente Sacre stravinskiano) volto a dipingere senza infingimenti e senza patetismi. questa umana attitudine, purtroppo centrale nella Storia. Sopra un tappeto sonoro implacabile, organizzato in uno straniante ritmo quinario, emergono differenti complessi tematici segnati da dissonanze aspre e da accenni melodici rigidamente inquadrati in schemi ritmici. La battaglia è guardata da Holst con occhio freddo, quasi neutrale: se manca il futile entusiasmo di tante composizioni propagandistiche, manca però anche il distacco dall’orrore che ogni conflitto bellico comporta.
L’opera, salutata immediatamente da un notevole successo (è la pagina più popolare di Holst), avrà una grande influenza sulla musica del secondo Novecento: ritroveremo evidenti echi di Mars in numerosi passaggi del soundtrack del primo ciclo delle Star Wars (1977-1983) di John Williams mentre il Progressive Rock inglese - soprattutto quello dei King Crimson - tornerà più volte a questa fortunata pagina musicale (vedi quanto scritto più avanti).

Dopo essere rientrato in U.R.S.S. (1933), Prokofiev inaugura il proprio stile “sovietico”, più bonario e accomodante rispetto a quanto composto in Occidente negli anni precedenti: nascono così il Nevski e Ivan il terribile, Un matrimonio in convento e Guerra e pace, Romeo e Giulietta e La Bella addormentata, Pierino e il lupo e il pianistico Album per la gioventù, opere in cui, al di là del diseguale valore artistico, aleggia sempre un certo gusto neoaccademico e l’idea prudente della musica quale servizio per il popolo, onde evitare di finire in disgrazia presso le alte sfere o peggio rinchiuso in qualche desolato gulag della Siberia (come capiterà a sua moglie Lina).
Nel 1938 il musicista si trova a dovere collaborare con il regista Eisenstein per la realizzazione del film patriottico e implicitamente antinazista Alexander Nevskij (nov. 1938). L’opera rievoca la vittoria del condottiero Nevskij, principe di Novgorod, sugli invasori, i cavalieri teutonici alleati della chiesa romana: questi ultimi vengono sconfitti durante l’epica battaglia del lago dei Ciudi (1242), situato al confine tra Estonia e Russia. Dalla colonna sonora del film Prokofiev trae la composizione omonima op. 73, una cantata per mezzo soprano, coro e orchestra (circa 40 min). L’opera, suddivisa in sette quadri (che ripercorrono fedelmente la trama dell’opera cinematografica) contiene la Battaglia sul ghiaccio (quinto quadro, circa 12 min.) che costituisce il momento culminante del lavoro, ancora (come per 1812) una battaglia che descrive la Russia come terra invasa: ora sono le forze conservatrici (i “crociati” di ieri e di oggi) a giocare il ruolo degli aggressori mentre l’antica tradizione russa, fatta di semplici canti folcloristici (come in 1812), oppone una fiera, vincente resistenza.
L’opera, certamente tra le cose notevoli di Prokofiev, riesce a convertire un semplice brano di musica descrittiva, addirittura nato come sofisticato commento alle immagini di Eisenstein, in una pagina incisiva nella sua intensa ed anche poetica capacità comunicativa. La radicale differenza rispetto alle opere di Beethoven, Liszt e Ciaikovskij, consiste nel fatto che, pur parlando di eventi medievali, l’opera in realtà allude a una minaccia terribilmente presente ai confini dell’impero sovietico e che, di lì a poco, si concretizzerà nella sciagurata Operazione Barbarossa (giugno 1941). Dunque l’aspetto meramente descrittivo e commemorativo passa in secondo piano mentre l’opera si incarica di raccontare il pericolo incombente, descrivendo le orde teutoniche con un magnifico Leitmotiv dai toni sinistri e sospesi (prima sezione) in un contesto gelido e “invernale”, dal quale dapprima si concretizza il solenne e a suo modo spaventoso corale dei crociati (“Peregrinus expectavi, pede meos in cymbalis, vincant arma crucifera! hostis pereat!”), sottolineato dai tromboni, cui segue la vera e propria battaglia, segnata dal ritmo puntato degli archi ad evocare i cavalieri al galoppo all’interno di un contesto sonoro aspro e politonale. Si noti che tutto ciò che di originale e quasi sperimentale caratterizza questa pagina, basata sul linguaggio progressivo del Prokofiev presovietico, vi figura come emblema del male e del nemico in agguato a Occidente. Al contrario il segno della vittoria è affidato all’apparire  (nell’ultima parte) di un tema più semplice e netto che deriva dalle tradizione musicale russa.
Come nel 1812 di Ciaikovskij la battaglia musicale contrappone complesso e semplice, minaccioso e sereno, disarmonico e proporzionato, politonale e tonale e conferma questo genere sonoro come una forma conservatrice e generalmente filogovernativa in cui, di volta in volta, le forze estranee, straniere e minacciose, vengono dipinte con i colori del nuovo inteso come inquietante, sconosciuto e pericoloso cui si oppone la serena presenza di ciò che è da sempre noto ovvero la Tradizione. Anche nella modernissima Russia sovietica gli elementi del gioco sono gli stessi e gli artisti, consigliati dal partito, evitano di giustapporre ai discorsi sonori degli invasori i colori della nuova e per molti (anche in Urss) ancora controversa (dopo le  recenti stragi staliniane dei Kulaki) realtà nata dal 1917 (ovvero i numerosi canti sovietici, primo in testa quello della Internazionale); al contrario essi ricorrono saggiamente a temi antichi, capaci di stimolare l’anima patriottica del popolo russo. Non a caso negli anni del conflitto Stalin, finalmente, rivaluterà anche la chiesa ortodossa alla quale, dopo le tremende persecuzioni (si pensi ad esempio alla già citata, provocatoria demolizione della monumentale Chiesa di Cristo Salvatore), verranno fatte grandi concessioni in cambio dell’appoggio esplicito alla guerra antinazista.
La composizione di Prokofiev possiede un proprio indiscutibile valore artistico, capace di unire in un solo vibrante sentimento le platee russe di quegli anni, proprio perché essa non descrive realmente o peggio commemora eventi del passato, ma al contrario essa parla di un futuro apocalittico che si profila e lo preannuncia, invitando gli ascoltatori a prepararsi a un duro compito collettivo. In questo grido di allarme la semplice descrizione di una antica battaglia non è solo un segno di Thanatos, non è una semplice e scostante contemplazione della morte dell’altro bensì diviene l’evocazione di una paura collettiva che, sebbene rinchiusa entro i confini nazionali, unisce comunque milioni di Russi che percepiscono il pericolo in agguato ai loro confini. Se ce ne fosse bisogno Stalin fornisce, di lì a poco, una clamorosa conferma del senso ultimo dell’opera: firmato l’inatteso patto Molotov-Ribbentrop (agosto 1939), trattato scandaloso e inconsistente che presentava al mondo la strana alleanza tra nazisti e comunisti (in realtà volto a garantire a Hitler un paio di anni di tranquillità a Oriente, mentre le armate tedesche invadevano Polonia e Francia), il film di Eisentein-Prokofiev viene ritirato dalle sale per non urtare la sensibilità del nuovo alleato hitleriano. Dissolto il patto, film e musica torneranno a circolare più di prima. Curioso notare che quando Prokofiev cadrà in disgrazia (nel 1948) e un pesante divieto si abbatterà su numerose sue composizioni, il Nevskij rimarrà invece un lavoro che potrà continuare ad essere eseguito. La Germania è completamente distrutta e soggiogata (per i prossimi decenni) ma nuovi nemici si affacciano ad ovest, perfino più potenti e pericolosi, difensori universali dei diritti umani ma capaci, all’occorrenza, di utilizzare anche l’arma atomica: la guerra fredda è iniziata.

In disaccordo col Potere: la Battaglia nel Progressive Rock

A partire dagli anni sessanta del Novecento la musica rock angloamericana prende gradualmente il posto della musica colta nell’immaginario del pubblico occidentale. Questa svolta imprevista e tuttora perdurante deriva soprattutto dal fatto che la nomenclatura prevalente nel campo della musica europea sostenne e difese in maniera fanatica lo sperimentalismo di derivazione weberniana come l’unica musica degna di questo nome nel dopoguerra, riservando a quegli autori che “si attardavano” a comporre musiche tonali o politonali parole di sufficienza quando non di disprezzo. L’avere così spedito su un binario morto la storia della musica continentale europea - i “sistemi musicali” inventati dagli avanguardisti sono incomprensibili per il pubblico ordinario delle sale da concerto ed infatti neanche una singola opera di questo ampio settore è entrata a far parte dei repertori internazionali - ha fornito l’occasione alla meno ambiziosa musica poprock di sostituire la cosiddetta musica colta.
Se il quadro è questo, bisogna cercare esempi di nuove battaglie sonore note al vasto pubblico internazionale soprattutto in questo settore musicale a prevalenza angloamericana dove il genere della battaglia è, di tanto in tanto, presente. Citiamo intanto alcuni esempi espliciti - tutti appartenenti al periodo del Progressive Rock inglese (1967-75) - per poi soffermarci sul più significativo. Sezioni con esplicito intento descrittivo di battaglie troviamo in Tarkus (1971; nella quinta sezione intitolata Manticore), il capolavoro del trio inglese  Emerson, Lake&Palmer, in Supper’s Ready (1972; nella terza sezione
Ikhnaton and Itsacon and Their Band of Merry Men), lunga suite del quintetto inglese dei Genesis e, ancora della stessa formazione, The Battle of Epping Forest (1973). Infine va ricordata anche la magnifica suite Lizard (1970) dei King Crimson che propne una battaglia di sapore jazzistico nella sua terza sezione The Battle of Glass Tears.
Nel secondo album di questo importante gruppo inglese, guidato da Robert Fripp, In the Wake of Poseidon (1970), troviamo un ampio rifacimento di Mars the Bringer of War (Holst, 1918) nel penultimo brano del lavoro intitolato The Devil’s Triangle (circa 12 min.) che termina con il brevissimo e suggestivo Peace - An End. Sopra un implacabile e onnipresente ritmo quinario (terzina di crome semiminima, semiminima, duina di croma, semiminima) si susseguono tre sezioni: una semplice esposizione tematica aderente all'originale sinfonico, un crescendo mozzafiato animato soprattutto dalle fasce sonore del mellotron (che tutto finisce per sovrastare e confondere) unite a improvvisazioni timbriche ed esplosioni sonore degli altri strumenti ed infine, dopo pochi istanti di misterioso silenzio, una ripresa accelerata della situazione precedente, resa ulteriormente lacerata e graffiante dall’accavallarsi di differenti eventi sonori, in un contesto finale caotico, atematico e atonale. Fin dal titolo “demoniaco” si può percepire il differente punto di vista della cultura rock di matrice pacifista e antimilitarista degli anni sessanta e settanta: la guerra è l’orrore assoluto e la fredda visione di Holst lascia progressivamente il campo a una tempesta sonora dolorosa e disturbante che va a infrangersi sulle dolcezze sospese del poetico Peace - An End. Totalmente strumentale Devil’s Triangle, dominato dall’angoscia degli strumentisti, si completa nel canto quasi senza accompagnamento del brano di chiusura, catarsi auspicata dai versi di Pete Sinfield: “Peace is a Stream From the Heart of a man; Peace is a Man, whose breath is the dawn...”. La Gran Bretagna del 1970 è certamente molto differente da quella di Holst del 1918.

Nel contesto del Progrock il brano più suggestivo rimane tuttavia A Saucerful of Music (1968; circa 12 min.) dei Pink Floyd. Esso domina la seconda facciata dell’omonimo album e costituisce il primo capolavoro assoluto del quartetto. L’ampia suite, divisa in tre sezioni, si colloca in un terreno di confine tra il rock, lo sperimentalismo delle avanguardie e il recupero della tradizione classica. Tutte le sezioni esordiscono con sonorità dimesse per poi attuare un progressivo crescendo che sfocia in muri sonori di forte intensità: la prima si articola associando divagazioni organistiche e minacciose sonorità percussive che costruiscono un crescendo fonico che si infrange, attraverso una sorta di dissolvenza incrociata, sull'apparizione solitaria della batteria la cui ritmica, ossessivamente iterata (anch’essa memore del tessuto ritmico connettivo di Mars di Holst), costituisce l'elemento unificante della seconda sezione. Quest’ultima accentua i caratteri violenti dell'improvvisazione libera con cluster al pianoforte e distorsioni elettriche della chitarra al limite del rumore; la tensione nuovamente sale, organizzata ora dall'inesausto schema ritmico delle percussioni che conferisce a questa parte una sensazione di movimento perpetuo. La terza sezione, pervasa da un intenso desiderio di pace, funziona da efficace momento riequilibratore della feroce tensione accumulata nelle prime due: l'organo, ora con timbrica da chiesa, distende il suo solenne motivo improntato all'andamento del corale luterano, e su esso le voci intonano un commosso coro mistico, quasi un lamento.
Questa suite accoglie le regole della grande tradizione musicale europea e colloca i Pink Floyd fuori dal circoscritto spazio del rockpop, su un terreno di musica totale, come dimostreranno le importanti suite successive (Atom, Echoes, Dark Side ecc.) di cui Saucerful costituisce la necessaria premessa. In essa si nota infatti che la costruzione del brano si articola secondo la classica logica della tensione e distensione, dissonanza e risoluzione mentre lo sperimentalismo (sezione centrale) trova un preciso significato (simboleggia la guerra) nel disegno complessivo del lavoro e si dissolve di fronte alla ritrovata armonia dell’ultimo episodio segnato dal recupero della musica da chiesa. Al riguardo Mason scrive: "Pur senza ricorrere a una tecnica molto elaborata, senza essere molto preparati coi nostri rispettivi strumenti, cercammo di delineare una strada completamente nuova e completamente nostra e ci riuscimmo..."(21). Non solo. Appare evidente ancora dalle dichiarazioni di Mason che esiste addirittura un programma segreto della composizione, programma che la avvicina ancor più al genere del poema sinfonico ottocentesco e più precisamente al genere della battaglia strumentale. Il batterista afferma: "la prima parte è tensione che sale, paura e la mediana, con tutti i suoi rumori violenti, è la guerra nel suo svolgimento [anche questa idea di una battaglia strumentale affonda le sue radici nelle note "battaglie" che popolano la musica occidentale,]. E la conclusione è una sorta di requiem"(22). Ancora l'atmosfera conflittuale di quegli anni (Vietnam, contestazioni giovanili "in crescendo") appare il necessario retroterra di questa inconsueta composizione alla quale i Pink Floyd resteranno legati per alcuni anni (1968-72), facendone un work in progress attraverso versioni via via più aggressive e coinvolgenti (Ummagumma 1969; PF a Pompei, 1972). Roger Waters infatti afferma che era Saucerful "quello che ci stava a cuore di tutto il lavoro [si riferisce al citato album del 1968]... Ce lo concessero come contentino, a registrazione ultimata potevamo fare ciò che volevamo con gli ultimi dodici minuti a disposizione..."(22).
Il brano dei Pink Floyd possiede riferimenti vaghi e generali, cercando di esprimere una visione universale e di natura eminentemente pacifista, in linea con le idealità degli anni sessanta, con la cultura hippy, l’esaltazione del Free love e della rivoluzione sessuale, all’interno di un contesto valoriale dal sapore unico e irripetibile. Non a caso, quindi, questa “battaglia” è, tra le molte esaminate, la più interessante ed è anche quella che ha raggiunto la maggiore popolarità. Un riferimento preciso, tuttavia, esiste ed è quello che attraversa l’intera cultura di quel periodo ovvero la questione del Vietnam, una guerra coloniale che, iniziata dai Francesi nell’immediato dopoguerra viene ripresa dagli Americani che ne fanno una conflitto di confine della guerra fredda tra le due aree politiche del pianeta, quella liberalcapitalistica e quella comunista. La guerra andò intensificandosi nel periodo 1962-73 e si concluse con la sconfitta degli Americani. I governi Usa, di sinistra (Kennedy, Johnson) e di destra (Nixon), indifferentemente avevano predicato la necessità di arginare il movimento comunista internazionale (soprattutto dopo lo smacco di Cuba) mentre la maggioranza della popolazione non percepiva come minaccioso e decisivo un eventuale Vietnam comunista e non capiva la necessità di andare a morire nella lontana Asia, in una guerra dal sapore espansionista e perfino coloniale. Le opinioni pubbliche, soprattutto americana e inglese, percepirono questa forzatura come una ferita aperta da criticare e da censurare in ogni sede, anche artistica. In tal senso il brano dei Pink Floyd rievoca l’orrore di una guerra che si rivelerà realmente inutile al contrario di quanto predicato in maniera mendace da un ceto politico che ama l’uso sciagurato e terroristico dei toni apocalittici: la vittoria dei Vietcong comunisti non altererà più di tanto gli equilibri politici del Sudest asiatico e del mondo in generale (riguardo al medesimo genere di discorsi mendaci e terroristici qualcuno dovrà, prima o poi, incaricarsi di raccontare tutte le sciocchezze che sono state dette e scritte sul presunto “riscaldamento globale”: qui vogliamo ricordare Al Gore che, nel pessimo documentario An inconvenient Truth, 2006, premiato con l’oscar, fra le tante previsioni estreme, demagogiche e non verificabili, afferma che i ghiacci nel mare Artico si sarebbero dileguati entro un decennio e che gli orsi polari si sarebbero estinti...). In Saucerful of Secrets il tormentato e brutale disordine sonoro che evoca la sopraffazione bellica viene “superato” dal quartetto inglese con le intense e mistiche armonie del corale conclusivo: in questo ottimistico finale le voci umane bandiscono Thanatos e fanno ritorno ad Eros, fondendosi in una commossa totalità.

Note

1) Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894). Trad. it. Idee per una psicologia descrittiva e analitica in Psicologia descrittiva, analitica e comparativa pp. 131-281. Unicopli, Milano, 1979 - pag. 182

2) Arnold Schering, Zur Sinndeutung der 4 und 5 Symphonie von Beethoven, Zeitschrift für Musikwissenschaft, feb 1934, pag.64-83

3) L. van Beethoven Briefwechsel Gesamtausgabe Band 2 1808-1813, G. Henle Verlag, München, 1996; trad. it. Epistolario 1808-18013, Skira, Milano, 2000 - pag. 30

4) G. Guanti, Invito all’ascolto di Beethoven, Mursia, Milano, 1995 - pag. 135

5) L. van Beethoven Briefwechsel Gesamtausgabe Band 2 1808-1813, G. Henle Verlag, München, 1996; trad. it. Epistolario 1808-18013, Skira, Milano, 2000- pag. 60

6) Id. pag.164

7) Id. pag.174

8) Id. pag.333

9) Id. pag.414

10) Id. pag.383

11) Le lettere di Beethoven (a cura E. Anderson), ILTE, Torino, 1968 - pag. 571-572

12) citato in L. Magnani, Beethoven nei suoi quaderni di conversazione, Einaudi, Torino, 1975 - pag.34

13) citato in R. Rolland, Vie de Beethoven, 1903; trad. it. Vita di Beethoven, Bur, Milano, 1949 - pag.53

14) A. Thayer, The Life of Beethoven, 1964 - 2° vol, pag.801 (citato in Charles Rosen, Lo stile classico)

15) C. Rosen, The Classical Style, 1972; 1997(ed. ampliata); trad. it.Lo stile classico Haydn, Mozart, Beethoven, Adelphi, Milano, 2013(ed. ampliata) - pag. 455

16) citato in C. Dahlhaus, Ludwig van Beethoven und seine Zeit, Laaber 1987; trad. it Beethoven e il suo tempo, EDT, Torino, 1990 - pag. 53

17) si veda quanto scritto in Indagine intorno ad alcuni aspetti della biografia e della musica di Wolfgang Amadeus Mozart , 2007, presso www.giusepperausa.it

Liszt

18) G. Rausa, Milano: Liszt nel 1837-38 e i pianisti d’oltralpe dal 1840 al 1918 in Gran Tour Grand Piano(a cura di P. Mioli), Patron, Bologna, 2014 - pag.195-205

Ciakovskij

19) A. Orlova, Tchaikowsky. A self-portrait, 1990; trad. it. Ciajkovskij un autoritratto, EDT 1993, pag. 213

20) Id; pag. 236

Pink Floyd

(21)AAVV, Pink Floyd Canzoni, Kaos, Milano, 1992 - pag.27

(22) N. Schaffner, Saucerful of Secrets - The Pink Floyd Odyssey, 1991; trad. it. Pink Floyd. Uno scrigno di segreti, Arcana, Milano, 1993 - pag. 146

 

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