Giuseppe Verdi, Alessandro Luzio, il Risorgimento italiano e la Massoneria
"Grazie al mistero la Massoneria divide il mondo in due parti, crea una nuova aristocrazia, attira
a sé tutte le ambizioni e risveglia tutte le invidie. Invano asserisce che il suo mistero non ha nulla di sinistro, invano numerosi massonisostengono che esso non cela nulla di grave, e neppure di molto serio. La scrupolosità e la cura che i fratelli hanno sempre posto nel mantenerlo e nel farlo rispettare smentisce quello che la loro modestia afferma..."
(B. Fay, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del Settecento)
"Vi sono cose che la storia non merita di conoscere. Gli storici avranno il novantanove per cento delle informazioni. In quanto all'altro unoper cento, io dico:
<Ciò che gli storici non sanno non li farà soffrire>" (1987) (Dean Rusk, segretario di stato di J. F. Kennedy)
La ricostruzione dei fatti storici puo' avvenire seguendo differenti metodi. La prevalente esigenza di "scientificita' " impone che ogni affermazione sia documentata con fonti attendibili,
il che parrebbe cosa accettabile se non fosse per il fatto che, su questa via, gli storici trovano un ostacolo insormontabile negli uomini del potere e della politica. Questi ultimi detengono le chiavi dei misteri nei loro
archivi: essi sarebbero i migliori storici, se ne avessero il coraggio, se da uomini attivi dell'azione politica volessero per una volta accantonare la logica del Segreto di Stato e degli omissis per trasformarsi in uomini
della riflessione e del disvelamento. Cio' non accade. Gli archivi restano blindati. Un solo esempio: ventun anni dopo la strage di Bologna (2 agosto 1980) non esiste un solo libro che affronti con metodo storico l'argomento, e
probabilmente un tale testo non comparira' neppure nei prossimi decenni; ma certamente, tra le carte del Sismi e del Sisde, accessibili a molti ministri e presidenti del consiglio oltre che agli addetti ai lavori, giacciono
spiegazioni esaurienti (e qualcosa ovviamente e' trapelato in alcune sporadiche pubblicazioni di carattere giornalistico, ad esempio il probabile, "scomodo" collegamento tra la strage di Ustica e quella di Bologna) o
quanto meno piste importanti da "affidare" a storici esperti. Il discorso si potrebbe estendere all'intero, funesto periodo italiano 1969-80. Gli storici non possono scrivere intorno a tale materia. Allo stesso
modo essi non riescono a raccontare un quadro verosimile dell'attivita' cospiratoria che domina buona parte degli avvenimenti dell'Ottocento italiano (soprattutto nel periodo 1815-70) ed europeo. Al riguardo Billington scrive:
"La storia delle societa' segrete non potra' essere pienamente ricostruita: ma c'e' il sospetto che sia stata ampiamente trascurata e negletta perche' i documenti disponibili conducono, ripetutamente, su di un terreno poco
congeniale agli storici odierni, sia dell'Est sia dell'Ovest". (Con il fuoco nella mente, 1980). Con questa citazione entriamo in argomento: anche i fatti biografici verdiani si intersecano, in un determinato
periodo, con quelli dell'attivita' cospiratoria mazziniana; eppure tali eventi sono stati trascurati, anche a causa della non disponibilita' di molti documenti rilevanti. L'interrogativo che sorge spontaneo e' allora il
seguente: ha senso ricostruire fedelmente i fatti sulla base esclusiva di cio' che si possiede? Lo storico non diviene in tal modo, consapevole o inconsapevole, uno strumento dei poteri forti, un semplice giustificatore e
glossatore delle edulcorate e depistanti versioni ufficiali? Se i documenti mancano, si dira', non e' "scientifico" azzardare ipotesi, tentare interpretazioni. Eppure nell'ambito delle piu' "sicure" e
neutre scienze naturali ci si muove proprio in questo modo. Si fanno ipotesi sulla base degli indizi noti, si creano teorie compatibili con tutto cio' che si conosce, in attesa di una eventuale smentita o falsificazione
successiva. Karl Popper afferma che le teorie scientifiche sono "invenzioni, congetture audacemente avanzate per prova, da eliminarsi se contrastanti con le osservazioni" e che "ogni controllo genuino di una
teoria e' un tentativo di falsificarla o di confutarla. La controllabilita' coincide con la falsificabilita' " (Congetture e confutazioni, 1969). Un quadro coerente di asserzioni, dotato di forte "potere
esplicativo" dunque si ritiene valido fino a prova contraria, al di la' del numero di verifiche posto in atto intorno alle sue singole affermazioni. Chi scrive ritiene che in molti casi sia questa la via da seguire
anche nell'ambito delle ricerche storiche, via perigliosa, densa di incognite, insicura ma piu' soddisfacente, portata a cercare soluzioni "adulte" e ragionevoli, volte a spazzar via l'universo vasto degli aneddoti e
delle sciocchezze diventate storia ufficiale (in mancanza d'altro), serie di luoghi comuni che spesso "vagabondano" stancamente per decenni da un libro all'altro.
Nella maggior parte delle trattazioni verdiane
il primo periodo viene schematicamente indicato come quello che intercorre tra l'Oberto e Stiffelio, tra il 1839 e il 1850, e spesso viene definito, riprendendo una celebre definizione dello stesso Verdi, degli
"anni di galera". Appare invece piu' corretto distinguere un primo breve periodo riguardante il dittico Oberto/Un giorno di regno (1839-40), periodo di vero apprendistato bruscamente interrotto dal grave fiasco
dell'opera buffa composta su un vecchio libretto del Romani, a cui segue il periodo delle opere risorgimentali, da Nabucco a La battaglia di Legnano (1842-9). Non solo Nabucco mostra un Verdi gia' maturo e conscio delle proprie possibilita', ma anche individua l'inizio di una poetica patriottica e corale assente nelle due opere precedenti. Invece Luisa Miller e Stiffelio (1849- 50) sanciscono l'inizio di una nuova fase che si completa con la celebre trilogia popolare, fase imperniata sulla riscoperta del singolo carattere originale, del soggetto inconsueto e perfino stravagante. Se furono innovative le scelte di raccontare le vicende del buffone Rigoletto e della cortigiana Violetta, altrettanto inusuale appariva la vicenda del pastore protestante Stiffelio tradito dalla moglie (non sembra inopportuno ricordare pero' che, a partire dagli anni quaranta, si diffonde in Italia una forte corrente protestante legata a Londra in funzione ovviamente antipapista; scrive al riguardo la Civilta' Cattolica nel 1850, proprio l'anno di Stiffelio:
"I corrispondenti delle societa' bibliche sono organizzati in Piemonte e in Toscana; in Roma stessa furono aperte pubbliche scuole protestanti nel tempo della Repubblica. Sono stipendiati a Londra i giornali italiani
perche' diffondano idee anglicane. Emissari segreti si aggirano per le campagne e per le citta' spargendo scritture in cui si incoraggia il popolo di finirla col Papa e con Roma. L'Italia e' inondata di gazzette che quasi in
ogni colonna spirano il pretto protestantesimo..."; l' "originale" scelta verdiana si trova cosi' in perfetta sintonia con Londra). Ne' va dimenticato che in Luisa Miller compaiono ampie anticipazioni musicali di Traviata.
Se poi il valore delle prime due opere di questo "quintetto" e' largamente inferiore a quello delle partiture della cosiddetta trilogia popolare, cio' e' un'altra questione. E' nostra intenzione occuparci
esclusivamente del periodo risorgimentale verdiano, periodo che conoscera' un ulteriore, isolato capitolo con il grand-opéra parigino dei Vepres (1855), cominciando con il ricordare i caratteri principali del nuovo
genere nazional-patriottico. Verdi si impegna a fondo nel portare da un capo all'altro della penisola i suoi lavori "insurrezionali" (in tal senso e' appropriato parlare di "anni di galera"), diviene il
cantore ufficiale di ideali che, diffondendosi anche attraverso la poesia (Foscolo, Manzoni, Berchet), i romanzi (i medesimi piu' Guerrazzi e Pellico) e i trattati storici (Cuoco e Amari), devono creare una coscienza nazionale
infervorata fino al punto di sostenere attivamente le insurrezioni e la guerra del 1848-9 (per un'analisi complessiva della cultura patriottica della prima meta' dell'Ottocento si veda il recente Banti, La nazione del
Risorgimento). Un lungo, faticoso lavoro preparatorio che si rivela in definitiva insufficiente; negli anni cinquanta la strategia risorgimentale passera' attraverso il Piemonte e le sue alleanze militari con nazioni
"amiche", limitando cosi' la rilevanza dell'eventuale apporto popolare, come dimostrera' la seconda guerra d'indipendenza. Le opere politiche di Verdi del periodo 1842-9 non stabiliscono un "nuovo corso"
del melodramma ottocentesco; si limitano ad accentuare una serie di caratteri gia' comparsi con continuita' in autori precedenti, anche se mai con tale insistenza e aggressivita'. Ricordiamo in tal senso le opere liberali di
Rossini (Maometto II, 1820, poi trasformato in Le Siége de Corinthe, 1826, Guillaume Tell, 1829), le opere antitiranniche di Donizetti (Anna Bolena, 1830, Maria Stuarda, 1834, Marino Faliero, 1835), di Bellini (I Puritani,
Parigi 1835, con il suo bellicoso "Suoni la tromba e intrepido" censurato negli stati italiani), di Mercadante (Caritea, 1826, che contiene l'inno risorgimentale "Chi per gloria muor") e di Pacini (Maria regina d'Inghilterra,
Palermo 1843, con il coro patriottico "Morte, morte all'infame scozzese" che, "troppo applaudito", provocava l'intervenzo poliziesco del governatore De Majo e l'arresto degli "entusiasti melomani"
Benedetto Castiglia, Michele Bertolami e Vincenzo Errante; tutti e tre siederanno nel primo Parlamento italiano....). Possiamo inoltre affermare che, anche dopo il periodo piu' accesamente risorgimentale (1842-60), il
melodramma continua a collocarsi stabilmente all'interno di un'ideologia laica, liberale e anticlericale come dimostrano in modo indiscutibile opere importanti quali Andrea Chenier (Giordano, 1896), Tosca (Puccini,
1900) e piu' avanti La campana sommersa (Respighi 1927) e Fra Gherardo (Pizzetti, 1928). Tornando agli anni quaranta e passando dal contributo artistico-ideale del teatro lirico alla fattiva
collaborazione dei suoi uomini alla causa risorgimentale, va segnalato che la Giovine Italia si servi' delle abitazioni di Donizetti (a Parigi e a Vienna) come recapiti sicuri per la propria scottante corrispondenza. Se ne
trova ampia documentazione nel terzo volume dei Protocolli della Giovine Italia (editi nel 1918), ovvero nelle lettere della sezione parigina, dove troviamo indicazioni precise del Lamberti (il segretario) intorno ai
segnali utili a differenziare la corrispondenza politica da quella ordinaria indirizzata al compositore bergamasco; in una lettera del 30 gennaio 1844 egli avvisa Mazzini: "Invii lettera a Mr. G.no Doniz., Maitre de
Chapelle de Sa Majeste' Apostolique L'Empereur d'Austriche. Quel no nel G[aetano] indichera' a Mich[ele Accursi], ricevente, che son per noi." La tanto sbandierata indifferenza politica di Donizetti (sono famose le sue affermazione al riguardo), il cui aiutante era il fedele mazziniano Michele Accursi, andrebbe attentamente riesaminata, anche alla luce di queste importanti forme di collaborazione tra il musicista e i rivoluzionari, le quali sembrano rivelare un'antica familiarita'. Al contrario esse sono sfuggite anche ai biografi piu' attenti (ad esempio William Ashbrooks, nel suo fondamentale Donizetti and his Operas,
1982, non ne parla). Vedremo che, anche per Verdi, in quegli anni in ottimi rapporti con Donizetti, i canali segreti della corrispondenza mazziniana riserveranno qualche sorpresa. Laddove i melodrammi donizettiani toccano
solo sporadicamente l'argomento politico, quelli verdiani del periodo 1842-9 non solo se ne occupano costantemente, ma anzi traggono da quei contenuti patriottici i loro nuovi e aggressivi caratteri: scrittura corale quale
rispecchiamento di una lotta di popolo; prevalente lieto fine, necessario in lavori che pretendono di incitare all'azione; clima acceso e battagliero; strumentalizzazione/manipolazione dei soggetti storici attinti dal passato
al fine di ottenere vicende didascaliche, esaltanti la fraternita' e l'eroismo di un popolo italico, di una comunita' di sangue e di terra continuamente divisa perche' perseguitata da un "rio destino". Insomma opere
di nobile propaganda liberale la cui inedita, rivoluzionaria irruenza mentre ovunque nel pubblico provoca "furore", sconcerta invece buona parte della critica coeva che parla di "grossolanita' ",
"caccia all'effetto", "sovraccarico dello strumentale", "abuso degli ottoni", "abuso degli unisoni di voci e strumenti", "artiglieria musicale" per partiture che si prevede
condurranno il melodramma "verso l'inevitabile bancarotta" (per un'analisi dettagliata degli aspetti patriottici presenti nelle singole opere verdiane mi permetto di rimandare al mio recente Introduzione a Verdi,
2001). Si noti che soprattutto il ristabilimento del lieto fine e' una caratteristica circoscritta a questo cruciale decennio, venendo a rovesciare la travagliata conquista del finale tragico, cominciata con il successo del Pirata milanese (1827) di Bellini e perpetuata nei capolavori tragici del Donizetti degli anni trenta. Lo stesso Verdi archiviera' il finale festoso a partire appunto dal "quintetto" di lavori successivo alla sconfitta di Novara e alla caduta di Roma e Venezia (1849).
Notiamo infine con stupore che alcuni (pochi) studiosi si ostinano a negare il carattere risorgimentale delle partiture verdiane del periodo 1942-9. Non solo a chi scrive tale carattere appare evidente, esplicito ed
intenzionale; addirittura ci sembra che in alcune opere (Nabucco, Lombardi, Ernani, Attila, Corsaro, Legnano) esso sia il cuore stesso del lavoro, il suo germe ispiratore, la sua ragion d'essere. Inoltre, come sopra
detto, e' l'intera storia dell'opera italiana degli ultimi due secoli, da Rossini a Rota, ad apparire inscritta con coerente continuita' (rarissime le eccezioni come il "fascista" Piccolo Marat di Mascagni del 1921) all'interno dell'ideologia laico-liberale-progressista.
Questo periodo biografico verdiano, nonostante la notevole mole di studi editi, non appare limpido, ne' indagato in maniera esaustiva. La storia operistica del maestro inizia all'insegna di un piccolo segreto: come
riusci' questo compositore di provincia ad accedere direttamente alla Scala per la sua opera d'esordio? Verdi fu sempre reticente al riguardo. Che si tratti di un caso curioso lo dimostra la biografia del povero Ponchielli il
quale anche dopo due successi "locali" (a Cremona tra il 1856 e il 1861) non riusciva a trovare la strada di nessuno dei teatri importanti del nord, finendo per scrivere, sconsolato, di aver "sperimentato che,
privo di protezioni, non si poteva giungere allo scopo" (settembre 1863). Dunque probabilmente per l'esordiente Verdi vengono attivate corsie preferenziali. Al riguardo pero' le biografie continuano a ripetere gli
inverosimili luoghi comuni posti in circolazione dallo stesso musicista. Iniziata in modo enigmatico, la carriera di Verdi si snoda tra zone note ed altre oscure. L'epistolario, fonte primaria per conoscere gli avvenimenti
riguardanti il maestro, non e' edito per intero (si tratta di almeno 15000 lettere); ne' pare che le celebrazioni in corso siano l'occasione per adire a una seria edizione integrale dei carteggi verdiani. Se ne lamentava tra
gli altri il lucido biografo Frank Walker quando nelle prime pagine del suo noto lavoro scriveva: "...si sa da gran tempo quali tesori contenga villa Verdi a Sant'Agata. Alessandro Luzio vi lavoro' per molti anni e il
frutto delle sue ricerche fu pubblicato nei Carteggi verdiani, ma si dice che sia difficile per i comuni mortali ottenere l'accesso a tali archivi " (The Man Verdi, 1962). Due decenni dopo anche Conati
denuncia la mancanza di un'edizione critica complessiva delle lettere verdiane, definendo l'epistolario "ricchissimo... ma spesso reticente e talora evasivo" (Interviste e incontri con Verdi, 1980). Nello
studioso finisce quindi con il radicarsi il sospetto che questa forma di elegante censura serva a nascondere fatti, atteggiamenti, eventi che non si vogliono connettere alla figura di Verdi, un compositore sommo, probabilmente
il piu' grande della storia italiana, ma che gode tuttavia di una "stampa" eccessivamente compiacente e agiografica. L'artista era pur sempre un uomo, mentre sorge il sospetto che se ne voglia fare un esempio di
perfezione morale.
La prima perplessita' che emerge, considerando la vicenda dell'epistolario, e' la decisione di affidarne la cura ad Alessandro Luzio, ovvero non a un esperto di cose musicali, bensi' a uno studioso di
storia risorgimentale (autore di numerosi studi sulla storia italiana dell'Ottocento, da Le cinque giornate di Milano nella narrazione di fonte austriaca, 1899, a Il processo Pellico-Maroncelli, 1903, da I martiri di Belfiore, 1905, a Felice Orsini, 1914),
il cui lavoro piu' ambizioso e complesso riguarda il rapporto tra Massoneria e Risorgimento. Quest'ultimo (La Massoneria e il Risorgimento italiano, 1925) e' un saggio vasto e documentato sull'argomento, anche se appare
viziato dagli anni turbolenti in cui venne scritto. Dopo la dichiarazione di incompatibilita' tra Fascismo e Massoneria (febbraio 1923), il governo mussoliniano approva nel novembre 1925 una legge che, attraverso la
proibizione di ogni tipo di associazione segreta, intende contrastare l'Ordine e piu' precisamente la Massoneria del Grande Oriente d'Italia, poiche' quella di Piazza del Gesu', in lotta con la precedente e fedele a Mussolini
al punto di nominarlo 33º grado ad honorem, "scompare" aderendo silente agli alti quadri delle gerarchie fasciste. In questo contesto Luzio non appare affatto un ottuso "massonofobo", ne' il suo testo
sembra essere un "iroso e aspro pamphlet, acrimoniosamente destruens di ogni attributo positivo della Libera Muratoria Italiana" (Mola, in La Libera Muratoria, 1978); al contrario egli svolge con
"equilibrio" il necessario (visto il nuovo contesto storico) compito di minimizzare l'apporto delle logge al movimento risorgimentale, movimento del quale il fascismo ora si considera il legittimo continuatore (non
senza alcune buone ragioni, considerando il rilevante contributo di uomini e denari dato dalle logge alla nascita del fascismo; si veda al riguardo G. Vannoni, Massoneria, Fascismo e Chiesa cattolica, 1980). Ne' ci
sorprenderebbe scoprire in Luzio, certamente ostile al Grande Oriente e vicino agli ambienti dinastici, un massone dell'altra Obbedienza, quella di Piazza del Gesu', filofascista e filomonarchica. Non ha torto Gramsci, che
ovviamente detesta gli scritti del Luzio (parla di "storiografia tendenziosa e faziosa"), quando definisce il suo lavoro di storico come "un tratto caratteristico della lotta politica tra cattolici-moderati (o
moderati che desideravano conciliarsi coi cattolici e trovare il terreno per la formazione di un gran partito di destra che attraverso il clericalismo avesse una base larga nelle masse rurali) e i democratici che per ragioni
analoghe, volevano distruggere il clericalismo" (Quaderni del carcere n. 19, par. 53; 1935). Il dirigente comunista, senza averne piena coscienza, descrive con quelle parole il duro scontro in atto tra le due Massonerie, scontro nel quale il problema della Conciliazione e' infatti centrale: la strategia di Piazza del Gesu', fin dagli anni dieci, mira a una pacificazione con la Santa Sede e alla conseguente esclusione del Grande Oriente dalle stanze del potere. All'interno di questo progetto di ampio respiro va inquadrato il lavoro storiografico di Alessandro Luzio, non a caso premiato dal regime con la nomina ad accademico gia' nel 1929 (anno della fondazione dell'Accademia d'Italia).
Dunque, nel saggio del 1925, in omaggio al Papato e al regime, Luzio sminuisce il contributo delle logge alla rivoluzione risorgimentale: cosi' Cavour, noto nell'Ottocento quale gran maestro della Massoneria (lo chiarisce
in maniera convincente la Pellicciari nel suo Risorgimento da riscrivere, 1998), a stento sembra conoscere l'esistenza della segreta setta ai cui lavori avrebbe partecipato solo casualmente. Per Mazzini poi Luzio stende
un intero capitolo al fine di fugare ogni sospetto intorno alla sua partecipazione al sistema della libera muratoria, essendo soprattutto il cospiratore genovese, con la sua pura mistica della nazione, assai caro a Mussolini e
al fascismo (e perfino alla RSI che ne utilizzera' l'effigie sulle sue carte postali; ne' va dimenticato che nel 1914 il giornale di Mussolini, Il Popolo d'Italia riprende il titolo dal noto foglio mazziniano L'Italia del Popolo).
Per entrambi questi protagonisti della storia politica dell'Ottocento appare in atto non solo in Luzio, ma in generale nella storiografia del Novecento, una reticenza simile a quella presente nelle cose verdiane: il massimo
studioso di Cavour, Rosario Romeo, riesce nel non facile compito di stendere una monumentale biografia in tre volumi (oltre 2500 pagine) dello statista piemontese, senza mai citare la Massoneria; allo stesso modo gli studi
recenti su Mazzini, tutti unanimamente agiografici come quelli verdiani, appaiono volti a rendere marginali gli aspetti sanguinari dell'attivita' cospiratoria dell'esule, preferendo prolisse esegesi dei suoi testi
mistico-patriottici, testi verbosi e retorico-propagandistici di modesto interesse (parere questo condiviso anche da un Salvemini). Per tale via, privilegiando le parole ai fatti, gli storici evitano la questione massonica e
soprattutto evitano di citare gli scritti della parte avversa, nei quali non compare il minimo dubbio intorno all'appartenenza di Mazzini all'Ordine.
Fin dal 1851, nel vasto racconto storico L'ebreo di Verona (circa 1000 pagine), pubblicato a puntate su "La Civilta' Cattolica" (poi in volume l'anno seguente), il gesuita Antonio Bresciani afferma con decisione l'attivita' "settaria" di Mazzini (si ricordi che in ambito cattolico "setta" e Massoneria sono sinonimi), come parte di una congiura massonica internazionale e anticristiana (perfino satanista, con tanto di ostie rubate, amorali "sacerdotesse" e messe nere, anticipando cosi' la nota enciclica Humanum
genus, 1884, di Leone XIII e il complicato caso Taxil, 1885-97; la terza Roma di Mazzini diviene ovviamente la Roma dell'Anticristo e la Repubblica romana l'ora delle tenebre, dei compiaciuti saccheggi di beni
ecclesiastici, delle persecuzioni ingiustificate), congiura responsabile dell'intero movimento insurrezionale europeo del 1848-9. Bresciani racconta che la Giovine Italia ha segretamente inviato a Roma decine di agitatori nel
1847-8, sia fuoriusciti italiani, sia esuli provenienti da Germania, Svizzera e Polonia (tra essi Aser, il protagonista del suo racconto), con il compito di sovvertire il Papato e creare una repubblica mazziniana proprio al
centro della penisola, come poi avviene. I saggi e le biografie filomazziniane non raccontano, ne' documentano niente di simile e parlano di una presenza di mazziniani solo dal dicembre 1848. Il documentato racconto di
Bresciani, per quanto di parte (ma anche l'agiografica storiografia novecentesca e' di parte, seppur in maniera meno esplicita e dichiarata), appare su questo punto piu' verosimile, visto che a Roma (non per esempio a Milano
nella primavera 1848 o a Firenze nel febbraio 1849 dove la presenza di Mazzini risulta quasi ingombrante) la corrente repubblicana arrivera' a imporre Mazzini alla massima carica dello stato. Inoltre Bresciani stigmatizza
l'attivita' terroristica della setta e le attribuisce l'omicidio di Pellegrino Rossi, omicidio "necessario" (Rossi stava trovando un efficace compromesso tra Papato e liberali moderati, gradito anche alla Francia) al
fine di aprire la strada alla rivoluzione (pure un Rodelli, deciso ammiratore del genovese, afferma che "tale omicidio politico apre la via al precipitare degli eventi", in La repubblica romana del 1849, 1955);
anche su tale questione, definendo Sterbini e Ciceruacchio come mazziniani, Bresciani appare credibile: la forza di un'organizzazione politica minoritaria come la Giovine Italia si fonda largamente sul terrore e ovviamente sui
finanziamenti a disposizione; credere che la sua conquista del potere a Roma potesse avvenire solamente grazie alla bonta' degli ideali e degli scritti dell'esule londinese, fa parte del bagaglio favolistico della storiografia
laica novecentesca. D'altronde pretendere che Mazzini venisse ascoltato con interesse da re e governanti, nonche' venisse innalzato a posizioni di potere quasi dittatoriali nella repubblica romana, solo perche' valido ideologo,
e' insultare l'intelligenza dei lettori. Bresciani afferma che l'esule era temuto per la sua crudelta' e che la Giovine Italia emanava sentenze di morte (nell'Ebreo di Verona il gesuita rievoca le circostanze in cui molte vittime caddero accoltellate).
Vasto affresco che abilmente interseca racconto avventuroso e ricostruzione storica, il testo di Bresciani dimostra che gia' nell'Ottocento i gesuiti, cosi' come i letterati e gli operisti della parte avversa, hanno capito
che la propaganda piu' efficace e' quella che insegna mentre intrattiene e diverte. Billy Wilder, mandato in Germania nell'estate 1945 a epurare la cinematografia tedesca, invia alle autorita' militari un memorandum intitolato
"Come fare propaganda divertendo" in cui deplora l'uso di noiosi e inefficaci documentari e afferma che "ai fini del nostro programma di rieducazione del popolo tedesco" servono film divertenti, in
technicolor", con "una storia d'amore un po' speciale, escogitata in modo da aiutarci a trasmettere un messaggio ideologico". Il cinema nel Novecento eredita la funzione ideologico-educativa presente nella
letteratura e nella musica del secolo precedente. Lavoro invece piu' prettamente saggistico e' l'analitico Giuseppe Mazzini, Massoneria e Rivoluzione, (1908) del gesuita e massimo esperto dell'Ordine Herman Gruber
(assente perfino dalle bibliografie), testo nel quale si ripete la centralita' dell'esule all'interno del sistema massonico internazionale. Gruber definisce Mazzini la mente direttrice del movimento rivoluzionario in Italia e
Garibaldi il braccio armato, "stelle massime della Massoneria italiana, splendore e gloria della nostra patria..." (Rivista della Massoneria italiana, 1891). Gruber racconta che Mazzini fu regolarmente iniziato in una
loggia, come testimonia Lemmi, e ricorda che il suo nome e' ancora oggi celebrato dall'Ordine. Grandi maestri come Lemmi e Nathan infatti si gloriavano di essere stati seguaci di Mazzini. Nel 1876 lo stesso Pio IX afferma
con toni comprensibilmente aspri: "Sorse una setta, nera di nome e piu' nera di fatto [la Carboneria], e si sparse nel bel Paese, penetrando adago adagio in molti luoghi. Piu' tardi un'altra ne comparve [la Giovine Italia]
che volle chiamarsi giovane, ma per la verita' era vecchia nella malizia e nella iniquita'. A queste due, altre ancora ne tennero dietro, ma tutte alla fine portarono le loro acque torbide e dannose nella vasta palude
massonica" (citato dalla Pellicciari in L'altro Risorgimento, 2000).
Anche da parte massonica molte sono le asserzioni dirette e indirette intorno alla militanza di Mazzini ai vertici dell'Ordine. David Levi,
un attivista dell'organizzazione, spesso presente nel salotto di Clara Maffei negli anni quaranta (e pertanto noto anche a Verdi), ci ha lasciato una suggestiva testimonianza della sua affiliazione alla Giovine Italia avvenuta
verso la fine degli anni trenta, dalla quale si desume sia il carattere tipicamente massonico della cerimonia, sia l'importante monito a rispettare il segreto, tipico dell'Ordine. Scrive nelle pagine manoscritte di
un'autobiografia lasciata incompiuta: "Io appena stabilito a Pisa ardeva di arruolarmi nella Fratellanza [la Massoneria]. Era dai miei amici torinesi raccomandato al Guerrazzi, che ne era uno dei caporioni; egli prese a
benvolermi per i miei entusiasmi patriottici e liberali. ....gran parte degli israeliti di Livorno erano affiliati alla Giovine Italia e alla Massoneria, e in Livorno, malgrado le persecuzioni ed insidie, si contavano pur tre logge, che il governo tento' sempre di sopprimere, ma invano.... Capito' in quei giorni a Livorno un Fabrizi che con nome finto viaggiava da Marsiglia a Malta. Sbarcato a Livorno gli fui presentato. Mi condussero una sera in una camera sotterranea, in un vicolo romito. La', sulla lama di un pugnale giurai pronto ad ogni sacrificio per la patria. Invocava la vendetta di Dio e dei Fratelli se mai tradissi i segreti della Societa' e venissi meno ai suoi ordini. Si scambio' il bacio dei neofiti, e da quell'istante feci parte delle sette decurie, e centurie della setta, e votai l'anima mia alla causa" (riportato in L. Bulferetti, Socialismo risorgimentale,
1949). Cio' che emerge inequivocabile da queste righe e' la evidente contiguita' di Giovine Italia e Massoneria, nonche' il fatto rilevante che quest'ultima e' ben presente e attiva in Italia negli anni del Risorgimento,
contrariamente a quanti (tra cui ovviamente il Luzio) asseriscono che l'Ordine e' assente nella penisola nel periodo 1815-60 e si riorganizza solo dopo l'unita' d'Italia. Tra le testimonianze dirette, interne all'ambiente
massonico, cominciamo col citare una lettera al re, scritta nel 1925 dallo statista in esilio Nitti (indicato da alcune fonti come massone di 33º grado); in essa si legge: "Suo padre e Suo nonno furono massoni e anche con
molto zelo e furono massoni Mazzini e Garibaldi" (riportato da G. Vannoni in Massoneria, Fascismo e Chiesa cattolica, 1980). Ancora. Nel convincente e documentato saggio francese Les Francs-Macons (1961), Serge Hutin, nel breve paragrafo dedicato alle cose italiane, definisce senza alcuna titubanza Mazzini (come pure Cavour e ovviamente Garibaldi) massone. Anche nel volumetto edito dalla Massoneria del Grande Oriente d'Italia per la commemorazione del primo centenario della loggia Sabazia di Savona (1969), in un articolo agiografico sul genovese (Mazzini
a Savona) si da' pieno credito alla sua investitura ad alto grado della Massoneria avvenuta nel carcere savonese nel 1830, durante il suo primo arresto ad opera della polizia sabauda. D'altronde sulle mura del carcere
Priamar di Savona, la Massoneria pose una lapide commemorativa dedicata a Mazzini gia' nel 1905 (centenario della nascita del genovese). Infine nel volume La libera muratoria (1978; testo semiufficiale, con prefazione
dell'ex gran maestro del Grande Oriente italiano Giordano Gamberini mentre tra i contributi spicca quello di Mola), nell'elenco finale dei massoni celebri, accanto a Mameli, compare appunto "Giuseppe Mazzini (1805-72),
apostolo dell'unita' italiana". Coerentemente con il culto mazziniano che attraversa l'universo massonico, il dieci marzo, data della morte del genovese, e' divenuto il giorno consacrato alla commemorazione dei defunti
da parte delle logge, in omaggio a "Colui che il 10 marzo 1872 passo' all'Oriente Eterno" (Rivista Massonica, settembre 1971).
Nonostante questo elenco di testimonianze, la reticenza degli storici del
Novecento intorno a tale tematica si fa via via crescente, rendendo peraltro incredibili le gesta del genovese; si pretende allora di farci credere che Mazzini vive a Londra e organizza l'attivita' cospiratoria con i pochi
soldi inviatigli dalla madre o guadagnati con qualche collaborazione editoriale o con il solo aiuto della famiglia Nathan. In tal senso molte "autorevoli" biografie, edite da altrettanto "autorevoli" case
editrici, assomigliano a favole per bambini. Facciamo un esempio: Mazzini giunge a Londra nel gennaio 1837 con pochi denari e, con i fratelli Ruffini, va a risiedere da un conoscente. Nel marzo invece puo' gia' permettersi una
grande casa su tre piani in un quartiere elegante, completa di servitu'. Con che soldi sorge spontaneo chiedersi, domanda che pero' non sembra inquietare i numerosi biografi mazziniani. Al riguardo Luzio, nel libro su
Massoneria e Risorgimento, scopre le sue carte fin dal titolo del capitolo dedicato al genovese ovvero "Giuseppe Mazzini e il suo credo antimassonico". Definire un'ideologia rivoluzionaria e repubblicana come
il mazzinianesimo, completamente allineata ai "dogmi" massonici di Liberta', Fratellanza e Uguaglianza (le tre parole chiave della Massoneria, poste da Mazzini sulla bandiera della Giovine Italia), estranea alle logge
solo perche' il grande cospiratore indulge anche su un versante di mistica nazionalista (Dio e Popolo), e' abbastanza singolare. La lotta mazziniana contro il Papato e' tra le piu' decise, in perfetta aderenza con la principale
finalita' liberal-massonica del movimento rivoluzionario ottocentesco ovvero quella di abbattere il potere temporale della Chiesa, gli imperi centrali e quello zarista (operazione che si protrarra' per circa un secolo e potra'
dirsi compiuta solo nel 1918); Mazzini stesso, nella sua unica attivita' di governo rivoluzionario, ricopre la carica di triumviro della repubblica romana, insieme all'amico fraterno e massone Aurelio Saffi; la maggioranza
delle sue amicizie e collaborazioni si sviluppa in quell'ambito (si pensi, tra gli altri grandi nomi, a quelli di Garibaldi, di Saffi, di Depretis e di Crispi, tutti alti gradi della Massoneria); ciononostante Luzio (e molti
altri dopo di lui) pretende di dimostrare l'estraneita' di Mazzini alla Massoneria ("la leggenda del massonismo del creatore della Giovine Italia..") citando frammenti di lettere dallo sterminato epistolario del
genovese e ricordando il suo "spirito religioso-evangelico". Ma tale religiosita' e' da un lato perfettamente coerente con il deismo massonico (il riferimento al Grande Architetto Dell'Universo) caro proprio alla
Massoneria anglosassone; dall'altro essa fa parte di quell'alleanza strumentale con il protestantesimo anglosassone, finalizzata a un'ipotetica riforma religiosa in Italia in funzione anticlericale a cui si e' gia' accennato.
Un fitto reticolato di societa' bibliche, facenti capo all'Inghilterra, si estende nella penisola negli anni quaranta al fine di convincere gli italiani ad abbandonare il cattolicesimo per farsi luterani (si veda il saggio di
G. Spini, Risorgimento e protestanti, 1989). E' un'operazione fallimentare (si e' detto del possibile legame con lo Stiffelio verdiano) alla quale l'organizzazione mazziniana aderisce per un mero interesse politico, come peraltro strumentale (la necessita' di non lasciare "orfano" il diffuso sentimento religioso cattolico) appare tutta la confusa mistica del genovese volta a "divinizzare" il popolo (qualcosa di molto simile accade a partire dalla meta' degli anni sessanta del Novecento con la diffusione in Europa di una corrente di simpatia per l'induismo in varie e pittoresche forme; la musica rock e il massonico spiritualismo New Age sono in prima linea nel diffondere questa mitologia, la cui probabile finalita' politica e' la medesima che guidava l'attivita' dei rivoluzionari ottocenteschi: indebolire la fede cattolica con "prodotti" religiosi similari, piu' "aggiornati" e seducenti nella confezione).
Insomma la mancanza di documenti espliciti riguardo al ruolo di gran maestro della Massoneria del genovese non prova alcunche'; e' un fatto implicito nella filosofia del segreto che innerva l'Ordine (ad esempio, sempre
intorno all'obbligo di "riservatezza", il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani, in una circolare pubblicata sulla <Rivista massonica> del gennaio-febbraio 1920 ammonisce:
"considerino i fratelli che il Segreto e la Gerarchia sono i cardini immutabili su cui la vita dell'Ordine nostro s'impernia"), ne' si comprende la posizione di Luzio il quale si sente di escludere radicalmente tale
ipotesi senza pero' aver avuto accesso (a quanto ci consta) agli archivi della Libera Muratoria; come puo' dunque essere certo che la Giovine Italia non sia, come dice Pio IX, una sezione segretamente scismatica della
Massoneria internazionale? Luzio adduce inoltre come prova l'odio mazziniano verso importanti personaggi della Massoneria francese e italiana. Ma questa dura conflittualita' semplicemente conferma l'esistenza di un'aspra
battaglia tra Francia e mondo angloamericano per il controllo della penisola ovvero di una lotta tutta interna all'Ordine. Ne', dopo il clamoroso scandalo della P2 (1981), ci si puo' ancora stupire di queste lotte interne al
Potere. Lo scontro tra Mazzini e Buonarroti, aderente alla Massoneria francese e accusato dal genovese di lavorare per "il giogo francese", e' una delle innumerevoli riprove di una storia risorgimentale divisa tra
patrioti filofrancesi e patrioti filoanglosassoni. D'altronde e' proprio l'esercito francese che obbliga Mazzini e Garibaldi a "sloggiare" da Roma (1849), mentre a Civitavecchia, a Mazzini in fuga (luglio 1949) il
console americano offre asilo politico nel suo paese e un passaporto intestato a George Moore. Ne' va dimenticato che nelle trattative finali del 30 giugno 1849, volte a riportare la pace, i rappresentanti della repubblica
romana sono affiancati dai Consoli d'Inghilterra e di America, come racconta nel suo diario il principe Chigi (Il tempo del Papa-Re. Diario del principe Chigi 1830-55). In generale la repubblica statunitense,
largamente antimonarchica e antipapale, attiva nel Mediterraneo con una propria flotta navale (posta a difesa del suo traffico mercantile) fin dal 1815, appoggia per affinita' ideale e per interessi commerciali l'operato della
Giovine Italia (che possiede sue efficienti diramazioni oltre Atlantico quali la Young America): nei giorni successivi la caduta della repubblica romana il consolato USA da' asilo ai democratici e distribuisce passaporti
(da Garibaldi a Avezzana a Kossuth numerosi sono gli esuli europei che, dopo le rivoluzioni del 1848-9, riparano oltre oceano, dove vengono festeggiati come eroi), ponendosi in deciso conflitto con i francesi del generale
Oudinot. La "simpatia" statunitense per la causa italiana culminera' negli aiuti di ogni tipo (navi d'appoggio, armi, denaro) forniti dalla marina USA (ovvero dalla Massoneria americana) all'impresa dei Mille in
un'epoca in cui garibaldino e massone sono pressoche' sinonimi (si veda il saggio di Spini, Le relazioni politiche fra l'Italia e gli Stati Uniti durante il Risorgimento e la guerra civile, 1969). Anche su questo
argomento Luzio minimizza il contributo delle logge e addirittura afferma che sull'impresa dei Mille "l'influenza massonica e' limitatissima: anzi piu' dannosa che altro..." mentre per l'affiliazione di Garibaldi egli
racconta che "aggregandosi alla Massoneria aveva obbedito a motivi apolitici: considerandola cioe' un'associazione di pura beneficenza, specialmente utile per marinai, nei lor lunghi, perigliosi viaggi in estranee
contrade". Siamo a un passo dal ridicolo.
La storiografia laica, pur in presenza di pesanti prove indiziarie intorno alle responsabilita' dell'organizzazione mazziniana in numerosi episodi sanguinosi (l'omicidio di
Pellegrino Rossi; l'insurrezione fallita a Milano nel febbraio 1853; l'attentato di Felice Orsini a Napoleone III del 14 gennaio 1858, estremo tentativo dopo quello di Pianori, 1855 e di Tibaldi, 1857, e prima di quello di
Donati, 1858, tre altri sicari mazziniani, di far saltare l'accordo tra Francia e Piemonte per l'imminente guerra all'Austria e la nascita di un'Italia "monarchico-bonapartista"), adduce ogni argomentazione plausibile
per sganciare le responsabilita' del primo da quelle degli attentatori. In particolare Luzio scrive un'estesa biografia di Felice Orsini, rivoluzionario al servizio della Giovine Italia dai primi anni quaranta, il quale, alle
soglie della sua missione piu' importante, l'attentato a Napoleone III, litiga pubblicamente con il genovese, lo insulta in modo spettacolare e parte per Parigi. La sua impresa si inserisce in una lunga serie di tentativi
mazziniani di mettere fine alla vita dell'odiato imperatore francese; ma, grazie a quei recenti fuochi d'artificio giornalistici, l'esule viene giudicato estraneo al tragico risultato dell'agguato di Orsini davanti all'Opera.
Luzio ovviamente non ha dubbi intorno a cio': gli otto morti e gli oltre centocinquanta feriti causati dalle bombe di Orsini e dei suoi complici (che, come e' noto, falliscono nel loro primario obiettivo) sono da ascriversi
alla sola, temeraria iniziativa degli attentatori. Noi crediamo invece che la presa di distanza tra l'affiliato e il maestro del 1857 fosse solo una prudente simulazione volta appunto a salvare la popolarita' di Mazzini (l'uso
delle bombe rendeva altamente probabile una clamorosa strage), gia' gravemente compromessa dopo gli inutili spargimenti di sangue del febbraio 1853 a Milano e dopo i precedenti falliti attentati a Napoleone III (nel processo
dell'estate 1857 contro Tibaldi, cospiratore piacentino fedele all'esule, arrestato a Parigi prima che potesse agire, anche Mazzini viene condannato in contumacia; il giornale mazziniano l'<Italia del Popolo>, in evidente
imbarazzo, minimizza la compromissione del genovese). Se ne ha riprova nella testimonianza di Carlo De Rudio, uno dei quattro attentatori del gennaio 1858: cinquant'anni dopo egli afferma sul <Resto del Carlino>
(4-10-1908) che, pochi minuti prima di far esplodere le bombe, egli rimase sorpreso nel vedere Orsini colloquiare riservatamente con il fedele mazziniano Francesco Crispi, la cui presenza sul luogo dell'attentato poteva
significare una solo cosa: il segreto avallo del grande cospiratore. Come prevedibile Luzio considera tale testimonianza priva di ogni valore.
Negli anni cinquanta Mazzini conta sempre meno. Mentre anche gli anglosassoni
puntano sul Piemonte, il genovese rimane ostinatamente fedele all'ideale repubblicano, arroccandosi su posizioni intransigenti e minoritarie. Cosi' a Napoli, nel 1860, le correnti moderate e filosabaude invitano Mazzini ad
andarsene. Ancora nel 1870, dopo i controversi episodi garibaldini dell'Aspromonte (1862) e di Mentana (1867), impresa quest'ultima appoggiata dalla Massoneria americana (tra Garibaldi e le logge USA c'era ampia sintonia), la
concorrenza tra le due fazioni e' dura e Mazzini, il profeta dell'Italia unita e indipendente, viene arrestato in Italia (!!), e ad opera del Medici, un alto grado della Massoneria. Ma anche tale fatto, citato dal Luzio, non
prova l'estraneita' di Mazzini alle cose massoniche, bensi' conferma uno scontro ancora in atto, in anni in cui un simile arresto eccellente appare assurdo all'opinione pubblica piu' ingenua. Casa Savoia e Mazzini rimangono
fino alla fine nemici implacabili. Luzio sente il dovere di fugare la teoria che interpreta Mazzini come una pedina importante nel sistema massonico angloamericano, ma gli argomenti che adduce al riguardo sono poco piu' che
pettegolezzi. In fondo il genovese profetizza la repubblica italiana e, in un disegno politico di lungo periodo, questa si realizzera' effettivamente (2 giugno 1946), proprio sotto gli auspici dei vincitori americani
dell'ultimo, immane conflitto ovvero di quell'universo anglosassone che accolse, ospito' e favori' l'opera dell'esule londinese. In definitiva gli scritti su Mazzini del Luzio, autore da altri elogiato proprio per cio' che
noi gli contestiamo, ovvero per la serieta' nell'uso delle fonti d'archivio (si veda Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, 1962), sono un tentativo non convincente di "confutazione" del massonismo dei
mazziniani. Pur sotto il manto dell'autorevolezza, il testo del Luzio appare un mascheramento della cruda verita', un edulcorato "depistaggio" confinante con la propaganda politica, un tipo di propaganda
"erudita" assai poco "divertente", per dirla con Billy Wilder.
Mazzini e Verdi si incontrarono piu' volte: prima a Londra nel giugno-luglio 1847, poi a Milano nella primavera 1848; ma di un eventuale
apporto attivo (oltre che attraverso la sua benemerita attivita' musicale) di Verdi alla rivoluzione italiana, non si conosce nulla. Eppure sappiamo che in quegli anni Verdi parla di un'Italia unita e repubblicana e Casini, nel
suo Verdi (1981), ipotizza un'affiliazione massonica del bussetano avvenuta proprio sotto l'influenza di Mazzini ("Nel 1848 [Verdi] era fresco della conoscenza di Mazzini, fatta a Londra l'anno precedente, e ne
subi' l'influsso, che, sembra, lo spinse verso la Massoneria"). E si torna cosi' al problema scottante dell'epistolario verdiano che tace su questi anni tanto importanti. Alessandro Luzio dirige la redazione dei Copialettere verdiani,
editi in occasione del centenario della nascita (1913). Si tratta dell'unico epistolario disponibile ancora oggi. In quei cinque quaderni di minute, che coprono il periodo 1844-1900, appare un Verdi completamente assorbito da
questioni operistiche (contratti, elaborazione dei libretti, rapporti con la censura, scelta dei cantanti ecc.); manca completamente il Verdi uomo del suo tempo e ancor piu' manca il Verdi politico. Ne' i molti carteggi e le
numerose antologie di lettere (l'ultima del 2000, a cura di Michele Porzio) editi successivamente mutano di prospettiva, ne' tanto meno riescono a riempire le gravi lacune sopra segnalate. E' sempre e solo il Verdi artista a
parlare. Nei Copialettere troviamo appena due lettere spedite da Londra (estate 1847), nessuna delle quali parla di questioni londinesi; nel fatidico 1848 si passa da alcune missive del febbraio ad altre dell'agosto; e anche in esse non c'e' una parola sulla situazione italiana, su Milano, su Mazzini, sulla guerra. Verdi e' a Roma nei mesi rivoluzionari (dicembre e gennaio 1848-9) che sfociano nella proclamazione della repubblica romana; i copialettere riportano solo una lettera scritta dalla futura capitale d'Italia, lettera diretta all'Opera di Parigi e riguardante trattative musicali. Quasi una beffa.
Dopo aver cercato di nascondere il massonismo mazziniano, Luzio appare dunque impegnato nell'operare un analogo tentativo di occultamento intorno alla riservata biografia verdiana.
Mazzini probabilmente stabilisce
nell'estate 1847 un rapporto durevole con Verdi. Negli ultimi mesi dell'anno l'esule si trasferisce a Parigi e appare percio' altamente probabile che i due si siano nuovamente incontrati in quel periodo (Verdi, lasciata Londra,
si stabilisce nella capitale francese, dove cura l'allestimento di Jérusalem, rifacimento dell'opera patriottica I Lombardi alla prima crociata; il nuovo lavoro debutta all'Opera nel novembre 1847). La presenza di
uno stretto legame tra il potente cospiratore e il popolare musicista, quasi tra "maestro" e "affiliato", trova in seguito molteplici conferme: i nuovi incontri tra i due nella Milano liberata (aprile 1848)
nella quale entrambi si sono affrettati a trasferirsi; l'affermazione entusiastica e mazziniana del compositore intorno a un'Italia che dovra' essere "libera, una e repubblicana" e intorno a un suo possibile impegno
politico laddove scrive "non posso essere che tribuno ed un miserabile tribuno perche' sono eloquente solo a sbalzi" (da una lettera a Piave del 21 aprile 1848); la creazione del canto patriottico "Suoni la
tromba" composto su parole di Mameli, per soddisfare un preciso invito di Mazzini che spera di creare la "Marsigliese italiana" (ottobre 1848). In quei mesi decisivi, tra le speranze della primavera e le cocenti
delusioni dell'estate, Verdi ripete i concetti mazziniani in lettere scritte alla contessa Maffei: "Se noi sapremo cogliere il momento, e fare la guerra che si doveva fare, la guerra d'insurrezione, l'Italia puo' ancora
essere libera. Ma Iddio ci salvi d'aver confidenza nei nostri re e nelle nazioni straniere". Inoltre l'unica lettera (conosciuta) scritta dal compositore a Mazzini termina con la significativa frase: "Ricevete un
cordiale saluto di chi ha per voi tutta la venerazione" (18 ottobre 1848). Verdi dunque appare perfettamente d'accordo con il programma politico repubblicano, nemico radicale di ogni intervento monarchico, della Giovine
Italia. Non solo. Egli frequenta assiduamente (dal lontano 1842) il salotto della suddetta contessa Maffei nel quale si simpatizza per l'organizzazione mazziniana (solo nel 1852-3 tale ambiente prende definitivamente le
distanze dal cospiratore inglese, non collaborando al fallimentare tentativo rivoluzionario del 6 febbraio 1853 a Milano), mentre lavora per l'editore Lucca (I masnadieri londinesi, ricordiamolo, sono scritti per lui) la cui cerchia simpatizza anch'essa per gli ideali repubblicani.
Il salotto di Clara Maffei diviene uno dei principali centri mazziniani (anche li' si prepara la rivoluzione milanese del marzo 1848) soprattutto a partire dal divorzio della contessa dall'indeciso Andrea Maffei (1846): da
quel momento accanto a Clara c'e' l'amato patriota repubblicano Carlo Tenca (tra l'altro, tanto per cambiare, buona parte del carteggio tra i due amanti sara' volontariamente distrutto mentre quello edito invece verra' prima
attentamente selezionato da Tullo Massarani, esecutore testamentario di Tenca nonche' ex mazziniano il quale, dopo aver incontrato l'esule a Londra, si distingue nei primi anni cinquanta come attivo ricercatore di denari,
attraverso la vendita di cartelle di un prestito "mazziniano" finalizzato a finanziare nuove cospirazioni), oltre a molti altri rivoluzionari tra cui Agostino Bertani, Enrico Cernuschi, Giuseppe Revere, David Levi e
Luciano Manara (una sincera e documentata amicizia, nata proprio nel salotto Maffei, unisce anche Manara e Verdi; il patriota muore a Roma, nel 1849, nei giorni dell'estrema difesa della repubblica), tutti vicini alle posizioni
politiche di Mazzini. Si puo' allora ipotizzare un contributo fattivo verdiano in quel 1848: il compositore spedisce in Italia, a Milano, il fedele "aiutante di campo" Emanuele Muzio nell'agosto 1847 mentre egli
continua a ritardare il suo rientro nella penisola, rientro continuamente annunciato e rimandato (atteggiamento contradditorio e inspiegabile, sul quale gli storici si sono sbizzarriti). Si puo' allora pensare che egli fungesse
da tramite tra Mazzini e il salotto Maffei: lettere provenienti da Londra avrebbero destato l'interesse della censura, mentre la tranquilla corrispondenza tra Verdi e Clara Maffei passava probabilmente inosservata. Cio'
spiegherebbe i continui rinvii del proprio rientro, essendo quest'ultimo connesso con l'evolvere della situazione politica. D'altronde, quando gli avvenimenti lombardi volgono al peggio nell'agosto 1848, Clara Maffei, Carlo
Tenca (uno dei tredici firmatari del Programma dell' "Italia del popolo", pubblicato da Mazzini a Milano il 13 maggio 1848 sul suo nuovo giornale di cui Tenca diviene, fin dall'inizio, uno dei redattori; tra le altre firme spicca quella di Giuseppe Revere, un altro frequentatore del salotto Maffei) e, si badi bene, Emanuele Muzio, sono costretti all'esilio in Svizzera, esilio che si protrae fino al febbraio 1849 per Muzio e fino al maggio 1849 per la contessa Maffei (durante l'esilio i due amanti incontrano piu' volte Mazzini, anch'egli rifugiatosi in Svizzera). Anche sui motivi della fuga dell'assistente di Verdi c'e' imbarazzo o supercialita' nelle biografie verdiane; raccontando tale episodio Abbiati, ad esempio, se la cava con poche parole generiche e insufficienti, affermando che il giovane deve fuggire perche' e' "la sua parte politicamente compromesso" (solo una riga dunque all'interno della sua monumentale biografia verdiana in quattro volumi pubblicata nel 1959). Qualche notizia in piu' compare nella vecchia biografia di Adolfo Belforti (Emanuele Muzio, l'unico scolaro di Verdi,
1895), in cui si accenna ad una partecipazione del giovane alle barricate e ai combattimenti durante le cinque giornate milanesi, partecipazione che lo obbliga alla fuga da Milano nell'agosto 1848 in quanto ormai noto alla
polizia austriaca. Ancora una volta quindi siamo costretti a congetturare poiche' i documenti mancano. Il lungo, dettagliato carteggio tra Emanuele Muzio ed Antonio Barezzi (l'ex suocero di Verdi), edito da Luigi Agostino
Garibaldi nel 1931, riproduce molte decine di lettere tra l'aprile 1844 e l'ottobre 1847; della corrispondenza dei successivi due anni rivoluzionari si e' ritenuto di pubblicare invece solo tre lettere (rispettivamente del
febbraio 1848, del febbraio e del novembre 1849), rafforzando cosi' il sospetto di un fattivo contributo del giovane (e del suo maestro) all'attivita' cospiratoria milanese, probabilmente connessa con il salotto Maffei dove
Muzio era stato introdotto da Verdi, contributo che per motivi tuttora ignoti (facilmente collegabili con l'etica del segreto massonico) si e' preferito non divulgare.
La stessa presenza verdiana nella Roma
rivoluzionaria, controllata da prevalenti forze repubblicane, cosi' come il suo importante contributo musicale allo spirito combattivo della citta' (come provano le accoglienze deliranti ottenute da una partitura peraltro
modesta quale La battaglia di Legnano), rafforzano l'idea di un agire del compositore-patriota in perfetta sintonia con il capo della Giovine Italia. Rientrato a Parigi, Verdi segue con ansia le vicende italiane e, in
una lettera a Piave (1 febbraio 1849) ribadisce il proprio punto di vista mazziniano: "Sono contento di Roma e della Romagna, la Toscana pure non va del tutto male, abbiamo motivo di grandi speranze....Dalla Francia non
avvi nulla da sperare ed adesso meno che mai!". E subito dopo la caduta di Roma grazie all'intervento francese scrive: "Non parliamo di Roma!!! A che gioverebbe! La forza regge ancora il mondo! La giustizia? A che
serve contro le baionette! Noi non possiamo che piangere le nostre disgrazie, e maledire gli autori di tante sventure" (lettera del 14 luglio 1849 a Luccardi). Un Verdi ferocemente antifrancese dunque. Nel decennio
successivo invece, come numerosi altri patrioti, Verdi abbandona Mazzini e la strategia "inglese" e aderisce al partito dei Savoia, alleati di Napoleone III. Nei decenni successivi il compositore diverra' addirittura
un fervente amico dei cugini latini. Decisamente significativo e' infine il biglietto di cordoglio inviato alla famiglia Verdi nei giorni successivi la morte del maestro dal gran maestro della Massoneria Ernesto Nathan:
"A Giuseppe Verdi, al Precursore colla "Giovine Italia", al patriota sempre, all'astro fulgidissimo nel firmamento dell'arte universale, la Massoneria italiana, dinanzi all'austera semplicita' della vita,
dinanzi alla fredda salma, invia il suo tributo riverente del suo dolore, del pensiero incancellabile che fra le genti ne immortalera' la gloriosa figura". Lo riporta proprio il Luzio (Carteggi verdiani, vol. 2, 1935, capitolo Verdi e Mazzini)
il quale, in evidente imbarazzo, ribadisce anche in questa occasione che Mazzini non fu massone, che la Giovine Italia era estranea all'Ordine e che le voci dell'affiliazione massonica di Verdi sono false. Al contrario
invece esiste un indizio piuttosto interessante, comprovante la familiarita' di Verdi con l'organizzazione cospiratoria della Giovine Italia; si trova in poche righe di una lettera del luglio 1847 sfuggita ai biografi verdiani.
Lamberti, segretario della Congrega Centrale di Francia (la sezione parigina della Giovine Italia), il 15 luglio scrive: "A Pippo [Mazzini]-Unisco lettera Gen[ova]. Dia la sua al Verdi. -Misi nota a quella del
Bix[io]....". Si tratta di una corrispondenza laconica e di servizio nella quale si dice che e' arrivata alla congrega parigina una lettera per Verdi e quindi la si fa proseguire per Londra dove risiede attualmente il
compositore. Chi scrive a Verdi e' il mazziniano Gerolamo Ramorino (il segretario parigino sbaglia e scrive Remorino) da Genova. Sempre Lamberti infatti avvisa quest'ultimo, con lettera del medesimo 15 luglio: "A Gerolamo
Remorino (Gen[ova]). - Mi furon gratissime le affettuose sue espressioni; accetto l'amicizia e la fratellanza.-Si fece qui il dover nostro per giovar alla patria e non aspiriam ad aver premio e lode.- E' consolazione trovar
compagni com'essi alla santa opera.-Durin costanti e speriamo assieme.- Inviai a Pippo lettera pel Verdi, ma sentii questi fosse partito di la'.- Non era cosa certa" (Protocollo della Giovine Italia, vol 5). In
questo episodio il fatto decisamente rilevante consiste nella prova definitiva che Verdi riceve corrispondenza (ovviamente non si conosce il contenuto di tale lettera, ma e' presumibile fosse di carattere strettamente politico)
attraverso i canali segreti dell'organizzazione mazziniana e dunque si puo' ragionevolmente dedurre che egli e' concretamene impegnato nei disegni rivoluzionari della Giovine Italia. In definitiva la "congettura"
e' quella di un Verdi che, affiliatosi alla Massoneria nei primi anni quaranta, contribuisce nel 1842-9 con il suo teatro e nel 1847-9 anche con fatti concreti tuttora ignoti, probabilmente inerenti al suo vagabondare tra
Londra, Parigi, Milano e Roma, al progetto di una rivoluzione repubblicana in Italia in sintonia con una rete politica solidale che passa per il salotto Maffei, i patrioti Tenca e Manara, il librettista Piave, l'aiutante Muzio,
all'interno della vasta organizzazione massonica mazziniana, generosamente finanziata da gruppi di potere anglosassoni. Niente sembra attualmente "confutare" questa tesi.
Bibliografia
Giuseppe Verdi
A. Belforti, Emanuele Muzio, l'unico scolaro di Giuseppe Verdi, Stab. Tip. Gentile, Fabriano, 1895
G. Cesari-A. Luzio, I copialettere di Giuseppe Verdi, Milano, 1913 (rist. anast.
Bologna 1968)
G. Monaldi, Il Maestro della Rivoluzione Italiana, Societa' Editoriale Italiana, Milano, 1913
A. Luzio, Garibaldi, Cavour, Verdi, Bocca, Torino, 1924
Giuseppe Verdi nelle lettere di Emanuele Muzio ad Antonio Barezzi,
(a cura di L. A. Garibaldi), Treves, Milano, 1931
Carteggi verdiani (a cura di A. Luzio), 4 voll, Reale Accademia d'Italia e poi Accademia dei Lincei, Roma 1935-47
F. Abbiati, Giuseppe Verdi, 4 voll., Ricordi, Milano, 1959
F. Walker, The Man Verdi, New York 1962; trad. it. L'uomo Verdi, Mursia, Milano, 1964
M. Mila, La giovinezza di Verdi, Eri, Torino, 1974
M. Conati, Saggio di critiche e cronache
verdiane dalla <Allgemeine musikalische Zeitung> di Lipsia (1840-48), in Il melodramma italiano dell'Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, Einaudi, Torino, 1977
M. Mila, L'arte di Verdi, Einaudi, Torino, 1980
AAVV (a cura di M. Conati), Interviste e incontri con Verdi, Formichiere, Milano, 1980
C. Casini, Verdi, Rusconi, Milano, 1981
M. Conati, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, Saggiatore, Milano 1983
M. Y. Phillips-Matz, Verdi: a Biography, Oxford University Press, New York 1993
G. Verdi, Lettere 1835-1900 (a cura di M. Porzio), Mondadori, Milano, 2000
G. Rausa, Introduzione a Verdi, Bruno Mondadori, Milano, 2001
Alessandro Luzio, Giuseppe Mazzini, Risorgimento e Massoneria
A. Banti, La nazione del Risorgimento, Einaudi, Torino, 2000
R. Barbiera, Il salotto di Clara Maffei e la societa' milanese (1834-86),
Treves, Milano, 1896
J. H. Billington, Fire in the Minds of Men. Origin of the Revolutionary Faith, Basic Books, New York, 1980; trad. it. Con il fuoco nella mente. Le origini della fede rivoluzionaria, Mulino, Bologna, 1986
A. Bresciani, L'ebreo di Verona, Societa' tipografica, Fossombrone, 1852
L. Bulferetti, Socialismo risorgimentale, Einaudi, Torino, 1949
A. Chigi, Il tempo del Papa-Re. Il diario del principe Chigi 1830-55,
Borghese, Milano, 1966
A. Gramsci, Quaderni del carcere, 4 vol., Einaudi, Torino, 1975
H. Gruber, Giuseppe Mazzini. Massoneria e Rivoluzione, Roma, 1908 (rist anast. Forni, Bologna 1980)
S. Hutin, Les Francs-maçons, 1961; trad. it. La Massoneria, Mondadori, Milano, 1961
A. Luzio, Felice Orsini, Cogliati, Milano, 1914
A. Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, Zanichelli, Bologna, 1925
D. Mack-Smith, Mazzini, Rizzoli, Milano, 1993
G. Manzini, Avventure e morte di Felice Orsini, Camunia, Milano, 1991
W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Einaudi, Torino, 1962
G. Mazzini, Scritti politici, 3 voll. (a cura di F. Della Peruta), Einaudi Torino, 1976; gia' in La Letteratura Italiana. Storia e testi, vol 69, tomo I, Ricciardi, Milano-Napoli, 1969
G. Mazzini, Note autobiografiche, Le Monnier, Firenze, 1944
G. Mazzini, Lettere politiche, Garzanti, Milano, 1946
Protocollo della Giovine Italia, vol 3, 5, 6. Imola, 1918-1922
A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni,
Bompiani, Milano, 1992
A. Pellicciari, Risorgimento da riscrivere, Ares, Milano, 1998
A. Pellicciari, L'altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme, Casale Monferrato, 2000
D. Pizzagalli, L'amica. Clara Maffei e il suo salotto nel Risorgimento italiano, Mondadori, Milano, 1997
L. Rodelli, La repubblica romana del 1849, Domus mazziniana, Pisa, 1955
R. Romeo, Cavour e il suo tempo, 3 voll., Laterza, Bari, 1969, 1977, 1984
G. Salvemini, I partiti politici milanesi nel secolo XIX, Biblioteca dell' "Educazione Politica", Milano, 1899; ora in Scritti sul Risorgimento, (a cura di P.Pieri e C. Pischedda), Feltrinelli,
Milano, 1961
G. Salvemini, Mazzini, La Voce, Firenze, 1925 (4º ed.); ora in Scritti sul Risorgimento, (a cura di P.Pieri e C. Pischedda), Feltrinelli, Milano, 1961
G. Salvemini, Giuseppe Mazzini dall'aprile 1846 all'aprile 1848, Successori Fusi tip., Pavia, 1907; ora in Scritti sul Risorgimento,
(a cura di P.Pieri e C. Pischedda), Feltrinelli, Milano, 1961
R. Sarti, Mazzini. A Life for the Religion of Politics, Praeger Publishers, USA, 1997; trad. it. Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Laterza, Bari, 2000
G. Spini, Le relazioni politiche fra l'Italia e gli Stati Uniti durante il Risorgimento e la guerra civile, Nuova Italia, Firenze, 1969; ora in Incontri europei e americani col Risorgimento, Vallecchi, Firenze, 1988
G. Spini, Risorgimento e protestanti, Saggiatore, Milano, 1989
G. Vannoni, Le societa' segrete, Sansoni, Firenze,1985
Altri testi citati
La libera muratoria. Massoneria per problemi (a cura di C. Castellacci), Sugarco, Milano, 1978
Primo centenario della R. L. M. "Sabazia" all'Or. di Savona, (a cura della Massoneria del Grande Oriente d'Italia), 1969
W. Ashbrook, Donizetti and his Operas, Cambridge University Press, 1982; trad. it. Donzetti. La vita, EDT, Torino 1986 e Donizetti. Le opere, EDT, Torino 1987
B. Fay, La Franc-maçonnerie et la Révolution intellectuelle du XVIII siecle, éditions de Cluny, Parigi, 1935; trad. it. La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del secolo XVIII, Einaudi,
Torino, 1939
H. Karasek, Billy Wilder, Hoffmann und Campe Verlag, Amburgo, 1992; trad. it. Billy Wilder. Un viennese a Hollywood, Mondadori, Milano, 1993
K. Popper, Conjectures and Refutations,
Routledge and Kegan Paul, Londra, 1969; trad. it.
Congetture e confutazioni, Mulino, Bologna, 1972
G. Vannoni, Massoneria, Fascismo e Chiesa cattolica, Laterza, Bari, 1980
|
|